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Coronavirus: psicosi ed epidemia da recessione

Gennaio 2020, la Cina annuncia al mondo l’insorgenza di infezioni da una nuova specie di virus. Si tratta di una malattia respiratoria contagiosa con sintomi simili a quelli dell’influenza ma che più facilmente può sfociare in polmonite, e che presenta una mortalità più elevata soprattutto nella popolazione anziana.
Il regime cinese, memore della precedente epidemia di SARS dei primi anni 2000 e soprattutto dei danni economici subiti allora, ha preso misure draconiane, anche se probabilmente tardive, di contenimento del contagio, che si basano su un ferreo controllo degli spostamenti della popolazione colpita e più in generale su un ferreo controllo sociale, d’altra parte consono ad un regime totalitario. Instaura cioè un enorme regime di quarantena di massa che coinvolge una popolazione di almeno 60 milioni di persone.

L’annuncio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del rischio probabile di una pandemia mondiale richiama l’attenzione di tutti i sistemi di informazione di massa e di tutti i media mondiali, che titolano a caratteri cubitali sull'evenienza di una catastrofe planetaria.
Si scatenano così l’allarme e la psicosi di massa. In questi casi bisogna al contrario fare affidamento su criteri di attenzione e razionalità. La precauzione deve essere massima di fronte ad una minaccia per la salute pubblica di cui non si conoscono del tutto i contorni. Devono essere prese pertanto le misure necessarie a contenere il contagio. Ma ciò giustifica l’allarmismo e la psicosi di massa?
Oggi nel mondo i media e i siti istituzionali raccomandano la calma, ma è una goccia nel mare. Tutta l’industria informativa, dai giornali alle televisioni al web nelle mani di grandi concentrazioni capitalistiche, soffia sul fuoco della paura. Gli effetti sono drammatici: da una parte si moltiplicano comportamenti che non solo non servono a contrastare la malattia ma che addirittura possono favorire il contagio, come gli ammassi di persone presso i supermercati o i pronto soccorso; dall’altra si favoriscono episodi di discriminazione (nella fattispecie anticinese) quando non di vero e proprio razzismo.
Perché i media avrebbero l’interesse a suscitare questi fenomeni? Il motivo è che si tratta nel complesso di un’industria capitalistica che usa le informazioni per veicolare enormi profitti pubblicitari che nulla hanno a che fare con il diritto democratico dei cittadini ad essere correttamente informati. La paura indotta è un potentissimo veicolo di attenzione di massa.
Per sovrapprezzo, le forze politiche reazionarie populiste, nazionaliste e filoimperialiste, ne approfittano per aumentare lo sciovinismo nazionale e imperialista e per aumentare i consensi nei confronti di politiche razziste e securitarie.

L’allarme è giustificato? A questo proposito è necessario scomporre il problema: occorre distinguere l’allarme sanitario per la popolazione mondiale e il rischio di una nuova crisi recessiva dell’economia mondiale.
Per avere misura della prima delle evenienze, l’allarme sanitario, occorre fare debiti confronti statistici con altre malattie epidemiche e altre evenienze che hanno compromesso negli anni scorsi la salute della popolazione mondiale.
Trattandosi – quella da coronavirus – di una malattia di tipo simil-influenzale, il confronto più diretto è proprio con l’epidemia da influenza. In questo caso i centri epidemiologici mondiali stimano che la normale influenza abbia colpito dai 3 ai 5 milioni di persone in tutto il mondo causandone la morte di un numero compreso tra i 300.000 e 600.000. Il raffronto con gli 80.000 casi di contagio registrati fino ad ora di influenza da coronavirus e i circa 3000 deceduti non ha termini di paragone, anche moltiplicando per tre o quattro volte questi numeri con una stima a spanne che si estenda fino alla fine del 2020.
Eppure l’epidemia mondiale da influenza nel 2019 non si è meritata i titoli cubitali dei giornali o particolari attenzioni da parte dell’OMS.

Altre malattie stanno mietendo più vittime del coronavirus. Nel solo 2018 sono morte quasi 800.000 persone da HIV (AIDS), e questo numero non sta sensibilmente diminuendo dal 2014. È malizioso pensare che poiché la grande maggioranza delle persone che si ammalano e muoiono a causa di questa malattia vivono in Africa, in paesi poveri ed economicamente dipendenti, questa tragedia non riesca ad avere la notorietà che meriterebbe? È malizioso pensare che per questi milioni di persone, di contadini e proletari non sia conveniente assicurare una supporto sanitario troppo costoso per i profitti capitalistici e i governi loro subalterni?
In un disgraziatissima nazione del mondo, lo Yemen, dove sta avvenendo una sporca guerra voluta dal regime teocratico e ultracapitalista dell’Arabia Saudita, di cui non parla quasi nessuno, uno dei peggiori flagelli che colpisce la popolazione e soprattutto i bambini e i più giovani è il colera, che solo nella prima metà del 2019 ha fatto registrare 440.000 casi sospetti di cui 203.000 tra i minori di età inferiore ai 15 anni.

Nel frattempo tutto il sistema mediatico negli ultimi mesi ha completamente trascurato una vera catastrofe annunciata da tempo e ormai molto ravvicinata nel tempo: il cambiamento climatico.
L’intera Europa, e forse tutto l’emisfero settentrionale, sta vivendo il febbraio più caldo da quando si rilevano le temperature medie stagionali. L’inverno meteorologico non c’è stato. Nell'immediato è una catastrofe per l’ecosistema e per le coltivazioni. Tutto ciò dopo che l’estate scorsa quasi un intero continente (l’Australia) ed un intero paese (la California) sono andati letteralmente a fuoco per cause dovute anche e soprattutto al cambiamento climatico, che provoca allo stesso tempo eventi estremi, come lunghissime siccità fuori stagione e terribili alluvioni, da una parte all'altra del mondo.

La causa è nota: è l’attività umana altamente inquinante.
A tal proposito sono molto interessanti i dati raccolti nel rapporto redatto da Greenpeace “Aria tossica: il costo dei combustibili fossili”, dove si stima che ogni anno siano 4 milioni e 500 mila le morti premature dovute all’inquinamento atmosferico derivante dalla combustione di combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas, con un costo approssimato di 2900 miliardi dollari, equivalenti a più del 3% del PIL mondiale. Nella sola Italia queste cifre sono rispettivamente ogni anno 56.000 morti premature e 61 miliardi di dollari. Per inciso, se queste cifre fossero erogate per la prevenzione e le cure sanitarie a livello mondiale, l’epidemia da coronavirus probabilmente sarebbe stata estinta nel giro di pochi giorni. Poiché però in gioco ci sono proprio gli interessi del capitalismo, il suo modo di produzione e l’ordine che esso impone a tutta la società, un esercito di politici, scienziati, intellettuali ed economisti borghesi ci spiega ogni giorno che a questa catastrofe con c’è rimedio e che la dobbiamo sopportare, con buona pace delle innumerevoli vittime proletarie che essa comporta.

In conclusione, anche se il coronavirus può costituire un motivo di comprensibile allarme, non è sicuramente il più importante, tanto da giustificare di per sé tutta questa attenzione mediatica.
Perché allora tanto battage sui media mondiali? Per darne spiegazione bisogna prendere in considerazione l’altro corno del problema: l’annunciata recessione economica mondiale, a partire dalle potenze imperialiste.
Da questo punto di vista, il coronavirus è un capro espiatorio perfetto. Lo scoppio dell’epidemia e il rischio di pandemia mondiale (anche se fuori dalla Cina il numero dei contagi è relativamente molto modesto) spiega i crolli borsistici, che a loro volta spiegano il rallentamento dell’economia mondiale. La borghesia imperialista dietro la bandiera provvidenziale del virus nasconde le proprie responsabilità, e si prepara a far pagare il conto del proprio sfacelo economico al proletariato mondiale, come nel 2008.
In realtà tutti i segnali di una prossima recessione erano già evidenti alla fine del 2019, prima dello scoppio dell’epidemia. La recessione della produzione industriale in Italia, il rallentamento profondo della locomotiva tedesca, il rallentamento della stessa economia cinese, le difficoltà dei commerci mondiali acuite dalla guerra dei dazi tra USA e Cina, erano già in atto prima del coronavirus. È questo che agita i sonni dei grandi capitalisti e degli speculatori di borsa. Ma ora questi signori possono spiegarci che le misure draconiane di controllo sociale e i nuovi sacrifici per le popolazioni povere sono dovuti a una minaccia aliena ed invisibile, e non al loro malgoverno dell’economia e della ricchezza sociale prodotta dalla classe lavoratrice di tutto il mondo.
Inoltre, perché al cinismo borghese non c’è fine, la stessa industria farmaceutica ha lanciato una nuova corsa all'oro: il brevetto del vaccino anticoronavirus che frutterà incassi miliardari al primo che riuscirà a depositarlo.

