11 Marzo 2025
Due grandi potenze imperialiste, USA e Russia, hanno aperto un negoziato per la spartizione dell'Ucraina. Gli imperialismi europei, scaricati da Trump e ignorati da Putin, cercano la via per ritornare in scena e partecipare al banchetto, ma subiscono una pesante marginalizzazione di ruolo. Zelensky è disposto a donare agli USA le risorse minerarie del proprio paese in cambio di protezione militare, salvo venir umiliato in mondovisione da quell'imperialismo americano che ha sempre presentato al popolo ucraino come “amico”. Putin, dal canto suo, plaude entusiasta alla svolta di Trump nel mentre prosegue il bombardamento quotidiano dell'Ucraina e l'annessione delle regioni conquistate con l'invasione.
Questi fatti di assoluta evidenza agli occhi del mondo – e su cui torneremo nei prossimi giorni – sono solo la punta emergente di un profondo sommovimento delle relazioni mondiali. Un processo in pieno svolgimento, con passo accelerato. Un processo che va analizzato, con metodo marxista, per approssimazioni successive.
LA SVOLTA DEL SECONDO TRUMP
La seconda amministrazione Trump non è la continuità della prima (2016-2020). Il Trump che entrò nel 2016 alla Casa Bianca – quale outsider sorpreso dal suo stesso successo – si trovò a contrastare la resistenza di un Partito Repubblicano non ancora espugnato, l'ostilità della grande borghesia di Wall Street e della Silicon Valley, e la grande mobilitazione di massa di Black Lives Matter e delle donne. La drammatica esperienza Covid e la grande recessione capitalistica che l'accompagnò diedero il colpo di grazia al primo governo Trump, immortalato dal celebre assalto finale al Campidoglio e dai successivi trascinamenti giudiziari.
Oggi tutto è diverso. Donald Trump è ritornato a Washington da vincitore. Dispone di un consenso elettorale consolidato. Di un Partito Repubblicano ormai plasmato a propria immagine e somiglianza. Di una maggioranza, seppur risicata, in entrambe le camere del Congresso. Ma soprattutto del sostegno del grande capitale americano, a partire dai giganteschi monopoli tecnologici: monopoli direttamente coinvolti, nel caso di Musk, all'interno del governo federale, con poteri straordinari di intervento, privi di base legale, sull'intero corpo della pubblica amministrazione.
Trump sta di fatto costruendo attorno a sé un proprio sistema di potere, al tempo stesso interno e parallelo alle istituzioni tradizionali dello stato borghese americano. È il potenziale di un cambio di regime, non solo di governo. Un cambio che alza da subito il livello di attacco ai diritti dei lavoratori, delle donne, dei migranti latino-americani, di tutti i settori oppressi della società. L'avanzata reazionaria internazionale, anche in Europa, offre a Trump un vento più favorevole, mentre a sua volta riceve dal trumpismo nuovo impulso. Intanto l'opposizione sociale e democratica negli USA fatica a riprendersi dall'enorme delusione dell'esperienza Biden, ed è ancora molto lontana, al momento, dai livelli di mobilitazione del 2016-2018.
LA GRANDE SVOLTA DELLA POLITICA ESTERA USA
La discontinuità del secondo Trump si manifesta anche e soprattutto nella politica estera. Sfrondata da elementi pragmatici, buffoneschi o di pura improvvisazione, sicuramente presenti nel personaggio Trump, la linea internazionale del presidente USA segue una nuova bussola strategica. Una risposta nuova alla crisi profonda dell'imperialismo USA nel mondo. Non una risposta isolazionista (obiettivamente impraticabile per una potenza planetaria come gli USA), ma una diversa razionalizzazione del proprio indirizzo globale.
