I movimenti di protesta e le loro contraddizioni. Chi sono i veri amici della rivoluzione cubana?
Chi cerca nei complotti esteri le ragioni delle manifestazioni a Cuba confonde piani diversi. L'imperialismo cerca di usare a proprio vantaggio, con spregiudicatezza e cinismo, ogni fatto politico, provando a indirizzarlo per i propri fini. Ci si può aspettare qualcosa di diverso da chi invoca la libertà a Cuba nel mentre la strangola con un embargo criminale nel pieno della pandemia?
Ma i movimenti che hanno attraversato l'isola non sono una fabbricazione a comando della CIA, che fortunatamente non ha questo potere. Nascono da una crisi reale e profonda ed esprimono pulsioni diverse, talvolta opposte tra loro. Non vedere questa realtà complessa significa precludersi la capacità di capire. E precludersi la capacità di capire significa posizionarsi in modo sbagliato, al di là delle migliori intenzioni.
Certo, è più semplice ricalcare schemi consunti, magari opposti, per onorare le proprie tradizioni ideologiche: come quelli che denunciano (sempre) la “controrivoluzione” o applaudono (sempre) la “rivoluzione”, in entrambi i casi pregiudizialmente. Noi preferiamo proporre una chiave di lettura diversa, che cerca di cogliere le contraddizioni di una dinamica in atto, partendo dalla realtà. Non la realtà che vorremmo ma quella che è.
La crisi che investe Cuba è tremenda. Pari a quella che la colpì dopo il crollo del muro di Berlino, la restaurazione capitalistica in URSS e la fine del suo appoggio economico. Il Pil è caduto nell'ultimo anno dell'11%. Il turismo è crollato, e con esso il principale ingresso di valuta straniera. Prodotti cubani di esportazione come il nichel hanno subito una caduta verticale sul mercato mondiale, in connessione con la grande recessione capitalistica. La pandemia dilaga, a fronte di un tasso di vaccinazione obiettivamente molto modesto (15%).
L'embargo imperialista moltiplica i propri effetti sulla condizione popolare. L'inflazione è fuori controllo colpendo i già bassi salari, sia nel settore pubblico che nel settore privato. I beni di prima necessità scarseggiano, il mercato nero si allarga, l'elettricità è razionata. La risultante d'insieme è una pesante caduta delle condizioni di vita, e un aggravamento altrettanto pesante di disuguaglianze sociali già ampie.
Le proteste sociali riflettono questa realtà, più che sufficiente a spiegarle. Il cambio di governo, con il ritiro di Raul Castro e l'avvento di un giovane burocrate senza carisma e connessione sentimentale col popolo – Miguel Díaz-Canel – ha avuto anch'esso probabilmente un ruolo complementare.
Ma la ragione prima dei movimenti è materiale e sociale. La loro composizione va ben a di là del ristretto confine di ambienti intellettuali tradizionalmente dissidenti, spesso legati all'imperialismo. Coinvolge settori importanti di popolazione povera e della gioventù. Il raggio della protesta è stato ben più ampio che nel 1994, quando aveva investito solo L'Avana: ha coinvolto diverse città ed anche piccoli paesi a tutte le latitudini dell'isola. È dagli anni della rivoluzione, senza ombra di dubbio, il principale movimento che abbia attraversato Cuba.
Il movimento contesta il governo e/o le sue politiche, seppur da versanti diversi e con finalità opposte, come vedremo. Questo fatto obiettivo va spiegato. Non dipende unicamente dal ruolo politico centrale del governo cubano, dentro una struttura piramidale dello Stato fortemente verticalizzata, in cui le responsabilità politiche sono tutte concentrate in un'unica struttura di comando, senza democrazia reale per i lavoratori e per le masse. Perché a Cuba in sessant'anni dalla rivoluzione non è mai esistito nulla di nemmeno lontanamente simile alla democrazia sovietica prima dello stalinismo, ma solo elezioni a lista unica, plebisciti con un costante e preordinato 99% di favorevoli e voti sempre unanimi nelle strutture istituzionali.
Questo fatto dipende anche dalle politiche che il governo ha condotto nell'ultimo decennio, e dalle loro conseguenze sociali, dirette e indirette. Innanzitutto le politiche di apertura al capitalismo e all'imperialismo.
