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0 Febbraio 2022
(Prima parte)
Pubblichiamo la prima parte (a breve la seconda) di un testo tratto da un lungo saggio sul falso storico.
Fin dai primi decenni dell'epoca postunitaria, in periodo liberale e fascista l'espansione coloniale è stata considerata il naturale compimento dell'Unità: la retorica delle “terre irredente”, del “posto al sole” della “quarta sponda”o dell'impero che “risorge sui colli fatali di Roma”, “le nostre terre” (riferito all'Istria e alla Dalmazia) stanno a indicare un concetto di “patria” che si estende geograficamente ben oltre i confini naturali della Penisola, e sfocia nel mito della pretesa che le sponde del Mediterraneo meridionale e orientale appartengano di diritto all'Italia: «il passato coloniale italiano – ha notato Nicola Labanca – non è un'appendice esterna e trascurabile della storia italiana» [1].
Da Nizza, Savoia e Corsica, al Quarnaro, a Malta, alla Libia e alla Tunisia, come nella canzone Mediterraneo. Riassunta nelle parole dello stesso capo del fascismo:
«Fa’, o gioventù italiana di tutte le scuole e di tutti i cantieri, che la Patria non manchi al suo radioso avvenire; fa’ che il XX secolo veda Roma, centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per tutte le genti» [2].
Ernesto Bignami, insegnante di filosofia e fervente fascista, in un saggio per le scuole, pubblicato nel 1935 e premiato dal Regime, parla di ingiustizia storica consumata a Versailles, dopo la prima Guerra mondiale, contro i diritti italiani nel Mediterraneo orientale [3] e conclude:
«L' espansione mediterranea, è per 1'Italia necessità di vita: popolo eccezionalmente prolifico e migratorio, e pur nello stesso tempo cosi povero di materie prime e di risorse naturali, ha pure il diritto di vedersi garantito uno sfogo su terre che offrano la duplice possibilità di un ampio popolamento e di ricche materie prime. Terre, naturalmente, appartenenti alla zona mediterranea: perché qui convergono da secoli i massimi interessi della Nazione» [4].
A questa pretesa di diritto naturale si è accompagnata, nel corso dei decenni, il mito del “buon italiano”, suffragato da un'ampia letteratura nazionalpopolare, da Pascoli a De Amicis a Salgari [5] e alimentato in epoca fascista, come nel testo di Renato Micheli della canzone Faccetta nera: l'Italia che andava in Africa non era l'Italia dei carri armati e dell'iprite, ma l'Italia proletaria, che esportava lavoro e civiltà, emancipando gli schiavi africani. A tale scopo, per lungo tempo si è cercato di nascondere o semplicemente negare i massacri, le deportazioni di popolazione, le stragi, quando non i veri e propri genocidi compiuti ai danni delle popolazioni sottomesse: dall'Etiopia alla Libia [6], dalla Grecia [7] all'Albania all’ex Jugoslavia, di cui si dirà in seguito. Dei criminali di guerra italiani di cui si è chiesta l'estradizione, ai termini dell'articolo 45 del Trattato di pace, nessuno è stato estradato nei paesi nei quali si è reso responsabile di questi delitti [8]. L'amnistia Togliatti e i processi successivi, tutti rigorosamente celebrati in Italia e non per i crimini commessi all'estero, posero la pietra tombale sulla possibilità di punire i responsabili delle avventure coloniali e dei crimini di guerra. Ne uscì rafforzata l'idea del “buon italiano” e delle aggressioni coloniali come missioni di civiltà.
Che questo mito sia duro a tramontare, del resto, lo confermano anche vicende recenti. Come ha notato Angelo Del Boca, quando il 10 novembre del 2003 i guerriglieri di Abu Omar al-Kurdi, facendo esplodere un camion imbottito di esplosivo, causarono la morte di 21 militari del contingente italiano a Nassirya, in Italia si ebbe una reazione mista di dolore e stupore, increduli che i nostri soldati in Iraq potessero essere in qualche modo considerati truppe straniere d'occupazione e non un contingente “di pace” [9].