In primo luogo, l'amministrazione Trump punta a ridurre drasticamente il volume di spesa della politica estera USA, a fronte dell'arretramento del peso specifico dell'economia americana nel mondo. L'imperialismo USA vive da molto tempo al di sopra delle proprie possibilità materiali. La quota USA del capitale manifatturiero mondiale è passato nell'ultimo mezzo secolo dal 50% del secondo dopoguerra al 15% attuale. Il debito pubblico USA è raddoppiato nell'ultimo decennio, e il solo pagamento degli interessi sul debito vale ormai il 16% della spesa federale americana. Pertanto il nuovo imperativo della politica trumpiana è tagliare i costi di finanziamento di attività e funzioni giudicate superflue.
Sul piano interno, un colpo di scure alla spesa sociale, in funzione dell'ulteriore riduzione delle tasse sui profitti aziendali (dal 23% al 15%). Sul piano della politica estera, uno sfoltimento drastico dei costi di mantenimento dell'area di influenza americana su scala globale. La rottura con la OMS, l'uscita da decine di strutture multilaterali diplomatiche o assistenziali, il progetto di legge repubblicano di recesso USA dall'ONU, il taglio annunciato del contributo USA alle spese NATO a carico degli imperialismi europei, persino il progettato taglio di una parte delle basi militari USA (sono quasi 800 su scala planetaria) sono parte di questo nuovo indirizzo. Lo stesso vale per l'uscita da teatri di guerra considerati non strategici, o non più tali. Fu il primo Trump a programmare il ritiro dall'Afghanistan, poi realizzato da Biden. È Trump che oggi vuole la fine del sostegno all'Ucraina, denunciando i precedenti aiuti.
In secondo luogo, e parallelamente, Trump sceglie di concentrare il grosso delle risorse disponibili sul versante del contrasto dell'imperialismo cinese, il vero concorrente strategico dell'imperialismo USA su scala internazionale. È questo il criterio ispiratore della nuova politica estera USA. Naturalmente la centralità strategica del confronto con la Cina non è un'improvvisazione di Trump. La inaugurò Obama nel 2008 (il “pivot to Asia”), a fronte della grande crisi capitalistica mondiale e della potente ascesa dell'imperialismo cinese. Ma è nuova la modalità di perseguimento di questa rotta.
Non più la linea tradizionale di egemonia americana sul campo largo degli imperialismi alleati, a partire dagli imperialismi europei (linea rivelatasi fallimentare proprio nel contrasto dell'imperialismo cinese, come mostra il consolidamento del blocco tra Mosca e Pechino, e il progressivo allargamento dei BRICS). Ma una politica di potenza autocentrata dettata dall'interesse indipendente dell'imperialismo USA, anche a scapito degli alleati e persino in rottura con vecchi alleati. Il clamoroso avvio da parte di Trump di un negoziato diretto con Putin sulla guerra d'Ucraina, scavalcando sia Zelensky che gli imperialismi europei, ha esattamente questo segno.
IL TENTATIVO DI SEPARARE LA RUSSIA DALLA CINA
Ma non solo questo. Con il negoziato diretto con Putin, Trump prova a separare l'imperialismo russo dall'imperialismo cinese. È il tentativo di riorganizzazione su basi nuove delle relazioni mondiali, attorno ad un equilibrio tripolare fra le grandi potenze: gli USA, la Russia, la Cina. Una sorta di “seconda Yalta”: la negoziazione di una nuova spartizione del mondo.
Il momento dell'offerta americana a Putin non è casuale. Da un lato intende subito segnare il battesimo d'esordio del nuovo governo USA sullo scenario mondiale, a misura della radicalità della svolta. Dall'altro coglie il momento in cui la Russia ha subìto uno scacco pesante in Medio Oriente, con la caduta di Assad, l'arretramento di Hezbollah, il ridimensionamento complessivo dell'Iran, alleato di Mosca; e nel quale la Russia inizia a temere il rischio di un proprio inglobamento subalterno nell'area di influenza cinese, anche a partire dalla progressiva espansione della Cina nelle repubbliche centroasiatiche postsovietiche. In questo contesto gli USA offrono alla Russia una possibile opzione alternativa. Un'altra possibile sponda.
