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Il nostro 1° Maggio: costruire il partito della rivoluzione

 


Testo del volantino che distribuiremo nelle piazze domani.

30 Aprile 2021

La pandemia che da oltre un anno attraversa il mondo ha messo a nudo la realtà del capitalismo. Tutto ciò che è avvenuto lo chiama in causa. I passaggi di specie (spillover) alla base dell’epidemia sono l’effetto delle deforestazioni. Morti e sofferenze sono stati moltiplicati dalla distruzione dei sistemi sanitari per pagare il debito pubblico alle banche. Il blocco della ricerca scientifica sui coronavirus dopo la fine della Sars (2003) è stato determinato dalla privatizzazione della ricerca, e dal conseguente disimpegno delle case farmaceutiche. Oggi sono i colossi farmaceutici, ingrassati dalle risorse pubbliche, a tenere in pugno la vaccinazione di interi continenti, anche grazie ai contratti segreti stipulati con gli Stati e alla scandalosa proprietà dei brevetti. A sua volta l’esclusione dalla vaccinazione stessa di una parte larga dell’umanità è un fattore di aggravamento del contagio.

La crisi economica mondiale innescata dalla pandemia, più profonda e più estesa della crisi del 2008, si è abbattuta sulla classe operaia come una valanga. Centinaia di milioni di nuovi disoccupati. Incremento dei tassi di sfruttamento. Moltiplicazione del precariato. Legislazioni sociali d’eccezione e abusi padronali dilaganti. Mentre gli Stati borghesi hanno riempito le tasche degli azionisti con nuove elargizioni di risorse pubbliche, e un nuovo massiccio indebitamento pubblico. Un debito che verrà scaricato sui salariati nei prossimi anni con ulteriori misure di austerità e sacrifici.

Non si tratta solamente della miseria sociale. Il capitalismo sta aggredendo la natura come mai era avvenuto in tutta la storia dell’umanità. Gli accordi tra Stati per la riconversione energetica sono costruiti sulla sabbia. Dove domina il profitto, non può regnare il rispetto della natura. I colossi che investono sulle fonti rinnovabili sono gli stessi che continuano a lucrare su petrolio e carbone. I biocarburanti concorrono alla desertificazione di territori immensi con le monocolture invasive impiantate per la loro produzione. Le batterie per l’auto elettrica sospingono il saccheggio di cobalto e litio nel cuore dell’Africa con effetti ambientali devastanti. Il paese al mondo che investe di più nel fotovoltaico è anche il paese più inquinato al mondo, la Cina. Altro che accordi di Kyoto o Parigi, peraltro già irrisi o disdetti! Altro che appelli alla buona coscienza degli individui o dei capi di Stato!

La grande crisi spinge le potenze imperialiste, vecchie e nuove, a disputarsi mercati e zone di influenza. La competizione tra USA e Cina in particolare è la battaglia per l’egemonia sul pianeta nel nuovo secolo. La pandemia l’ha acuita e approfondita. I mari del Pacifico, l’Asia, l’Africa, la stessa America Latina sono il teatro di uno scontro senza risparmio di colpi. Il primato nelle nuove tecnologie è la nuova frontiera di questo scontro. Le guerre commerciali, i protezionismi, i nazionalismi, ne sono effetto e strumento. La grande corsa agli armamenti accompagna la nuova stagione. Saltano i vecchi accordi sugli equilibri nucleari tra USA e Russia. La Cina persegue il pareggiamento militare con gli USA. Il Giappone si riarma. Aumentano i bilanci militari nella stessa Unione Europea. La prospettiva storica di nuovi conflitti sia locali che su vasta scala rientra fra gli scenari possibili.

L’Europa capitalista è stretta nella morsa tra USA e Cina. La competizione globale ha spinto gli imperialismi europei (Germania, Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna) a realizzare una concentrazione dei propri sforzi per partecipare alla contesa mondiale. Il ricorso per la prima volta all’indebitamento continentale (Recovery Plan) è un portato di questa scelta, sullo sfondo della pandemia. Ma il volume delle risorse impiegate è molto inferiore a quello dei poli imperialisti concorrenti, i tempi e processi della vaccinazione sono assai più lenti. Il divario con USA e Cina pertanto si accresce. Mentre proprio la polarizzazione tra USA e Cina acuisce i contrasti tra gli interessi nazionali in Europa. Tra l’interesse tedesco alla relazione economica con la Cina, la spinta atlantista di Draghi quale sponda a Biden, le ambizioni egemoniche della Francia.

I lavoratori e le lavoratrici d’Europa non hanno nulla da spartire con nessuno degli interessi in campo. Né con gli interessi dell’europeismo borghese, né con quelli del nazionalismo reazionario. Il governo di unità nazionale di Mario Draghi in Italia tra liberal borghesi e populisti reazionari dimostra una volta di più che l’unica vera alternativa è tra capitale e lavoro.

“Proletari di tutti i paesi, unitevi!” scriveva Marx nel Manifesto. È una parola d’ordine più attuale che mai. È l’unica parola d’ordine che può sancire l’autonomia dei lavoratori da tutti i loro avversari. È una parola d’ordine rivoluzionaria. Contro l’europeismo borghese, contro i sovranismi nazionalisti, per un’Europa socialista.

Il riformismo è un’illusione senza futuro. Le riforme furono possibili nei trent’anni “gloriosi” del dopoguerra grazie al boom della ricostruzione capitalista e all’esistenza dell’URSS. Quella stagione è morta da tempo e per sempre. L’epoca nuova che attraversa il mondo pone ovunque all’ordine del giorno la distruzione delle vecchie conquiste sociali e l’attacco ai vecchi diritti democratici. Tutto ciò che era stato conquistato viene messo in discussione. L’alternativa di prospettiva storica è quella tra rivoluzione e reazione. O il movimento operaio rovescia il capitalismo, o il capitalismo trascinerà le giovani generazioni verso un futuro di miseria, di crisi ambientali, di guerre.

È falso che la classe operaia non esiste più o non può più lottare. I salariati non sono mai stati così numerosi al mondo. È vero, si trovano da tempo sotto i colpi del capitalismo e della sua crisi. Soprattutto in Europa hanno subito rovesci e sconfitte. Ma il conflitto sociale segna diverse parti del mondo, dalle lotte economiche degli operai cinesi allo sciopero di 200 milioni di operai in India, sino alla grande mobilitazione dei giovani lavoratori americani e al loro nuovo interesse per le idee del socialismo. Nella stessa Europa, dove maggiore è la ritirata, molta brace cova sotto la cenere. Intanto il grande movimento delle donne su scala planetaria, il risveglio della giovane generazione contro l’inquinamento e le responsabilità del profitto, indicano gli alleati possibili della classe lavoratrice e di un progetto di rivoluzione.

Ciò che è spaventosamente arretrato non è la forza sociale ma la consapevolezza politica. Vi hanno contribuito in modo determinante le vecchie direzioni riformiste politiche e sindacali del movimento operaio. Prima lo stalinismo e la socialdemocrazia, che hanno distrutto il patrimonio rivoluzionario di un secolo fa. Poi il coinvolgimento delle direzioni riformiste nelle politiche di austerità degli ultimi decenni, dal sostegno ai Prodi alla capitolazione di Tsipras. Ciò che ha prodotto non solo l’arretramento delle condizioni di vita e di lavoro, ma la retrocessione ulteriore della coscienza di classe, e per questa via il suo disarmo di fronte alle suggestioni populiste e reazionarie.

Ricostruire una coscienza classista e rivoluzionaria è oggi il compito dell’avanguardia, in Italia, in Europa, nel mondo. È un lavoro difficile e controcorrente, ma è l’unica via.

È possibile condurlo se tutti coloro che condividono questo progetto unificano le proprie energie in una organizzazione, in un partito rivoluzionario d’avanguardia che in ogni lotta e in ogni movimento porti la coscienza e il programma della rivoluzione sociale.

Un partito organizzato su scala nazionale e internazionale.

La costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) e la sua lotta per la rifondazione della internazionale rivoluzionaria vanno ostinatamente in questa direzione. Unisciti a noi!

Partito Comunista dei Lavoratori

La lingua batte dove il dente duole

 


Prodi e Acerbo in singolar tenzone

29 Aprile 2021

Breve storia vera del PRC di governo, contro le storie riscritte a proprio uso e consumo

Un passaggio polemico di questi giorni tra Romano Prodi e Maurizio Acerbo getta un fascio di luce su vicende passate, ma anche sul presente e sul futuro (1).

L'episodio è noto. Romano Prodi ha accusato Salvini di essersi «bertinottizzato», cioè di aver assunto un ruolo di lotta e di governo simile a quello usato dal Partito della Rifondazione Comunista tra il 1996 e il 1998 verso il suo esecutivo. Bertinotti risponde attraverso un'intervista al Fatto Quotidiano dicendo che quella di Prodi è un'ossessione compulsiva nei suoi confronti, e che in ogni caso la vicenda riguarda un'altra era geologica e non è il caso di tornarci. Maurizio Acerbo sente invece il bisogno di intervenire da segretario del PRC in difesa della «storia collettiva di un partito che democraticamente fece una scelta di coerenza andando controcorrente e pagando un prezzo enorme per aver detto la verità forse troppo in anticipo sui tempi». Il riferimento è alla scelta di ritirare il sostegno al governo Prodi nel 1998. Ma verità e coerenza, come vedremo, c'entrano davvero poco con la politica del PRC.

