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Armenia: 150 morti e 2000 sfollati


 Il 13 settembre l’esercito dell’Azerbaigian ha guidato un’operazione militare contro aree dell’Armenia meridionale (nei pressi delle città di Jermuk, Sotk e Goris). L’attacco ha causato quasi 150 morti tra le fila armene, anche civili, e più di duemila sfollati (pare che le operazioni militari non abbiano lesinato gli attacchi contro le strutture non militari), mentre tra gli azeri si contano oltre settanta caduti. Si tratta soltanto dell’ultimo assalto militare contro gli armeni da parte del regime azero, che da trent’anni continua ad alimentare il conflitto per appropriarsi del territorio del Nagorno-Karabakh, conosciuto anche come Artsakh, da sempre abitato in larga maggioranza da armeni (la minoranza azera, nel secolo scorso, era composta perlopiù da pastori semi-nomadi che si recavano nella regione temporaneamente per via del loro lavoro).


Questa guerra ha la sua origine nella suddivisione dei territori tra le repubbliche sovietiche, quando sotto pressione di Stalin e di alcuni importanti azeri membri del partito bolscevico ma il cui socialismo era ottenebrato da sentimenti sciovinisti e panturchisti [1], questa regione venne sottratta al principio di autodeterminazione dei popoli e consegnata nel 1924 all’Azerbaigian, con un parziale motivo d’ordine economico (la già citata transumanza dei pastori), strategico (per accattivarsi le simpatie turche, in quanto all’epoca la Turchia era vista come una sorta di repubblica rivoluzionaria) e a causa delle minacce di Nariman Narimanov, presidente del Consiglio dei commissari del popolo della Repubblica socialista sovietica azera, che paventava rivolte anti-sovietiche nel caso dell’unificazione completa del territorio armeno.

Il potere sovietico, purtroppo, non cercò ma di riparare questo a errore (purtroppo non l’unico nell’ambito della spartizione delle nazionalità, anche se bisogna ricordare che l’Unione Sovietica soprattutto nei primi anni di esistenza, era all’avanguardia anche per gli standard contemporanei per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti ai popoli nativi, precedentemente oppressi ferocemente dallo zarismo e dal nazionalismo panrusso), neppure quando tra il 1988 e il 1991 ci furono intense e imponenti manifestazioni per la riunificazione dei territori armeni (in risposta i nazionalisti azeri si dettero ai pogrom anti-armeni a Sumgait, Kirovabad e Baku). E fu così che il Nagorno-Karabakh divenne prima un Oblast autonomo e poi Repubblica indipendente dell’Artsakh, che ha resistito a trent’anni di conflitti, tensioni e pulizie etniche innescate dallo sgradito vicino (che ricordiamo reclamò il diritto all’autodeterminazione per diventare indipendente per poi negarlo agli altri), anche grazie a personalità dalla storia incredibile come i marxisti rivoluzionari, guerriglieri e internazionalisti Monte Melkonian, eroe nazionale, e Nubar Ozanyan (caduto in Siria nel 2017 mentre lottava contro i reazionari di Daesh). Certo, purtroppo anche in Armenia ci sono stati massacri e pulizie etniche, causate dallo sciovinismo delle frange più xenofobe della società che vollero rispondere ai pogrom e alle stragi nei confronti degli armeni in Azerbaigian, o gruppi di militari che tentarono vanamente di eguagliare i massacri dell’esercito azero.

Tornando a oggi, lo scenario aperto da quest’ultima aggressione ha lasciato indifferenti gran parte degli amici/alleati (la Federazione russa, forse seccata dalla neutralità degli armeni nei confronti del conflitto ucraino, pur vantando interessi economici e un dispiegamento di truppe non certo indifferente sul suolo armeno e karabakho; gli stati dell’Unione Europea, che a parte qualche singolo non stanno prestando particolare attenzione nei confronti di questi nuovi fatti; gli Stati Uniti, che hanno dato vita a qualche lamentela insignificante; l’Iran, che si è limitato ad alcune minacce), pur non riguardando più un territorio conteso, ma il suolo della stessa Repubblica di Armenia, internazionalmente riconosciuta (a eccezione del Pakistan, che non la riconosce affatto).