E che la mentalità colonialista non sia un semplice retaggio del passato, lo mostra la vicenda di Indro Montanelli, che, ancora nel 2000 dichiarava, quasi divertito, da maschio coloniale bianco, di aver “comprato” una bambina dodicenne in Etiopia, spiegando questo gesto con la semplice differenza culturale con il paese africano: «lei era un animalino docile; ogni 15 giorni mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri» [10].
Nonostante la ricerca abbia compiuto notevoli progressi rompendo l'egemonia di una memoria consegnata in gran parte ai vecchi funzionari coloniali e rappresentata nella monumentale, quanto incerta dal punto di vista scientifico, opera L'Italia in Africa [11], dedicata essenzialmente a dimostrare i meriti della colonizzazione e a imporre il mito degli “italiani, brava gente”, questa narrazione delle nostre (borghesi, ndr) imprese coloniali sopravvive tutt'oggi. I lavori attinenti a quest'opera sono durati per oltre un trentennio, fino allo scioglimento, nel 1984, del comitato che ne aveva assunto il compito. Tuttavia, che l'idea che sorreggeva quest'opera sia dura a morire è dimostrato dalla pubblicazione, meno di dieci anni fa, del volume di Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano [12], a cura dell'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito, che ripropone l'ideologia di un “colonialismo buono” perfino in quella che è stata la più brutale e spietata operazione coloniale dell'imperialismo italiano, ovvero l'occupazione dell'Etiopia.
Oltre che alle rimozioni e alle amnesie, a inibire la formazione di una coscienza critica del colonialismo italiano, si è anche ricorso a una vera e propria censura su opere cinematografiche come Il leone del deserto [13], che narra le vicende del dirigente della Resistenza libica Umar el-Mukhtar, oppure il documentario di Ken Kirby e Michael Palumbo Fascist Legacy [14]. Si può senz'altro concordare con quanto osserva Patrizia Palumbo, che nel dopoguerra il discorso culturale in Italia non ha attraversato il processo di decolonizzazione che hanno sperimentato altre nazioni, come la Francia, tanto che «Il discorso coloniale è parte integrante della cultura italiana» [15]. Conclude Labanca: «il colonialismo, pur finito nella storia politica, continua (ovviamente trasformandosi e adattandosi ai tempi nuovi) nelle menti degli italiani» [16].
Una mentalità che emerge a ogni contingenza politica che in qualche modo abbia attinenza con il passato coloniale e i presunti interessi dell'Italia all'estero. Ma che è esplosa in tutta la sua potenzialità tra la fine del ventesimo e l'inizio del ventunesimo secolo sulla questione del confine orientale.
Il 14 giugno 1992, poco dopo la dissoluzione della Jugoslavia, l'allora Movimento sociale – Destra nazionale organizzò, sotto la presidenza di Maurizio Gasparri, un convegno dal titolo Dalla fine della Jugoslavia al ritorno dell'Italia in Istria, Fiume e Dalmazia. Il giorno dopo era previsto il riconoscimento delle neonate repubbliche di Slovenia e Croazia da parte del governo italiano.
Nell'intervento iniziale, rivolgendosi ai suoi “camerati”, Gasparri invitava il governo a ”rimettere in discussione” i trattati internazionali (dal “dictat” del Trattato di pace del 1947 a quello di Osimo del 1975), «imposti dalla defunta Jugoslavia che hanno decurtato l'Italia di terre, di storie e di tradizioni» [17]. Al convegno sfilava una vera e propria galleria degli orrori del reducismo, da ex repubblichini di Salò a partecipanti alla guerra di Spagna, a esponenti neofascisti che troveremo in seguito arruolati nei vari governi Berlusconi. Il senso del convegno era che l'Italia sarebbe stata vittima di un'ingiustizia storica consumatasi sul confine orientale: un'ingiustizia alla quale occorre porre termine col ritorno in Istria e Dalmazia. Si tratta di una lettura del trattato di pace che mostra la difficoltà ad accettare la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, ma è anche indicativa della coscienza collettiva di una nazione che non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e le conseguenti atrocità commesse nei territori occupati, in Africa come nei Balcani.