Acerbo (oggi) dichiara: «Se nel 1998 [...] Rifondazione Comunista decise di non continuare a regalare voti a un governo che privatizzava e precarizzava [...] [fu] perché quel governo portava avanti un impianto programmatico che andava contro gli interessi di lavoratrici e lavoratori, di precari e disoccupati, perché si operava una trasformazione liberista del centrosinistra seguendo i dettami dei trattati europei che Rifondazione ha il merito storico di aver criticato in anticipo. E se si vogliono proprio fare paragoni fu il suo governo ad attuare il blocco navale contro i profughi albanesi in maniera altrettanto più cruenta dei porti chiusi del leader leghista. Vogliamo ricordare l'unico caso di affondamento di un barcone di immigrati ad opera della marina militare?».

Nulla da eccepire sugli esempi. Potremmo aggiungerne altri. Ma disgraziatamente compromettono tutta l'impostazione del ragionamento di Acerbo. La prima domanda che essi richiamano non è “perché il PRC ruppe con Prodi?”, ma "perché il PRC sostenne per più di due anni un governo così antioperaio e persino criminale?".

Vediamo allora di ricostruire la vicenda raccontandola tutta e per bene. Anche e soprattutto a chi non l'ha vissuta in prima persona.

Nel 1996 Rifondazione Comunista realizzò un accordo politico di desistenza con il centrosinistra nelle elezioni politiche, con la prospettiva di appoggiare il suo governo. La sinistra rivoluzionaria all'interno del PRC si oppose frontalmente e da subito a questa scelta, denunciandone la natura e prevedendo il suo sbocco. La nostra opposizione a tale prospettiva era semplice. Il centrosinistra a guida Prodi era nato come punto di riferimento della grande borghesia italiana. Il suo programma era il programma del padronato, a partire dalla rivendicazione dei trattati di Maastricht. Un sostegno del PRC all'eventuale governo Prodi avrebbe significato appoggiare il governo del capitale contro le ragioni del lavoro, e ridurre a carta straccia lo stesso programma formale del partito.

Ma la maggioranza del gruppo dirigente tirò dritto. Fausto Bertinotti e Armando Cossutta, con l'attivo sostegno di Paolo Ferrero e Marco Rizzo, entrarono nella maggioranza di governo e ne condivisero le responsabilità per oltre due anni. Due anni pesantissimi. Furono gli anni di massimo scardinamento delle conquiste e diritti del movimento operaio: introduzione del lavoro interinale (pacchetto Treu); record delle privatizzazioni in Europa; drastici tagli alla spesa sociale con finanziarie di lacrime e sangue pagate da sanità, lavoro, istruzione; istituzione dei campi di detenzione dei migranti con la legge Turco-Napolitano; militarizzazione del contrasto all'immigrazione coi barconi affondati dalla marina militare nello stretto di Otranto, come (oggi) lo stesso Acerbo ricorda. Tutto ciò che negli anni e decenni successivi avrebbe dilagato fu introdotto in Italia dal primo governo Prodi tra il 1996 e il 1998, sulla scia dei governi Amato (1992) e Dini (1995).

La domanda cui Acerbo dovrebbe rispondere è semplice: perché il PRC per due anni ha sostenuto la politica dei padroni contro gli operai e le ragioni degli oppressi che (oggi) lo stesso Acerbo denuncia? Perché per due anni la maggioranza dirigente del partito ebbe il coraggio di presentare come “finanziarie di svolta” le politiche di austerità e dei sacrifici che (oggi) lo stesso Acerbo descrive?

Il segretario di Rifondazione non solo ignora questi interrogativi elementari, ma complica ulteriormente la sua situazione con gli argomenti successivi: «Per due anni [Rifondazione Comunista] diede appoggio esterno con fin troppa generosità unitaria votando persino provvedimenti come il pacchetto Treu che andavano contro i suoi principi. Prodi pretendeva che Rifondazione supinamente accettasse un programma che non era il proprio...».

Ma Rifondazione aveva accettato e votato per due anni un programma che era l'opposto del proprio, cioè il programma del capitalismo italiano. L'aveva difeso pubblicamente coprendo la burocrazia sindacale e la concertazione. L'aveva difeso all'interno del partito attaccando frontalmente l'opposizione interna, colpevole di non valorizzare successi e risultati del PRC.
Persino il pacchetto Treu che (oggi) Acerbo scopre come contrario ai principi del PRC fu presentato allora nella Direzione Nazionale del partito come successo del gruppo dirigente a difesa dei lavoratori. Furono solo sette i voti contrari in Direzione, in uno scontro durissimo in cui la maggioranza dirigente di Bertinotti, Cossutta, Ferrero e Rizzo richiamò il dovere della disciplina.

Ciò che Romano Prodi «pretendeva» era semplicemente che il PRC proseguisse il cammino compiuto in due anni. Invece Bertinotti decise la rottura. Ruppe forse per ragioni di principio, dopo averle calpestate per due anni? No. La finanziaria del 1998 su cui si realizzò la rottura era oltretutto acqua e sapone rispetto a quella di lacrime e sangue che l'aveva preceduta, e che il PRC aveva elogiato.
Perché allora la rottura? Perché Bertinotti si era convinto che l'appoggio a Prodi era ormai logorato e che la maggioranza di governo richiedeva un ricambio. Fu l'operazione “Dalemone”, come allora la stampa borghese la chiamò. Era l'illusione che, caduto Prodi, il PRC avrebbe potuto negoziare un accordo più avanzato con un governo D'Alema, e presentare anzi come un proprio successo la nascita di un governo guidato da un ex dirigente del PCI. Ciò che Bertinotti non aveva calcolato era la scissione interna da destra di Cossutta, Diliberto e Rizzo, che privò il PRC della maggioranza del suo gruppo parlamentare, fondò il Partito dei Comunisti Italiani e gestì in proprio l'appoggio a D'Alema (bombardamenti su Belgrado inclusi), rendendo irrilevanti i numeri parlamentari ormai residuali del PRC, costretto per questa via all'opposizione.

Perché allora scaricare su Prodi la responsabilità della rottura del 1998? Prodi faceva il suo mestiere di uomo del padronato, quale era sempre stato, e sarà in seguito. Di certo altri non avevano fatto per oltre due anni i difensori dei lavoratori, figuriamoci quello di comunisti.

Peraltro il passaggio all'opposizione del PRC, obbligato dal fallimento dell'operazione Dalemone, non significò in alcun modo un cambiamento di rotta strategica del partito, come pensavano Maitan e Turigliatto (che giunse a parlare addirittura di una svolta rivoluzionaria del PRC). Tanto è vero che il PRC tornò al governo pochi anni dopo con un ministro (Ferrero), diversi sottosegretari, e un Presidente della Camera (Bertinotti). E tanto è vero che per altri due anni riprese la politica di lacrime e sangue del capitale, inclusa la famigerata riduzione delle tasse sui profitti (IRES) passata in un solo anno dal 34% al 27% con la finanziaria del 2007. Chi era il Presidente del Consiglio? Romano Prodi, naturalmente. La sola differenza col primo governo Prodi fu che il PRC era ancor più coinvolto, ancor più remissivo verso il centrosinistra di dieci anni prima. Anche perché doveva farsi perdonare da Prodi la rottura del 1998.

Qualche compagno del PRC obietterà: "d'accordo, avrete pure ragione, ma il partito ha fatto autocritica, basta rinfacciarci vecchi errori”.
Ma l'obiezione non coglie il punto. In primo luogo non si tratta di errori, ma del sostegno a governi padronali e alle loro politiche. O qualcuno può pensare che il voto a favore del lavoro interinale o delle missioni militari sia un errore sulla via del socialismo?
In secondo luogo, non c'è alcuna autocritica nelle parole di Acerbo. Al contrario. Attribuire a Prodi la responsabilità della rottura è non solo rimuovere il bilancio politico di una propria scelta (peraltro ripetuta), ma confermare indirettamente il canovaccio strategico di prospettiva che la ispirò.

Lo prova in modo incontestabile la parte conclusiva del testo di Acerbo: «[Prodi] rifiutò di accettare proposte come la riduzione d'orario di lavoro a parità di salario che in altri paesi come la Francia governi progressisti stavano approvando. [...] Biden per avere il sostegno di Sanders e Cortez ha dovuto far proprie una parte delle loro proposte e [...] il Portogallo, primo paese europeo a presentare il proprio Recovery Plan in Europa, è governato da un centrosinistra con appoggio esterno dei nostri compagni del PCP e del Bloco de Esquerda. Il centrosinistra italiano ha teso col maggioritario invece a radere al suolo la sinistra radicale negandone persino la legittimità delle ragioni».

