Il cartello di De Magistris: una lista Ingroia 2.0
“Parte in tutta Italia l'Unione Popolare”. Roma, 9 luglio. Sfrondata della retorica d'occasione, si tratta dell'ennesimo nuovo nome dell'ennesima lista civica per le elezioni politiche del 2023, anticipate al 2022. È il tentativo del Partito della Rifondazione Comunista e di Potere al Popolo di salire in groppa al successo elettorale di Mélenchon in Francia per sbarcare in Parlamento in Italia. Ma soprattutto il tentativo dell'ex sindaco di Napoli di usare lo sgabello di PRC e PaP per costruire un proprio partito autocentrato. Ci provò Ingroia, ci riprova ora De Magistris. Tutto legittimo, beninteso. Basta chiamare le cose con il loro nome, senza farsi incantare dalle fiabe.
RIENTRARE IN PARLAMENTO IN FUNZIONE DI QUALE CLASSE?
Provare a rientrare in Parlamento è comprensibile. Ma in funzione di quale classe e per quale prospettiva?
Il PRC in Parlamento c'è stato per ben sedici anni (1992-2008), con percentuali ben più ragguardevoli di quelle oggi attese da De Magistris. Ma è finito col votare i programmi del capitale nei cinque anni dei due governi Prodi: lavoro interinale, privatizzazioni, missioni militari, la più grande detassazione dei profitti del dopoguerra (IRES dal 34% al 27% nel 2007!), sino a distruggere la propria riconoscibilità.
Si dirà che “tutti possono sbagliare” e che una seconda occasione non si nega a nessuno. Ma qui non si tratta di “errori” sulla via impervia del socialismo, bensì del sostegno alle peggiori misure del capitalismo, contro la classe lavoratrice. Senza che nessuno, tra dirigenti e ministri di quella stagione, con l'eccezione obbligata di Bertinotti, abbia sentito il bisogno di farsi da parte per ragioni di decenza.
Se Grillo, Salvini, Meloni, hanno sfondato uno dopo l'altro in ampi settori di salariati, lo si deve in ultima analisi anche al suicidio di Rifondazione, pagato a sinistra da tutti, anche da chi lo contrastò con coerenza.
Peraltro le “seconde occasioni” non sono certo mancate. Nei quattordici anni successivi all'estromissione dal Parlamento, la sinistra cosiddetta radicale ha provato a rientrarci sotto mentite spoglie, attraverso il ricorso a sigle fantasiose, ogni volta diverse, dietro cui nascondersi: dopo Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione Civile, L'Altra Europa con Tsipras, Potere al Popolo, la Sinistra... L'elemento comune è stato l'arretramento culturale e persino di vocabolario. I lavoratori sono stati rimpiazzati dai “cittadini”. La lotta al capitalismo, fosse pure declamata, ha ceduto il passo alla critica del liberismo. Invece della (farlocca) “via italiana al socialismo”, di togliattiana memoria, una sorta di via mimetica al Parlamento (per tornare un domani ai lidi di governo). Ma l'operazione è fallita. E non solo. Proprio negli anni della grande crisi sociale ha contribuito a rimuovere anche culturalmente un elementare argine di classe all'intossicazione populista, mentre l'esperienza traumatica del governo Tsipras, sostenuto da tutta la sinistra italiana, ne ha confermato gli equivoci irrisolti e tarpato le ambizione di rilancio.
L'Unione Popolare non è dunque il primo capitolo di una storia nuova, ma l'ultimo capitolo della storia vecchia. Si dirà che questa volta il successo elettorale di Mélenchon fornisce un ancoraggio all'esperimento, e che la crisi verticale del grillismo apre uno spazio elettorale nuovo. Possibile, anche se è bene dire che Mélenchon ha capitalizzato in parte una dinamica di lotte che oggi ancora latita in Italia. Tuttavia il punto non è elettorale, è politico.