Mentre per ciò che riguarda le ex colonie africane, di cui peraltro in sede di revisione del Trattato di pace si fece fatica a rinunciare (in particolare alla Libia e alla Somalia) non c'è stata nel dopoguerra una massiccia campagna di riacquisizione territoriale, non si sono mai smorzate del tutto le aspirazioni sulle terre di confine con la Jugoslavia, considerate “italiane” a tutte gli effetti. Gli equilibri emersi dal secondo conflitto mondiale e la particolare collocazione della Jugoslavia nel contesto della guerra fredda tuttavia impedirono, fino al crollo della federazione jugoslava, un chiaro programma irredentista da parte italiana. Per l'Italia, nel 1991 sembrò arrivato il momento di riaprire il contenzioso di frontiera con le nuove repubbliche sorte dalla dissoluzione del paese balcanico. Secondo un lungo e argomentato articolo di «Limes», l'allora segretario del Movimento sociale – Destra nazionale, Gianfranco Fini, trattò con la leadership serba sulla spartizione della Croazia tra Italia e Serbia, e la revisione dei confini con la Slovenia [18].
Il convegno del 14 giugno 1992, cui si è accennato poco sopra, è il corollario di questi avvenimenti. In virtù di questi riallineamenti internazionali, il primo governo di centro – destra, nel 1994, si oppose all'ingresso della Slovenia in Europa [19].
Seppure originato dalla contingenza geopolitica degli inizi degli anni Novanta, il revisionismo dei confini orientali era indice di un più profondo fiume carsico che pervadeva la coscienza storica nazionale e riemergeva a ridefinire i riferimenti e i miti della nazione. Come si è accennato, l'integrazione del Movimento sociale nell'area di governo aveva fatto cadere la pregiudiziale antifascista e messo in crisi la retorica dell' “arco costituzionale”; d'altro canto, l'abbandono ad ogni riferimento, seppure formale, al comunismo da parte del Pci e la trasformazione in un partito democratico di centro-sinistra comportava il riconoscimento reciproco dei due ex avversari.
L'incontro a Trieste tra Gianfranco Fini e Luciano Violante, nel 1998, organizzato da Giampaolo Valdevit, importante esponente dell'Istituto per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia – Giulia, stava a suggello della nuova svolta, che verrà formalizzata con la Legge del 30 marzo 2004, approvata dall'intero Parlamento con la sola eccezione di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, istitutiva del “giorno del ricordo”, da celebrare il 10 febbraio, data della firma del trattato di pace del 1947. Era il punto di arrivo di un iter parlamentare durato circa dieci anni (la prima proposta era stata presentata nel 1995 da un gruppo di deputati dell'allora neonata Alleanza nazionale [20]), che aveva visto confrontarsi iniziative parlamentari di vari schieramenti. Nel corso del dibattito, l'unica fonte citata, da parte neofascista, è Luigi Papo di Montona, autore di un Albo d'Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell'ultimo conflitto [21], che elenca circa ventimila vittime “giuliano-dalmate” della seconda Guerra mondiale, in un periodo che va dal 16 ottobre 1940 al 1993 (sic!) [22]. Del resto Luigi Papo stesso dichiarava: «la storia, quando serve alla propaganda, può benignamente essere falsata» [23].
Infine la legge istitutiva recitava:
«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
L'istituzione del “giorno del ricordo” è stato preceduto dalla ripresa del dibattito nazionale sulle vicende di confine tra Italia e Slovenia. Prima di questa decisione del Parlamento, si è tentata la strada della collaborazione tra storici, culminata nel 1993 nella formazione di una Commissione storico culturale italo – slovena, che affrontasse le relazioni storiche tra i due Stati, nel periodo 1880 – 1956 (un'analoga commissione italo – croata non vide mai la luce, benché formalmente istituita).