Qui davvero il cerchio si chiude. L'esempio evocato da Acerbo dimostra infatti qual è la prospettiva strategica vera del gruppo dirigente del PRC: un governo borghese di centrosinistra che negozi con la sinistra cosiddetta radicale, e che quest'ultima possa appoggiare. Può essere un governo Jospin, che bombardò la Serbia col sostegno dei ministri del Partito Comunista Francese. Può essere l'amministrazione Biden, che gestisce con politiche keynesiane il più grande imperialismo del pianeta, col consenso attivo di Wall Street e (purtroppo) di Sanders. Può essere il governo Costa, che in Portogallo ha tagliato drasticamente gli investimenti pubblici col sostegno del Partito Comunista Portoghese e del Bloco de Esquerda. Non vengono citati il governo Tsipras, che ha gestito le politiche della Troika, o l'attuale governo Sanchez di Spagna, che sta negoziando con Podemos l'aumento dell'età pensionabile, ma sarà sicuramente una dimenticanza.

La verità è che chi non fa il bilancio del passato è destinato a ripeterlo. È sempre accaduto in tutta la storia del movimento operaio. Se l'orizzonte strategico del PRC, nonostante e contro l'esperienza di più di vent'anni, resta quello di un governo borghese progressista in cui compromettersi, un interrogativo di fondo dovrà pur porsi circa la riformabilità di quel partito.




(1) Rifondazione: Gravi dichiarazioni di Prodi, incapace di riflettere sui danni che ha fatto al paese, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=46646

Partito Comunista dei Lavoratori

Oggi come ieri: Antifascismo per la Rivoluzione!

 


GIOVEDÌ 29 APRILE - ORE 17.30

Non perderti il nostro evento Facebook, giovedì 29 aprile alle ore 17.30 👉 https://fb.me/e/3MQVbDcBV

Diretta streaming sulla pagina nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori

Tra il ‘43 e il ‘45 la resistenza partigiana e la ribellione operaia presentarono il conto alla dittatura fascista. Furono i giovani a capo della rivolta.

Una rivolta sospinta non solo da aspirazioni democratiche, ma anche dalla volontà di farla finita con la borghesia italiana che si era servita del fascismo.
Era la speranza di “una rossa primavera”. Ma quella speranza fu tradita.

Stalin aveva pattuito con gli imperialismi vincitori una spartizione delle zone di influenza. L'Italia doveva restare nel campo capitalista. Il PCI di Togliatti fu il fedele esecutore della linea. La Resistenza fu subordinata alla collaborazione con la DC.

I governi di unità nazionale tra DC e PCI disarmarono i partigiani, restituirono le fabbriche ai capitalisti, diedero l'amnistia a decine di migliaia di torturatori fascisti.

E ricominciò, in forme democratiche, la solita vecchia storia: il potere dei padroni, lo sfruttamento dei lavoratori.

Sono passati più di settant'anni dalla Resistenza, ma le sue migliori aspirazioni sono più attuali che mai. Il problema dell'umanità resta come allora il capitalismo, che ovunque ha tagliato gli ospedali per ingrassare le banche e gli armamenti, che ha devastato l'ambiente favorendo le pandemie, che annuncia oggi nella sola Europa 25 milioni di nuovi disoccupati, che nutre i razzismi, legittima i fascisti, moltiplica le guerre.

Anche oggi c'è bisogno di una rivoluzione!
Che questa volta vada sino in fondo! Che questa volta trovi un suo partito!
Per un antifascismo anticapitalista!

ORA E SEMPRE, RESISTENZA!

Seguici sul nostro canale Telegram! t.me/PCLavoratori

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

8x5: giù le mani dalla lotta della Texprint!

 


Testo del volantino che distribuiremo alla manifestazione in solidarietà con la lotta dei lavoratori della Texprint sabato 24 aprile a Prato

8X5 è la parola d’ordine che i lavoratori della Texprint del distretto tessile di Prato, in sciopero da 90 giorni, si sono dati contro il sistema di super sfruttamento imposto dall’azienda di proprietà cinese, peraltro indagata per infiltrazione mafiosa, che impone ai lavoratori 12 ore di lavoro giornaliere per sette giorni settimanali.

Le condizioni di schiavitù disumane tipiche dell’Ottocento con continue vessazioni da parte dei titolari, i frequenti infortuni, nessuna maturazione delle ferie e dei permessi, nessun riconoscimento della malattia e assicurazione contro gli infortuni hanno fatto saltare il tappo, e ora i lavoratori chiedono che siano rispettati i diritti elementari, che sia applicato un contratto regolare.

La ribellione degli operai attorno alla rivendicazione delle otto ore per cinque giorni settimanali si è espressa attraverso uno sciopero a oltranza con il blocco dei cancelli. La rivalsa padronale ha portato a 18 licenziamenti e a forme di repressione giudiziaria che colpisce assieme ai lavoratori il loro sindacato di appartenenza (Si Cobas) con multe salatissime e accuse deliranti come quella di aver violato le normative sanitarie con il picchetto ai cancelli.

È evidente che questa lotta esemplare assume, per le sue caratteristiche, una importanza di carattere generale che non si può fermare solo al livello aziendale, ma va ricondotta dentro un quadro più ampio di mobilitazione.

Nel paese centinaia sono le vertenze e le situazioni di lotta, tutte accomunate dall’isolamento e dalla separatezza tra di loro. Nel settore della logistica si stanno tenendo scioperi e picchetti fortemente repressi, come nei magazzini coinvolti nella dura vertenza FedEX TNT. Molte sono le situazioni di fabbriche in cassa integrazione, in crisi, che stanno chiudendo o che hanno già chiuso: Whirlpool, Acciaierie di Piombino, Arcelor Mittal, Wambao-Acc e Alitalia sono solo gli esempi più eclatanti.

A questi va ad aggiungersi l’imminente sblocco dei licenziamenti concesso da Draghi al padronato, che consentirà le ristrutturazioni aziendali, il cui costo si scaricherà su centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, anche nei settori che hanno fatto profitti durante la pandemia.

Di fronte alla nuova barbarie che si sta scaricando sulle teste di milioni di salariati, di sfruttati e di masse povere, di fronte all’atteggiamento complice della CGIL con il governo e il padronato, si impone la necessità del più ampio fronte delle lavoratrici e dei lavoratori, costruito su basi di classe al di là di qualsiasi steccato di appartenenza sindacale, che unifichi tutte le vertenze in campo, che sia in grado di organizzare i lavoratori contro gli sfruttatori - che siano nazionali o internazionali - e contro i governi a loro asserviti, che elabori una piattaforma di fase adeguata, che metta insieme tutte le realtà di lotta per la costruzione di uno sciopero generale di tutte le categorie, che sia il trampolino di lancio per una vera dinamica di massa.

• Unificare tutte le vertenze e le lotte frammentate, a livello nazionale e internazionale!
• Sciopero generale a oltranza, con la costituzione di casse di resistenza per sostenerlo!
• Pieno rispetto dei diritti sindacali. Via le leggi di precarizzazione del lavoro, a pari lavoro pari diritti!
• Blocco dei licenziamenti! Occupazione delle aziende che licenziano, e loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori!
• Riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di paga: 30 ore pagate 40!
• Salario medio garantito a tutte le categorie di lavoratori!
• Massima tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, sotto il controllo delle lavoratrici e dei lavoratori!

Contro i capitalisti nazionali e internazionali e contro i loro governi va contrapposta l’unità di lotta della classe lavoratrice. Al fronte unico del capitale va contrapposto il fronte unico del lavoro!

Partito Comunista dei Lavoratori

Immondizia misogina

 


La visione del mondo di Beppe Grillo

Beppe Grillo ha rappresentato a reti unificate con rara sincerità la propria visione del mondo. Un mondo in cui tutto torna da sempre. Una ricca famiglia borghese guidata dal polso fermo del patriarca; il giovane rampollo di famiglia che scorrazza in Costa Smeralda, forse un po' esuberante ma innocente per definizione; la donna “consenziente” che gli rovina la vita inventandosi lo stupro otto giorni dopo, per questo maledetta via Facebook, con tanto di grida sconnesse e vene rubiconde. Infine l'appello sdegnato alla complicità del peggior maschilismo: «Non vi sembra strano? È strano!!».
“Strano” è lo stupro di una diciannovenne, normale il candore del figlio, magari coglione ma immacolato. Lo garantisce il padre e questo basta, come si trattasse di una proprietà.

Difficile immaginare tanta immondizia in così poche parole, e tanta ignoranza della vita vera. Eppure per una volta ha davvero parlato Grillo. Non un comico ma un tragico misogino. Non l'Elevato ma il maschio del piano terra. Non il profeta dell'ecologia ma un uomo di merda.

Questo è il capo indiscusso del principale partito parlamentare, su cui si appoggia Draghi come già Conte. Il Garante del Movimento Cinque Stelle è anche il garante della Repubblica. La società borghese ha trovato in fondo il suo specchio, come il patriarcato che ha ereditato.

Partito Comunista dei Lavoratori

La salute sotto i piedi del profitto

 


La riapertura di Draghi al servizio del padronato

Il Presidente di Confindustria Macerata lo aveva detto qualche mese fa: “Bisogna riaprire, poi certo ci saranno dei morti, ma...”. Per questa cinica battuta fu esecrato dall'opinione pubblica e dalla grande stampa, al punto di doversi dimettere. Ma cosa sta facendo oggi il governo Draghi se non seguire il cinismo di Confindustria?

