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Le elezioni in Perù

 


Contro i partiti borghesi e reazionari che vorrebbero annullare il voto, ma senza la minima illusione nel nuovo Presidente Castillo

Mentre scriviamo è ancora in corso il conteggio dei voti delle elezioni presidenziali in Perù. Il partito reazionario di Fuerza Popular, guidato da Keiko Fujimori, figlia del golpista Alberto, contesta la vittoria di stretta misura di Pedro Castillo, chiede l’annullamento di 200000 voti, mobilita la piazza di Lima contro la “frode comunista”. Soprattutto spera che il conteggio delle schede del voto estero possa ribaltare il risultato. Ma appare improbabile che ciò avvenga.

Probabile è invece che una presidenza Castillo possa trascinare con sé una radicalizzazione dello scontro di classe in Perù. In un quadro latino-americano segnato nell’ultima fase dalla crisi rivoluzionaria in Colombia, dall’ascesa del movimento di massa in Ecuador, dalla ripresa della mobilitazione in Cile.


UN PAESE SACCHEGGIATO DALL’IMPERIALISMO

La vittoria di Pedro Castillo è un portato della grande crisi politica e sociale che il Perù attraversa.

Il paese è stato spogliato dal lungo corso delle politiche liberiste, inaugurato da Alberto Fujimori. Eletto nel ‘90 quale Presidente del Perù, Fujimori attuò un colpo di Stato nel ‘92, sciogliendo il Parlamento, cambiando la Costituzione, concentrando nelle proprie mani tutte le principali leve del potere. Iniziò così la lunga stagione dell’austerità, delle privatizzazioni al servizio degli interessi imperialisti, della precarizzazione selvaggia del lavoro, dei tagli alle pensioni in omaggio al pagamento del debito pubblico peruviano. Fu anche la stagione degli squadroni della morte contro militanti comunisti, attivisti sindacali, capi delle comunità indigene. La sterilizzazione forzata delle popolazioni indigene fu uno degli atti più brutali della dittatura fujimorista.

Fujimori cadde nel 2000, travolto dagli scandali per corruzione e dalle incriminazioni giudiziarie. Ma la Costituzione da lui varata nel ‘93 è tuttora intatta. Riconosce il diritto all’evasione fiscale dei grandi capitalisti, attraverso il sistema dei “contratti privati” con lo Stato, privilegia gli investimenti privati riservando allo Stato un ruolo puramente sussidiario, prevede una forte limitazioni delle libertà sindacali. Tutti i governi borghesi che si sono alternati in Perù negli ultimi trent’anni hanno custodito gelosamente questa eredità di Fujimori, a tutela della borghesia nazionale e dell’imperialismo, americano ed europeo.

L’economia capitalistica peruviana ha conosciuto tassi di crescita molto alti sino a tempi recenti, con un tasso medio superiore alla media del continente latino-americano (+5,9% nell’ultimo decennio), ma in un quadro di estrema polarizzazione tra ricchezza e povertà. Tra il relativo benessere sociale di un settore rilevante della classe media urbana e l’immiserimento progressivo della popolazione povera delle periferie, delle campagne, delle comunità indigene.

L’irruzione della pandemia e della recessione mondiale ha precipitato la crisi sociale a livelli mai conosciuti. Sei milioni di posti di lavoro distrutti, una popolazione attiva ridotta al 39,5%, precarizzazione totale del lavoro con il completo scardinamento della contrattazione, un divario sempre più abissale tra città e campagna. Mentre il Covid ha falcidiato 186000 persone su una popolazione di 32 milioni di abitanti, con un tasso di mortalità del 10% dei contagiati, il più alto al mondo, riflesso dell’assenza di un sistema sanitario in molte regioni del paese, in particolare nelle regioni rurali.


DUE BLOCCHI SOCIALI CONTRAPPOSTI

Il crollo della società peruviana ha sospinto nell’ultimo anno una forte instabilità politica, col rapido succedersi di diversi governi, ogni volta travolti dagli scandali, ogni volta oggetto di vaste contestazioni di massa. Ciò in un quadro di progressiva frammentazione della rappresentanza politica borghese, che il primo turno del voto presidenziale ha ben documentato. La borghesia si è divisa tra Keiko Fujimori (14,5%), un partito ultraliberista (10,7%), una formazione di estrema destra (“Porky”, 12,2%). Ciò ha consentito a Pedro Castillo di primeggiare con il 18,1% dei voti.

La polarizzazione del secondo turno tra Fujimori e Castillo ha visto contrapposti due blocchi sociali.

Keiko Fujimori ha raccolto attorno a sé la piccola e media borghesia urbana legata alle professioni liberali, alla piccola impresa, al commercio. Una classe che esercita una egemonia maggioritaria su ampi settori popolari nelle città. Keiko ha ottenuto a Lima ben il 65% dei voti. La sua campagna elettorale è stata di tono maccartista contro il “pericolo comunista” (Castillo). Ma anche smaccatamente populista, nelle migliori tradizioni di famiglia: sino a promettere la redistribuzione sociale dei profitti delle grandi compagnie. Il vero fine di Keiko era quello di vincere per tirar fuori il padre di galera, e con lui i clan affaristici e faccendieri che aveva protetto.

Pedro Castillo ha polarizzato attorno a sé il voto popolare contro Fujimori e la loro dinastia. Ha vinto con larghissimo margine nelle 6 regioni più povere con l’80% dei voti, spopolando nelle campagne e nei centri minerari. Nelle città ha raccolto il voto della maggioranza dei salariati, in particolare nel settore pubblico. La sua vittoria porta il segno della volontà di rottura della classe operaia e della maggioranza della popolazione povera con le politiche dominanti dell’ultimo mezzo secolo. Come tale va salutata positivamente dai marxisti rivoluzionari, che in Perù non a caso hanno dato indicazione di voto per Castillo al secondo turno.

