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La Confindustria sta con il Def di Di Maio

«Non è tanto importante lo sforamento del deficit quanto i risultati che ne deriveranno in fatto di uso intelligente delle risorse [...] Le nostre proposte non sono antitetiche ma complementari a quelle del governo». Con queste parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ha ufficialmente benedetto quel Documento di Economia e Finanza (Def) che Di Maio presenta, dal balcone di Palazzo Chigi, come “abolizione storica della povertà”. Come si spiega? Con una considerazione molto semplice: a differenza della sinistra sovranista, abbagliata dalla propaganda pentastellata, la Confindustria ragiona esclusivamente in termini di classe. È interessata, in altri termini, a quanto le entra in tasca, che non è poco, stando agli annunci e alle rassicurazioni ricevute.

Confindustria ha già incassato col Decreto dignità l'estensione dei contratti a termine, portati dal 20% al 30% dell'organico aziendale: un'estensione strutturale del precariato, altro che la sua Waterloo.
Ha già incassato la permanenza del Jobs act in fatto di distruzione dell'articolo 18, altro che la sua “abolizione”.
Ha incassato una soluzione vantaggiosa sulla questione Ilva, con la relativa riduzione degli organici, una compressione di diritti, e l'immunità giudiziaria della nuova proprietà sul versante ambientale, altro che la “salvezza di Taranto”.
Ora le viene promesso una nuova massiccia decontribuzione sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato, una ulteriore riduzione della tassa sui profitti (Ires), la stabilizzazione strutturale dei super-ammortamenti e degli incentivi all'Industria 4.0. In altre parole la conferma, la stabilizzazione, la maggiorazione delle regalie ricevute dai governi precedenti di ogni colore, ed in particolare da Renzi, Letta, Gentiloni. Una pioggia di miliardi, per di più strutturale. «Sembra che l'impianto tenga. Per noi è un fatto positivo» ha commentato Boccia. Come dargli torto?


ESTABLISHMENT E CONFINDUSTRIA 

Il governo giallo-verde non è certo nato come emanazione di Confindustria, ma Confindustria fa oggi al nuovo governo una indubbia apertura di credito. Sa di trovarsi di fronte a un governo potenzialmente stabile e di legislatura. Sa che non esistono a breve alternative politiche praticabili, di fronte al crollo delle opposizioni liberali. Dunque si prepara ad usare per l'inverno la legna che ha. Cerca di allargare i canali di dialogo col nuovo esecutivo, ed anzi avanza le proprie richieste “complementari”: aumento della dotazione del Fondo di Garanzia a favore delle imprese; detassazione dei premi di produttività; un nuovo codice degli appalti che lasci ancor più mano libera alle aziende (vedi Sole 24 Ore, 29 settembre). In altri termini, Confindustria batte cassa e rilancia su tutta la linea.

L'establishment nazionale europeista e i suoi giornali (La Repubblica, Il Corriere, La Stampa, Il Massaggero) contrastano il nuovo governo perché non si rassegnano alla propria decapitazione politica. E certo le posture plebee dei nuovi parvenu (vedi vicenda Casalino), la guerra dichiarata di posizione all'alta burocrazia statale (i “burocrati di merda” da estirpare), le ritorsioni giallo-verdi verso la stampa (tagli alla pubblicità e cancellazione dell'Ordine dei giornalisti), la promozione ovunque di propri fiduciari in ogni ruolo di responsabilità politica e amministrativa, dalla Consob alla magistratura, approfondiscono oggi questa linea di frattura, ben al di là della politica economica. Ma Confindustria si posiziona diversamente, fa altri calcoli, ha altri interessi. Non deve tutelare una propria rappresentanza nello Stato borghese, deve servirsi dello Stato borghese e di chi oggi lo guida, chiunque esso sia.


LA FALSA QUESTIONE DEL DEFICIT 

Le sinistre che accettano il dominio del capitale, salvo pretenderlo diverso da quello che è, hanno più volte enfatizzato in questi dieci anni la questione del deficit di bilancio come tema astratto di politica economica svincolandolo da ogni criterio di classe.