Il cerchio dunque si chiude: le stesse grandi concentrazioni capitalistiche nelle cui mani è la grande maggioranza della proprietà dei media mondiali spaventano la popolazione mondiale, nascondono le proprie criminali responsabilità e lanciano nuove e micidiali forme di speculazione.
Veniamo al caso italiano, con lo scoppio dell’epidemia in Lombardia e Veneto di questi giorni. Se la situazione non fosse drammatica ci sarebbe da ridere. Fino all'altroieri il governo assicurava che l’Italia, protetta dal un sistema sanitario eccellente, non aveva virus circolante nel proprio territorio, mentre la destra soffiava sul fuoco dei pregiudizi alimentati dalla paura, per chiedere il controllo della popolazione di origine cinese, il sempreverde blocco degli sbarchi dei migranti e addirittura la chiusura di Schengen.
Dopo lo scoppio dell’epidemia, provocata da una trasmissione del virus tutta italiana, sono i lombardi e i veneti in viaggio negli altri paesi europei e addirittura nelle regioni del meridione italiano a subire le discriminazioni che Salvini e Meloni volevano imporre ai cinesi. D’altronde è giusto così: prima gli italiani!

Soprattutto, però, proprio a causa delle difficoltà nel fronteggiare la nuova epidemia, stanno emergendo tutti i problemi della sanità italiana. Carenza nei controlli, esposizione gravissima del personale sanitario al contagio, e le stesse modalità di infezione dei soggetti purtroppo deceduti mostrano le carenze di un sistema sanitario sottoposto ad una trentennale politica di tagli orizzontali in nome dell’austerità e dell’ideologia della sostenibilità economica (sostenibilità di bilancio) della sanità italiana.
Mentre tutti i governi procedevano con massicce defiscalizzazioni dei redditi da impresa, con privatizzazioni a prezzo di costo dei beni pubblici, compresi i servizi sanitari, a favore della rapina capitalista, e con massicci tagli allo stato sociale dovuto allo strangolamento del debito verso le banche usuraie, i capitalisti nostrani e i pirati delle multinazionali si dividevano annualmente dividendi miliardari. In questo contesto era inevitabile che venisse colpita la sicurezza sanitaria della popolazione italiana. Nei soli ultimi dieci anni sono venuti a mancare al Servizio Sanitario Nazionale più di 37 miliardi di euro, il che spiega l’odierna carenza drammatica di medici, di posti letto e perfino dei dispositivi di protezione individuale che sono indispensabili per evitare il contagio di medici, infermieri e operatori sanitari.
Le stesse modalità di infezione dei contagi che hanno colpito le persone purtroppo decedute (in quattro casi su sette si trattava di persone già ricoverate per gravi problemi di salute) testimoniano che si tratta di infezioni intraospedaliere dovute alle carenze igieniche e di sterilità negli ospedali e nei centri di ricovero. Basti dire che in Italia muoiono ogni anno oltre 10.000 persone a causa delle infezioni intraospedaliere. Tantissime altre devono prolungare con sofferenza il proprio ricovero o addirittura restare menomate tutta la vita.

E allora bisogna dire basta! Altro che allarme coronavirus. Il vero flagello per gli italiani e la popolazione povera del mondo, la maggioranza, è il profitto capitalistico. In nome di questo i capitalisti vogliono far pagare la crisi che hanno causato alla popolazione lavoratrice, che produce invece tutta la ricchezza sociale; proprio come la fecero pagare nel 2008.
La classe lavoratrice si deve mobilitare (altro che proibizione degli scioperi fino al 31 marzo!) perché siano cacciati gli imbroglioni del governo così come siano sconfitti gli impostori della destra populista reazionaria, come Salvini, Meloni e Berlusconi, con il loro carico di egoismo nazionalista e razzismo.
Il saldo della crisi questa volta lo devono pagare i padroni e i loro servi al potere, e non le lavoratrici e i lavoratori, gli unici che, assumendo il governo della società, possono risolvere la catastrofe sociale, sanitaria ed ecologica prodotte dal capitalismo.

Rivendichiamo:

- esame clinico e di laboratorio di tutte le persone, le lavoratrici, i lavoratori e il personale medico a rischio di contagio;
- approntamento di nuovi presidi sanitari diffusi capillarmente sul territorio;
- assunzione massiccia di nuovo personale medico, paramedico e amministrativo in campo sanitario;
- investimento straordinario e concentrato nella ricerca pubblica, scientifica e sanitaria;
- requisizione di tutte le strutture sanitarie private per la gestione di questa ed altre emergenze di carattere sanitario;
- completa gratuità delle cure (abolizione di ogni ticket);
- piena copertura salariale dei lavoratori costretti a casa per malattia o per altre misure igienico-sanitarie, a totale carico dei datori di lavoro e non dell’erario pubblico;
- abolizioni delle detrazioni salariali per assenza a causa di malattia;
- abolizione delle visite fiscali nel corso delle emergenze epidemiche;
- istituzione di una patrimoniale straordinaria sulle grandi ricchezze e massiccio aumento fiscale sulle rendite e sulle speculazioni di borsa per finanziare le misure di emergenza sanitaria;
- nazionalizzazione dell’industria farmaceutica, senza indennizzo e sotto il controllo delle lavoratrici e dei lavoratori.
Partito Comunista dei LavoratorI

Un virus ma non solo

Coronavirus: un fattore imprevedibile investe l'economia internazionale, la vita ordinaria di centinaia di milioni di esseri umani, la stessa società italiana. L'immaginario collettivo e il discorso pubblico conoscono per questa via una improvvisa distrazione di segno, un cambio di vocabolario. Sembra che la stessa vita politica sia in qualche modo sospesa, ovunque rimpiazzata dalla emergenza virus. Nel merito fioriscono interpretazioni discordanti, spesso opposte, nella stessa comunità scientifica, tra chi minimizza il fenomeno trattandolo alla stregua di una normale influenza, seppure più perniciosa, e chi invece giunge a paragonarlo alla spagnola del primo '900 (che fece, per inciso, decine di milioni di vittime). Non saremo noi a improvvisare un giudizio clinico, non avendo le competenze scientifiche richieste. Vogliamo invece formulare prime considerazioni e proposte da un punto di vista di classe. Perché è vero che il virus non distingue le classi sociali, ma le risposte che si danno ad esso e le loro ricadute sono tutt'altro che socialmente neutre.

Una prima considerazione riguarda la percezione e rappresentazione pubblica del contagio, delle sue proporzioni, della sua progressività, della sua incidenza mortale.
Al netto delle diverse interpretazioni scientifiche, e della necessaria verifica del suo itinere, parliamo di un fenomeno ancora relativamente circoscritto su scala planetaria. Il tasso di mortalità è in Cina attorno al 3%, e dell'1% fuori della Cina: un tasso sicuramente più alto di una normale influenza ma contenuto. Inoltre le vittime si concentrano nella fascia alta di età, in particolare tra persone molto anziane, già debilitate e/o immunodepresse. Come dire che l'effetto mortale sarà determinato da ritmo e raggio della propagazione del virus più che dalla sua potenza in quanto tale. Vi sono stati e vi sono paesi poveri semicoloniali, lontani dallo sguardo dei media d'occidente, segnati da fenomeni più devastanti relativamente al proprio territorio. È il caso dello Yemen, colpito dal colera, con una altissima mortalità infantile, o dell'Africa subsahariana dove nel solo 2001 l'AIDS fece oltre due milioni di morti. Solo per dare l'ordine delle proporzioni.
Naturalmente non possiamo ad oggi valutare la portata del coronavirus, lo si potrà fare solo a bilancio. Non sappiamo se le sue dimensioni finali saranno simili, o poco superiori, a quelle della Sars del 2003 (700 decessi nel mondo) o dell'Asiatica del 1957 (2 milioni di morti), o peggio ancora della terribile spagnola del 1918-1920. Diciamo che la rappresentazione pubblica del fenomeno è oggi condizionata da due fattori, tra loro intrecciati, non strettamente clinici: la sua ricaduta potenziale sull'economia mondiale, già in fase di ulteriore rallentamento (netto calo della crescita USA, nuova possibile recessione in Giappone, calo della produzione industriale in Germania, Francia, Italia), e il fatto di essersi prodotto in Cina, prima potenza manifatturiera su scala globale, oggi minacciata come mai in precedenza da una regressione marcata del suo tasso di crescita, con effetti moltiplicati sul capitalismo internazionale.