L’indifferenza, ambiguità e ambivalenza della maggioranza dei media è tanto più disgustosa, in particolare di quelli “progressisti” o di “Sinistra”, non tanto perché faccia poi tanta differenza, agli occhi di un rivoluzionario, il riconoscimento istituzionale o meno per definire se una lotta è giusta, ma perché questi stessi media che strillano inquieti inneggiando all’”intangibilità dei confini” quando territori come la Nuova Caledonia o la Catalogna rivendicano l’autodeterminazione nazionale e la fine del colonialismo, se ne infischiano quando a vedersi i confini brutalmente assaliti sono piccole popolazioni come gli armeni, pur vantando l’indipendenza.

La situazione interna dei due paesi non è delle migliori. Sono lunghi mesi, dall’ultima offensiva azera nell’Artsakh/Nagorno-Karabakh che la capitale armena è teatro di proteste anche molto accese, che hanno visto occupazioni di piazza e scontri con la polizia (e il corrente governo Pashinyan, di tendenze liberali e filoeuropeiste e portato al potere nel 2018 da una sorta di rivoluzione popolare contro il precedente regime oligarchico, ha seriamente corso il rischio di subire un colpo di Stato), ma purtroppo nessuna forza operaia e rivoluzionaria ha tentato di egemonizzare la situazione o anche soltanto di portare la sua voce tra le masse imponenti. Infatti, l’unico gruppo comunista di rilievo attivo in patria è il Partito Comunista Armeno, di tendenza stalinista e che si distingue più per un acceso filo-russismo che per altro, mentre i gruppi socialisti e rivoluzionari della diaspora sono troppo impegnati a far fronte ai problemi dei territori in cui vivono (come la Brigata Nubar Ozanyan in Siria, che lotta contro Daesh e lo Stato turco). L’Azerbaigian è invece retto da un regime “famigliare”, in cui gli Aliyev governano il paese da trent’anni tramite cene al caviale con i governi stranieri (europei compresi) e il conservatore Partito del Nuovo Azerbaigian da loro controllato, perseguendo politiche liberticide, anti-operaie, razziste (non solo anti-armene, ma anche contro altri popoli entro i suoi confini, cui sono negati tutti i diritti linguistici e culturali, ovvero i Talisci, gli Avari, i Lezgini, i Tati, i Garachi, i Rutuli e gli Jek, che non sono neppure riconosciuti come popolazioni a sé stante), omofobe e oligarchiche. In pratica, è politicamente una sorta di piccola Turchia, Stato che ovviamente figura tra i suoi principali partner e alleati, soprattutto in funzione anti-armena. A corollario di questo orrore, ricordiamo che Ursula von der Leyen ha recentemente firmato un protocollo d’intesa con il regime di Baku riguardante le forniture di gas e, anche qui, i partiti più o meno socialisti più grandi sono dichiaratamente “stalinisti” e da quel che risulta al sottoscritto con posizioni assai ambigue nei confronti della questione dell’Artsakh.

Un altro punto d’interesse è che il regime del capo regime Ilham Aliyev ha costruito una propaganda estera basata sul “diritto internazionale” violato dalla rivale e sul fatto che “l’Armenia non vuole la pace”. Eppure, alla faccia di questo “disinteressato” pacifismo, tutte le violazioni del cessate il fuoco avvenute nel corso degli anni sono state operate dall’esercito azero, che ha cercato più volte di sfondare in Artsakh infischiandosene inizialmente della presenza dei peace-keeper russi, e il 28 maggio scorso hanno assassinato un soldato armeno.

Aliyev non vuole la pace, ed è palese, perché è soltanto con le vittorie militari e l’odio anti-armeno che può mantenere saldi i suoi artigli sul potere statale e avere garantito un certo grado di popolarità presso la popolazione; l’altro mezzo, che comunque impiega, è la repressione delle opposizioni e la censura, e questa da sola non è garanzia di un potere duraturo, soprattutto a fronte del tenore di vita nel paese che non ha fatto altro che diminuire nel corso del tempo. D’altronde, un esempio lampante della retorica razzista dello Stato azero è il caso dell’ufficiale Ramil Safarov, che assassinò nel sonno, a colpi d’ascia, un militare armeno, Gurgen Margaryan, durante un seminario organizzato dalla NATO nel 2004: l’assassino fu sottratto alla giustizia internazionale tramite l’estradizione nel 2012, proclamato eroe nazionale in Azerbaigian, graziato, promosso e premiato da Aliyev.

