Alle compagne e ai compagni del Partito della Rifondazione Comunista
Il necessario fronte unico di lotta contro il governo delle destre, che noi proponiamo a tutte le sinistre politiche, sindacali, associative e di movimento, non può e non deve silenziare il confronto interno alla sinistra. Combinare la massima unità d’azione con la massima franchezza nella critica ci pare il metodo più onesto di relazione. Il più leale perché il più sincero.
Partiamo da un principio di realtà. Unione Popolare ha largamente mancato, com’era prevedibile, l’annunciato ritorno in Parlamento. A migliaia di militanti era stato spiegato che nascondere la riconoscibilità di una sinistra classista sotto le vesti di una lista civico-progressista avrebbe favorito un approdo istituzionale; che il sostegno di Mélenchon avrebbe fatto la differenza col passato; che la crisi del M5S aveva liberato un nuovo spazio; che la subalternità di Sinistra Italiana al PD aveva fatto chiarezza. Che questa volta, insomma, era la volta buona per riscattare la sinistra cosiddetta radicale dalla sua marginalità.
I fatti hanno smentito alla radice tutto l’impianto di questa argomentazione. Sinistra Italiana entra in Parlamento, il M5S si rilancia con un profilo “sociale” capitalizzando la crisi del PD, l’effetto Mélenchon dura lo spazio di un discorso e del relativo applauso. Unione Popolare resta al palo, con un voto di poco superiore a quello di Potere al Popolo nel 2018. L’impegno generoso di tante compagne e compagni è esposto al disincanto e all’amarezza.
Ora i fatti hanno bisogno di una spiegazione. Il punto non è il risultato elettorale in quanto tale, se non di riflesso, ma la natura di un'impostazione politica che di elezione in elezione ripropone da quindici anni la stessa minestra. Prima Sinistra Arcobaleno, poi Rivoluzione Civile di Ingroia, poi l’Altra Europa con Tsipras, poi Potere al Popolo, poi La Sinistra con Fratoianni, infine Unione Popolare con De Magistris. Qual è l’elemento comune di queste diverse esperienze? La rimozione della centralità del lavoro salariato nel nome della cittadinanza democratica, a volte giustizialista, a volte progressista, a volte sociale, più spesso un impasto di tutti questi ingredienti. E al tempo stesso l’esibizione ogni volta di una nuova sigla e di una nuova figura con cui incorniciarla: Ingroia, Spinelli, Tsipras, De Magistris, tutti annunciati come i salvatori, tutti immancabilmente smentiti. Senza che si sia mai tracciato un bilancio.
L’elemento che semmai ha distinto Unione Popolare rispetto alle esperienze precedenti sta nell’ancor più marcato carattere personalistico e autocentrato attorno alla figura di De Magistris e alla sua cultura cittadinista e istituzionalista. Assieme al gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, De Magistris ha ricercato sino all’ultimo minuto utile l’accordo col M5S, nonostante venisse da un'intera legislatura di governo antioperaio e antipopolare. Il risultato è stato quello di contribuire a riverniciare come soggetto “di sinistra” un partito borghese, cioè ad avallare l’operazione trasformista di Conte. Il tentativo di correggere la rotta nelle settimane successive, dopo il rifiuto di Conte, non poteva rimontare gli effetti del guasto prodotto, a danno della stessa Unione Popolare. È vero che Potere al Popolo non ha condiviso l’apertura al M5S da parte di De Magistris e del PRC. Ma non ha messo in discussione l’impianto politico-culturale da cui quella proposta veniva: la ricerca di un blocco civico-progressista al posto di una sinistra di classe anticapitalista.
Questa impostazione rivolta alla “cittadinanza”, a scapito della centralità del lavoro salariato, non è isolata in Europa. È stata coltivata da Tsipras quale coperta ideologica della propria ascesa al governo dopo il 2015, quando gestì i memorandum della Troika contro le lavoratrici e i lavoratori greci. È stata assunta come marchio culturale da Podemos, che oggi siede con quattro ministri nel governo dell’imperialismo spagnolo, votando l’aumento delle spese militari e l’allargamento della NATO. È da tempo richiamata da Mélenchon, già ministro di Jospin al tempo dei bombardamenti di Belgrado, che ha costruito la propria France Insoumise attorno a un impasto populista di sinistra, sensibile al tricolore, equivoco sull’immigrazione, indifferente all’autodeterminazione delle colonie francesi d’oltremare. E che oggi, in nome dell’alleanza con il Partito Comunista Francese, i Verdi e la socialdemocrazia francese (NUPES) ha di fatto rimosso la stessa rottura con la NATO. Sono questi i riferimenti internazionali esibiti e rivendicati da De Magistris e Unione Popolare nella speranza (vana) di un beneficio elettorale. Ma cosa hanno a che fare con una prospettiva anticapitalista?
Ciò che ha fatto e fa la differenza in termini di fortune elettorali tra queste sinistre riformiste e la sinistra “radicale” di casa nostra è la diversa relazione con le dinamiche di massa.