La seconda considerazione attiene ai rimedi. La borghesia non sa bene come fronteggiare l'emergenza. Le stesse classi dominanti che hanno tagliato la spesa sanitaria per pagare il debito pubblico alle banche sono alle prese con gli effetti dell'austerità: dal taglio degli investimenti nella ricerca scientifica, totalmente appaltata all'industria farmaceutica; alla carenza ovunque di personale medico e paramedico oggi in Italia costretto nelle zone interessate dal contagio a turni di lavoro massacranti (oltre le 12 ore giornaliere).
Nulla più del coronavirus rende evidente l'irrazionalità della società borghese. Crescono ovunque i bilanci militari, trainati dalla nuova grande corsa tra potenze imperialiste vecchie e nuove per la spartizione del mondo; cresce a dismisura il parassitismo del capitale finanziario, con migliaia di miliardi investiti dalle aziende nell'acquisto delle proprie azioni, per sostenerne il valore di borsa (mentre arretra la produzione reale e si distruggono i posti di lavoro). In compenso nella sola Italia 9 milioni di persone non riescono ad accedere alle cure sanitarie, o perché non possono affrontarne le spese, o perché debbono aspettare un anno per una visita medica, o perché semplicemente l'ospedale del territorio è stato soppresso. Mentre i lavoratori e le lavoratrici della sanità pubblica si vedono negato persino il rinnovo del contratto, e quelli/e della sanità privata lo aspettano da ben 13 anni.
Oggi questa organizzazione capitalistica preposta alla distruzione ordinaria della sanità è incapace di fronteggiare un'emergenza straordinaria. E per questo ricorre di fatto a misure draconiane di ordine pubblico, sino a vietare ogni forma di manifestazione ben al di là dei territori contagiati. In una corsa panica tra governatori regionali e governo nazionale a cautelarsi da un possibile disastro, mentre le forze più reazionarie inzuppano in pane nel coronavirus per rilanciare pulsioni xenofobe e securitarie.

È necessario fronteggiare l'emergenza con ben altre misure: esame sanitario capillare di tutte le persone che possono essere entrate a contatto col virus; approntamento di nuovi presidi sanitari capaci di gestire sul territorio questo intervento straordinario; assunzione massiccia di nuovo personale medico e paramedico; investimento concentrato nella ricerca pubblica, scientifica e sanitaria; una patrimoniale straordinaria sulle grandi ricchezze per finanziare tali misure; nazionalizzazione dell'industria farmaceutica, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori.

A pagare il conto siano i capitalisti, gli azionisti, i banchieri, non i lavoratori e le lavoratrici!
Partito Comunista dei Lavoratori

Pulp history: a proposito di foibe e infoibatori della verità

Puntualmente ogni anno, attorno al 10 febbraio, eletto dal 2004 “Giorno del ricordo”, si scatena la canea mediatica e istituzionale che da qualche anno ha raggiunto anche i più alti vertici delle istituzioni, come la presidenza della Repubblica, prima con Napolitano e oggi con Mattarella, che per l'occasione ha aggiunto una chiosa contro le “sacche di negazionismo militante”. Anche se non ci è dato conoscere quali, visto che ormai esiste una vasta produzione storiografica che contesta la narrazione unilateralmente falsa e priva di riscontri, mitopoietica di un senso comune fascistoide.
A dispetto di serie ricerche sull'argomento, si vuole affermare una “verità di Stato”, priva di qualsiasi fondamento storico, con la convinzione che “una menzogna ripetuta diventa verità”, soprattutto se ripetuta da pulpiti rispettabili. Qualsiasi ricercatore, che si occupi seriamente della questione, viene tacciato di “negazionismo”: l'ultimo caso, per ora, è rappresentato da Eric Gobetti, oggetto di attacchi da parte dell'organizzazione fascista Aliud e di associazioni di esuli giuliano-dalmati, interessati ad un uso politico delle vicende del confine orientale. La “questione delle foibe” è diventata così uno strumento dell'estrema destra per tentare di costruire un'egemonia culturale a scopi politici. Rincorrendola su questa questione, il centro liberale le ha spianato la strada, e oggi la rincorre sullo stesso terreno. Infatti, solo Rifondazione Comunista si oppose nel 2004 all'istituzione del cosiddetto “giorno del ricordo”. Ma perché il 10 febbraio?


10 FEBBRAIO: UNA DATA REVANSCISTA

Nel 1941 l'Italia, senza neppure una dichiarazione di guerra, insieme con i suoi alleati tedeschi, iniziò l'occupazione della Jugoslavia. La Jugoslavia venne spartita tra Germania, Bulgaria, Ungheria e Italia, alla quale toccarono Montenegro, parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia. Il 3 maggio iniziò la fascistizzazione e l'italianizzazione della zone occupate, che consistette in trasferimenti forzati di popolazioni, ripopolamento con i coloni italiani delle zone così svuotate, eliminazione delle tradizioni e della lingua nazionale, eliminazione delle scuole in lingue slave, forzata italianizzazione di cognomi. A eseguire queste misure è chiamato il generale Emilio Grazioli. La stessa Lubiana, divenuta italiana, fu interamente circondata da filo spinato per la repressione antislava.
Nel 1942-'43 si organizzò la resistenza: il fronte di liberazione slavo univa comunisti, cristiano-sociali e liberali. L’Italia promosse così lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assunse il controllo politico della regione. Centinaia di processi sommari, con decine di condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. È molto difficile un censimento preciso. Tone Ferenc, storico sloveno, ha registrato 1569 esecuzioni capitali; 1376 decessi nei campi di concentramento italiani, dove furono deportate 25 mila persone, pari grosso modo all’8% della popolazione slovena (336 mila abitanti), ma a questo dato minimo va aggiunto un gran numero, nell’ordine delle molte migliaia, di vittime della guerra antipartigiana, che consisteva in rastrellamenti, incendi di villaggi ed esecuzioni sommarie che non risparmiavano donne, vecchi e bambini. Il generale Robotti nel 1942 scriveva alle truppe, lamentandosi che «si ammazza troppo poco», e lo stesso capo del fascismo, in un discorso alle truppe della seconda armata in Dalmazia scriveva: «So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori». Dopo l'8 settembre, scoppiarono insurrezioni contadine in Slovenia e Istria, a carattere sociale, contro l'élite economica, in particolare per la riappropriazione dei campi concessi dal fascismo a nuovi proprietari italiani. Nel tipico stile delle jacqueries vennero incendiati i catasti e distrutti documenti che riconoscevano i privilegi dell'élite coloniale italiana sulla popolazione slava. In quest'occasione circa 400 persone sono state gettate nelle foibe, tra tedeschi, italiani, sloveni e altri.
La seconda ondata di “infoibamenti” avvenne nel maggio del 1945, dopo la liberazione di Trieste da parte dell'Esercito Popolare di Liberazione (EPL) jugoslavo. Nei giorni confusi che seguirono la liberazione di Trieste si verificarono processi sommari, vendette personali, rastrellamenti “privati” che talvolta si conclusero con l'occultamento dei cadaveri nelle foibe del Carso. Ma qui occorre una precisazione; a questi episodi l'EPL jugoslavo tentò di porre un freno, e spesso condannò a pene severissime, talvolta alla pena capitale, chi si rendeva colpevole di questi crimini. Per due fondamentali ragioni storiche: da una parte l'Esercito Popolare era parte integrante degli eserciti alleati, anch'essi presenti in città; in secondo luogo, aveva tutto l'interesse a presentarsi come garante della sicurezza e della pace di Trieste, città di cui cercava l'annessione alla Jugoslavia.