L’Armenia non è uno stato socialista od operaio, certo, segue anzi politiche liberali e capitaliste, che peraltro hanno causato danni non indifferenti al tenore di vita dei suoi abitanti dopo la ristrutturazione anticomunista che seguì la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Detto questo, bisogna specificare che sotto diversi aspetti è il territorio della regione in cui il movimento operaio ha maggiore agibilità, rispetto alla nazionalista e filo-atlantista Georgia e al regime infame e reazionario in Azerbaigian. Entrambi questi ultimi due paesi sono contraddistinti da politiche nazionaliste e conservatrici e da movimenti rivendicativi nei confronti di territori che desiderano autodeterminarsi (Abcasia e Ossezia del Sud, purtroppo fortemente dipendenti dall’imperialismo russo, lo Javakh e il Nagorno-Karabakh armeni, gli azeri nella Georgia orientale, i Talisci, i Lezgini e gli altri popoli caucasici oppressi dalle politiche coloniali e repressive azere), mentre l’Armenia non solo riconosce, ma tutela e incoraggia attivamente le minoranze del suo territorio, pur essendo originate da diaspore avvenute nel corso degli ultimi due secoli e non disponendo di un territorio proprio (Assiri, curdi/yazidi, russi e altri), a cui è garantita la rappresentanza politica in parlamento, anche se in forme certamente migliorabili.

Ciò che il movimento operaio dovrebbe rivendicare in questo contesto è l’immediato riconoscimento e il sostegno dei diritti degli armeni del Nagorno-Karabakh, la cessazione delle ostilità e delle politiche reazionarie dell’Azerbaigian, il sostegno al proletariato di entrambi i paesi con il fine di costruire un movimento rivoluzionario degno di questo nome e il rovesciamento dei rispettivi governi per costruire delle repubbliche operaie sotto controllo proletario, con l’obiettivo, se plausibile, di creare una federazione socialista del Caucaso che garantisca i diritti nazionali a tutti i popoli che vi risiedono, compresi quelli attualmente assoggettati alla Russia, come i ceceni, gli ingusci, i circassi, i balcari, i nogai e gli altri popoli del Daghestan, e quelli rivendicati dalla Georgia, come gli osseti e gli abcasi. Non c’è soluzione alle guerre e ai conflitti tra i popoli della regione fintanto che si troveranno sottoposti a regimi sgraditi e con i propri diritti nazionali lesi, così come non ci sarà pace fintanto che a comandare saranno i padroni e non i lavoratori.




Nota

1 - Un esempio del razzismo manifesto di questo genere di “socialisti panturchisti”, tratto da “The Bolsheviks and the National Question, 1917-23”, di Jeremy Smith, 1999, Palgrave Macmillan: «A much stronger attitude was displayed by the head of the Karabakh Guberniia Revkom, Asad Karaev. This character's solution to the Karabakh and Zangezur problems was violent and overtly racist. He wrote to the Gerusin Revkom: Anyone who understands the psychology of Armenians... [knows that] there is not a single Armenian who will not betray everything for money... Your old policy of occupying Karabakh and Zangezur with troops was deeply mistaken. We know that our forces are broken and have retreated, but today instead of armed forces our money is working miracles. Again and again I repeat my advice - do not spare any sum, increase salaries, give them bonuses and anything they want. The government has decided that to unite Karabakh and Zangezur to Azerbaijan it will issue 200 million roubles» [«Un atteggiamento molto più forte è stato mostrato dal capo del Karabakh Guberniia Revkom, Asad Karaev. La sua soluzione ai problemi di Karabakh e Zangezur è stata violenta e apertamente razzista. Ha scritto a Gerusin Revkom: «Chiunque comprenda la psicologia degli armeni... [sa che] non c'è un solo armeno che non tradirà per soldi... La tua vecchia politica di occupare Karabakh e Zangezur con le truppe è stata profondamente sbagliata. Le nostre forze sono state distrutte e si sono ritirate, ma oggi invece delle forze armate i nostri soldi stanno facendo miracoli. Ripeto sempre il mio consiglio: non risparmiare nessuna somma, aumentare gli stipendi, dare loro bonus e tutto ciò che vogliono. Il governo ha deciso che per unire Karabakh e Zangezur all'Azerbaigian emetterà 200 milioni di rubli».

Alessio Ecoretti