Dopo sette anni di lavoro, la Commissione di storici giunse alla formulazione di una relazione comune e ne raccomandava una «presentazione pubblica ufficiale della relazione nelle due capitali, possibilmente in sede universitaria, come segno di stabile riconciliazione tra i due popoli; pubblicazione del testo nelle versioni italiana e slovena; • raccolta e pubblicazione degli studi di base; diffusione della relazione nelle scuole secondarie» [24].
Nel licenziare la versione definitiva del rapporto, l'allora ministro degli Esteri sloveno, Dimitrij Rupel dichiarava, con eccessivo ottimismo visti gli sviluppi successivi:
«Il Rapporto sloveno-italiano relativo al passato è un documento destinato al futuro. Nel suo messaggio vi è la consapevolezza che i contrasti avuti nella storia non devono trasformarsi in discordie del presente e oberare le relazioni del futuro. Se saremo in grado di accettare la storia, le nostre relazioni saranno maggiormente improntate alla spontaneità e all'amicizia. La storia non può venire conformata o assoggettata alla volontà degli attuali governanti. Il Rapporto comune italo-sloveno raccoglie dati che a molti non piaceranno. I contenuti del documento in Slovenia non vengono respinti, li accettiamo in quanto relativi a fatti storici» [25].
Da parte slovena venne data la massima diffusione alla relazione comune, mentre in Italia non c'è stata alcuna divulgazione, se non su qualche rivista locale, e nessuna delle misure di pubblicazione venne adottata. La propaganda neoirredentista, divenuta ideologia di Stato, non poteva tollerare una valutazione equilibrata come quella emersa dalla commissione di storici.
Vedremo che, nel corso degli ultimi 15 anni, questa vicenda da complessa viene notevolmente semplificata, dato che agli storici verrà progressivamente impedito di intervenire sulla questione. Con l'istituzione della Legge del ricordo, sono stati anche stanziati fondi per le associazioni degli esuli, oltre che per i familiari delle vittime.
Oltre a un programma apertamente revanscista, l'istituzione del “giorno del ricordo” costituisce un tassello fondamentale nel cambio di paradigma storico dell'Italia del dopoguerra, a causa di un discorso pubblico pervicacemente egemonizzato da una destra, non più in cerca di legittimità ma aggressivamente protesa a imporre una narrazione postfascista della storia d'Italia mediante il ricatto morale, la censura e il controllo sui testi.
Posto a ridosso del 27 gennaio, “giorno della memoria” delle vittime della Shoah, il “giorno del ricordo” suggerisce artatamente un paragone con la tragedia che ha sterminato milioni di esseri umani, tra cui sei milioni di ebrei, oltre a rom, testimoni di Geova, prigionieri di guerra sovietici e oppositori politici, vittime del Nazismo e del Fascismo. Come ha dichiarato, parlando delle “foibe”, Maurizio Gasparri: «sono grandi tragedie, come quelle dell'Olocausto o di Anna Frank» [26].
Allo scopo di questa olocaustizzazione non si fa riferimento ad alcuna storiografia o ricerca sostenuta da fonti e dati certi, ma a una malastoriografia [27] incerta, confusa e contraddittoria, dal citato Luigi Papo a padre Flaminio Rocchi, da Marco Pirina a Giorgio Rustia da Ugo Fabbri a Augusto Sinagra ad Antonio Serena [28], tutti personaggi di estrema destra, in transito tra formazioni fasciste e Lega nord, che hanno prodotto lavori confusi e pervasi da un comune furore ideologico antislavo.
A seconda delle ricostruzioni, gli stessi numeri di “infoibati” passa da alcune centinaia a decine di migliaia se non centinaia di migliaia di vittime. L'allora presidente della Camera Ferdinando Casini, in sede di discussione, parlò di “centinaia di migliaia di italiani” oggetto di persecuzione [29]. L'oscar dell'abominio però spetta a Maurizio Gasparri, uno dei “foibologi” più impegnati nella diffusione di false notizie su questo avvenimento. In un intervento alla trasmissione 3131 di Rai 2, nel febbraio del 2004, l'allora Ministro delle Comunicazioni dichiarò all'intervistatore Pierluigi Diaco che «milioni di italiani furono gettati vivi solo per essere italiani» [30]. Basti ricordare che l'intera popolazione italofona in Istria e Dalmazia non raggiungeva le cinquecentomila unità.