Dunque, se le “foibe” si sono verificate in settembre (1943) e maggio (1945), perché il 10 febbraio è stato scelto come data simbolo?
Il 10 febbraio 1947 venne firmato il trattato di pace che frustrava le aspirazioni italiane sull'Istria e la Dalmazia, oltre che su una parte dell'entroterra triestino, passate alla nuova Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Non è un caso che questa data sia stata rispolverata in seguito al crollo dell'URSS e dello smembramento dell'ex Jugoslavia, al quale l'imperialismo italiano ha contribuito in maniera determinante. La data scelta nascondeva le aspirazioni ritrovate dell'imperialismo di casa nostra di ridiventare l'unica potenza adriatica. Ma il senso della scelta della data è anche un altro: il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell'Armata rossa, si celebra il Giorno della memoria. La data del 10 febbraio, posta così vicina, ha due scopi: da una parte far passare in secondo piano la tragedia della Shoah, nella quale circa sei milioni di ebrei, rom, comunisti, omosessuali, oppositori politici e altre minoranze furono sterminate dai nazisti e dai loro alleati fascisti italiani; in secondo luogo alimentare la falsa equipollenza della Shoah e delle foibe, come dichiarava nel 2002 l'allora ministro della cultura Gasparri.

Tuttavia il “giorno del ricordo” ha radici più lontane nel tempo. Subentrato l'esercito tedesco all'esercito italiano in disfatta, nel 1943 i nazisti, insieme con i servizi della Repubblica Sociale Italiana, cominciarono a orchestrare una campagna propagandistica antislava per dimostrare che le foibe fossero state uno strumento della pulizia etnica slavo-comunista ai danni degli italiani. Tutta la retorica odierna sulle “foibe” e la “pulizia etnica” non è altro che una riproposizione dell'opuscolo nazista "Ecco il conto!", diffuso in Istria e a Trieste dopo il 1943. Persino le foto, che accompagnano l'opuscolo, sono le stesse che corredano le varie mostre in giro per l'Italia.
Nell'immediato dopoguerra i servizi segreti collegati alla Decima Mas continuarono ad alimentare presso gli alleati la mitologia anticomunista delle migliaia di morti, innocenti, nelle “foibe”. Ed è questa retorica che viene riproposta ogni 10 febbraio: “negazionismo” è diventata non solo la parola in codice per tentare di mettere a tacere ogni ricerca storica, con l'utilizzare in maniera oscena lo stesso termine che si usa per chi nega la Shoah, ma un vero e proprio appello all'aggressione fisica contro gli studiosi che si oppongono alla menzogna di Stato.
Il metodo dei falsificazionisti, nel '43-'45 come oggi, consiste nel decontestualizzare gli avvenimenti storici, soffermandosi sugli aspetti raccapriccianti, sui morti, gli stupri, condendo il tutto con qualche particolare scabroso, e, se non ci sono, li si inventa.
Si inventano cifre ed episodi, foto e testimonianze. I numeri lievitano, fino a cifre inverosimili, le fonti si ignorano o si creano. Il meccanismo probatorio, tipico di ogni indagine storica, è ignorato. Si mette in moto un rovesciamento metodologico: invece di partire dalle ricerche per giungere a delle conclusioni, si afferma una menzogna che poi la storiografia deve avallare.


L'ABUSO POLITICO DI UNA TRAGEDIA

Significativamente l'attenzione sulla questione delle foibe si è moltiplicata dopo il crollo dell'Unione Sovietica e la disgregazione della Jugoslavia, che in Italia ha avuto come effetto l'autoscioglimento del PCI e l'abbandono di qualsiasi riferimento al comunismo dei suoi eredi, fino alla formazione di un partito dichiaratamente appartenente al centro liberale, come il PD.
Per l'estrema destra, e in particolare gli eredi del MSI, rientrata in pieno nel gioco parlamentare grazie ai governi Berlusconi, è stata l'occasione per tentare di imporre un rovesciamento ideologico nella lettura del dopoguerra. L'istituzione della “giornata del ricordo” nel 2004 ha avuto questo scopo: sostituire i miti fondanti della Repubblica italiana, dal 25 aprile e 2 giugno al 4 novembre e 10 febbraio. In questo modo si tenta di ristabilire la continuità dello Stato dal liberalismo al fascismo alla cosiddetta seconda Repubblica, condannando qualsiasi tentativo di ribellione che provenga dalla classe operaia e dai settori subalterni, individuata nella Resistenza e nella liberazione della Jugoslavia di Tito dal nazifascismo.
Negli anni Duemila appaiono vari sceneggiati e programmi radio che puntano sulla banalizzazione del fascismo, concentrandosi su aspetti personali della vita dei gerarchi, oppure sulla retorica dei “vinti”. Il culmine della delegittimazione della Resistenza è stato raggiunto con i romanzi del giornalista appena scomparso Giampaolo Pansa. La questione quindi è passata dal campo storiografico al campo politico, mediante l'affermazione di una verità accertata e, come si è detto, il linciaggio mediatico degli storici che si sono occupati della questione. Oggi, scomparsa Alleanza Nazionale, con il riposizionamento dell'estrema destra tra Fratelli d'Italia e Lega, con le loro appendici neofasciste, e l'adesione ai miti fondanti patriottici da parte della sinistra post-sovietica, si è realizzato un consenso generalizzato in funzione anticomunista e antislava.
La ricerca dell'egemonia in questo campo ha però anche un'implicazione più direttamente politica: è funzionale alle politiche razziste securitarie, che uniscono l'estrema destra e il centro rappresentato da PD e 5 stelle. In questo senso, l'”antifascismo” del PD appare strumentalmente orientato ai suoi interessi elettorali, e a far dimenticare le politiche antioperaie di questo partito. Ristabilire la verità storica significa anche ristabilire il diritto delle classi subalterne alla resistenza all'oppressione.




Per chi voglia saperne di più:

Circolari del generale Robotti

Dossier sulle foibe e il confine orientale

Sulla falsificazione delle foto
Gino Candreva

A fianco dei lavoratori portuali contro la guerra

Il Collettivo Autonomo dei Portuali di Genova ha promosso per il giorno 17 febbraio un’azione di boicottaggio di una nave saudita che trasporta armi in Medio Oriente e probabilmente in Yemen. È un’azione che dà continuità all'iniziativa analoga intrapresa nel maggio scorso col sostegno della CGIL, che allora scioperò. Il coordinamento genovese delle sinistre di opposizione è impegnato in un sostegno attivo di questa iniziativa e nella sua massima valorizzazione. Così il coordinamento nazionale, che ha espresso il comunicato che qui pubblichiamo.


Il coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione sostiene l'azione di boicottaggio delle navi di guerra intrapresa e proposta dal Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali di Genova, in continuità con l'azione svolta lo scorso maggio. Come sosterrà ogni altra iniziativa di chiaro contrasto alla guerra che abbia la medesima ispirazione di classe.

La battaglia contro la guerra non può limitarsi alle parole, né ai confini. Sono i lavoratori e le lavoratrici che sono oggi costretti a produrre, smerciare, trasportare strumenti di morte contro altri lavoratori ed esseri umani, al solo scopo di ingrassare i profitti di grandi capitalisti, banchieri azionisti. Sono i lavoratori e le lavoratrici che possono bloccare questo traffico.

Lo Stato italiano e i suoi governi parlano di “pace” ma proteggono l'industria di guerra. Il ministero del tesoro partecipa al capitale finanziario dei colossi dell'industria militare, e promuove cartelli e fusioni con l'industria militare di altri paesi (nell'Unione Europea e fuori dell'Unione) in funzione dell'ampliamento dei mercati, della conquista di nuove aree di influenza, di una politica imperialista. Questa politica per sua natura non conosce principi e morale al di fuori del profitto. Traffica con regimi sanguinari (Arabia Saudita), con regimi militari torturatori (Egitto), e naturalmente con la grande potenza USA, prima responsabile delle politiche di guerra e di rapina.