Giustamente però si è trattato di un appoggio elettorale critico, senza nessuna identificazione in Castillo, senza abbellire il suo profilo politico, senza tacere sulla realtà effettiva del suo programma.


IL PROGRAMMA REALE DI CASTILLO

Pedro Castillo è un sindacalista che diresse nel 2017 un importante sciopero degli insegnanti per ottenere aumenti salariali, uno sciopero che scavalcò la burocrazia sindacale ottenendo l’appoggio dell’opposizione sindacale interna. L’emersione della sua figura come difensore dei lavoratori ha avuto questa origine, sicuramente progressiva. La sua estraneità al circo politico tradizionale gli ha permesso inoltre di intercettare la domanda di cambiamento e di svolta contro “i vecchi politici corrotti” espressa dalle mobilitazioni dell’ultimo anno. La sua provenienza rurale ha familiarizzato l’immagine di protettore delle campagne contro gli affaristi e gli affamatori delle città, rivestendolo dei panni di leader contadino. Il 50,2% è la risultante di tutto questo.

Ma tutto questo non fa di Castillo ciò che non è: un presidente “comunista”. Solo chi confonde la realtà con le finzioni strumentali della propaganda reazionaria può prendere un simile abbaglio.

Il programma sociale originario di Perù Libre di Castillo è un onesto programma antiliberista nel quadro del capitalismo peruviano, fondato su nazionalizzazioni con indennizzo del settore minerario ed energetico. Una versione peruviana della politica di Morales in Bolivia. Il suo programma politico prevede una Assemblea costituente che cambi la Costituzione del ‘93, obiettivo sicuramente democratico. Nulla sul debito estero, nulla sui corpi repressivi dello Stato, nessuna reale riforma agraria. Terreni su cui già il programma iniziale di Perù Libre confermava la continuità strutturale della politica borghese peruviana.


IL PASSO DEL GAMBERO DI PERÙ LIBRE

Oltretutto questo programma riformista è stato progressivamente edulcorato da Castillo nel corso della campagna elettorale. L’8 giugno il portavoce economico di Perù Libre, Pedro Francke, ha tranquillizzato la borghesia peruviana e i circoli imperialisti con queste parole:

«Rispetteremo la proprietà privata scrupolosamente... Rispetteremo l’autonomia della Banca Nazionale Peruviana e i suoi rapporti con gli investitori... Ripetiamo che non abbiamo previsto nel nostro programma economico statizzazioni, espropri, confische, controllo dei cambi, controllo dei prezzi... Rispetteremo tutti gli impegni di pagamento del debito pubblico peruviano... Vogliamo il dialogo aperto con tutti gli imprenditori onesti, il cui ruolo nella industrializzazione e nello sviluppo del paese è fondamentale».

Un programma di collaborazione di classe in piena regola. Il classico passo del gambero dei partiti riformisti quando passano dall’opposizione al governo: archiviazione degli stessi propositi riformisti, assunzione pura e semplice delle compatibilità capitaliste.

Peraltro, Castillo non si è mai riferito alla classe lavoratrice. Tutta la sua campagna elettorale si è sviluppata attorno al richiamo del “popolo”, della “gente”, della “patria”, in chiave classicamente populista, mentre sul terreno dei diritti civili Castillo ha esibito il lato più regressivo e imbarazzante: rifiuto del diritto d’aborto e più ingenerale delle rivendicazioni femministe, rifiuto di ogni riconoscimento dei diritti degli omosessuali, difesa ostentata della famiglia patriarcale. Un omaggio alla cultura diffusa delle sue zone rurali di provenienza, che erano e sono il suo principale bacino elettorale.


LA POSIZIONE DEI MARXISTI RIVOLUZIONARI

Vedremo se Castillo consoliderà la propria vittoria e formerà un proprio governo. Di certo non sarà un governo dei lavoratori, cioè di rottura con l’ordine capitalista e imperialista. I marxisti rivoluzionari peruviani saranno in prima fila nel contrastare i disegni della reazione borghese di contestare e annullare il voto popolare. Ma non daranno un appoggio politico a un governo borghese di sinistra. Come non lo diedero i bolscevichi a Kerenskij, neppure nel momento in cui era minacciato da Kornilov. Come non l’abbiamo dato a Chavez o a Morales, pur opponendoci alle minacce dell’imperialismo. Come non l’abbiamo dato ai governi Prodi, Tsipras, Sanchez, anche quando erano appoggiati da partiti che si autodefiniscono comunisti.

La questione del governo, come la questione della guerra, segna una rigorosa linea di demarcazione tra marxismo rivoluzionario, riformismo, centrismo, in tutta la lunga storia del movimento operaio. La socialdemocrazia prima, lo stalinismo poi (a partire dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, col varo dei governi di fronte popolare) hanno cancellato questa linea di demarcazione inaugurando la lunga stagione dei governi di coalizione con “la borghesia democratica”. Ma questa demarcazione è riproposta ciclicamente nella sua attualità a tutte le latitudini del mondo. Tanto più in un contesto storico segnato dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla crisi del capitalismo internazionale.

Recuperare il principio dell’opposizione comunista a tutti i governi della borghesia non significa porre un segno di equivalenza tra tutti i governi borghesi, ciò che sarebbe ed è una posizione di estremismo settario e infantile. Significa semplicemente difendere una elementare collocazione di classe. Che è la precondizione di una politica rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori