Presidenzialismo e proporzionale avanzano sulle macerie della crisi dei partiti e degli schieramenti dopo la corsa per il Quirinale
30 Gennaio 2022
La riassegnazione a Mattarella della presidenza della Repubblica per un nuovo settennato è la cartina al tornasole della crisi politica della borghesia italiana.
Manca un punto di gravitazione del sistema politico. Tutti i partiti borghesi, con l'eccezione di Fratelli d'Italia, attraversano in forme diverse una crisi dei propri equilibri interni. Tutti le loro alleanze conoscono una disarticolazione più o meno profonda. In questo quadro l'ambizione di Draghi di traslocare al Quirinale per coronare la propria carriera si è subito scontrata con l'impossibilità di negoziare un nuovo Presidente del Consiglio e di garantire la continuità della legislatura, mentre ogni soluzione alternativa a Draghi come capo della Stato si è impigliata nella tela di ragno di contraddizioni irrisolte in tutti gli schieramenti politici. La rielezione di Mattarella è la risultante di questa paralisi politica e istituzionale.
Formalmente tutto rimane com'è, con Draghi premier e Mattarella Presidente, in reciproco sodalizio. Ma la realtà è diversa. Il fallimento politico delle segreterie di partito è manifesto. La soluzione Mattarella è stata imposta di fatto dalla pressione a valanga di una base parlamentare diffidente che le ha di fatto sconfessate pur di mettere in sicurezza la continuità del Parlamento, e dunque del proprio scranno. All'interno di ogni partito della maggioranza si aprono ora processi politici nuovi o autentiche rese dei conti. Il M5S è l'epicentro del terremoto, con possibili effetti di scissione e/o dissoluzione.
Anche la leadership di Salvini nella Lega conosce un obiettivo indebolimento, dopo la gestione catastrofica del romanzo Quirinale, con dieci nomi bruciati in due giorni, la rottura combinata con FdI e con FI, una coalizione dissolta, un futuro incerto. Di fronte a Salvini c'è ora un bivio strategico: o la ricomposizione con Giorgia Meloni all'insegna di un rilancio sovranista, ma col rischio concreto di lasciarle lo scettro; o la ricomposizione con Forza Italia all'insegna di un ingresso nel PPE, caro a Giorgetti, ma col rischio di entrarvi dalla porta di servizio, con la coda fra le gambe. Di certo l'idea di poter conciliare la guida della coalizione e la maggioranza di governo attorno a Draghi è definitivamente naufragata. E quale che sarà la via prescelta dalla Lega, comporterà un prezzo alto per il suo segretario; o di ruolo, o di voti, o di entrambi.
Neppure il PD può cantar vittoria. La catastrofe di Salvini non risolve nessuno dei vecchi problemi e ne apre di nuovi. Il “campo largo” di centrosinistra caro a Letta è oggi un campo di rovine, con la manifesta inaffidabilità di Conte, la guerra aperta da Luigi Di Maio per il controllo del movimento, il confinamento patetico di Beppe Grillo tra scandali giudiziari e carte bollate. Far leva sulla presunta rendita di posizione di un gioco bipolare – nuovo centrosinistra contro vecchio centrodestra – non è più possibile ormai di fronte allo sfarinamento politico di entrambi i poli. Insistere su questo schema significherebbe solamente favorire la ricomposizione della destra e suicidarsi. Ma abbandonare questo schema non è indolore per Letta. Significa esporsi alla rivalsa interna di chi da tempo l'aveva contestato, a partire dalla maggioranza dei gruppi parlamentari ex renziani del PD, quelli che non a caso dall'inizio hanno tifato prima Casini e poi Mattarella, in entrambi i casi in tandem con Renzi.
È possibile che il marasma politico e istituzionale in cui versa la borghesia apra la strada a una revisione del sistema elettorale in senso proporzionale. Spingono in questa direzione i vari frammenti del M5S, e diverse correnti del PD (ex renziani, Orlando, Franceschini). Ma soprattutto la galassia centrista, diversamente articolata (da Forza Italia, al centro cattolico, a Italia Viva) che non a caso ha sino all'ultimo giocato la carta della presidenza Casini, nella convinzione potesse rappresentare una sponda utile per il nuovo polo centrista. L'idea è quella di un definitivo seppellimento del bipolarismo, del conseguente taglio delle ali estreme, della ricomposizione di un centro politico parlamentare della borghesia italiana capace di porsi come ritrovato baricentro di ogni soluzione di governo. È questa l'area politica che non a caso ha maggiormente insistito per una continuità di Draghi come Presidente del Consiglio anche nella prossima legislatura. Va da sé che Meloni è avversa a questo disegno, perché le preclude lo sbocco di governo. Cosa faranno ora il PD e la Lega? Letta sembra aprire alla proporzionale, Salvini per ora non si pronuncia. È chiaro che per ognuno dei due si tratta di una scelta strategica.
Ma lo sfarinamento dei poli non porta solo a una possibile riforma proporzionale del sistema politico. Porta con sé anche un rilancio del presidenzialismo, ossia di un'elezione diretta del capo dello Stato, con conseguente trasferimento nelle sue mani di nuovi poteri. Questa idea reazionaria, vecchio cavallo di battaglia della destra, è ora sdoganata da un vasto ambiente borghese liberalprogressista, laico o cattolico. I quotidiani del gruppo GEDI (La Repubblica) e di Banca Intesa (Corriere della Sera) stanno legittimando apertamente il semipresidenzialismo alla francese come possibile soluzione della crisi politica. Nel momento in cui il vecchio bipolarismo è crollato, nel momento in cui diventa possibile o addirittura auspicabile il ritorno alla proporzionale (in funzione della continuità di Draghi), è necessario un elemento di riequilibrio dei poteri verso l'alto, che possa fornire al governo un ancoraggio forte a garanzia della stabilità politica. La stessa idea può trovare nuovi consensi in ampi settori popolari. “Basta coi giochi di palazzo dei politici, il Presidente scegliamolo noi” è un sentimento più diffuso di ieri, dopo la spettacolarizzazione mediatica delle giornate quirinalizie. È il vecchio fascino del bonapartismo come risposta alla crisi del parlamentarismo. Tutta la seconda Repubblica ha concimato questo humus. La sua crisi ne distilla i veleni.
Di fronte a queste possibili dinamiche e prospettive, vediamo prosperare a sinistra la vecchia retorica democratico-borghese, l'esaltazione della “Costituzione nata dalla Resistenza”, l'apologia della saggezza dei famosi padri costituenti. Ex ministri di governi liberali, come il compagno Paolo Ferrero (1), spiccano in questo coro. Noi rifiutiamo questa retorica. Naturalmente difendiamo ogni diritto democratico contro ogni sua revisione reazionaria. Siamo per il principio proporzionale integrale in fatto di leggi elettorali. Siamo contro ogni slittamento verso l'alto dei poteri dello Stato. Ma non per questo facciamo i custodi della Costituzione borghese. Non dimentichiamo che i padri costituenti erano De Gasperi e Togliatti, che la loro Costituzione nacque nel segno della collaborazione tra le classi contro le potenzialità rivoluzionarie della Resistenza partigiana, che l'obiettivo era quello di subordinare la classe operaia alla ricostruzione del capitalismo e del suo Stato. Non ci identifichiamo, insomma, con le istituzioni della democrazia borghese e con il loro Parlamento. Che non è e non può essere in regime capitalista il tempio della sovranità popolare, ma uno strumento di governo dei capitalisti, com'è stato ininterrottamente nella Prima e nella seconda Repubblica. Non a caso Lenin definiva la democrazia borghese, anche la Repubblica più democratica, «un paradiso per i ricchi, un inganno per i poveri e gli sfruttati».
L'identificazione nel Parlamento borghese e nelle regole istituzionali della democrazia borghese non solo non ha nulla a che vedere con i comunisti, ma porta acqua al mulino della reazione e alla sua demagogia, di chi fa leva sugli aspetti parassitari del parlamentarismo borghese (stipendi d'oro, vitalizi, corruzione, irrevocabilità del mandato, mercanteggiamento di favori e prebende...) per proporre nel nome del "Popolo" soluzioni reazionarie. Soluzioni che fingendo di dare maggior potere al popolo contro i politici, in realtà rafforzano i poteri dello Stato, ed in particolare del suo braccio esecutivo (governo, apparati repressivi), contro i lavoratori e la popolazione povera. A vantaggio dei politici peggiori.
È dalle lotte del lavoro e dei giovani che occorre battersi per un'altra democrazia. Quella che espropriando i capitalisti dia ai lavoratori e alla maggioranza della società la vera sovranità vera, cioè il potere di decidere democraticamente attraverso strutture organizzate dei lavoratori stessi le scelte e il futuro della società. La battaglia per un altro Stato, per un altro potere, non è solo l'indicazione della sola vera alternativa. È anche l'unica via per disarmare gli argomenti reazionari senza fare i reggicoda dei liberali.
(1) http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=49321