L'attuale governo italiano non si distingue in questo dai suoi predecessori se non forse per una maggiore ipocrisia.

Il lavoratori e le lavoratrici non hanno nulla a che spartire con questa politica e il suo cinismo. A loro si chiede di produrre e smerciare morte solo per arricchire i loro padroni. A loro si chiedono turni di lavoro massacranti, rassegnazione alla precarietà, cancellazione dei diritti a vantaggio di chi li sfrutta. A loro si chiede di contribuire ad uccidere altri lavoratori e lavoratrici in terre lontane, anch'esse vittima dello stesso sistema capitalista che opprime il nostro lavoro.

L'azione intrapresa dal collettivo portuali di Genova è in rotta di collisione con tutto questo. Richiama l'interesse del lavoro contro l'interesse del capitale, al di là di ogni confine di nazione, di etnia, di religione. Offre alla rivendicazione della pace l'unico ancoraggio coerente che merita: quello di classe, quello internazionalista. Non a caso è una iniziativa che si rivolge a tutti i lavoratori. Non a caso è condivisa con i lavoratori portuali di altri paesi e con i loro sindacati.
Auspichiamo e richiediamo, quindi, alle diverse organizzazioni sindacali, a partire dalla CGIL e dal suo sindacato di categoria FILT che già lo fecero in occasione di un precedente attracco della nave Bahri Yanbu nel porto di Genova nel maggio scorso, di proclamare lo sciopero dei lavoratori del porto per il giorno in cui approdasse la nave, il cui arrivo è ad oggi previsto per il prossimo 16 febbraio.

Come coordinamento nazionale sosteniamo dunque il valore di questa azione e lavoreremo ad amplificarne il messaggio e l'esempio, all'interno di una campagna più generale contro la guerra, per il ritiro delle truppe italiane da tutte le missioni, per la rottura della Italia con la NATO, già intrapresa a partire dall'assemblea nazionale del 7 dicembre e sviluppata con la giornata nazionale di mobilitazione del 25 gennaio. Una campagna cui vogliamo dare continuità e su cui lavoreremo a raccogliere la più ampia unità d'azione con tutti i soggetti che condividono questi obiettivi.
Coordinamento unitario nazionale delle sinistre di opposizione

L'assemblea del SI Cobas dell'8 febbraio

Un patto d'azione contro i decreti sicurezza

Un'assemblea di 150 compagni e compagne ha proposto «un patto di unità d'azione» contro i decreti sicurezza e la repressione dello Stato. L'assemblea nazionale promossa da SI Cobas l'8 Febbraio a Roma ha rappresentato un terreno di confronto tra diverse organizzazioni della sinistra di classe attorno alla proposta avanzata da SI Cobas, un'organizzazione che già aveva interloquito con un proprio intervento con l'assemblea nazionale del 7 dicembre, e che per l'8 febbraio ha invitato espressamente il coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione. Un invito importante, naturalmente accolto.

Il compagno Marco Ferrando è intervenuto nel dibattito per portare l'adesione del coordinamento emerso dal 7 dicembre, e del PCL, all'iniziativa proposta da SI Cobas.
L'assemblea nazionale del 7 dicembre ha promosso, tra le diverse campagne, una campagna specifica contro i decreti Minniti-Salvini per la loro cancellazione, una campagna mirata al più largo fronte d'azione unitario, e quindi attenta anche a dialogare coi sentimenti semplicemente democratici dell'opposizione ai decreti (come quello espresso dalle "sardine"). Ma al tempo stesso una campagna che vuole portare in questo fronte un riferimento di classe: contro quegli aspetti antioperai e antisindacali dei decreti – criminalizzazione dei blocchi stradali, delle occupazioni aziendali, dei picchetti di sciopero – su cui tace non a caso l'opposizione liberalprogressista, e su cui invece concentrano la propria attenzione le organizzazioni padronali e le questure. Su questo terreno in particolare, la convergenza con l'azione di denuncia, di controinformazione, di lotta proposta da SI Cobas è per noi naturale e molto positiva.

Importante è legare la campagna d'avanguardia alla prospettiva di ripresa di un'opposizione di classe e di massa contro i padroni, il loro governo, il loro sistema, la sola che può ribaltare i rapporti di forza e strappare risultati sullo stesso terreno democratico. Con questa impostazione, classista e rivoluzionaria, interveniamo e interverremo in ogni fronte di lotta lavorando al suo allargamento e proiezione di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Per un 14 febbraio di lotta!

Gli ultimi giorni sono stati all'insegna del dubbio e dell'incertezza per le decine di migliaia di insegnanti precari. Dinnanzi alla chiusura totale dalla ministra dell'istruzione Lucia Azzolina nei confronti delle richieste minime dei sindacati, come i percorsi abilitanti per gli insegnanti precari e la concessione di palliativi come la batteria dei test per il concorso straordinario riservato ai docenti precari con almeno tre anni di servizio, la risposta delle burocrazie dei sindacati confederali e corporativisti è stata la convocazione di uno sciopero per la giornata del 17 marzo. Uno sciopero parziale, divisivo e tardivo.
Per cercare di mantenere la credibilità ed il potere contrattuale nei confronti di un governo del quale finora sono stati i migliori pretoriani, le burocrazie sindacali non hanno saputo che tirare fuori dal cilindro una giornata di sciopero riservata soltanto ai lavoratori precari della scuola. Una posizione che va contro ogni forma di unità dei lavoratori, assecondando così le logiche di divisione dei lavoratori della scuola che i governi portano avanti da decenni, in un'ottica di progressiva privatizzazione. L'autonomia scolastica e i primi esperimenti di autonomia differenziata in regioni a statuto speciale come il Trentino Alto Adige ne sono l'esempio lampante.
Uno sciopero che non tiene in alcun conto tematiche prioritarie per i lavoratori della scuola, precari e non, come l'autonomia differenziata ed il salario.

I fatti hanno la testa dura, e sui social la scelta del 17 marzo è stata subissata di critiche da centinaia di insegnanti precari, a maggior ragione per il fatto che la ministra Azzolina ha previsto l'uscita dei bandi dei tre concorsi, straordinario, ordinario e primaria/infanzia per i primi di marzo.


CONCORSO O MACELLERIA SOCIALE?

Da fonti vicine al M5S il concorso straordinario per i docenti con tre anni di servizio è stato magnificato come un grande rimedio al precariato. Peccato che sia un concorso per soli 24000 posti, nonostante le cattedre vacanti nella scuola secondaria di primo e secondo grado siano ben 123000. Le tempistiche di questo concorso ci fanno sperare ben poco, in quanto sono previste 80 domande a cui rispondere in soli 80 minuti. Nella valutazione dei titoli, conteranno più i corsi di lingua inglese che gli anni di servizio, umiliando così il lavoro di migliaia di insegnanti.


COORDINAMENTI IN TUTTA ITALIA

In reazione a questo concorso scellerato, ma soprattutto come risposta al problema atavico del precariato nella scuola, sono sorti in tutta Italia dei coordinamenti autoconvocati di lavoratori precari della scuola (Torino, Milano, Pavia, Bologna, Firenze, Cagliari e Sassari) nei quali il nostro partito è intervenuto sin dall’inizio. Questi coordinamenti sono sorti innanzitutto per ribadire il diritto alla stabilizzazione, che le burocrazie confederali negano nonostante vi sia da più di vent'anni una direttiva europea che condanna l'abuso del precariato nel pubblico impiego (1999/70/CE) e che è applicata da decenni regolarmente tranne nel settore dell'istruzione e della ricerca. Dopo un'assemblea molto partecipata il 15 dicembre a Milano e due giornate di lotta unitaria con presìdi in molte città, i coordinamenti hanno deciso di lavorare alla costruzione di una rete unitaria per estendere la lotta al di fuori di ogni strumentalizzazione elettorale e logica corporativistica.