Tutte le sinistre riformiste prima richiamate hanno incrociato processi di radicalizzazione. L’ascesa di Syriza fu il sottoprodotto della resistenza sociale prolungata delle lavoratrici e dei lavoratori greci alla rapina del capitale finanziario. Podemos fu innalzato dalla mobilitazione di massa degli indignados nel 2011. La parabola di Mélenchon si è intersecata con grandi mobilitazioni radicali contro Hollande e Macron. Il loro successo elettorale fu sempre un effetto distorto della radicalizzazione sociale. E quando ha portato quelle sinistre al governo, le ha poste contro le lavoratrici e i lavoratori e ne ha innescato la crisi.
In Italia lo stesso film è stato girato negli anni ‘90 e nei primi anni 2000, quando Rifondazione prima raccolse la domanda di rappresentanza e di svolta di ampi settori di massa, e poi la tradì in cambio di ministeri, votando missioni militari (Iraq e Afghanistan), precarizzazione del lavoro (con la terribile controriforma del Pacchetto Treu, votata nel 1997, quando il PRC era “solo” in maggioranza), detassazione dei profitti (7 miliardi di euro di riduzione annua solo per banche ed assicurazioni), etc... Quello fu il punto di rottura e di declino non solo del PRC, ma del movimento operaio italiano. Il salto dell’arretramento della sua coscienza politica, dei suoi livelli di mobilitazione, della sua stessa rappresentanza politica. A tutto vantaggio non solo dei padroni, ma dei peggiori populismi reazionari e della loro penetrazione nell’immaginario collettivo dei salariati. Le percentuali elettorali della sinistra radicale, tutta, sono la registrazione di questa dinamica. La ritirata di Rifondazione nel civismo democratico e progressista, nell’ultimo decennio, non ha fatto che accompagnare e aggravare il processo.
Si può invertire la rotta solo con un cambio drastico. Solo assumendo la classe operaia come riferimento centrale e la prospettiva di rivoluzione socialista come obiettivo strategico. Solo ponendo a tema la ricostruzione del partito della classe lavoratrice attorno ad un programma anticapitalista. Il partito che oggi manca, l’unico di cui le lavoratrici e i lavoratori hanno bisogno. Un partito che in ogni lotta e movimento si batta per unificare il fronte di classe, sviluppare la sua coscienza, ricostruire la fiducia nelle proprie forze, fare della classe operaia la direzione egemone di tutte le lotte di emancipazione e liberazione: ambientaliste, di genere, contro la guerra e gli imperialismi.
Questo cambio drastico di prospettiva è inseparabile da un bilancio. Il bilancio che il gruppo dirigente del PRC si è mostrato incapace di fare. Quando nel 2006 rompemmo col PRC, nel momento stesso della sua compromissione con Prodi, lo facemmo nel nome di una prospettiva strategica alternativa, realmente di classe e comunista. Allo stesso tempo indicammo che la scelta governista avrebbe avuto conseguenze deleterie sul PRC in quanto tale. Le elezioni del 2008 dimostrarono che avevamo avuto ragione anche su questo. Purtroppo per le tante e i tanti militanti colpiti dalla sconfitta, la logica comprensione che l’alternativa che avevamo indicato due anni prima era l’unica corretta fu bloccata assurdamente da una pretesa battaglia di sinistra all’interno del partito guidata da Paolo Ferrero. E così, come in altre drammatiche situazioni nella storia del movimento operaio, tante compagne e compagni in buona fede dimenticarono il passato recente. In questo caso dimenticarono che Paolo Ferrero era stato il solo ministro del PRC nel governo, che aveva votato a favore di tutte le misure antioperaie e militariste, e che non aveva mai, fino al disastro elettorale (dopo la caduta del governo per scelta di Mastella), sollevato la minima obiezione ad una politica di cui con Bertinotti era stato il massimo artefice e su cui non ha mai fatto alcun bilancio critico. Molte e molti di coloro che allora si illusero sulle posizioni di Ferrero sono “tornati a casa”, demoralizzati. Tante e tanti altri hanno retto di fronte a sempre nuove sconfitte. È ora che essi e quei pochi giovani che si sono aggiunti a loro traggano finalmente il bilancio del passato e del presente, e prendano un’altra via. La stessa che gli proponemmo per anni nel PRC e poi con la nostra rottura nel 2006. Gli effetti del crollo previsto del PRC sono ricaduti su tutti, anche sul PCL. Ma la prospettiva anticapitalista, rivoluzionaria, internazionalista è l’unica bussola da cui ripartire. L’unica che può segnare un cammino di coerenza, tanto più in tempi difficili.
Per questo vi proponiamo di costruire insieme il Partito Comunista dei Lavoratori. Un partito che non si è mai subordinato ai partiti borghesi né mai ha dovuto nascondersi in liste civiche.
Un partito comunista, di nome e di fatto.