L'offerta negoziale di Trump riguarda innanzitutto l'Ucraina. L'imperialismo americano sta offrendo all'imperialismo russo il ritiro del proprio sostegno all'Ucraina, la revoca progressiva delle sanzioni, il riconoscimento alla Russia di quanto ha già conquistato sul campo di battaglia. In altri termini, Trump offre a Putin la capitolazione del paese che ha invaso. Di più: Trump offre a Mosca l'umiliazione pubblica di Zelensky, sino alla richiesta della sua uscita di scena, in perfetta corrispondenza con la richiesta russa. Cui aggiunge il diritto di saccheggio delle riserve minerarie ucraine quale forma di indennizzo del precedente aiuto militare a Kiev.
Una postura tipicamente neocoloniale. Peraltro, le riserve minerarie ucraine, soprattutto in fatto di terre rare, sono preziose per gli USA proprio in funzione della competizione con la Cina. L'interesse USA per la Groenlandia e le riserve dell'Artico conferma la loro valenza strategica.
Ma l'offerta negoziale di Trump non riguarda solo l'Ucraina. Trump offre all'imperialismo russo un ruolo negoziale globale da potenza a potenza. L'annunciato disimpegno militare USA dall'Europa, ancora incerto nella sua portata, ma già formalmente tracciato; la conseguente richiesta agli imperialismi europei di provvedere alle proprie necessità militari con un massiccio incremento dei propri investimenti nella difesa (con la consapevolezza delle difficoltà materiali degli imperialismi europei a farvi fronte); l'archiviazione definitiva di ogni futuro ingresso dell'Ucraina nella NATO (ipotesi peraltro mai concretamente esistita, se non nella propaganda di Mosca o in qualche futuribile evocazione retorica); la propria disponibilità ad allentare i vincoli NATO circa l'applicazione del famigerato articolo 5, escluso in ogni caso per eventuali missioni future di peacekeeping; persino il riferimento incidentale di Trump a un ipotetico futuro nel quale “l'Ucraina potrebbe essere russa”... sono tutti segnali neppure troppo cifrati alla Russia di Putin della disponibilità americana a negoziare con Putin gli equilibri interni al Vecchio continente, e il riconoscimento del diritto della Russia a ricostruire la propria area di influenza in Europa. Non a caso Putin ha dichiarato: «Il nuovo indirizzo della presidenza Trump è convergente con la nostra impostazione ed è per noi ragione di speranza».
PRECIPITA LA CRISI DELL'UNIONE EUROPEA
In questo quadro generale si pone la nuova linea di Trump verso l'Unione Europea. Non si tratta semplicemente della marginalizzazione negoziale della UE, fosse pur clamorosa. Si tratta di una linea di intervento mirata alla disarticolazione dell'UE. Il sostegno pubblico americano all'estrema destra tedesca rappresenta un intervento inedito degli USA nella politica borghese europea, proprio nel momento della massima crisi dei suoi assetti (Germania e Francia in primis). L'offensiva americana sui dazi di importazione delle merci europee completa il quadro.
Combinata con la riduzione delle tasse sui capitalisti che producono negli USA, la politica dei dazi mira a riportare in America produzioni e investimenti che ne sono usciti. Vale per l'Europa come per il Canada o per il Messico. Naturalmente, esistono sempre in questo campo margini negoziali. Ma la direzione di marcia è chiara. L'imperialismo americano vuole “tornare grande” anche attraendo capitali dall'Europa, dunque rafforzando le sue dinamiche di deindustrializzazione. Acciaio e alluminio, siderurgia e automobile – il cuore della produzione industriale europea – sono oggi colpiti non solo dalla concorrenza cinese ma anche da quella americana.
L'attuale precipitazione della crisi UE di fronte alla svolta trumpiana è indicativa. Mario Draghi ha evocato solennemente nel Parlamento UE la necessità di uno stato federale paneuropeo quale unica reale risposta strategica al trumpismo. Ma ha confessato lui stesso di non avere idea di come arrivarvi. Non è un caso. Gli imperialismi nazionali del Vecchio continente sono strutturalmente incapaci di unificare l'Europa. La svolta trumpiana approfondisce infatti tutte le loro contraddizioni.