UNO SCIOPERO COSTRUITO DAL BASSO

Durante l'assemblea del 15 dicembre, nella quale il Partito Comunista dei Lavoratori è intervenuto con i suoi militanti, e dov'è intervenuta anche l'area di opposizione in FLC-CGIL "Riconquistiamo tutto", è stata votata la proposta di uno sciopero generale della scuola. Uno sciopero che vede nella sua piattaforma di rivendicazioni non solo la stabilizzazione di tutti i precari della scuola, ma anche il rinnovo del CCNL con salari adeguati alla media europea, la lotta ad ogni progetto di autonomia differenziata e all'alternanza scuola-lavoro, arma del padronato per erodere diritti ai lavoratori e ai giovani. La proposta è stata raccolta da diverse realtà del sindacalismo di base, come la CUB, il SGB, l'ADL Cobas, l'USI-CIT, il SIAL Cobas e i Cobas Scuola Sardegna. Tutte queste realtà stanno lavorando con i coordinamenti per l'organizzazione di cortei e presidi in tutta Italia per la giornata del 14 febbraio.
Non meno importante è stata la posizione assunta dall'area di opposizione in CGIL "Riconquistiamo tutto", che ha solidarizzato con lo sciopero, auspicando la massima partecipazione.
Non possiamo però non notare l'atteggiamento di chiusura assunto nei confronti della lotta dei precari della scuola da parte delle dirigenze dei Cobas Scuola e della USB Scuola, logiche di autocentratura che hanno impedito un allargamento del fronte della lotta al precariato e dimostrato che i microapparati sindacali operano con le stesse modalità delle burocrazie confederali che tanto dicono di avversare.


LE PROPOSTE DEL PCL

Come Partito Comunista dei Lavoratori, per combattere il precariato e contrastare il palese progetto di progressiva privatizzazione della scuola, portato avanti tenacemente dai governi di centrodestra e centrosinistra che si sono succeduti in questi anni, proponiamo:

- la stabilizzazione di tutti gli insegnanti della scuola.
Siamo per un piano di assunzioni che parta dalla trasformazione dell'organico di fatto in organico di diritto e l'ingresso di tutti gli insegnanti con tre anni di servizio in un processo di formazione e stabilizzazione che non sia diviso, a differenza di come hanno sinora fatto i governi, con il risultato che migliaia di insegnanti abilitati sono ancora senza ruolo, basti pensare ai 2000 vincitori del concorso 2016 ed ai 5000 vincitori del concorso 2018, abilitati con le SSIS ed i PAS.

- un grande piano di lavori pubblici per la scuola. È urgente provvedere al risanamento degli oltre 2400 siti scolastici nei quali è stata accertata la presenza di amianto, e alla messa in sicurezza di tutte le scuole i cui plessi non sono a norma di criteri antisismici. Si trovano in questa condizione ben 44.486 scuole pubbliche, su un totale di 50.804 censite.

- no al blocco per i neoassunti, sia esso quinquennale che triennale.
Ogni lavoratore deve avere il diritto di poter lavorare vicino alla propria famiglia. Con ciò condanniamo fermamente il progetto avanzato dal ministro Azzolina di deportare letteralmente, in cambio del ruolo, migliaia di docenti dalle regioni meridionali costringendoli per cinque anni a vivere in altre regioni o province.

- internalizzare tutti gli educatori.
Il settore delle cooperative sociali è una vera giungla dove migliaia di educatori, soprattutto giovani e donne, sono sfruttati con salari minimi. Chiediamo l'assunzione di tutti gli educatori con lo stesso profilo negli enti locali.

- no ad ogni proposta di autonomia differenziata.
L'esempio dei docenti del Trentino Alto Adige è a portata di mano. Alle 18 ore settimanali si sono aggiunte 2 ore in più da prestare eventualmente per supplenze. Inoltre, tutti i docenti altoatesini devono prestare ben 220 ore annue come attività funzionali all'insegnamento, a differenza del resto del paese, in cui si svolgono 40 + 40 ore. In queste 220 ore ricadono consigli di classe, consigli di plesso, collegi docenti, programmazioni settimanali di dipartimento, le ore annuali dei corsi di aggiornamento obbligatorie, le udienze dei genitori. Il tutto in cambio di un aumento lordo di poche centinaia di euro.

Con queste rivendicazioni il Partito Comunista dei Lavoratori è al fianco dei coordinamenti dei precari della scuola, e sta dando il suo contributo affinché il 14 febbraio sia una giornata nazionale di lotta che blocchi ogni scellerato progetto di precarizzazione degli insegnanti e mandi a casa la ministra Azzolina, esponente di punta di un governo nemico dei lavoratori che solo con la lotta potrà essere cacciato senza essere sostituito da un nuovo governo a guida leghista, che sarebbe ugualmente nemico dei lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori

Raccontiamo la storia, raccontiamola tutta

Appello in difesa di Eric Gobetti, del lavoro degli storici e di una memoria civile e onesta

6 Febbraio 2020
Pubblichiamo l'appello in difesa di Eric Gobetti, al quale il PCL aderisce

Non possiamo tacere di fronte alle minacce squadriste mosse dall’organizzazione giovanile “Aliud-Destra identitaria” nei confronti dello storico Eric Gobetti. Inutile nascondersi, perché di squadrismo si tratta. Nei giorni scorsi Aliud ha manifestato l’intenzione di voler impedire a Gobetti di tenere domani (5 febbraio 2020) una conferenza nei locali della Circoscrizione 3 di Torino.
È inaccettabile. A Eric Gobetti va innanzitutto la nostra piena solidarietà di appartenenti al mondo della scuola e della cultura e di cittadine/i preoccupate/i per la deriva che sta prendendo il dibattito pubblico in questo paese.
Secondo i suoi detrattori, Gobetti avrebbe la “colpa” di essere uno storico “revisionista” e “negazionista” delle foibe. Con tutta probabilità coloro che agitano le minacce squadriste – così come gli esponenti del mondo politico istituzionale che vi si accodano – non hanno mai letto una sola pagina delle ricerche di Gobetti. In caso l’avessero fatto, mentono sapendo di mentire.
Dobbiamo dirlo chiaramente: gli studi di Gobetti non negano gli accadimenti della “complessa vicenda del confine orientale” (per usare l’espressione della legge istitutiva del “Giorno del Ricordo”). Non minimizzano i vari fenomeni che vanno sotto il nome di “foibe”, né negano l’esodo della grande maggioranza della popolazione di lingua italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Semplicemente approfondiscono l’intero contesto in cui le evocate vicende del confine orientale (o occidentale, se visto “dall’altra parte”) ebbero luogo, facendo riferimento al dibattito storiografico scientifico. Per questo offrono strumenti utili per comprendere la ratio tutta politica di alcuni paragoni inaccettabili, totalmente infondati sul piano fattuale, come quello tra Auschwitz e Basovizza, effettuato da Matteo Salvini lo scorso anno quando era Ministro degli Interni. Solo conoscendo il contesto storico degli avvenimenti si possono decostruire gli slogan neo-irredentisti, come quel “Viva l’Istria italiana e la Dalmazia italiana”, pronunciato dall’ex presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani e che, sempre nel febbraio 2019, è costato un serio incidente diplomatico con Croazia e Slovenia.
Collocare i fatti che si studiano nel loro contesto è il senso ultimo del mestiere dello storico: chi non lo accetta, oltre a non conoscere i fondamenti della disciplina storica, continua a non volere fare i conti con il passato del nostro paese.
È però bene smascherare una volta per tutte qual è il reale bersaglio dell’universo di cui fa parte Aliud, quell’area composita in cui si trovano nostalgici del fascismo, post-leghisti, sovranisti neo-identitari ed ex-liberali che hanno scoperto la vocazione nazionalista e irredentista. L’obiettivo su cui convergono questi soggetti è la delegittimazione della memoria civile italiana e dell’antifascismo nel suo insieme. Quindici anni di operazioni retoriche slegate dal dibattito storiografico, vittimiste, decontestualizzanti e nazionalisticamente orientate sulle foibe e sull’esodo sono il brodo di coltura che ha permesso che esponenti istituzionali – come nel caso del sindaco di Predappio – ritirassero il sostegno ai viaggi della memoria ad Auschwitz, perché ritenuti “iniziative di parte”.
Indignarsi non basta. Respingere, senza tentennamenti, le minacce verso Gobetti può essere però l’occasione per ripartire, per rovesciare il paradigma in cui è invischiato da anni il dibattito pubblico su questi temi. È necessario raccontare la storia ed è necessario raccontarla tutta, senza tacere i crimini del fascismo italiano, senza edulcorare le responsabilità che il nostro paese ha avuto nell’aggressione alle popolazioni che abitavano la penisola balcanica o nelle guerre coloniali. Dalla “conquista” della Libia e dell’Africa orientale, passando per i bombardamenti sulla Spagna repubblicana, per giungere alla guerra contro i civili nella campagna bellica in Grecia, Russia e Jugoslavia, l’esercito italiano e, soprattutto, fascista si è macchiato di indicibili atrocità, sterminando le popolazioni locali, guidato da una feroce sete imperiale i cui effetti sono ferite aperte ancora oggi. Non si possono inoltre dimenticare le politiche di discriminazione razziale che iniziano, ben prima delle leggi del 1938, proprio nei territori occupati, e le pratiche di italianizzazione forzata nei confronti di tutte le minoranze, ma in particolar modo di quelle residenti su quel “confine orientale” evocato dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo.
Restituire alla verità storica e alla memoria pubblica le pagine più oscure del nostro passato è un dovere a cui non vogliamo sottrarci. Lo facciamo da tempo, ma ci impegneremo a farlo con ancora maggiore convinzione nelle scuole, negli Istituti di ricerca, nelle università, negli spazi pubblici reali e virtuali e ovunque sarà possibile.