La riapertura accelerata è un rischio ragionato, secondo Draghi. Si tratta solo di capire a quale “ragione” risponde il rischio. Centomila nuovi contagiati a settimana, diverse centinaia di morti al giorno, un aumento del contagio in sedici provincie del sud d'Italia, la variante inglese del virus – più contagiosa – ormai largamente dominante, una copertura vaccinale della popolazione anziana ancora dopo mesi scandalosamente insufficiente e arbitrariamente diversa da regione a regione. In queste condizioni la riapertura non è solo avventurosa, ma criminale. Non a caso i migliori epidemiologi, da Galli a Crisanti, la denunciano giustamente come tale. Il matematico del CNR, Giovanni Sebastiani, che nell'ultimo anno non ha mai sbagliato previsioni sulle linee di tendenza del contagio, dichiara che i contagi torneranno a salire e nel giro di tre cinque settimane ci costringeranno a nuove chiusure. La previsione è di 8000-10000 decessi aggiuntivi entro fine maggio determinati dalle riaperture. In particolare la riapertura generalizzata delle lezioni in presenza nelle scuole, in assenza oltretutto di qualsiasi modifica delle condizioni materiali del servizio (spazi, trasporti, protezioni individuali...) rischia di presentare un conto assai salato, e in tempi relativamente brevi.

Dunque la riapertura è senza “ragione”? Niente affatto. La ragione esiste eccome. È la stessa che ha dettato la rinuncia a un vero lockdown: rispondere agli interessi di Confindustria e delle imprese. Riaprire, riaprire, riaprire: la parola d'ordine del padronato di tutte le taglie è unanime. “Dopo il lockdown dell'anno passato, non possiamo richiudere ed anzi dobbiamo riaprire”. Del resto sono gli stessi padroni della bergamasca e del bresciano che un anno fa si erano opposti alla zona rossa ad Alzano e Nembro nel nome di “Bergamo is running”. Gli stessi che anche quando “tutto era chiuso” tenevano aperte le proprie fabbriche con la copertura di protocolli sanitari finti gentilmente offerta dalle direzioni sindacali. Chi può meravigliarsi se oggi sono i capofila della riapertura? Ristoratori e albergatori sono per lo più il loro ostaggio e la loro clava, lo strumento di pressione sul governo per sbloccare la riapertura generale del mercato.

Il governo accontenta i padroni, col plauso della grande stampa o qualche imbarazzato silenzio. Del resto i conti tornano. I licenziamenti sono sbloccati per il 30 giugno, con il tragico effetto annunciato di una valanga sociale, dopo che quasi un milione di lavoratori e lavoratrici precari/e sono stati gettati in mezzo a una strada nel corso del 2020, a partire da donne e giovani. In compenso viene prolungata sino a fine anno la moratoria sui debiti aziendali, a garanzia delle banche e delle imprese, che si aggiunge ai 32 miliardi destinati ai padroni a gennaio, e ai nuovi 40 miliardi annunciati per finanziare il decreto sostegni di fine aprile.
Le imprese intascano di tutto: aumento della soglia di accesso da 5 a 10 milioni di fatturato, pagamento dei costi fissi, rafforzamento della patrimonializzazione, allungamento dei tempi di restituzione dei debiti coperto dall'erario pubblico... Il “Sussidistan” non è quello denunciato da Bonomi ma quello che incassa Confindustria, mentre nel solo 2020 la massa salariale cala di 40 miliardi a seguito di cassa integrazione ed espulsione di manodopera.

La classe che calpesta la salute è la stessa che sfrutta il lavoro. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici è l'unica vera soluzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

È uscito il nuovo numero di Marxismo Rivoluzionario

 


Per sapere come acquistare la rivista teorica del PCL scrivi a info@pclavoratori.it, in chat alla nostra pagina Facebook ufficiale o contatta la sezione a te più vicina

In questo numero:


Friedrich Engels, una vita per la rivoluzione - Marco Ferrando

A dieci anni dalla scomparsa. In ricordo di Tiziano Bagarolo - Franco Grisolia

Lenin sconosciuto. La rivoluzione sovietica e l'ecologia - Tiziano Bagarolo

USA e Cina: allineamenti e competizioni tra un polo imperialista dominante ed uno emergente - Luca Scacchi

In memoria di Ivar Smilga - Eugenio Gemmo

Partito Comunista dei Lavoratori

La Super Lega e la morte del calcio

 


Iniziamo con un’ovvietà, un’equazione, se è consentito. Calcio moderno è capitale. Non che prima di ora, negli scorsi decenni, non vi tendesse: lo abbiamo già scritto, d’altra parte. Tuttavia la nuova notizia, al momento già vecchia per il repentino naufragio, della Super Lega (o Super League) può essere assunta a paradigma di somiglianza. La nuova lega internazionale riservata a chi se lo può permettere, a chi ha i soldi per poterlo fare, imprime ancora di più l’acceleratore su una trasformazione globale del sistema calcistico internazionale. Roboanti, sebbene cave, le parole della dirigenza della Federazione internazionale: «le società organizzatrici la Super Lega si chiamano automaticamente fuori dal sistema FIFA». Addirittura Mario Draghi ha rilasciato una dichiarazione a riguardo: «Il governo segue con attenzione il dibattito intorno al progetto della Superlega calcio e sostiene con determinazione le posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport». Quali siano i valori meritocratici dietro a speculazioni finanziarie o a bilanci perennemente in perdita delle squadre italiane, non ci è dato saperlo. Per fortuna ci è rimasta l’ironia. È interessante, semmai, vedere qual è stata la reazione del capitalismo occidentale di fronte ad un’operazione evidentemente transnazionale e che coinvolge alcuni tra i più grandi club calcistici, alcuni con consistenti gruppi finanziari alle spalle. Tanto per fare un esempio e per chiarire il peso specifico della questione: la società Venezia FC, recentemente ceduta dallo statunitense Joe Tacopina, è stata rilevata dal connazionale Duncan Niederauer, già pezzo grosso della finanza della Grande Mela (presidente e amministratore delegato della borsa di New York), componente del G100, già nel board di Goldman Sachs.

E stiamo parlando di una realtà di media classifica di Serie B.

La nuova Super Lega riguarderà solo pochi grandi club, in buona misura, tra quelli europei che ottengono soldi dalle competizioni per poterli reinvestire e far sì che possano disputare nuovamente quegli stessi tornei internazionali. I club locali devono accontentarsi delle briciole e, qualora dovessero balzare agli onori delle cronache per prestazioni sopra le righe o posizionamenti al di là delle proprie capacità, i loro migliori giocatori verrebbero inevitabilmente acquistati da altre squadre.

Un ciclo senza fine, un serpente che si morde la coda rigenerandosi: le grandi squadre vincono le competizioni, prendono soldi, acquistano nomi blasonati pagandoli una fortuna, tornano a vincere quei tornei nazionali, si proiettano verso una dimensione quasi eterea della loro popolarità e via dicendo. Tutto, chiaramente, al netto dei debiti che producono le società anno dopo anno. Il calcio italiano, poi, quello “che conta”, è preda di continue speculazioni edilizie e finanziarie in cui sembra avvilupparsi ogni giorno di più, senza realmente uscirne. Ogni presidente che si avvicenda sullo scranno più alto di una società calcistica, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza, ritiene opportuno investire all’interno del brand della squadra, rilanciandone l’immagine e per farlo – come prima cosa – deve iniziare a sondare il terreno per la costruzione del nuovo stadio. Progetti i quali, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, o rappresentano interessi che travalicano il mondo del calcio, oppure sono estremamente connessi alla persona rappresentante la società sportiva in quel preciso momento.
I cambiamenti sportivi sono pochi, stanti così le cose, l’immutabilità è servita: l’inanità è quel che resta dell’estrema finanziarizzazione del calcio. Semmai dovessero verificarsi cambiamenti, impiegherebbero più di qualche decennio. O comunque non sarebbero in meglio, quanto piuttosto in peggio. La vicenda dell’organizzazione qatarina del mondiale lo rappresenta pienamente.

La Super Lega fa cadere ogni maschera all’impalcatura che regge il sistema calcistico transnazionale. Il sistema UEFA pretendeva di essere “giusto” e corretto nei confronti di tutti, quando sappiamo bene che non è così, anche alla luce di quanto detto sopra. Nessuno parte alla pari e lo squilibrio è servito. Intendiamoci: il calcio è anche questo, vedere le squadre meno blasonate gareggiare contro i grandi nomi e – magari – vincere. Non staremo qui a citare degli episodi, tuttavia basti pensare alla vittoria della Coppa delle Coppe dell’FC Magdeburgo nel 1974 (Germania est, in cui il calcio era dilettantistico per legge) sulle squadre europee occidentali, tra cui il Milan di Giovanni Trapattoni, sconfitto in finale. La mossa che si vuole tentare, ad ogni modo, è quella di estromettere ogni altra società che non possa permettersi la nuova SL. Da una parte il paradiso, dall’altra un colpo di fucile nell’orecchio. Non basta chiudere gli occhi per tre volte: il divario si acuirà sempre di più.