La Francia punta ad intestarsi la guida di una risposta europea al disimpegno americano, forte del proprio primato militare. L'Italia rifiuta ogni possibile egemonia della Francia, cui contende spazi e ruolo, a partire da Mediterraneo e Nord Africa. La Gran Bretagna cerca un proprio reinserimento nel gioco europeo, ma si trova stretta nel contenzioso franco-italiano. Gran Bretagna, Italia, Polonia concorrono tra loro al ruolo di pontieri tra l'Europa e Trump, ma proprio la radicalità della svolta di Trump riduce pesantemente il loro spazio di manovra.
La Germania è concentrata sulla soluzione interna della propria crisi politica e recessione economica, ma ha difficoltà a trovare i numeri parlamentari necessari per aggirare i vincoli costituzionali di bilancio. Ungheria e Slovacchia, a loro volta, rafforzano nel nuovo scenario il proprio gioco di sponda tra imperialismo USA e imperialismo russo in funzione anti-UE.
Non si può escludere che in questo quadro convulso possano prodursi in futuro cooperazioni rafforzate tra alcuni paesi imperialisti europei cosiddetti “volonterosi”. Ma solo entro spazi limitati, senza rilevanza istituzionale, nella impossibilità di modificare i trattati.
L'unica vera certezza europea è oggi la corsa generale agli armamenti con lo scorporo delle spese militari dal nuovo Patto di stabilità e con nuove forme di indebitamento; ma nella lotta spietata tra le industrie militari nazionali per accaparrarsi mercato e commesse. Tutte le aziende del complesso militare-industriale trionfano in Borsa, mentre i grandi produttori d'armi americani si candidano a principali beneficiari della corsa agli armamenti in Europa.
La crisi europea amplia a sua volta gli spazi di inserimento dell'imperialismo russo e dell'imperialismo americano nel Vecchio continente. All'interno delle destre europee, dove dispongono entrambi di agganci e relazioni, talora combinate (AfD, Lega salviniana). O all'interno della penisola balcanica, dove l'imperialismo russo cerca di capitalizzare l'arresto del processo di integrazione in UE di diversi paesi. Non a caso il peso specifico di formazioni filorusse si consolida in aree significative dell'Est europeo.
La verità è che L'Unione Europea a ventisette membri, già paralizzata dalla regola dell'unanimità, a garanzia dei capitalismi nazionali, ha ormai concluso da tempo la propria dinamica di espansione. L'attuale ondata sovranista ha messo al riguardo il sigillo finale. Non a caso, la stessa integrazione dell'Ucraina nella UE è bloccata dai veti dei paesi concorrenti nel campo dell'agricoltura e dei sussidi. La celebrata solidarietà con l'Ucraina si ferma alle soglie del portafoglio dei capitalisti.
LE NUOVE RELAZIONI IMPERIALISTE SUL BANCO DI PROVA DEL MEDIO ORIENTE
L'offerta di un ruolo negoziale alla Russia si estende alla crisi Medio Orientale. È lo scenario più complicato e ad oggi irrisolto della nuova relazione russo-americana. Il disegno trumpiano mira a capitalizzare la profonda sconfitta dell'Iran dopo i subiti bombardamenti sionisti e il crollo di Assad, per provare a rilanciare e allargare i famosi accordi di Abramo tra i regimi arabi e Israele (sino a provare a coinvolgervi non solo l'Arabia Saudita ma persino il Libano e la nuova Siria). È l'operazione promossa a suo tempo dal primo governo Trump, con l'obiettivo di un nuovo equilibrio stabile del Medio Oriente, che consenta agli USA di concentrarsi contro la Cina in Asia.
Il secondo governo Trump agisce oggi su due direttrici combinate. Da un lato propone alla Russia di scaricare l'Iran – primo esportatore di petrolio in Cina – in cambio di rassicurazioni compensative per gli interessi russi in Siria (salvaguardia delle basi militari di Tartus, Latakia e Khmeimim): operazione appoggiata apertamente da Netanyahu per riequilibrare e contenere l'influenza turca. Dall'altro lato massimizza la pressione su Egitto e Giordania affinché aprano le proprie frontiere all'annunciata deportazione dei palestinesi di Gaza, e accettino di fatto l'annessione sionista della Cisgiordania.