Ai fini di questa ricostruzione che di storico ha ben poco, occorre semplificare, come si diceva prima, le vicende delle terre dell'Alto Adriatico e confinarle nel periodo 1943 – 45. Eppure la loro storia non inizia nel 1943. Senza addentrarci nelle vicende delle origini della formazione delle ideologie nazionali nell'Impero asburgico [31], basti ricordare che negli anni del primo dopoguerra l'irredentismo italiano in Istria e in Dalmazia si salda col mito della “vittoria mutilata” e vede nell'impresa fiumana di D'Annunzio il momento del riscatto nazionale.
Come ha osservato Brunello Mantelli, un ruolo importante fu giocato dall’antislavismo radicale costitutivo del nazionalismo espansionistico italiano di fine Ottocento, uno dei principali filoni confluiti nel movimento interventista che nel 1914 si agitò per spingere l’Italia nella prima guerra mondiale; nei confronti degli slavi, vissuti come ostacolo da quelle correnti irredentistiche che, nel primo scorcio del secolo XX, avevano ormai trasformato l’aspirazione al completamento dell’unità nazionale in slancio imperialistico verso la sponda orientale del mare Adriatico, iniziarono allora a risuonare accenti razzisti; nelle parole scritte immediatamente prima dello scoppio della Grande guerra dall’esponente nazionalista Ruggero Fauro (più noto con lo pseudonimo di Timeus, con cui era solito firmare i suoi scritti) [32]:
«Nell'Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono...» [33].
Questo progetto diventa concreto con l'irrompere del fascismo sulla scena politica; la situazione dei territori dell'Alto Adriatico muta radicalmente. Il 13 luglio 1920 veniva dato alle fiamme dai fascisti agli ordini di Francesco Giunta il Narodni Dom di Trieste, che ospitava l'hotel Balkan e simbolo della presenza slava in città, sede di associazioni culturali serbe, croate e slovene, ma anche ceche. Seguì l'incendio della Casa del popolo di Pola e, nel corso di queste violenze, vennero incendiati 134 edifici, tra cui 100 circoli di cultura, case del popolo, camere del lavoro e cooperative. In seguito alla resistenza operaia dei minatori dell'Arsa, i fascisti incendiarono interi villaggi [34]. Negli anni a seguire, la violenza nazionalista italiana si scatenò non solo contro gli oppositori politici, socialisti, comunisti, liberali e tutto ciò che era in odore di “antifascismo”, ma soprattutto contro sloveni e croati, non risparmiando neppure i preti che si opponevano a quell'orgia di brutalità, tanto da suscitare anche la reazione del papa Benedetto XV che deplorava la ferocia sui sacerdoti [35].
Il 3 marzo 1922 nella città libera di Fiume un colpo di stato fascista con l'attivo sostegno dei carabinieri, dell'esercito e della marina italiani, depose il governo locale, costringendo all'esilio Riccardo Zanella, presidente della giunta autonomista fiumana [36]. Lo stesso capo del fascismo, del resto, dichiarava il 20 settembre 1920 in un discorso al teatro Cescutti di Pola:
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraaneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche» [37].
Non si trattava solo di un piano di espansione geopolitica, ma della definizione di un nuovo concetto di italianità, che univa lingua, nazione e razza. Lo strumento per la sua affermazione era la “bonificazione etnica” degli “allogeni”, come venivano chiamate le popolazioni slave. Riferendosi al programma fascista, Enzo Collotti ha parlato dell'«italianità di frontiera come quintessenza e distillato allo stato della massima purezza dell'italianità» [38].