ALLA RICERCA DEL GRILLISMO PERDUTO
L'appello pubblico che promuove l'Unione Popolare è un elenco di valori democratici e progressisti, assieme all'immancabile richiamo alla Costituzione di Togliatti e De Gasperi. Chi cercasse un qualsivoglia riferimento alla lotta di classe rimarrebbe deluso. A maggior ragione chi pretendesse l'evocazione, fosse pure formale, del socialismo.
Non dipende solo dal fatto che le formazioni della sinistra radicale hanno da tempo dismesso la centralità di questi riferimenti, come peraltro ha fatto il patriottico Mélenchon. È che il senso stesso di Unione Popolare consiste nel rimuovere l'immagine della “sinistra radicale”, in ogni possibile declinazione. Non a caso Rifondazione Comunista e Potere al Popolo non hanno figurato in quanto tali nell'assemblea nazionale promotrice di Unione Popolare a Roma. Neppure sono intervenuti. La loro presenza è muta. Gli stessi nomi riconoscibili dei loro dirigenti di partito sono relegati in coda al lungo elenco di personalità firmatarie dell'appello, che è e deve apparire l'appello della società civile progressista, non di PaP e PRC. I loro militanti, come sempre, saranno chiamati alla manovalanza in campagna elettorale. Ma la loro identità di partito sarà anonima. Così vuole e ottiene De Magistris, alfa e omega dell'intera operazione. «Sgombriamo il campo da un equivoco: Unione Popolare non è una semplice proposta di sinistra radicale che tenta di riunire ciò che resta della sinistra estrema. Non ha nulla a che vedere con tutto questo...» dichiara Salvatore Pace, ex vicesindaco di Napoli, primo collaboratore di De Magistris. Non vi è ragione di dubitarne.
La ricerca insistita dell'accordo con il M5S, patrocinata in particolare da PRC e De Magistris, sta in questo quadro. Non è una sgrammaticatura casuale, o un errore. È il riflesso di un'impostazione politica. «Io sono come i 5S dei meetup» dichiara De Magistris al Fatto Quotidiano (28 luglio). E così vuole apparire.
L'accordo con Conte viene presentato come una convergenza naturale di istanze comuni, sociali, democratiche, ecologiche. Il fatto che il M5S sia stato il partito più governativo della legislatura, che Conte sia stato due volte Presidente del Consiglio, che abbia inondato il padronato di miliardi, che abbia promosso leggi forcaiole contro i migranti e i diritti di sciopero (decreti Salvini), che abbia aumentato in entrambi i governi le spese militari, che abbia sostenuto tutte le politiche di Draghi (taglio dell'IRAP incluso), appare un trascurabile dettaglio. Ciò che conta per De Magistris è rientrare in partita.
Purtroppo per lui, Conte non sembra sinora disposto a imbarcare Unione Popolare, preferisce salvaguardare il profilo istituzionale di ex Presidente del Consiglio, cerca di rivendere l'ennesima truffa a cinque stelle “soli contro tutti, a difesa dei deboli”. UP purtroppo con le sue profferte unitarie copre di fatto quella truffa, mentre la concorrenza del M5S sui temi sociali – non sbugiardata ma avallata da UP – limita lo spazio di De Magistris anche sul terreno elettorale.
Come sempre, l'opportunismo finisce con l'essere il peggior nemico di sé stesso.
MELENCHONISMO SENZA MÉLENCHON
Unione Popolare è un'operazione complicata. De Magistris non è Mélenchon, né per cultura politica né in fatto di organizzazione.
Mélenchon ha costruito negli anni un proprio soggetto politico (La France Insoumise) sulle rovine parallele del Partito Comunista Francese e del Partito Socialista, coi quali ha siglato l'intesa per le elezioni legislative da una posizione di forza. Il suo sovranismo di sinistra dispone di una base d'appoggio organizzata, che oggi fa da baricentro di NUPES.