Il sistema della Super Lega non solo è stato messo in piedi da squadre-aziende proiettate ai risultati di borsa anziché a quelli sul campo, ma la struttura posta in essere è semplicemente realizzata per fare ancora più soldi. D’altra parte, marxisticamente parlando, la concentrazione di monopoli è una tendenza naturale del capitalismo (e che i liberal d’accatto fanno finta di criticare per dare una parvenza di dignità alle loro tesi).


E IL DILETTANTISMO?

Le squadre e i campionati dilettantistici, in Italia, rimarranno tali. O meglio, si continuerà a far finta che, ad esempio, la Serie D si stia sempre più professionalizzando, a cui vi partecipano squadre realizzate appositamente per vincere e il cui sistema di superamento della categoria non consente un reale passaggio organico dallo status di “dilettante” a “professionista”. Un esempio recente è quello dello Sporting Bellinzago. È più facile ricercare e ritrovare, all’interno dei “vasi comunicanti” fra Serie C e quarta serie, casi di fallimenti, malversazioni, rinascite dopo crisi e acquisizioni di titoli ad hoc, come avvenuto per le defunte società denominate “Lupa” (dalla Lupa Castelli Romani alla Lupa Roma, passando per la “Lupa Racing”, ibrido pontino-castellano di una società di eccellenza che rileva il titolo a seguito del fallimento della prima squadra nominata afferente ai canidi-lupini).


LA LEZIONE DEL CALCIO POPOLARE IN ITALIA

Per qualche anno in Italia si è assistito al fiorire del calcio popolare, tanto nelle piccole quanto nelle grandi realtà urbane. Parliamo di strutture alternative rispetto alla gestione aziendale delle società, dunque di “azionariato popolare” in cui i tifosi sono anche sostenitori e soggetti attivi nella partecipazione della vita di quella squadra. Trattasi di impostazioni, al momento, per natura stessa dilettantistica e non professionista o semi-pro. Tuttavia, i costi per far fronte a dei campionati federali (Figc) rappresentano un muro (spesso invalicabile) per le realtà che tentano di imbarcarsi nella Terza, Seconda e Prima Categoria. A Roma – per quel che riguarda il calcio a 11 maschile - resistono l’Atletico San Lorenzo, che ha dato poco festeggiato i 10 anni di età e la Borgata Gordiani. Terminate, purtroppo, le esperienze di Ardita (ex Ardita San Paolo) e Spartak Lidense (Ostia-Centro Giano). In Italia resistono esempi concreti di “altro” calcio come il Centro Storico Lebowski (Toscana), Polisportiva Gagarin (Abruzzo), Ideale Bari (Puglia), La Resistente (Liguria), Brutium Cosenza (Calabria) e altre realtà per cui ci scusiamo fin da ora di non aver citato. Tutte al di sotto dei campionati di Eccellenza ma opportunamente raccontate dal sito “sportpeople.net” che segue da vicino ogni sviluppo nelle curve, dalle curve e dello sport popolare. Per il calcio femminile, sebbene realtà di calcio a 5 solamente capitolina, qui ci limitiamo a citare l’esperienza della CCCP1987 in serie C. Non foss’altro per evidenti affinità onomastiche.


IL CALCIO È – SEMPRE – QUESTIONE DI CLASSE

Pur tuttavia, sono molte le realtà che hanno chiuso i battenti negli anni: in molte città si è assistito alla nascita e alla morte di ASD di calcio popolare. Una volta tentata la strada, i costi iniziavano ad essere esorbitanti, la partecipazione calava, la questione dei campi e dell’affitto degli stessi pesava sul magro bilancio di una società realmente dilettantistica militante in Seconda o Terza Categoria.

Rimane valida l’esperienza di ogni realtà che ha provato – e in alcuni casi sta riuscendo – a vivere all’interno del sistema federale per testimoniare l’esistenza di un altro calcio, fondato su partecipazione, inclusività, antifascismo e antirazzismo, nonostante qualsiasi difficoltà. Di fronte alla recrudescenza e al tentativo sempre più evidente di poche società iperquotate di far valere la loro posizione finanziaria di fronte al movimento calcistico di tutto il mondo, c’è da incoraggiare la ripartenza e rinascita di ogni società che deciderà di andare in totale controtendenza, per il bene delle loro comunità di appartenenza e in nome di uno sport del tutto diverso. E se oggi la Super Lega sembra essersi sgretolata al primo assalto, prepariamoci, perché non sarà l’ultimo...

Marco Piccinelli

È uscito il nuovo numero di Unità di Classe

 


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18 Aprile 2021

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n questo numero:


Unire l'azione nelle lotte, costruire il partito. Editoriale - Diego Ardissono

Gli scioperi di marzo nella logistica e la necessità di una vertenza generale - Donatella Ascoli

Birmania: la repressione militare, il ruolo della Cina, la ribellione di massa - Marco Ferrando

Transizione ecologica ed ENI, un grande comitato d’affari imperialista - Ruggero Rognoni

La centralità della questione di classe nella lotta per i diritti civili - Achlys Nakta

25 aprile. Sicuro, Barbero, che la Resistenza andrà presto in soffitta? - Lorenzo Mortara

Santoni e patrigni. Recensione di SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano - Salvo Lo Galbo

Recensione di Ballate dalla Grande Recessione - Dario Faggella

Partito Comunista dei Lavoratori

Contro la repressione solidarietà di classe

 


14 Aprile 2021

ArcelorMittal, Fedex, Texprint, portuali di Genova... si moltiplicano le misure repressive padronali e giudiziarie. È necessario un fronte comune contro il nemico comune

Il licenziamento da parte di ArcelorMittal di un lavoratore di USB responsabile di aver pubblicato un post su Facebook che invitava a seguire la fiction sull'inquinamento a Taranto è un atto inqualificabile e infame. Un atto di vera e propria cancellazione della libertà di opinione di un operaio, in aperta violazione di ogni diritto costituzionale. La “giusta causa” evocata dall'azienda al riguardo significa solo che l'azienda pretende mano libera e impunità per qualsiasi abuso sui propri dipendenti, già colpiti all'interno della fabbrica da un clima di intimidazioni, punizioni, terrore. Che si aggiunge alle minacce ai posti di lavoro e alla salute degli operai.

Il caso Mittal tuttavia non è solo. A Piacenza la procura ha attivato nelle settimane scorse procedimenti giudiziari e addirittura arresti, poi revocati, verso decine di lavoratori e lavoratrici di SICobas, protagonisti di una importante vertenza a difesa del proprio lavoro contro la chiusura del hub locale di Fedex. Il “reato” contestato è quello di aver picchettato i cancelli e di aver resistito in forma passiva all'intervento di sgombero della polizia. La Procura ha semplicemente applicato i decreti Salvini in quelle clausole antioperaie che criminalizzano i picchetti e che sono rimaste intatte nell'indifferenza di tanti “progressisti”. Naturalmente i mandanti della procura sono i padroni di Fedex e le organizzazioni confindustriali territoriali che vogliono sgombrare il campo da una presenza sindacale scomoda.

A Prato l'azienda cinese Texprint licenzia via Whatsapp i lavoratori pachistani che scioperano contro lo sfruttamento inumano cui sono sottoposti (12 ore di lavoro per 7 giorni) e per avere il contratto di categoria, mentre il sindacato SICobas al quale sono iscritti finisce sotto inchiesta su iniziativa della Digos per aver violato il coprifuoco sanitario nell'organizzazione dei picchetti dopo essere stato colpito da multe da salasso. Chi lotta per un normale contratto a norma di legge finisce alla sbarra, mentre chi tiene gli operai in condizioni di schiavitù ha la polizia al suo servizio.

A Genova la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di decine di lavoratori portuali, organizzati nel Collettivo Autonomo dei Lavoratori del Porto e oggi aderenti a USB, accusati di aver bloccato l'attracco di navi cariche d'armi destinate all'Arabia Saudita. Una forma di azione politica che appartiene alla storia dei lavoratori portuali, tanto più in una città come Genova, e che oggi diventa “sovversiva” e illegale. In questo caso i mandanti sono gli armatori e i terminalisti che vogliono avere mani libere in porto, e la stampa borghese che li sostiene. La procura si muove a rimorchio.

Si potrebbero citare altre decine e centinaia di casi analoghi, che magari non emergono alle pubbliche cronache ma che tuttavia danno la misura del clima che monta. E che soprattutto prefigurano il livello di scontro che può aprirsi su scala nazionale, anche sul terreno giudiziario, in occasione dell'annunciato sblocco dei licenziamenti a giugno.

Di fronte a tutto questo è tanto più necessaria l'azione unitaria e solidale di tutte le organizzazioni della sinistra di classe, sindacale e politica, al di là di ogni steccato di appartenenza. La parola d'ordine “se toccano uno toccano tutti”, che è riecheggiata in decine di lotte d'avanguardia, deve rappresentare un vincolo di coerenza unitaria per tutti. Nella difesa degli operai dalla repressione padronale e/o giudiziaria non possono esserci disimpegni o pure logiche d'organizzazione, per cui ogni soggetto si limita a difendere i propri lavoratori colpiti e si disinteressa degli altri.
La frammentazione dell'azione di classe è già di per sé disastrosa, ma sul terreno della difesa dalla repressione rischia di diventare qualcosa di peggio: un fattore di oggettivo incoraggiamento a padroni e procure.