Gli anni dal 1922 al 1941, data dell'invasione della Slovenia, furono anni terribili per le popolazioni sottomesse al governo di Roma. Il fascismo procedette a tappe forzate a un programma di italianizzazione e fascistizzazione delle istituzioni, mediante la distruzione della cultura e delle istituzioni slave; venne proibito l'uso delle lingue locali, italianizzati i cognomi e, come si è visto, perfino il clero non fu risparmiato da questo processo. L'intero sistema creditizio venne italianizzato, privando in questo modo le cooperative rurali dei fondi necessari al loro sviluppo. Entro il 1928 oltre 300 tra cooperative e istituti finanziari passarono in mani italiane. Mediante questi strumenti economici si provvide a colpire la proprietà slava a favore di una borghesia italiana, agraria e industriale, che fin dall'inizio aveva sostenuto il fascismo, convinta di trarre notevoli benefici economici. Nel 1931, lo stesso Mussolini inviava una circolare ai prefetti nei quali proponeva di espropriare «le proprietà terriere … che si trovano oggi in possesso di allogeni» [39]
[continua...]
NOTE
1 - Nicola Labanca, Introduzione, a Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 14.
2 - Alberto Maria Banti, Sublime madre nostra, cit. p. 154.
3 - Ernesto Bignami, Cos'è il fascismo. Saggio premiato nel decennale della rivoluzione., Milano, 1935, p. 48.
4 - Ibidem.
5 - Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2010, p. 4.
6 - Secondo le stime più accurate, l'occupazione italiana in Libia ha prodotto circa 100.000 vittime, su una popolazione di 800.000 persone; in Etiopia secondo il governo etiope le vittime furono circa 500.000, anche se stime più accurate (Del Boca) ne considerano circa 300.000. Per una bibliografia non esaustiva sul colonialismo italiano, v. di Giorgio Rochat Militari e politici nella preparazione della campagna d'Etiopia. Studio e documenti, FrancoAngeli, Milano, 1971; di Angelo Del Boca, si ricordano soprattutto Gli italiani in Africa orientale, in quattro volumi, che ha conosciuto diverse edizioni presso Laterza e poi Mondadori, ma anche Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma – Bari, 1991 e Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano, 1997 Di Nicola Labanca si ricordano essenzialmente Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, La guerra di Libia, 1911 – 1931, Il Mulino, Bologna, 2011, La guerra d'Etiopia. 1935 – 1941 Il Mulino, Bologna, 2015; di Matteo Dominioni, Lo sfascio dell'impero. Gli italiani in Etiopia 1936 - 1941, Laterza, Roma – Bari, 2008; di Luigi Goglia, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, Laterza, Roma - Bari, 1981; di Calchi – Novati, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma, 2005, ma anche i numerosi articoli e saggi apparsi in riviste e opere collettanee, che è impossibile citare estesamente; Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità dell'avventura coloniale italiana (1911 – 1931), SugarCo, Milano, 1978; tra le varie opere di Romain Rainero, v. essenzialmente Il colonialismo, Le Monnier, Firenze, 1978, Il risveglio dell'Africa nera, Laterza, Bari, 1960, Colonialismo e decolonizzazione nelle relazioni italo – francesi, Società toscana per la storia del Risorgimento, Firenze, 2001; C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973; Renato Mori, Mussolini e la conquista dell'Etiopia, Le Monnier, Firenze, 1978; Gianluigi Rossi, L'Africa italiana verso l'indipendenza, Giuffré, Milano, 1980; L. Ceci, Il papa non deve parlare, Laterza Roma – Bari, 2010; Federico Cresti e Massimiliano Cricco, Storia della Libia contemporanea. Dal dominio ottomano alla morte di Gheddafi, Carocci, Roma, 2012.
7 - Secondo l'Unrra e la Croce rossa internazionale, le vittime dell'occupazione nazifascista della Grecia furono in totale 620.000, v. Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente”, Odradek, Roma, 2008, p. 189.
8 - Gli italiani richiesti dalla Jugoslavia, fin dal febbraio del 1945, erano circa 700. Michael Palumbo, L'olocausto rimosso. I crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani, Rizzoli, Milano, 1992.