Ma la quadra del cerchio, a dispetto di Trump, è ancora in alto mare. Lo stato sionista, forte dei propri successi militari, non ha ancora spento i motori della propria guerra sterminatrice, a beneficio della tenuta politica di Netanyahu. E l'odio di cui è circondato in tutta la regione blocca lo spazio di manovra dei regimi arabi. Non perché questi siano minimamente interessati alle sorti dei palestinesi, ma perché un loro accordo oggi con Israele li esporrebbe al rischio di una rivoluzione in casa sotto la bandiera della Palestina. La memoria delle sollevazioni di massa del 2010-2011 in Tunisia, in Egitto, e inizialmente nella stessa Siria, è ben presente nelle borghesie arabe.
Il rivoltante video cartolina del resort di Gaza, tra gli sghignazzi di Trump, Musk, Netanyahu, ha rafforzato le loro preoccupazioni. Tanto più a fronte del tracollo di ogni residua finzione diplomatica attorno alla “soluzione due popoli per due Stati” che possa fornire ai governi arabi lo straccio di una copertura cui aggrapparsi. Lo spettro della rivoluzione araba resta ad oggi una pietra d'inciampo per la strategia di Donald Trump in Medio Oriente.
“L'AMERICA AGLI AMERICANI”
Il nuovo corso di Trump procede al tempo stesso con passo sicuro nel grande continente americano. “Via la Cina” dal canale di Panama. Intimidazione annessionista verso il Canada, quale possibile cinquantunesimo stato americano. Minaccia sfrontata contro il Messico, col diritto a intervenire militarmente in terra messicana contro i cartelli della droga. Respingimento di ogni nuova migrazione negli Stati Uniti e deportazione in catene di migliaia di immigrati. Ridenominazione provocatoria del Golfo del Messico in Golfo d'America. Partneriato strategico col regime argentino di Milei, nella prospettiva di una (difficile) riconquista dell'egemonia USA in America Latina
È una sorta di riformulazione, due secoli dopo, della storica dottrina Monroe che rivendicava “l'America agli americani”. Allora si presentava come rivendicazione della libertà del continente americano dal vecchio colonialismo europeo, in realtà una ipocrita giustificazione preventiva del proprio futuro progetto imperialista. Oggi quell'antica petizione in bocca a Trump può fare a meno di ogni finzione. Gli USA intendono “liberare” l'America Latina dalla massiccia penetrazione di capitali e merci dell'imperialismo cinese. Via la Cina dall'America Latina in cambio di una futura apertura alla Cina su Taiwan? È troppo presto per simili congetture. Tuttavia Trump ha dichiarato che Taiwan ha derubato gli USA in fatto di microprocessori, e che dovrebbe provvedere alla propria difesa portando le spese militari al 10% del PIL. L'imperialismo giapponese e la Corea del Sud sono significativamente inquieti.
IN CONCLUSIONE
Non è possibile avanzare previsioni certe sullo sviluppo del nuovo scenario mondiale. Tutto appare in movimento, con passo accelerato, lungo nuove linee di faglia. Può essere che l'intera operazione di Trump si concluda alla fine con un fallimento, con la tenuta del blocco imperialista russo-cinese e la conseguente ricomposizione dell'asse transatlantico tra USA ed Europa; come può essere invece che si sviluppi in direzione sua propria, con effetti domino dirompenti su ogni scacchiere.
Di certo è in atto un tentativo serio della nuova amministrazione americana di riorganizzare su basi nuove le relazioni imperialiste, quale risposta alla propria crisi di egemonia. Il vecchio assetto degli equilibri globali, già in crisi profonda dopo il 2008, sembra precipitare, mentre nuovi assetti sono ancora lontani dal prendere forma. Una stagione di grande instabilità attende il mondo.
Marco Ferrando