Per queste ragioni non solo dichiariamo il nostro impegno e sostegno incondizionato a ogni lavoratore colpito da misure arbitrarie e repressive e ad ogni lotta promossa a sua difesa, quale che sia l'organizzazione promotrice, ma chiediamo a tutte le organizzazioni di classe di fare fronte comune contro un avversario comune, facendo di ogni lotta la propria lotta.

Coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione (Comunisti in Movimento, Fronte Popolare, La Città Futura, Partito Comunista Italiano, Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Marxista-Leninista Italiano)

La centralità della questione di classe nella lotta per i diritti civili

 


La comunità LGBTQIA+ sta lentamente ottenendo la visibilità che merita dopo secoli di invisibilità. Negli ultimi decenni i movimenti per i diritti civili stanno conquistando sempre più terreno e il numero delle conquiste e delle rivendicazioni cresce di anno in anno. La pandemia da Covid-19 ha segnato un brusco arresto di questo processo mettendo in luce le contraddizioni del sistema esistente, le aporie del movimento LGBTQIA+ e mostrando la fragilità di gran parte dei risultati ottenuti fino ad ora. In Italia, il più arretrato dei paesi dell’Europa Occidentale sulla questione, la situazione dopo un intero anno di emergenza sembra essersi ulteriormente aggravata. Basta dare uno sguardo a qualche dato ufficiale per notare la gravità della situazione.


Nel 2020 ILGA Europe (International Lesbian and Gay Association Europe, NdA) segnala 138 crimini dettati da odio omobitransfobico avvenuti in Italia tra cui alcuni omicidi. Dato inquietante e purtroppo parziale visto che la maggior parte degli atti violenti e discriminatori avviene lontano dagli occhi e dalle orecchie di eventuali testimoni (soprattutto in ambiente domestico) e che la maggior parte delle vittime di violenza o discriminazione non denuncia i fatti alle associazioni LGBTQIA+ e tantomeno alle autorità (i dati OSCAD disponibili per il 2019 riportano 107 casi, nello stesso anno ILGA Europe ne segnalava ben 187!).

Soltanto nel periodo compreso tra febbraio e oggi sono state segnalate (soprattutto dalle associazioni LGBTQIA+ o dalle vittime stesse) almeno sette casi tra aggressioni fisiche, aggressioni verbali e altri atti determinati da odio omobitransfobico. La lista effettiva dei casi avvenuti dall’inizio dell’anno è probabilmente più lunga.

Passando velocemente in rassegna i fatti ci troviamo davanti un quadro desolante.
Il 31 gennaio a Inverigo (Como) un gruppo di quindici ragazzi prende di mira un ragazzo omosessuale prima insultandolo e poi cercando di colpirlo a sassate.
Il 26 febbraio alla stazione di Valle Aurelia a Roma l’attivista di GayNet Jean Pierre Moreno, omosessuale e rifugiato LGBT di origine nicaraguense, e Alfredo Zenobio sono stati prima insultati e poi aggrediti fisicamente da un uomo dopo essersi baciati sulla banchina. Fortunatamente l’attivista ha saputo reagire prontamente, difendendo se stesso e il partner e costringendo l’aggressore a dileguarsi. Il video dell’attacco, girato da un amico della coppia, è diventato virale e ha destato anche l’attenzione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che ha espresso una inaspettata quanto ipocrita condanna dell’aggressione omofoba.
Il 2 marzo a Brugherio (Monza e Brianza) l’auto di Danilo Tota, organizzatore di eventi dichiaratamente omosessuale, viene ricoperta di sputi da un gruppo di ragazzi che poco prima aveva insultato ripetutamente il proprietario con epiteti omofobi.
Il 14 marzo in un parco di Vicenza si consuma un vero e proprio atto di squadrismo omofobico. Il giovanissimo Andrea Casuscelli, studente medio e promessa del pattinaggio artistico nazionale, viene adescato da un coetaneo su Instagram e finisce vittima di un pestaggio (dodici contro uno) che fortunatamente non ha avuto conseguenze gravi.
Il 18 marzo a Catania un controllo di polizia nei confronti di una sex worker trans di origine ecuadoregna diventa una mattanza con fermi arbitrari e manganellate (anche tra i passanti e gli abitanti del quartiere) oltre alla perquisizione non autorizzata in casa della sex worker durante la quale la madre di lei è oggetto di botte, minacce e insulti da parte degli agenti. La sex worker, che portava segni di percosse in viso e sul corpo, è stata condannata all’obbligo di firma in direttissima per oltraggio, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Le associazioni locali denunciano la più completa sospensione dei diritti democratici e la totale gratuità e inutilità della violenza poliziesca. Ovviamente la versione dei fatti narrata dalle vittime e dai testimoni è stata prontamente negata dal segretario provinciale del Sindacato Italiano Appartenenti Polizia (SIAP) e dai rappresentanti locali del Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia (COISP) che parlano invece di agenti aggrediti dalla sex worker e da sua madre (come risulterebbe nel rapporto dell’operazione) e della necessità del pugno duro per scongiurare una situazione di pericolo per i colleghi.
Il 24 marzo in un parco di Voghera (Pavia) una giovane coppia lesbica viene aggredita verbalmente da una coppia di genitori per un bacio a stampo scambiato a poca distanza dall’area giochi del parco. La prontezza di spirito delle ragazze riesce rapidamente ad indurre gli aggressori a ripiegare. Il 26 marzo ad Asti * youtuber e influencer Cruella viene aggredit* verbalmente, mentre siede sull’altalena di un parco, da un uomo che * apostrofa violentemente e * costringe ad allontanarsi dall’area accampando come scusa la presenza di alcuni bambini. Più di qualcuno ha giustificato l’azione dell’uomo perché, citando testualmente uno dei tanti commenti sui social, “le altalene sono solo per i bambini”.
Nella notte tra il 27 e il 28 marzo l’automobile di un ragazzo omosessuale di Perugia è stata danneggiata da ignoti che hanno rigato le fiancate del mezzo e inciso la frase “sono gay” sul cofano.

Come se non bastasse in molte città, già dall’estate 2020, vengono proposte mozioni contro l’approvazione del DDL Zan – già approvato dalla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020 con 265 favorevoli e 193 contrari; mossa preventiva messa in campo da Lega-FdI-FI contro una legge che rappresenta un ben misero avanzamento nella tutela e nel riconoscimento delle persone discriminate a causa del loro orientamento sessuale e della loro identità ed espressione di genere. Tra le città che hanno approvato tali mozioni troviamo Pisa, Crotone, Potenza, Monfalcone (EDR di Gorizia) e Ladispoli (Roma Capitale). In questo campo la regione più attiva sembra essere il Veneto: Verona è stata tra le prime ad approvare la mozione e ad oggi nella regione sono molti i comuni e le città ad aderire all’iniziativa reazionaria (ultimi in ordine cronologico Bassano del Grappa nel vicentino e Fontaniva nel padovano). Nel frattempo la proposta di legge (definita “liberticida” dai suoi oppositori) subisce l’ostruzionismo del senatore Andrea Ostellari (Lega), presidente della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, che la ritiene “divisiva” ed è arrivato a proporre come possibile relatore il “compagno” di partito Simone Pillon, noto omofobo e misogino. Le dichiarazioni di Ostellari hanno causato un acceso scontro mediatico tra le forze politiche e sociali favorevoli all’approvazione della legge e le altre forze in seno al governo.

Tutto questo accade negli stessi giorni (notizia del 16 marzo) in cui una certa fetta del movimento LGBTQIA+ (e anche del movimento femminista) giubila perché Amazon ha rimosso dalla sua offerta tutti i libri che descrivono la condizione delle persone trans come patologica. Questa notizia è arrivata ad eclissare in parte l’annuncio del primo sciopero nazionale di Amazon, lanciato dai sindacati confederali, contro le condizioni di lavoro servili e le nuove richieste dell’azienda del miliardario Bezos e di Assoespressi per il rinnovo del CCNL della logistica.

Niente di sorprendente, purtroppo. Da un lato il capitalismo affonda le sue radici nel pieno dominio dei corpi – per fini produttivi e riproduttivi – e utilizza a questo scopo mezzi patriarcali, eteronormativi e binari che – apparsi contemporaneamente con la proprietà privata – avevano permesso di stabilire come uniche forme “naturali” il dominio del maschile sul femminile e la famiglia come unità sociale e produttiva minima con la “logica” conseguenza di elevare al grado di dogma il binarismo di genere e l’eterosessualità. Ciò comporta un controllo serrato nei riguardi della sessualità dei soggetti e legittima la negazione e la repressione di ogni soggettività non conforme al modello prestabilito.

Questo conduce ad un’unica ovvia conclusione. L’omo-lesbo-bi-transfobia, la misoginia, il sessismo, l’abilismo, la xenofobia e il razzismo non sono – come sostiene qualcuno – errori, sbavature o note stonate, causate da improvvise ricadute nell’inciviltà e nell’ignoranza, all’interno della perfetta partitura del capitalismo e dello stato di diritto liberale. Sono, invece, la più chiara ed elementare conseguenza di un sistema di relazioni sociali basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento di esseri umani e risorse, ovvero una delle caratteristiche strutturali del capitalismo.