9 - Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, cit.; secondo un'inchiesta delle Iene, militari italiani non erano estranei alle torture ai danni di prigionieri iracheni nella base militare di White Horse, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Un-militare-confessa-Gli-italiani-torturavano-a-Nassiriya-de7c29fc-6ede-4cc8-81b1-0b222ff26570.html?refresh_ce (visitato il 23 maggio 2020).
10 - https://it.aleteia.org/2018/08/16/indro-montanelli-elvira-banotti-violenza-bimba-12-anni-africa/ (visitato il 23 maggio 2020); video disponibile in https://www.youtube.com/watch?v=N_2xZWu_Ak8 (visitato il 24 maggio 2020) rispondendo a una lettrice, dalle pagine del «Corriere della sera» del 12 febbraio 2000, Montanelli dichiara anche le sue difficoltà ad «avere un rapporto sessuale», non per remore morali o d'altro tipo, ma perché la ragazza era infibulata (problema risolto dalla madre, per la gioia del tenente italiano) e «puzzava di sego di capra».
11 - Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L'Italia in Africa, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1955 – 1974. Per un'analisi critica di quest'opera, v., tra gli altri, Antonio M. Morone, I custodi della memoria, in «Zapruder», n. 23, settembre – dicembre 2010; sullo stesso numero della rivista, v. anche Chiara Ottaviano, Riprese coloniali e Giulietta Stefani, Eroi e antieroi coloniali, ma anche Giuliano Leoni e Andrea Tappi, Pagine perse, sui manuali scolastici del dopoguerra.
12 - Saini Fasanotti, Federica, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano, Stato maggiore dell'esercito – Ufficio storico, Roma, 2010: dall'introduzione del generale Montanari: “Mancò, lo si è detto, il tempo per raggiungere la pacificazione: ma – riferisce con inconsueta onestà intellettuale l'Autrice – in quello stesso periodo, ancorché breve, l'iniziativa italiana trovò il modo di realizzare in Etiopia … una rete stradale e ferroviaria di base, l'impianto urbano delle maggiori città, villaggi, ospedali, ambulatori, scuole, chiese per tutte le confessioni, la scolarizzazione dei giovani, il tentativo di modernizzare l'agricoltura”.
13 - Prodotto nel 1981, censurato perché ritenuto lesivo dell'onore dell'esercito italiano; alcune proiezioni private vennero addirittura interrotte dalla Digos, come a Trento nel 1987. Si è potuto proiettare liberamente solo dal 2009.
14 - La Rai acquistava i diritti per il filmato nel 1990, ma non l'ha mai mandato in onda. Qualche spezzone è stato trasmesso da La7, soltanto nel 2004. Oggi, una versione di History Channel è visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys (sito visitato il 24 maggio 2020).
15 - Patrizia Palumbo, (ed.), A place in the sun. Africa in Italian Colonial culture from post – unification to the present, University of California Press, Berkeley and Los Angeles – London, 2003, p. 11; sulle nostalgie coloniali si veda anche Angelo Del Boca, Nostalgia delle colonie, Mondadori, 2001; ma anche Nicola Labanca, Perché ritorna la “brava gente, in Angelo Del Boca (a cura) La storia negata, cit., p. 76 ss.
16 - Idem, p. 94.
17 - Qui la registrazione dell'intero convegno: http://www.radioradicale.it/scheda/44063/dalla-fine-della-jugoslavia-al-ritorno-dellitalia-in-istria-fiume-e-dalmazia (visitato il 13 maggio 2020).
18 - Quando Fini sognava Istria e Dalmazia, «Limes» disponibile qui: https://www.limesonline.com/cartaceo/quando-fini-sognava-istria-e-dalmazia?prv=true (visitato il 25 maggio 2020).
19 - Guido Franzinetti, La riscoperta delle foibe, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, Einaudi, Torino, 2009, p. 320.