Ovviamente è vero che il Fiscal compact, la riduzione progressiva del deficit sul Pil, l'obiettivo del pareggio di bilancio, hanno rappresentato strumenti normativi funzionali a comprimere le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione povera. Ma non è vero l'inverso. Non è vero, cioè, che lo sforamento dei famigerati parametri europei rappresenti di per sé il metro di una svolta sociale. Lo può credere l'ex viceministro Fassina, oggi travolto dalla passione patriottica, che saluta il nuovo Def coma l'alba di una nuova storia. Ma i padroni, che sanno far di conto, ragionano in termini diversi: se lo sforamento del deficit al 2,4% per tre anni consecutivi consente di finanziare una nuova messe di regalie per i profitti, perché dovremmo impiccarci ai decimali? Peraltro i governi Renzi, Letta, Gentiloni, hanno fatto deficit superiori all'attuale deficit "rivoluzionario" per riempire il portafoglio di banche e imprese e dispensare mance elettorali, come quella degli 80 euro. Nel famigerato decennio 1997-2006 il deficit medio fu del 3,2, eppure mai come in quel decennio fu a tutto vantaggio dei padroni.


IL GOVERNO E IL PROPRIO BLOCCO SOCIALE 

Si obietterà: “Ma oggi è diverso, perché la nuova finanziaria è finalmente del popolo. Come non vedere che il nuovo deficit serve a finanziare reddito di cittadinanza e la revisione della legge Fornero?”.

Diceva il vecchio Cartesio che una falsità è una verità incompleta. Certo il nuovo governo giallo-verde deve le proprie fortune di consenso, e dunque la propria forza politica, alle promesse sociali avanzate. Non vuole e non può ammainare le proprie bandiere se non al prezzo di suicidarsi. Ma questa è solo una faccia della verità. L'altra faccia è che lo stesso governo deve e vuole amministrare le leggi del capitale finanziario, che è e resta la potenza sociale dominante. Deve dunque garantire i profitti d'impresa, tutelare la competitività del capitalismo italiano sul mercato internazionale, difendere gli interessi del grande capitale; e ciò oggi significa ovunque non solo colpire le ragioni del lavoro (precarizzazione, disarticolazione dei contratti nazionali...) ma riservare al padronato una quota ingente delle risorse pubbliche (detassazione, decontribuzione, incentivi).

Qui sta allora la ragione materiale dello sforamento triennale del deficit al 2,4%: provare a tenere insieme le elargizioni generose al capitale con una mancia di elemosine sociali: difendere i padroni col consenso delle loro vittime. È il senso dell'intera operazione giallo-verde.


UN'IMPOSSIBILE QUADRATURA DEL CERCHIO 

Riusciranno nell'ardita impresa?
La vera domanda è per quanto tempo riusciranno a governare le contraddizioni interne al proprio (composito) blocco sociale. Capitalismo dei distretti e disoccupati del Mezzogiorno, pressioni nordiste e suggestioni populiste, esigenze elettorali e mercato finanziario. La legge di stabilità sarà al riguardo un primo banco di prova, al di là della pura cornice del Def.

Non volendo tassare il grande capitale, ma anzi promettendogli la più grande detassazione del dopoguerra nel corso di questa legislatura; non volendo combattere l'evasione fiscale, ed anzi annunciando nuovi e più estesi condoni, il governo giallo-verde può finanziare le proprie bandiere elettorali - reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero - solo in due modi: facendo più deficit e tagliando le spese. Non esiste una terza possibilità.

