Una domanda ai militanti del PC
Quando in agosto emerse il governo Conte due, con il coinvolgimento di Sinistra Italiana e la posizione anfibia del PRC, il PCL lanciò la proposta di un coordinamento dell'unità d'azione tra tutte le sinistre di opposizione, per definire insieme campagne comuni dal versante di un'opposizione di classe, nel rispetto dell'autonomia di ogni soggetto.
I successivi sviluppi in direzione dell'assemblea nazionale del 7 dicembre, e poi la nascita del coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione, hanno rappresentato lo sbocco di questa iniziativa, che ha registrato un successo superiore alle attese, in termini di partecipazione e di interesse.
La nostra proposta si indirizzò allora a tutte le sinistre di opposizione, indipendentemente dalle diversità politiche e programmatiche. Perché non si trattava di costruire un partito comune o un blocco elettorale, ma di realizzare una unità d'azione su obiettivi comuni tra soggetti diversi.
Per questo ci rivolgemmo, tra gli altri, anche al PC, con una lettera pubblica e contatti diretti tra dirigenti. Con la consapevolezza della profonda distanza di posizioni, ma anche della presenza reale di quel partito in ambienti giovanili dell'avanguardia.
La risposta di Marco Rizzo fu glaciale. Contrappose alla proposta di unità d'azione una propria manifestazione di partito (quella del 5 ottobre) nel segno di una indisponibilità pregiudiziale ad ogni reale convergenza unitaria.
Ma perché mai una legittima manifestazione di partito doveva contrapporsi all'unità d'azione? Peraltro la preclusione è rimasta immutata anche dopo il 5 ottobre, e nei mesi successivi.
C'è in questa posizione un risvolto autocentrato e settario che vuole presentarsi come tratto radicale, ma che esprime in realtà una pulsione opposta: la volontà di conservazione di un proprio spazio separato con finalità prevalentemente elettorali e di immagine. Come se il partito, invece che strumento rivoluzionario, diventasse il fine di se stesso a beneficio di qualche attenzione mediatica. È una concezione e cultura legittima, ma non ha nulla a che vedere col leninismo.
Per Lenin il partito svolge un ruolo fondamentale e insostituibile, ma in funzione dell'egemonia nel movimento reale, non come corpo separato rispetto ad esso. Una politica di fronte unico, di unità d'azione tra sinistre diverse su obiettivi e campagne comuni, mira ad ampliare l'azione dell'avanguardia della classe e dei movimenti, in funzione di una prospettiva di massa.
Un partito rivoluzionario non ha nulla da perdere dall'avanzamento dell'unità d'azione: semmai allarga in esso il proprio campo di relazioni, di costruzione, di possibile egemonia. Invece contrapporre il partito all'unità d'azione significa rivelare la propria indifferenza all'avanzamento della classe e della sua avanguardia, al di là di ciò che si scrive e si dice. In ultima analisi una indifferenza alla rivoluzione, al di là degli omaggi retorici e rituali che le vengono tributati. Come, del resto, in tanta parte della tradizione dello stalinismo.
Siccome siamo abituati al fatto che se si polemizza con Marco Rizzo scatta la difesa d'ufficio dei suoi fan piuttosto che una replica di merito con argomenti, poniamo pubblicamente una domanda molto semplice: perché il PC ha scelto di star fuori da ogni percorso di unità d'azione?
La risposta per cui il PC è talmente forte da potersi disinteressare dell'unità d'azione con altre sinistre classiste si incontra frequentemente sui social. Ma questa risposta conferma e peggiora il nostro giudizio. Sia perché la politica leninista del fronte unico ha interessato nella storia partiti rivoluzionari mille volte più grandi e rappresentativi del PC. Sia perché oggi la crisi profonda del movimento operaio italiano e la frammentazione delle sue stesse organizzazioni, politiche e sindacali, dovrebbe porre il tema dell'unità d'azione come esigenza elementare, tanto più a fronte della deriva reazionaria in corso. Del resto, se la domanda dell'unità è oggi così presente e diffusa tra militanti comunisti e avanguardie combattive è proprio perché riflette una esigenza obiettiva.
Certo, si può dare a questa domanda unitaria risposte diverse. Le si può dare una risposta frontista (l'alleanza col PD, nell'eterna riproposizione del centrosinistra); le si può dare una risposta elettoralista (facciamo un pateracchio elettorale a sinistra del PD, mischiando progetti diversi e inventandoci un nome). Sono risposte o subalterne o devianti, che non sviluppano la coscienza politica dell'avanguardia ma aggiungono confusione a confusione. E in ogni caso contraddicono l'autonomia del partito comunista.
Ma a quella domanda di unità si può invece dare una risposta corretta: quella dell'unità d'azione nella lotta di classe, nel rispetto dell'autonomia del partito e di ogni soggetto coinvolto. È quella che come PCL abbiamo dato attraverso il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione.
