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Continuare, radicalizzare, generalizzare la mobilitazione. Per un'iniziativa nazionale unitaria di tutto il sindacalismo di classe

Lo sciopero generale del 16 dicembre non è stato un successo. Le manifestazioni di piazza sono state partecipate, l'adesione allo sciopero molto meno: tra uno e due milioni di lavoratori circa su 18 milioni. Un'adesione alta in una fascia ristretta di grandi aziende del settore metalmeccanico, agroindustriale, di gomma e plastica, della grande distribuzione, ma assai limitata nel gruppo Stellantis e nel gruppo Leonardo, quasi nulla all'Ilva di Taranto, molto bassa o inesistente nella piccola impresa, a macchia di leopardo, ma complessivamente modesta, nel settore dei trasporti e dei servizi. Il confronto con lo sciopero generale precedente del 12 dicembre 2014 non lascia adito a dubbi: il livello di adesione è stato molto inferiore.

Lo scarto non si spiega affatto con il presunto indebolimento strutturale del movimento operaio, secondo le tesi alla moda dei sociologi borghesi o dei burocrati sindacali. Si spiega con le condizioni dello scontro. Nel 2014 era chiara nella percezione di massa sia la materia del contendere (l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) sia l'avversario da battere (il governo Renzi). Non a caso lo sciopero generale fu preceduto da numerose agitazioni nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Lo sciopero servì alla burocrazia per mettere il coperchio sulle fermate spontanee, e salvare la faccia. Ma ebbe un significato riconoscibile a livello di massa.

Lo sciopero generale di questo 16 dicembre non aveva nessuno di questi caratteri. La burocrazia sindacale di CGIL e UIL l'ha promosso in una settimana come pura reazione alla mancata concertazione col governo in carica su un emendamento alla manovra di bilancio. Senza assemblee nei luoghi di lavoro, senza una piattaforma riconoscibile, senza contrapposizione chiara allo stesso governo, ed anzi con il penoso distinguo tra un Draghi buono, disponibile a concedere il contentino di un emendamento simbolico, e «i partiti» che lo appoggiano, sordi invece a questa richiesta. Era difficile che in queste condizioni lo sciopero potesse assumere una funzione trascinante a livello delle masse più larghe.

Sciopero “inutile” dunque? Niente affatto. Lo sciopero e le manifestazioni di piazza hanno rotto il monopolio reazionario no vax sull'opposizione al governo, con l'irruzione sulla scena di un altro soggetto e delle sue ragioni sociali. Inoltre le isteriche reazioni borghesi allo sciopero generale («irresponsabile», «ingeneroso», addirittura «criminale», per la stampa reazionaria) hanno caricato lo sciopero di una valenza obiettiva più radicale di quanto avesse in realtà. Nei fatti lo sciopero ha rotto l'incantesimo della solidarietà nazionale attorno al governo, ha colpito l'intoccabile sacralità di Draghi, ha introdotto una linea di frattura sociale. La contrapposizione attiva della CISL allo sciopero, a difesa del governo e della “responsabilità”, ha agito di fatto nella medesima direzione. Per non parlare della contrapposizione urlata di Confindustria.

Su questa linea di frattura occorre ora intervenire per approfondirla, generalizzarla, motivarla. La burocrazia non ha alcuna intenzione di farlo. Per l'apparato di CGIL e UIL il 16 dicembre ha rappresentato soltanto un segnale di presenza al governo in vista del prossimo incontro e dell'atteso riconoscimento. Per tutto il sindacalismo di classe – interno ed esterno alla confederazione – si apre invece un'autostrada per incalzare pubblicamente le contraddizioni della CGIL, mettere con le spalle al muro la sua burocrazia dirigente, parlare per questa via alle masse più larghe, a chi ha scioperato e a chi non l'ha fatto.

Landini ha dichiarato in piazza, con la sua retorica consumata, che «lo sciopero è solo un inizio»? Bene. Va preso in parola. Tutto il sindacalismo di classe, interno ed esterno alla CGIL, dovrebbe proporre pubblicamente la continuità e lo sviluppo della mobilitazione. Ma attorno ad una piattaforma di lotta riconoscibile, che possa unificare il lavoro salariato, che possa aggregare attorno ad esso l'insieme dei settori oppressi della società. Il blocco dei licenziamenti con l'occupazione delle aziende che licenziano e la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori; la cancellazione delle leggi di precarizzazione del lavoro e la ripartizione tra tutti del lavoro che c'è con la riduzione generale dell'orario di lavoro (30 ore pagate 40); un grande piano di nuovo lavoro in opere di utilità sociale assieme a un raddoppio dell'investimento nella sanità e nell'istruzione, finanziati da una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco e dalla cancellazione del debito pubblico verso le banche. Attorno a queste rivendicazioni è necessario e possibile costruire una mobilitazione vera, unitaria, di massa a carattere prolungato. Un vero sciopero generale capace di motivare non solo il milione che ha scioperato il 16 ma anche i milioni che non l'hanno fatto.

Ma occorre l'assunzione di responsabilità di un'iniziativa unitaria di tutto il sindacalismo di classe, al di là di ogni divisione di bandiera, collocazione, provenienza. L'opposizione interna alla CGIL ha le carte in regola per intraprendere tale iniziativa. Certo, se il 16 dicembre tutto il sindacalismo di classe avesse scioperato con la CGIL, attorno a proprie rivendicazioni, oggi sarebbe più forte nell'incalzare la sua direzione e parlare alla sua base di massa. Così non è stato purtroppo. Ma è meglio tardi che mai.

Il momento del rilancio è ora. Magari partendo dalla legge truffa sulle delocalizzazioni del governo per contrapporle la generalizzazione della scelta di lotta che viene dalla GKN: occupare le aziende che licenziano, rivendicare il loro esproprio sotto controllo operaio, costruire una cassa nazionale di resistenza, come chiedono centinaia di delegati di diversa collocazione sindacale attorno ad un appello nazionale unitario.

Partito Comunista dei Lavoratori