20 - Qui il testo della proposta del 1995: https://www.camera.it/_dati/leg12/lavori/stampati/pdf/56004.pdf (visitato il 25 maggio 2020).
21 - Luigi Papo di Montona, Albo d'Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell'ultimo conflitto, Unione degli istriani, Udine, 1989.
22 - Citato in Claudia Cernigoi, Operazione “foibe” tra storia e mito, KappaVu, Udine, 2005, p. 84.
23 - Citato in Idem, p. 85
24 - Il testo della relazione ufficiale si può leggere qui: http://aestovest.osservatoriobalcani.org/documenti/Relazione_CommMista_italo-slovena.pdf?fbclid=IwAR3WuqjervYXR8svMKtnZU-vm0TCyMcw2JYY9cavIeNl62vvQCZWj7u_ETo (visitato il 30 maggio).
25 - Ibidem.
26 - La stampa, 18 aprile 2002.
27 - Il termine è di Alessandra Kersevan, La malastoriografia. Esempi nella storia del confine orientale, in Cesp, Revisionismo storico e terre di confine. Atti del corso di aggiornamento. Trieste 13 -14 marzo 2006, KappaVu, Trieste 2006, p. 175 – 195. Esempio di questa malastoriografia è anche l'uso spregiudicato di immagini di atrocità dell'esercito italiano spacciate per azioni di repressione dell'Esercito jugoslavo di liberazione. In una celebre puntata di Porta a porta, il 13 febbraio 2012, la stessa storica ha smentito il conduttore che presentava come azione antiitaliana l'esecuzione di cinque contadini sloveni, nel villagio di Dane avvenuta il 31 luglio 1942. Per i dettagli si rimanda al sito di wumingfoundation: https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/ (visitato il 18 maggio 2020).
28 - Per una attenta disanima dell'infondatezza di questa malastoriografia v., oltre a ibidem, anche Claudia Cernigoi, Operazione 'foibe'... cit., p. 79 ss.; della stessa autrice Foibe, tra storia e propaganda, in Aa. Vv. Foibe. La verità contro il revisionismo storico. Atti del convegno. Sesto San Giovanni, 9 febbraio 2008, KappaVu, Udine 2008; vale la la pena sottolineare che tutti i nomi citati transitano nell'area dell'estrema destra, tra formazioni fasciste e Lega nord.
29 - Per il dibattito parlamentare v. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, KappaVu, Udine, 2014, p. 90 – 94.
30 - http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2004/02/08/Politica/FOIBE-GASPARRI-RICORDARE-TUTTI-GLI-ORRORI-DELLA-STORIA_110100.php (visitato il 26 maggio 2020); persino il giornale ufficiale di Casapound, riprendendo Papo, è costretto ad ammettere che il numero delle vittime accertate nelle foibe carsiche nel periodo 1943 – 45 è di circa un migliaio di persone: https://www.ilprimatonazionale.it/politica/quanti-furono-i-morti-delle-foibe-5300/ (visitato il 26 maggio 2020).
31 - Per le quali vicende si rimanda, anche per la bibliografia all'articolo di Boris Gombač, La patria cercata. La nascita della coscienza nazionale negli slavi del Sud, in «Zapruder», n. 15, gennaio – aprile 2008, p. 23 – 41; per un'analisi più approfondita v. AA. VV., Dall'Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell'area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009; Darko Darovec, Breve storia dell'Istria, Forum, Udine, 2010.
32 - https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 1 giugno 2020).
33 - Citato in Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi. 1941 – 1943, Nutrimenti, Roma, 2008, (epub).
34 - Marina Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 141 – 146.
35 - Mario Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964, p. 107.
36 - Idem, p. 167 – 168.
37 - Riportato nel «Manifesto», 5 febbraio 2014.
38 - Enzo Collotti, Sul razzismo antislavo, in Alberto Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870 – 1945, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 54.
39 - Citato in Stefano Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di “bonifica etnica” al confine nor orientale, I.S.R.Pt editore, Pistoia, 2006 p. 123, al quale si rimanda anche per tutta la documentazione relativa a questa questione.