La repressione dell’alterità può assumere forme molteplici come ci raccontano gli esempi tratti dalla cronaca. Tutte sono correlate con l’attuale sistema di sfruttamento e con le sue componenti culturali ed educative. La società capitalista ed eteropatriarcale ha praticamente naturalizzato costruzioni sociali e culturali astratte conformi alle necessità del pensiero e del potere borghese dando loro una materialità granitica e una valenza univoca e universalistica sulla base della quale ogni soggetto viene educato e abituato ad intendere l’attuale sistema delle oppressioni di classe e di genere come “normale” e moralmente “giusto”. Tra le conseguenze di questa egemonia vi è il compimento e la giustificazione di atti repressivi individuali o collettivi contro coloro che vengono percepiti o agiscono come “fuori norma”. La diffusione di idee propriamente dette reazionarie – cioè che accettano, introiettano e condividono l’odierno sistema di dominio e oppressione e sono disposti ad agire per difenderlo e sostenerlo – soprattutto tra le soggettività oppresse è una delle armi più potenti (ed imprevedibili) a disposizione della borghesia per conservare il potere. Nei fatti il sistema capitalista ed eteropatriarcale è sempre il mandante unico e il principale protettore de* autor* di queste azioni anche quando, per mezzo delle sue istituzioni, se ne dissocia o punisce le condotte ritenute “eccessive”, cioè quelle che rischiano di compromettere l’equilibrio delle forze in campo causando la rottura dello status quo precedente ai fatti.

Dall’altro lato il capitalismo stesso riconosce la necessità di preservare condizioni favorevoli alla propria sopravvivenza e riesce a vedere il potenziale economico che può derivare dalla normalizzazione e dal recupero di istanze progressive o di movimenti ed individui precedentemente esclusi e oppressi dalle logiche di mercato e perciò potenzialmente pericolosi. L’emergere, a seguito di lunghi cicli di lotte, di numerose soggettività fino a prima completamente emarginate per motivi razziali, sessuali e omobitransfobici ha portato allo sviluppo di precise agende istituzionali atte a ricondurre – con la collaborazione di determinati settori dei movimenti – alla completa compatibilità tra le richieste delle soggettività in ascesa e il regime classista e borghese.

Ma non è necessario essere de* marxist* rivoluzionar* per notare che le condizioni di vita delle minoranze oppresse non possono realmente cambiare attraverso il dibattimento parlamentare, l’inclusività delle istituzioni (le stesse che poi arrestano, picchiano, minacciano e uccidono ad ogni piè sospinto), il cosiddetto “empowerment” de* lavorator* nelle aziende private e qualche moderata e parziale concessione di diritti (quali possono essere, per rimanere in Italia, il DDL Cirinnà o il DDL Zan).

Infatti noi ci manteniamo equamente lontani dalle pericolose sirene del riformismo e del liberalismo - che tentano di mantenere un’aura di rispettabilità con vuote promesse e piccole riforme dell’assetto giuridico mentre sono complici e artefici dello sfruttamento e dell’impoverimento che colpisce equamente tutt* * sfruttat*. Ovviamente con questo non intendiamo sposare la tesi – tanto amata in alcuni partiti e movimenti sedicenti comunisti e marxisti – di una contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali, dell’inconciliabilità tra una sinistra “fucsia” o “arcobaleno” e una “vera” sinistra fatta di operai maschi, bianchi e eterosessuali. Pertanto rigettiamo l’ipocrisia riduzionistica dello stalinismo che dimostra su questi temi la propria natura controrivoluzionaria con una purezza a dir poco cristallina.

Siamo ben consapevoli di come le lotte per l’acquisizione di diritti democratici (siano essi sociali o civili non è discriminante) siano momenti fondamentali per l’avanzamento del livello di consapevolezza delle soggettività sfruttate ed oppresse, ma esse non devono essere il fine ultimo, bensì una fase intermedia utile ad ottenere maggiore visibilità e maggiore concentrazione attorno alle parole d’ordine della rivoluzione sociale e della liberazione di tali soggettività.

Questo non perché riteniamo esista una sola ed unica forma d’oppressione uguale per tutt* * oppress* in ogni angolo del mondo, in ogni epoca e in ogni cultura. Siamo assolutamente consapevoli della natura molteplice, intersecante e differenziata delle forme d’oppressione e della loro tendenza ad evolversi nel corso del tempo e a cambiare nello spazio. Però, correndo il rischio di ripetere quanto abbiamo già detto in precedenza, riconosciamo la natura singolare della causa delle varie forme d’oppressione, ovvero il modo in cui esse sono state foggiate nel processo di sfruttamento e divisione storica del lavoro salariato per ottenere plusvalore. Questo non significa appunto ridurre tutto al “classismo” negando l’importanza (o l’esistenza) di altre forme d’oppressione, ma prendere atto del fatto che - in una società fondata sull’accumulo di capitale e sulla divisione in classi – la questione di classe è inevitabilmente centrale e svolge un ruolo niente affatto trascurabile nelle battaglie per i diritti civili.

L’ingresso sulla scena sociale di larghe fette di popolazione prima invisibili ha portato anche alla nascita di fenomeni di marketing – per ricollegarci al nostro tema intendiamo pinkwashing e rainbow washing – attraverso i quali il mercato trasforma le nuove soggettività entrate in scena in pletore di nuov* sfruttat* e di nuov* consumator* potenziali, spesso appropriandosi di parole d’ordine progressive o di atti dichiaratamente ribelli per farne innocui slogan pubblicitari o semplici prodotti. In anni recenti, in tutto il mondo, il fenomeno ha assunto una rilevanza molto ampia ottenendo anche l’attenzione del mondo accademico e causando frizioni all’interno dei movimenti LGBTQIA+ e femminista (e anche negli universi variegati dell’antirazzismo e dell’ambientalismo) tra coloro che guardano favorevolmente a tali iniziative in quanto cenni di progresso (“per i liberali la libertà è in ultima analisi la stessa cosa che il mercato”, per citare Trotsky) e coloro che, con la giusta dose di disincanto, denunciano l’incoerenza e l’insignificanza di tali iniziative, smascherandone la natura esclusivamente consumistica e mettendo in luce come molte delle aziende impegnate in queste manovre siano anche le prime in fatto di sfruttamento, repressione sindacale, sospensione dei diritti de* lavorator* e spesso anche in discriminazione (!), inquinamento e estrattivismo (con buona pace delle dichiarazioni dei loro uffici di pubbliche relazioni, dei loro agenti pubblicitari e dei governi da cui ricevono supporto).

Ad oggi, purtroppo, non è ancora giunto il momento di fare un bilancio definitivo di questo periodo straordinario e risulta molto difficile delineare con chiarezza gli scenari che affronteremo nei prossimi mesi. Non possiamo esimerci dall’esporre comunque la necessità di sostenere con tutti i mezzi a nostra disposizione la comunità e il movimento LGBTQIA+ nelle sue lotte coerentemente con il nostro impegno anticapitalista e rivoluzionario. Dobbiamo altresì contribuire a portare ad un nuovo livello la conflittualità del movimento stesso contribuendo a riportare al suo interno la centralità delle istanze anticapitaliste e anticlericali, spingendo per la fine dei compromessi con la borghesia e i suoi partiti (come il PD) e di una nuova unità tra tutti i movimenti per i diritti civili e il movimento operaio. Solo così, infatti, è possibile arrivare all’unica vera forma di liberazione da ogni tipo di oppressione e sfruttamento, cioè quella che passa per l’abbattimento del capitalismo e l’instaurazione del governo de* lavorator* e di tutt* * oppress*.

Achlys Nakta

Si chiama capitalismo, non liberismo

 


Come il quotidiano di Confindustria spiega la follia della società borghese

In tempi di Covid la stessa stampa borghese documenta l'accumulo di nuove povertà. Centinaia di migliaia di precari buttati su una strada, sei milioni di salari tagliati per via della cassa integrazione, fallimento di parte significativa del piccolo lavoro autonomo nel campo del commercio e della ristorazione...
Le immagini delle lunghe file di nuovi poveri davanti alle mense della Caritas sono uno specchio di tutto questo.

Di tutto questo non è responsabile la pandemia, ma l'organizzazione capitalista della società. La stessa che in nome del profitto ha devastato l'ambiente favorendo quei salti di specie che danno origine alle pandemie. La stessa che in nome del profitto ha smantellato per vent'anni i sistemi sanitari in tutto il mondo, rendendoli incapaci di fronteggiare l'epidemia. La stessa che in nome del profitto ha consegnato alle case farmaceutiche il monopolio della ricerca e della produzione di vaccini dando loro potere di vita e di morte sull'umanità intera. La stessa che in nome del profitto, e a causa dei tagli alla pubblica amministrazione, è incapace di organizzare in tempi decenti la vaccinazione di massa della popolazione, a partire dalle persone più anziane.

Nulla come l'esperienza della pandemia ha messo a nudo il fallimento di una società. Non del liberismo, ma del capitalismo.