De Magistris è solo un ex magistrato e un ex sindaco, che dispone unicamente del proprio nome. Il suo progetto DemA, non casualmente affidato al fratello, è rimasto una sigla vuota. L'unico vero punto di forza di De Magistris è la prostrazione della sinistra politica che si è sdraiata ai suoi piedi. Il suo fine è usare la generosità di PRC e PaP per costruire sulle loro rovine il partito di De Magistris, la sua Italia Insoumise.
Quanto al programma politico, sarà l'ultimo dei problemi di De Magistris. La sua Persona travalica ogni confine. Si presenta come “uomo delle Istituzioni ma contro il Sistema”. Rivendica rottura del sistema e affidabilità di governo. Evoca «onestà, libertà, autonomia, competenza, coraggio, amore, passione, la corazza con cui ho retto a molti tsunami istituzionali, sempre tra la gente e con la gente». Esalta la «testimonianza esplosiva del Papa». Promette che con Lui «l'umanità andrà al potere e sarà un potere di servizio». Insomma, il programma di De Magistris è De Magistris, e tanto basta. Come l'Uno di Nicolò Cusano, raccoglie in sé la totalità degli opposti. Ogni pretesa di definirlo sminuirebbe la sua infinità. Quanto all'Umanità, dovrà avere pazienza.
UNIONE POPOLARE DALLA POESIA ALLA PROSA
Disgraziatamente, nel mondo reale la poesia scolora nella prosa, e si vendica di tanta enfasi. Prima il sodalizio con Di Pietro nella famosa Italia dei Valori, ai tempi in cui si opponeva alla commissione d'inchiesta sul G8 di Genova a difesa dell'onore della polizia, e all'introduzione del reato di tortura. Poi i dieci anni di sindacatura a Napoli dentro le ordinarie compatibilità di un'amministrazione borghese: pagamento del debito pubblico alle banche, privatizzazione delle Terme di Agnano, tagli agli asili nido con relativi milioni ai privati, blocco della contrattazione in Comune, vendita delle quote comunali dell'aeroporto di Capodichino, affidamento ai privati della gestione dei cimiteri, denuncia dei lavoratori in sciopero nel trasporto cittadino, nel nome del “popolo utente”... Il tutto compensato dalle concessioni di spazio ai centri sociali della città, con questo assunti e arruolati quale guardia del corpo del sindaco, tra comizi roboanti e toni messianici. Insomma, una sorta di Chavez de' noantri, o se si vuole di zapatismo partenopeo, presentato (letteralmente) come “laboratorio mondiale dell'incontro tra potere e popolo”. In realtà una forma di subordinazione del popolo al potere.
DA PODEMOS A MÉLENCHON, UNA SINISTRA DI GOVERNO DEL CAPITALISMO
Oggi parlano per De Magistris i suoi riferimenti internazionali, pur esibiti come punti di forza.
Podemos, con ben quattro ministri, partecipa del governo dell'imperialismo spagnolo, quello che aumenta le spese militari, approva l'estensione della NATO, massacra i migranti in accordo col Marocco, rifiuta l'autodeterminazione della Catalogna.
Mélenchon, ex ministro del governo Jospin e bombardatore di Belgrado, ha appena rimosso la richiesta di uscita dalla NATO per accordarsi col Partito Socialista, non chiede né l'indipendenza per le colonie di Oltremare né il ritiro delle truppe francesi dal Sahel (limitandosi all'”apertura di un dibattito”), nel nome degli “interessi strategici della Francia”.
Peraltro Manon Aubry, presente all'assemblea di Roma di Unione Popolare in rappresentanza della France Insoumise, ha pensato bene di benedire anche la lista di Sinistra Italiana e dei Verdi, tutta interna al campo largo di Letta. Meglio evitare di compromettersi, e tenersi aperta ogni strada. Con buona pace di De Magistris e dei suoi reggicoda.
Non sappiamo quale sarà la risultante elettorale di Unione Popolare e dei calcoli incrociati che la sottendono. Sappiamo che l'esigenza di un partito indipendente della classe lavoratrice e di un programma di rivoluzione sociale non ha nulla a che spartire con la vecchia riproposizione di equivoci populisti attorno a personaggi in cerca di autore.