4 febbraio 2020


PRIMI FIRMATARI:

Aldo Agosti, storico
Daniela Albano, insegnante e consigliera comunale (Torino)
Marco Albeltaro, storico
Natale Alfonso, insegnante
Annamaria Amateis, archivista
Giovanni Arusa, insegnante
Cristiana Bartolini, insegnante
Anna Badino, storica
Eleonora Belligni, storica
Andrea Benino, insegnante
Olga Bertaina, presidente circolo Arci Rosa Luxemburg (Cuneo)
Luca Bonomo, insegnante
Alessio Bottai, insegnante
Nicoletta Bourbaki, Gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico
Stefano Capello, educatore
Valter Careglio, insegnante
Giovanni Carletti, editor
Marina Cassi, giornalista
Alessandra Celati, insegnante
Caterina Ciccopiedi, storica
Valentina Colombi, storica
Chiara Colombini, storica
Manuel Coser, regista
Giovanni De Luna, storico
Nello Fierro, libraio e consigliere comunale (Cuneo)
Francesco Filippi, storico
Stefano Gallo, storico
Gigi Garelli, direttore Istituto Storico della Resistenza di Cuneo
Carlo Greppi, storico
Andrea Guazzotto, bibliotecario
Rino Lucania, archivista
Chiara Maritato, assegnista di ricerca
Enrico Manera, insegnante
Marco Meotto, insegnante
Leonardo Mineo, archivista
Dario Molino, insegnante
Gippò Mukendi Ngandu, insegnante
Matteo Petracci, dottore di ricerca
Elisabetta Primavera, insegnante
Piero Purich, storico
Christian Raimo, insegnante e assessore Municipio III Roma
Roberto Rinaldi, insegnante
Marco Rizzo, giornalista
Jacopo Rosatelli, insegnante
Alina Rosini, insegnante
Carmen Sanfilippo, insegnante
Alfredo Sasso, storico
Matteo Saudino, insegnante
Danilo Siragusa, storico
Giuseppe Sergi, storico
Catia Sonetti, direttrice Istoreco (Livorno)
Ugo Sturlese, consigliere comunale (Cuneo)
Samanta Terzulli, insegnante
Vincenzo Luca Sorella, insegnante
Wu Ming, scrittori


ULTERIORI ADESIONI:

Alba Aceto, co-operante
Alberto Lacchia
Alberto Rossi, insegnante
Alessandro Matta, direttore Associazione Memoriale Sardo della Shoah, Cagliari
Alessandro Perduca, insegnante
Alessandro Rocca, regista
Alessandro Simoncini, ricercatore e insegnante
Alessio Giaccone, segretario provinciale Prc Cuneo
Ana Marina Lozica, artista
Andrea Aimar
Andrea Alba, insegnante
Andrea Alba, insegnante
Andrea Baravelli, storico (Università di Ferrara)
Andrea Martini, assegnista di ricerca
Andrea Morri
Andrea Rapini, Ricercatore di storia contemporanea, Università di Modena e Reggio Emilia
Angelica Bezziccari
Anita Calcatelli
Anna Angelini, archeologa
Anna Di Gianantonio, storica
Anna Laysa Di Lernia, insegnante
Anna Maria Bruni, attrice autrice e regista
Anna Soresina, insegnante, Modena
Annibale Pitta
Anselmo Pelliconi, insegnante e musicista
Antonio Bertello, lavoratore della ristorazione
Antonio Bertello, lavoratore della ristorazione
Antonio Cosentino, presidente della Sezione A.N.P.I. di Lauria-Valle del Noce
Antonio Lombardo, bibliotecario
Armando Pitassio
Ayoub Moussaid, Youth Worker e Attivista per i diritti umani – Torino
Balkan Crew, blog
Banda POPolare dell'Emilia Rossa, gruppo musicale di operai metalmeccanici di Modena
Laura Lee Downs, Professoressa di storia europea contemporanea, Istituto universitario europeo
Barbara Berruti, storica
Benedetta Tobagi, scrittrice e storica
Bruno Maida, storico
Calogero Iandolino, presidente sezione A.N.P.I. di Venaria Reale (To)
Carla Konta, storica (Università di Rijeka, Croazia)
Carlo Busi per il Gruppo di Storia del movimento Grande come una città di Roma, terzo Municipio
Carlo De Domenico, videomaker
Chiara Carratù, insegnante
Chiara Tirro, insegnante
Cinzia Zanfini, impiegata
Claudio Calleri, ex insegnante
Claudio Proietti, insegnante e segretario ANPI Tivoli
Cosimo Scarinzi, insegnante in pensione
Daniela Braidotti, insegnante in pensione
Daniela Santus
Daniele Gaglianone, regista
Deana Suman, libraia
Diego Acampora, docente e guida di viaggi in ex Jugoslavia
Diego Giachetti, storico, insegnante in pensione
Elena Pirazzoli, storica
Elena Quiri, archeologa
Emiliano Bosi
Carola Cervetti, insegnante
Enrico Da Via' - attivista e cooperante in ex-Jugoslavia
Ezio Locatelli, giornalista, segretario provinciale Prc-Se, ex deputato
Fabio Giomi, ricercatore (CNRS, CETOBaC, Parigi)
Federica Tabbò, responsabile servizi educativi Museo Diffuso e Polo del '900
Francesca Chiarotto
Francesca Druetti, operatrice della didattica museale
Francesca Rolandi
Francesca Scappini, educatrice
Francesca Toso
Francesco Corsi, documentarista
Franco Pauletto, ricercatore
Fulvio Grandinetti direttivo ANED Torino
Gabriella Barattia, insegnante in pensione
Gabriella Gribaudi, storica
Germano Modena, Cuneo per i Beni comuni
Giaime Alonge, docente universitario
Gianmarco Gastone, insegnante
Gianna Zucca, insegnante
Giorgio Monestarolo, insegnante e storico
Giorgio Olmoti, storico dell'arte
Giovanna Morone, insegnante
Giovanni Casini (Genova)
Giovanni Savino, storico
Girolamo De Michele, scrittore e insegnante
Giulia Albanese, storica
Giulia Cartini
Giuseppe Ponsetti, insegnante
Gualtiero Crovesio, educatore
Iara Meloni, storica
Ilenia Argento, insegnante
Ivan Jeličić, storico
Jacopo Perazzoli, storico
Laura Rossi San Marino, ex insegnante, studiosa di storia locale (San Marino)
Leonardo Casalino, storico
Lorena Barale, archivista
Lorena Gallo, insegnante
Lorenzo Dutto
Lorenzo Urbano, dottorando in antropologia, Università “La Sapienza” – Roma
Luca Giacone, insegnante, liceo scientifico, Biella
Luciana Quaranta, insegnante
Luigi Saragnese, saggista, Torino
Luis Cabasés, giornalista
Luisa Lo Duca, storica e bibliotecaria
Manuela Deiana, insegnante
Marco Abram, storico
Marco Ambra, insegnante
Marco Buttino, storico
Marco Magnante, operatore socio sanitario
Marco Melano, avvocato
Marco Reglia
Margherita Angelini, storica e insegnante
Maria Paola Niccoli, archivista
Mariano G. Santaniello, presidente Istituto storico della Resistenza di Alessandria
Mario Capello, editor
Massimo Alboretti
Massimo Alboretti, antifascista (Castiglione della Pescaia)
Matteo Grasso, direttore Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea in provincia di Pistoia
Micaela Veronesi, insegnante
Michele Nani, storico, Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Studi sul Mediterraneo, Napoli
Mihaela Šuman
Mila Orlic, storica (Università di Rijeka, Croazia)
Milovan Pisarri, storico
Mirna Campanella, mediatrice
Nadia Corfini
Nadia Venturini, storica
Nino De Amicis, insegnante
Oreste Veronesi, laureato in scienze storiche
Paola Boccalatte
Paolo Fonzi, storico
Pietro Bellino
Pino Iaria, Insegnante
Rachele Ledda, dottoranda
Sara Doronzo, insegnante
Sara Manusia
Serafino Puccio, insegnante
Silvana Bordonaro, insegnante
Silvia Corino Rovano, archivista
Simone Attilio Bellezza, storico
Simone Borio, Cuneo per i Beni comuni
Simone Ciabattoni Consigliere “Torino in Comune” - Circoscrizione 4
Simonetta Sabaino, libraia
Sonia Doronzo, insegnante
Stefano Battaglia, disoccupato (Pisa)
Stefano Lazzari, insegnante
Umberto Giampaolo
Valentina Rossi, insegnante
Vanni D'Alessio, storico (Università di Napoli)
Vincenzo Tedesco, archivista