La cultura liberalprogressista che ha fatto strage nella stessa sinistra “radicale” attribuisce al liberismo i mali del mondo. Per cui “correggiamo con l'intervento pubblico le ingiustizie del libero mercato!” e tutto in un modo o nell'altro si risolve. Questa pietosa illusione neoriformista, spesso spacciata per sano realismo contro l'utopismo rivoluzionario, ignora esattamente la realtà. La quale ci dice che mai come oggi l'intervento pubblico dilaga, in tutti i paesi e sotto tutti i governi. Semplicemente serve a gonfiare il portafoglio dei capitalisti a spese del resto della società.
Altro che liberismo! Siamo nel cuore del più gigantesco statalismo borghese che la storia del capitalismo ricordi. Miliardi presi dalle tasche dei proletari e finiti sul portafoglio degli azionisti.

Vediamo di cosa si tratta. In tutto il mondo gli stessi stati che hanno fatto a gara per abbattere le tasse sui profitti ricorrono a mani bassa all'indebitamento pubblico. Si vendono titoli pubblici alle banche, si travasa il grosso di quanto ricavato nelle tasche dei capitalisti, si promette il pagamento di debito e interessi alle banche che hanno comprato i titoli. Nel frattempo si offre alla banche la copertura delle garanzie pubbliche in modo che possano far credito ai capitalisti senza rischiare un centesimo. Banchieri e capitalisti incassano. Quanto al pagamento del debito e dei relativi interessi, ci penserà il resto della società negli anni a venire, a partire naturalmente dai salariati, privati e pubblici, gli stessi che già oggi sulla propria pelle pagano i costi sociali e sanitari della pandemia.

Pregiudizio ideologico, veteromarxismo? Si dia un'occhiata alla liquidità accumulata dalle grandi imprese nel 2020. Non parliamo delle imprese farmaceutiche, dei produttori di materiale informatico, di larga parte dell'agroindustria. Quelli, si sa, hanno fatto profitti a palate. Parliamo delle prime dieci grandi imprese italiane, appartenenti a tutti i settori. Nell'ordine: Stellantis, ENI, Ferrari, STMicroelectronics, CNh Industrial, Moncler, Campari, Amplifon. Ebbene in un solo anno, e per di più nell'anno maledetto della pandemia, hanno accumulato una riserva di liquidità di 54 (cinquantaquattro) miliardi. Un aumento sull'anno precedente del 36%. Cosa significa concretamente? Due cose. La prima è che hanno intascato un sacco di soldi. La seconda è che non li hanno investiti, li hanno – come si dice in gergo – tesaurizzati. Messi da parte. Accumulati.
Gli stessi che da mesi con Confindustria chiedono di poter licenziare per ristrutturare stanno facendo lo sciopero degli investimenti. Si tratterebbe, secondo Bankitalia, di un "risparmio precauzionale". Significa che non sapendo quale sarà il decorso della crisi e dell'eventuale ripresa, mettono fieno in cascina per il futuro. Di certo se intendono poter licenziare anche lavoratori a tempo indeterminato, dopo essersi già liberati di una buona massa di precari, vuol dire che non intendono assumere. Il fieno servirà per scalate azionarie, operazioni speculative, giochi di borsa, esportazioni di capitale su un mercato mondiale già segnato da nuovi grandi processi di concentrazione monopolista.

La domanda è semplice: da dove proviene nell'anno 2020 questa gigantesca massa di liquidità finita nelle tasche delle prime dieci imprese? Lo spiega il quotidiano di Confindustria: «abbondanza di credito sul mercato» e «garanzie statali» (Il Sole 24 Ore, 4 aprile). Le grandi imprese hanno incassato gratis dalle banche, coperte a loro volta dalle garanzie pubbliche dello Stato. Semplice, no?

Da una parte l'accumulo della povertà, dall'altro l'accumulo della ricchezza. Non è l'Ottocento, è l'oggi. Senza l'esproprio delle grandi imprese, senza il rovesciamento del loro Stato, senza un governo dei lavoratori, non c'è via d'uscita. La soluzione non è l'antiliberismo, la soluzione è la rivoluzione e il socialismo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Se toccano una, toccano tutte: per Martina e tutte le donne vittime di femminicidio

 


Il 7 aprile tutte e tutti a Firenze, alle 9.30 presso la Corte d'appello del tribunale.

Il PCL presente

«La chiamata al pronto soccorso è delle 7,10 (racconta la madre di Martina Rossi). Se si fossero allertate subito, se c'era una piccola possibilità di salvare mia figlia, loro gliel'hanno negata».

Chi era Martina Rossi? Una studentessa di appena vent'anni, scomparsa all'alba del 3 agosto 2011 in Spagna, a Palma di Maiorca, durante una vacanza estiva con due amiche. Nel tentativo di fuggire dall'aggressione sessuale di due ragazzi, Martina precipitò dal 6° piano dell'hotel dove alloggiava, poiché scavalcò il muretto del poggiolo in preda alla paura e all'affanno.

Le indagini spagnole si erano concluse con l'archiviazione e l'ipotesi di suicidio, ma con il tempo e ulteriori indagini è venuta a galla la verità.

Dopo sette anni, il 14 dicembre 2018, è stata emessa la sentenza: i due imputati sono stati condannati a sei anni di carcere, per i reati di “tentata violenza sessuale di gruppo” e “morte come conseguenza di altro reato”.

Nel verdetto di condanna i giudici scrivono che qualcuno la spogliò per abusarne, sottolineano la sparizione dei pantaloncini mai rinvenuti (Martina fu ritrovata con gli slip e la maglietta). Gli evidenti graffi sul collo di uno degli imputati erano il segno che Martina aveva subito un’aggressione e aveva provato a difendersi.

Il processo di appello arriva un anno dopo e il 28 novembre 2019 viene prescritto il primo reato. Il 9 giugno 2020 in appello i due imputati vengono prosciolti perché “il fatto non sussiste”.

Siamo al 21 gennaio 2021, la Suprema Corte annulla l'assoluzione dei due imputati, decidendo un nuovo appello bis. I giudici della Cassazione spiegano che hanno impugnato l'assoluzione per “l'illogicità” e “l'incompletezza della sentenza”, che non spiega le prove che dimostrano l’aggressione sessuale, su cui si era basato il verdetto di condanna.

Ciò che è accaduto a Martina è l'ennesimo caso di femminicidio.
In Italia nei primi tre mesi del 2021 si contano già quindici femminicidi: Clara Ceccarelli uccisa a Genova con 115 coltellate, Deborah Saltori con un colpo d'accetta, Ilenia Fabbri uccisa addirittura da un sicario, a loro si aggiungono Sharon Barnie, Victoria Osagie, Roberta Siragusa, Tiziana Gentile, Teodora Casasanta, Sonia Di Maggio, Piera Napoli, Luljeta Heshta, Lidia Peschechera, Rossella Placati, Edith (una bambina di due anni), Ornella Pinto, Carolina Bruno e Lorenza Addolorata Carano.

Donne uccise dagli uomini, ma in primis dalla società: la cultura patriarcale nella quale siamo immersi a braccetto con il sistema capitalistico pretende che le donne vivano tra le mura domestiche come oggetti di soddisfazione sessuale e uteri dediti alla riproduzione e al lavoro di cura. Il lockdown ha aggravato la situazione, con un'escalation di violenze: gelosia, rifiuto della separazione, stupro, relazioni tossiche...

A fronte di questi numeri, crediamo che sia giusto domandarsi: perché il femminicidio è ancora difficile non solo da riconoscere ma anche da ammettere? Perché le sentenze spesso negano e cancellano le violenze subite. Chi può alleviare il dolore immenso di genitori o familiari?

Le donne in difficoltà hanno molta difficoltà a chiedere aiuto. Sporgere denuncia o rivolgersi ad un centro antiviolenza non è un'operazione semplice: le donne sono sotto il costante controllo del partner abusante e spesso si vergognano benché non abbiano colpa. I centri preposti all'accoglienza delle donne maltrattate sono in grande difficoltà a causa delle politiche insufficienti messe in atto dai governi borghesi. Tante cerimonie e pochi finanziamenti.

C'è molto da fare. Nel mondo del lavoro e nella società in generale, esiste purtroppo ancora un sistema discriminatorio nei confronti delle donne. È necessario continuare a lottare per abbattere questo sistema fondato sulla supremazia fallica e capitalistica.

Per tornare alla vicenda di Martina, in una delle tante interviste rivolte ai genitori, i giornalisti rivolgendosi al padre domandano quale sia il senso di continuare a lottare per la verità, pur sapendo che la loro Martina non potrà più esserci. Il padre sottolinea l'importanza che non accada mai più ciò che è successo a loro.

Intanto sono passati dieci lunghi anni di attesa, dolore e speranza.

Il prossimo appuntamento sarà il 7 aprile 2021 alle 9.30 presso la Corte d'appello del tribunale di Firenze dove ci sarà la sentenza della Cassazione.

Invitiamo tutte e tutti ad esprimere la propria solidarietà alla famiglia di Martina e accogliamo questa occasione per ricordare tutte le vittime di femminicidio.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione donne e altre oppressioni di genere