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La legge finanziaria del governo Meloni

 


La legge di stabilità del governo Meloni è la prima legge finanziaria dopo il varo del nuovo Patto di stabilità europeo, sottoscritto da tutti i governi capitalisti dell'Unione Europea e dall'insieme della vecchia e nuova maggioranza che sorregge la Commissione Europea (per intenderci, dal PD a Giorgia Meloni, sul versante italiano).


L'obiettivo della manovra economica è dichiarato: ottenere il placet di Bruxelles, dopo la procedura d'infrazione subita in estate, e un giudizio positivo del capitale finanziario e delle relative agenzie di rating, quelle che debbono certificare il grado di solvibilità di un paese sul proprio debito pubblico.
Su entrambi i lati, il governo ha ottenuto ciò che cercava. Ursula Von Der Leyen ha tutto l'interesse a incassare il sostegno di Giorgia Meloni e di buona parte del blocco del Partito dei Conservatori Europei, guadagnando uno spazio di azione più ampio. Meloni a sua volta ha interesse a proseguire sulla linea del proprio accreditamento politico e personale presso le cancellerie del continente, valorizzando la stabilità del proprio governo, a fronte della crisi politica di Francia e Germania, e quindi attestandosi quale diretta interlocutrice della nuova amministrazione americana. La nomina di Fitto tra i vicepresidenti della Commissione UE è un obiettivo successo di questa politica di scambio.

In tale cornice si colloca la manovra Meloni-Giorgetti, che la stessa stampa borghese saluta, con linguaggio improprio ma significativo, come “ritorno dell'austerità”.
7,7 miliardi di tagli ai ministeri, con conseguenze multiple, tra cui 702 milioni di tagli all'università e alla ricerca, e il blocco del turnover al 75% in una pubblica amministrazione già disossata; 5,6 miliardi di tagli agli enti locali, che significano riduzione della spesa sociale, ulteriore ridimensionamento dei servizi essenziali (asili, trasporto locale, welfare) e spinta a un nuovo aumento della tassazione comunale e regionale (IRPEF); continuità dei tagli al disastrato sistema sanitario, ormai ridotto al 6,2% del PIL; ulteriore peggioramento del sistema pensionistico, con l'innalzamento prima a 25 e poi a 30 anni degli anni di contributi necessari (per chi è in regime solo contributivo) al fine di poter accedere alla pensione anticipata a 64 anni, con parallelo rafforzamento della previdenza privata. L'unica spesa pubblica che sale è quella militare, ed in particolare in armamenti, in sintonia con lo scenario mondiale e l'indirizzo UE.

Parallelamente il governo offre un concordato fiscale biennale alle partite IVA (tassazione preventivamente concordata indipendentemente dalla crescita dei profitti, quindi detassazione preventiva degli stessi), combinata con la diretta riduzione dell'IRES sugli utili aziendali (dal 24% al 20%): la cosiddetta “IRES premiale” chiesta a gran voce da Confindustria. Un ulteriore abbassamento, seppur condizionato, della tassa piatta sui profitti, in sé scandalosa. Una tassa peraltro già ridotta verticalmente negli ultimi vent'anni: prima dal secondo governo di Romano Prodi che nel 2007 la portò addirittura dal 34% al 27% (col sostegno di Rifondazione); poi da tutti i governi successivi, in particolare dal governo Renzi.
È la risultante della concorrenza fiscale tra gli stati capitalisti della stessa UE nell'offrire condizioni di favore al capitale. La manovra Meloni è solo l'ennesimo passaggio di questa partita infinita. Le banche italiane sono chiamate a favorire l'operazione con un semplice anticipo, senza pagare un euro in più sui propri utili.

La grancassa propagandistica del governo (“abbiamo aumentato i salari”) ruota attorno al famoso taglio del cuneo fiscale, ora reso “strutturale”, attraverso una combinazione di taglio contributivo e detrazioni fiscali. Si tratta in realtà di una truffa, perchè finge di aumentare i salari quando in realtà mette a loro carico l'operazione attraverso il fisco: in altri termini, una fiscalizzazione della vecchia decontribuzione varata da Draghi, una grande partita di giro a saldo zero. E per di più, nell'ultima versione, persino peggiorativa: perché agendo attraverso il gioco delle detrazioni finisce per ridurre i salari di un'ampia fascia di salariati.
Il vero fine del taglio del cuneo fiscale era ed è quello di proteggere i profitti d'impresa dal rischio di forti rivendicazioni salariali. È un caso che Confindustria sia la più convinta sostenitrice del taglio del cuneo, che infatti vorrebbe ancor più consistente?

Tutto ciò acquista il suo pieno significato nel quadro più generale della cosiddetta dinamica dei redditi. Lo studio condotto al riguardo da un gruppo di ricerca della Facoltà di Ingegneria dell'Università La Sapienza in ottobre, e presentato con disinvoltura dal quotidiano di Confindustria, è eloquente: «Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l'80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti... Oltretutto i rari investimenti delle imprese sono stati per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni» (Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2024). Lo scrivono i padroni. È la confessione testuale del parassitismo della borghesia.

A ciò si aggiunge una altrettanto eloquente informativa dell'Istat (29 ottobre): «I 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti... i contratti che a fine settembre 2024 sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono il 52,5% del totale dei dipendenti». Significa che la maggioranza dei salariati lavora con contratti scaduti. Con una ennesima diminuzione dei salari.
L'attuale aggravamento della crisi recessiva in Germania, a partire dall'industria automobilistica, viene usata dal padronato come ulteriore leva di chiusura verso le richieste contrattuali, come mostra lo stallo del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici.

La richiesta di un forte aumento salariale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, di almeno 400 euro netti, si impone sempre più come esigenza generale della classe lavoratrice, al di là dei confini di categoria, assieme alla rivendicazione di una tassa patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco. Paghi chi non ha mai pagato. Paghino i profitti di banche e imprese. È la voce necessaria di una piattaforma unificante per la vertenza generale dell'intero lavoro salariato, pubblico e privato. L'unica via per prendere sul serio l'evocazione della “rivolta sociale”. Evitando di ridurla a recita ipocrita da talk show, o a comizio di piazza una tantum.

Partito Comunista dei Lavoratori