Sia chiaro: Cuba è tuttora un'economia fondata su rapporti socialisti di proprietà, grazie alla grande rivoluzione del 1959-1960. Grazie a questi rapporti di proprietà ha garantito per lungo tempo vantaggi sociali alla popolazione povera senza paragoni col resto dell'America Latina, e non solo. Chi oggi vede a Cuba un paese (già) capitalista ignora la permanenza di una prevalente economia di piano, del monopolio prevalente del commercio estero, della proprietà statale delle banche e dei principali mezzi di produzione. Ma possiamo limitarci a registrare questa realtà senza vedere i processi di trasformazione che la stanno minando, e di cui il governo cubano è massimo responsabile?
L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi le misure di liberalizzazione controllata dell'economia cubana in direzione del mercato capitalista. Non parliamo della progressiva legittimazione della piccola proprietà (i cuentopropistas) nel campo del piccolo commercio e delle professioni liberali, misure per molti aspetti inevitabili in una economia isolata e assediata. Parliamo di altro: lo sviluppo delle imprese miste pubblico-private; gli oltre cento contratti stipulati con grandi imprese capitaliste nel campo delle importazioni ed esportazioni, con il relativo indebolimento del controllo pubblico sul commercio estero; l'allargamento dell'autonomia delle imprese statali a scapito del piano; una riforma dell'ordinamento monetario con tassi di cambio diversi tra settore pubblico e privato, in funzione del rafforzamento delle esportazioni, ma pagando il prezzo di una inflazione interna crescente; il taglio delle spese pubbliche per i servizi sociali e la ricerca scientifica, a vantaggio degli investimenti immobiliari nel turismo; la riduzione drastica dei sussidi sociali alla popolazione povera; una politica salariale fondata sugli incentivi in base alla capacità di esportazione delle aziende statali (l'azienda che più esporta paga salari migliori), con disuguaglianze crescenti tra i lavoratori all'interno stesso del settore pubblico. Una modifica del Codice del lavoro (una sorta di Statuto dei lavoratori) che allunga l'orario a nove ore nel settore pubblico, e sino a dodici nel settore privato.
L'insieme di queste politiche non ha spostato di un grammo l'ostilità dell'imperialismo verso Cuba. In compenso ha prodotto un disastro: da un lato ha rafforzato il peso materiale degli interessi capitalistici e restaurazionisti nell'economia cubana; dall'altro ha indebolito progressivamente la stessa riconoscibilità della rivoluzione agli occhi della giovane generazione. Nell'un caso e nell'altro a tutto vantaggio dell'imperialismo, il peggior nemico di Cuba.
La difesa della rivoluzione cubana contro la restaurazione capitalista non è per noi in discussione. Ma la restaurazione ha più facce e canali di sviluppo.
Ha la faccia impresentabile dell'imperialismo USA, della feccia di Miami, degli eredi dei vecchi padroni espropriati dalla rivoluzione che sognano di riprendere le loro “legittime” proprietà, e che dunque puntano al rovesciamento del regime.
Ma ha anche il volto di quella burocrazia di regime che nel nuovo quadro mondiale vede inevitabile una restaurazione capitalista, e perciò stesso la vuole controllare e dirigere per non perdere il proprio potere politico. È il modello cinese, o se vogliamo vietnamita, quello per cui la burocrazia si trasforma progressivamente in nuova classe proprietaria attraverso un processo graduale gestito dall'alto. Del (falso) socialismo restano le bandiere e “il partito”, comodo bersaglio delle propagande anticomuniste. Ma dietro la facciata di un potere stalinista immutato ha trionfato in realtà la controrivoluzione borghese, con la relativa distruzione di tutte le conquiste delle rivoluzioni.
Allora difendere la rivoluzione cubana non è solo contrapporsi agli USA e al loro embargo criminale. È anche opporsi a una burocrazia che antepone i propri interessi e aspirazioni sociali agli interessi dei lavoratori e della rivoluzione.
I diversi interessi presenti nella società cubana si sono affacciati nelle proteste popolari con tutto il carico delle loro contraddizioni. Nei movimenti di questi giorni a Cuba c'è di tutto, ma proprio di tutto.
C'è un settore di popolo (non maggioritario, pare) che grida “Patria y vida” in funzione apertamente anticomunista e reazionaria, o che addirittura rivendica un intervento statunitense nell'isola, una seconda Baia dei Porci, questa volta vincente, che consegni Cuba ai suoi padroni di un tempo, oppure a quello strato di piccola e media borghesia cubana che sogna di diventare grande allagando il proprio raggio di affari. “Libertà” in bocca a tanti cuentopropistas è solo la libertà di far profitto, sulla pelle dei lavoratori e della maggioranza della società.