La cosa che invece non si può fare è ignorare quella domanda, oppure disprezzarla celebrando il rito dell'autosufficienza. Era la politica settaria che Lenin criticava quando a praticarla era Amadeo Bordiga alla testa di un PCd'I di quarantamila iscritti. Cosa mai avrebbe detto se a praticarla fosse stato, con tutto il rispetto, un Marco Rizzo?
I successivi sviluppi in direzione dell'assemblea nazionale del 7 dicembre, e poi la nascita del coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione, hanno rappresentato lo sbocco di questa iniziativa, che ha registrato un successo superiore alle attese, in termini di partecipazione e di interesse.
La nostra proposta si indirizzò allora a tutte le sinistre di opposizione, indipendentemente dalle diversità politiche e programmatiche. Perché non si trattava di costruire un partito comune o un blocco elettorale, ma di realizzare una unità d'azione su obiettivi comuni tra soggetti diversi.
Per questo ci rivolgemmo, tra gli altri, anche al PC, con una lettera pubblica e contatti diretti tra dirigenti. Con la consapevolezza della profonda distanza di posizioni, ma anche della presenza reale di quel partito in ambienti giovanili dell'avanguardia.
La risposta di Marco Rizzo fu glaciale. Contrappose alla proposta di unità d'azione una propria manifestazione di partito (quella del 5 ottobre) nel segno di una indisponibilità pregiudiziale ad ogni reale convergenza unitaria.
Ma perché mai una legittima manifestazione di partito doveva contrapporsi all'unità d'azione? Peraltro la preclusione è rimasta immutata anche dopo il 5 ottobre, e nei mesi successivi.
C'è in questa posizione un risvolto autocentrato e settario che vuole presentarsi come tratto radicale, ma che esprime in realtà una pulsione opposta: la volontà di conservazione di un proprio spazio separato con finalità prevalentemente elettorali e di immagine. Come se il partito, invece che strumento rivoluzionario, diventasse il fine di se stesso a beneficio di qualche attenzione mediatica. È una concezione e cultura legittima, ma non ha nulla a che vedere col leninismo.
Per Lenin il partito svolge un ruolo fondamentale e insostituibile, ma in funzione dell'egemonia nel movimento reale, non come corpo separato rispetto ad esso. Una politica di fronte unico, di unità d'azione tra sinistre diverse su obiettivi e campagne comuni, mira ad ampliare l'azione dell'avanguardia della classe e dei movimenti, in funzione di una prospettiva di massa.
Un partito rivoluzionario non ha nulla da perdere dall'avanzamento dell'unità d'azione: semmai allarga in esso il proprio campo di relazioni, di costruzione, di possibile egemonia. Invece contrapporre il partito all'unità d'azione significa rivelare la propria indifferenza all'avanzamento della classe e della sua avanguardia, al di là di ciò che si scrive e si dice. In ultima analisi una indifferenza alla rivoluzione, al di là degli omaggi retorici e rituali che le vengono tributati. Come, del resto, in tanta parte della tradizione dello stalinismo.
Siccome siamo abituati al fatto che se si polemizza con Marco Rizzo scatta la difesa d'ufficio dei suoi fan piuttosto che una replica di merito con argomenti, poniamo pubblicamente una domanda molto semplice: perché il PC ha scelto di star fuori da ogni percorso di unità d'azione?
La risposta per cui il PC è talmente forte da potersi disinteressare dell'unità d'azione con altre sinistre classiste si incontra frequentemente sui social. Ma questa risposta conferma e peggiora il nostro giudizio. Sia perché la politica leninista del fronte unico ha interessato nella storia partiti rivoluzionari mille volte più grandi e rappresentativi del PC. Sia perché oggi la crisi profonda del movimento operaio italiano e la frammentazione delle sue stesse organizzazioni, politiche e sindacali, dovrebbe porre il tema dell'unità d'azione come esigenza elementare, tanto più a fronte della deriva reazionaria in corso. Del resto, se la domanda dell'unità è oggi così presente e diffusa tra militanti comunisti e avanguardie combattive è proprio perché riflette una esigenza obiettiva.
Certo, si può dare a questa domanda unitaria risposte diverse. Le si può dare una risposta frontista (l'alleanza col PD, nell'eterna riproposizione del centrosinistra); le si può dare una risposta elettoralista (facciamo un pateracchio elettorale a sinistra del PD, mischiando progetti diversi e inventandoci un nome). Sono risposte o subalterne o devianti, che non sviluppano la coscienza politica dell'avanguardia ma aggiungono confusione a confusione. E in ogni caso contraddicono l'autonomia del partito comunista.
Ma a quella domanda di unità si può invece dare una risposta corretta: quella dell'unità d'azione nella lotta di classe, nel rispetto dell'autonomia del partito e di ogni soggetto coinvolto. È quella che come PCL abbiamo dato attraverso il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione.
La cosa che invece non si può fare è ignorare quella domanda, oppure disprezzarla celebrando il rito dell'autosufficienza. Era la politica settaria che Lenin criticava quando a praticarla era Amadeo Bordiga alla testa di un PCd'I di quarantamila iscritti. Cosa mai avrebbe detto se a praticarla fosse stato, con tutto il rispetto, un Marco Rizzo?