ORGANIZZAZIONI:

Circolo Arci Fuoriluogo – Torino
Cobas Scuola Torino
CUB Flaica - Torino
CUB Scuola Università Ricerca
Gruppo consiliare Liberi Uguali Verdi – Piemonte
Gruppo di Storia di “Grande come una città”, Roma, terzo Municipio
Partito della Rifondazione Comunista – Federazione di Cuneo
Partito della Rifondazione Comunista – Federazione di Torino
Potere al Popolo Torino
Sezione ANPI 68 Martiri Grugliasco (To)
Sezione ANPI di Lauria-Valle del Noce (Pt)
Sezione ANPI di Venaria Reale (To)
Sezione ANPI Nizza Lingotto - Torino
Sezione ANPI V Circoscrizione – Torino
Sinistra Anticapitalista – Torino
Sinistra Italiana Piemonte
USB Scuola

Perché Marco Rizzo contrappone il partito al fronte unico?

Una domanda ai militanti del PC

Quando in agosto emerse il governo Conte due, con il coinvolgimento di Sinistra Italiana e la posizione anfibia del PRC, il PCL lanciò la proposta di un coordinamento dell'unità d'azione tra tutte le sinistre di opposizione, per definire insieme campagne comuni dal versante di un'opposizione di classe, nel rispetto dell'autonomia di ogni soggetto.

I successivi sviluppi in direzione dell'assemblea nazionale del 7 dicembre, e poi la nascita del coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione, hanno rappresentato lo sbocco di questa iniziativa, che ha registrato un successo superiore alle attese, in termini di partecipazione e di interesse.

La nostra proposta si indirizzò allora a tutte le sinistre di opposizione, indipendentemente dalle diversità politiche e programmatiche. Perché non si trattava di costruire un partito comune o un blocco elettorale, ma di realizzare una unità d'azione su obiettivi comuni tra soggetti diversi.
Per questo ci rivolgemmo, tra gli altri, anche al PC, con una lettera pubblica e contatti diretti tra dirigenti. Con la consapevolezza della profonda distanza di posizioni, ma anche della presenza reale di quel partito in ambienti giovanili dell'avanguardia.

La risposta di Marco Rizzo fu glaciale. Contrappose alla proposta di unità d'azione una propria manifestazione di partito (quella del 5 ottobre) nel segno di una indisponibilità pregiudiziale ad ogni reale convergenza unitaria.
Ma perché mai una legittima manifestazione di partito doveva contrapporsi all'unità d'azione? Peraltro la preclusione è rimasta immutata anche dopo il 5 ottobre, e nei mesi successivi.

C'è in questa posizione un risvolto autocentrato e settario che vuole presentarsi come tratto radicale, ma che esprime in realtà una pulsione opposta: la volontà di conservazione di un proprio spazio separato con finalità prevalentemente elettorali e di immagine. Come se il partito, invece che strumento rivoluzionario, diventasse il fine di se stesso a beneficio di qualche attenzione mediatica. È una concezione e cultura legittima, ma non ha nulla a che vedere col leninismo.

Per Lenin il partito svolge un ruolo fondamentale e insostituibile, ma in funzione dell'egemonia nel movimento reale, non come corpo separato rispetto ad esso. Una politica di fronte unico, di unità d'azione tra sinistre diverse su obiettivi e campagne comuni, mira ad ampliare l'azione dell'avanguardia della classe e dei movimenti, in funzione di una prospettiva di massa.
Un partito rivoluzionario non ha nulla da perdere dall'avanzamento dell'unità d'azione: semmai allarga in esso il proprio campo di relazioni, di costruzione, di possibile egemonia. Invece contrapporre il partito all'unità d'azione significa rivelare la propria indifferenza all'avanzamento della classe e della sua avanguardia, al di là di ciò che si scrive e si dice. In ultima analisi una indifferenza alla rivoluzione, al di là degli omaggi retorici e rituali che le vengono tributati. Come, del resto, in tanta parte della tradizione dello stalinismo.

Siccome siamo abituati al fatto che se si polemizza con Marco Rizzo scatta la difesa d'ufficio dei suoi fan piuttosto che una replica di merito con argomenti, poniamo pubblicamente una domanda molto semplice: perché il PC ha scelto di star fuori da ogni percorso di unità d'azione?

La risposta per cui il PC è talmente forte da potersi disinteressare dell'unità d'azione con altre sinistre classiste si incontra frequentemente sui social. Ma questa risposta conferma e peggiora il nostro giudizio. Sia perché la politica leninista del fronte unico ha interessato nella storia partiti rivoluzionari mille volte più grandi e rappresentativi del PC. Sia perché oggi la crisi profonda del movimento operaio italiano e la frammentazione delle sue stesse organizzazioni, politiche e sindacali, dovrebbe porre il tema dell'unità d'azione come esigenza elementare, tanto più a fronte della deriva reazionaria in corso. Del resto, se la domanda dell'unità è oggi così presente e diffusa tra militanti comunisti e avanguardie combattive è proprio perché riflette una esigenza obiettiva.

Certo, si può dare a questa domanda unitaria risposte diverse. Le si può dare una risposta frontista (l'alleanza col PD, nell'eterna riproposizione del centrosinistra); le si può dare una risposta elettoralista (facciamo un pateracchio elettorale a sinistra del PD, mischiando progetti diversi e inventandoci un nome). Sono risposte o subalterne o devianti, che non sviluppano la coscienza politica dell'avanguardia ma aggiungono confusione a confusione. E in ogni caso contraddicono l'autonomia del partito comunista.
Ma a quella domanda di unità si può invece dare una risposta corretta: quella dell'unità d'azione nella lotta di classe, nel rispetto dell'autonomia del partito e di ogni soggetto coinvolto. È quella che come PCL abbiamo dato attraverso il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione.

La cosa che invece non si può fare è ignorare quella domanda, oppure disprezzarla celebrando il rito dell'autosufficienza. Era la politica settaria che Lenin criticava quando a praticarla era Amadeo Bordiga alla testa di un PCd'I di quarantamila iscritti. Cosa mai avrebbe detto se a praticarla fosse stato, con tutto il rispetto, un Marco Rizzo?
Partito Comunista dei Lavoratori