Ma c'è anche un settore di lavoratori, di giovani, di popolazione povera, che protesta per una ragione sociale esattamente opposta. Che vuole recuperare le protezioni sociali smantellate, difendere la giornata di otto ore, contrastare le disuguaglianze crescenti, rivendicare la libertà di organizzazione della classe operaia a partire dai suoi diritti sindacali, mutare la rotta degli investimenti pubblici a favore dei servizi sociali e non del turismo, controllare la produzione e distribuzione dei beni di prima necessità, magari per impedire che i (pochi) negozi della burocrazia dispongano di ogni bene – accessibile a chi paga in dollari – mentre i negozi dei rioni popolari presentano scaffali vuoti.
Lo stesso regime, obtorto collo, è stato costretto a riconoscere nella protesta popolare la presenza di questi “compagni confusi” ma legati alla rivoluzione, come ha voluto definirli. È la misura del fatto che non pochi iscritti del Partito Comunista Cubano sono scesi in strada a protestare, portandovi la richiesta di “un vero socialismo”.
Il regime pratica nei loro confronti la politica del bastone e della carota. Da un lato simula la postura del dialogo, con Díaz-Canel che va in una piazza a parlare coi manifestanti, a uso telecamere. Dall'altro arresta i portavoce del blog Comunistas, esponenti di Joven Cuba, militanti del LGBT, con l'obiettivo di decapitare preventivamente un possibile riferimento alternativo. Ma così arresta gli unici amici veri della rivoluzione cubana, quelli che difendono con le unghie e coi denti le sue conquiste sociali, quelli che realmente lottano contro la restaurazione del capitalismo. È la prova che difendere la rivoluzione cubana vuol dire opporsi alla burocrazia che passo dopo passo la sta liquidando. E che, al contrario, ridursi a fare il verso alla propaganda del regime è il miglior modo di spianare la strada alla reazione. Come tante volte è accaduto nella storia, vedasi il 1989.
Sì, le proteste di questi giorni a Cuba sono confuse, contraddittorie, spurie. È questa una ragione di scandalo? Niente affatto. È anzi la misura del carattere autentico del movimento popolare. Quando il movimento è di popolo, vi si affacciano tutti i volti sociali della massa, i loro compositi interessi, le loro ideologie, le loro domande. Vale per le controrivoluzioni, come quelle che hanno dominato il crollo dell'URSS e dell'Est europeo, riconsegnati ai capitalisti (i vecchi burocrati del giorno prima) con tanto di plauso popolare. Vale anche all'opposto per le rivoluzioni, come quella che in piazza Tienanmen si oppose alla burocrazia cinese con un mare di giovani e di operai che cantavano anche l'Internazionale, e per questo fu schiacciata nel sangue, accelerando il corso della restaurazione. Chi sogna rivoluzioni o controrivoluzioni socialmente e ideologicamente omogenee ha poca familiarità con la storia reale, come insegnava Lenin. Tutto sta nel riconoscere il tratto prevalente di una dinamica, la sua direzione di marcia.
Nel crogiolo della protesta cubana degli ultimi giorni non è (ancora) emerso un tratto dominante né in una direzione, né in un'altra. Né in direzione della controrivoluzione, nonostante l'indubbia presenza di forze controrivoluzionarie, né in direzione della rivoluzione, nonostante la presenza di molti comunisti e socialisti sinceri. Chi vuole imbalsamare anzitempo il processo reale con categorie univoche e rassicuranti si accomodi. Non è il nostro caso.
In compenso sono chiare le parole d'ordine con cui lottare nelle piazze di Cuba per separare rivoluzione e controrivoluzione, senza ambiguità e rimozioni:
No alla repressione. Libertà immediata per i compagni arrestati.
No all'imperialismo e alle sue menzogne. Via l'embargo criminale contro Cuba.
Ripristino delle protezioni sociali cancellate, libertà di organizzazione della classe lavoratrice, pieno riconoscimento dei diritti sindacali e politici del movimento operaio.
Via le aperture al grande capitale privato e decisione e controllo di quelle assolutamente necessarie dal punto di vista economico da parte dei lavoratori stessi. Investimento prioritario nella sanità, a partire dalla vaccinazione.
Controllo operaio sulla produzione e distribuzione dei beni di prima necessità, contro affarismi e speculazioni.
Sviluppo dell'autorganizzazione operaia e popolare (consigli), con i diritti di democrazia operaia per ogni tendenza classista o realmente democratica.
Per un governo operaio e popolare, basato sulla forza e l'organizzazione dei lavoratori e lavoratrici e sul potere dei loro consigli, democraticamente centralizzati a livello nazionale.