L'ampliamento del deficit non è indolore, tanto più nel momento in cui lo sforamento si combina col terzo debito pubblico del mondo, e tanto più nel momento in cui il debito pubblico italiano è in prevalenza nella pancia delle banche tricolori. Lo vediamo in questi giorni. Una parte dei fondi esteri vende i titoli italiani. I grandi creditori tengono i titoli o rinnovano il loro acquisto solo in cambio di rendimenti maggiori, nella classica logica degli strozzini. Se i rendimenti salgono si produce una contraddizione: le banche e assicurazioni, innanzitutto italiane, che ne detengono la gran parte incassano più soldi grazie alla crescita degli interessi (il decennale Btp viaggia tra il 3 e il 4%); ma al tempo stesso i titoli si svalutano e dunque si svaluta il capitale bancario che li possiede: da qui la caduta delle azioni bancarie in Borsa. In ogni caso, il governo si candida a pagare maggiori interessi sul debito agli strozzini, al punto che la solita crescita dei rendimenti tra marzo ed oggi ha comportato il costo aggiuntivo di 4-5 miliardi. Chi pagherà i costi del debito accresciuto? I proletari e la popolazione povera. Gli stessi che hanno pagato nell'ultimo decennio. Gli stessi ai quali il nuovo governo promette la felicità e l'abolizione della povertà.

In che forma pagheranno i proletari? Intanto caricandosi sulla schiena l'80% del carico fiscale, e poi attraverso il taglio inevitabile di prestazioni sociali e di servizi. Il Def maschera il dato, ma non può rimuoverlo. Ventisette miliardi saranno presi in deficit, dietro il pagamento degli interessi. Tredici miliardi sono conteggiati come “minori spese”. In termini meno aulici si chiamano tagli. E siccome i tagli che possano assicurare una simile cifra non sono certo l'abolizione dei vitalizi o il taglio del numero dei parlamentari (che servono solo a ingannare i gonzi), ma solo misure antipopolari di ampia gittata, è su queste che prima o poi, in una forma o in un'altra, calerà la scure: sanità, scuola, agevolazioni fiscali per famiglie di lavoratori e classe media. Di certo non pagherà la Difesa, che anzi rinnova missioni militari vecchie (Afghanistan) e nuove (Niger), a tutela dell'interesse dell'imperialismo tricolore e delle sue alleanze internazionali, come quella con Trump. Pagherà la classe operaia.


LE BANDIERE ELETTORALI SCOLORISCONO 

Non a caso le stesse bandiere elettorali, che pur sono rivendicate, stemperano col passare dei giorni i propri colori.

Il reddito di cittadinanza viene limitato alla sola fascia di povertà assoluta e ai soli italiani. I 17 miliardi annunciati si riducono a 10 miliardi, promessi a sei milioni e mezzo di persone, fanno mediamente 128 euro a testa, 4 euro al giorno. Sarebbe questa l'abolizione della povertà? Peraltro sempre più si chiarisce la natura stessa di questo reddito quale strumento di pressione per l'accettazione di lavoro precario, nella logica dei mini jobs tedeschi. Sarebbe questa la svolta promessa alla giovane generazione?

L'abolizione della legge Fornero si è già da tempo trasformata nella “quota cento”. Ma ora la stessa quota 100 sembra scolorire in una nuova formula che prevede il vincolo inaggirabile di 38 anni di contributi. Sicché nei fatti centinaia di migliaia di beneficiari potenziali dovranno attendere quota 101, 102, 103... Per non parlare delle penalizzazioni economiche in termini di riduzione dell'assegno, e del mantenimento del meccanismo di aumento delle aspettative di vita (con l'eccezione dello scatto del 2019). È quello che sta nella camicia di forza dei 7 miliardi previsti. Sarebbe questo il passaporto della “felicità”, come dice Salvini?

Resterà la valvola di sfogo della campagna contro gli immigrati, che non solo pagheranno col taglio delle spese per l'accoglienza, e con l'amputazione dei diritti, ma resteranno più che mai il bersaglio delle campagne Legge e Ordine verso cui dirottare la frustrazione sociale della massa. Del resto cosa c'è di meglio di una campagna a costo zero che assicura consenso a chi la promuove?

Un governo reazionario per elemosine sociali. Così abbiamo caratterizzato da subito il nuovo governo Salvini-Di Maio. A differenza dei tanti a sinistra che l'hanno abbellito o addirittura abbracciato, non dobbiamo cambiare la nostra caratterizzazione. Il “popolo” interclassista oggi plaude al governo. Liberare i proletari dall'influenza piccolo borghese, restituire loro una coscienza indipendente, è il cuore tanto più oggi di una politica rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori