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Il significato del 25 settembre

 


La vittoria della destra reazionaria postfascista. La necessità di un partito indipendente della classe lavoratrice

27 Settembre 2022

A fronte di un salto dell'astensione, particolarmente marcata nel Sud e nelle periferie urbane, la destra è l'indiscussa vincitrice delle elezioni del 25 settembre. La sua coalizione amplia considerevolmente la percentuale del 2018 (dal 37% al 44%) e consegue la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere. Dunque si prepara a governare l'Italia.
Il fatto che a un secolo esatto dalla marcia su Roma gli eredi postfascisti di quella storia assumano le redini del governo è tristemente significativo. Non allude alla prossimità di un regime ma certo introduce una netta torsione reazionaria, contro diritti civili, democratici, sociali.

Fratelli d'Italia (26%) capitalizza il proprio ruolo di opposizione nel decennio, la presunta novità di Giorgia Meloni, le crescenti contraddizioni del blocco sociale leghista, ma soprattutto il vuoto dell'opposizione di classe negli anni cruciali della pandemia e della crisi sociale (per responsabilità preminente della burocrazia sindacale).
All'interno del centrodestra regge la ridotta di Berlusconi, nonostante la scissione dei ministri uscenti, mentre Salvini paga il prezzo del proprio coinvolgimento di governo. La pressione dei governatori del Nord per l'ingresso della Lega nel governo Draghi ha presentato il conto al segretario della Lega, che dentro la vittoria del centrodestra è il grande sconfitto di queste elezioni (8,9%). Il fatto che Fratelli d'Italia abbia doppiato la Lega in Veneto misura simbolicamente l'entità della frana e la sua valenza politica. Vedremo se questo avrà ricadute nella vita interna della Lega.

Il Partito Democratico (19%) torna elettoralmente nei pressi del minimo storico del 2018, pagando la continuità del proprio ruolo di partito centrale dell'establishment nell'ultimo decennio. La linea ondivaga e indecifrabile della sua leadership, tra campo largo col M5S e asse draghiano con Calenda, ha ulteriormente appannato la sua immagine. L'impostazione bipolare della campagna elettorale (“O noi o la Meloni”) si è scontrata con l'assenza di una coalizione larga, mentre lo sventolio dell'agenda Draghi si è arenato nella rottura di Calenda.
È rimasto il profilo di un partito (formalmente) attento ai diritti civili ma sprovvisto di ogni proposta sociale appetibile, o anche semplicemente decifrabile, agli occhi della larga massa popolare. Un liberalismo borghese senza popolo, per di più gravato dall'eredità di tutto il peggio delle politiche di austerità e sacrifici. Ora la sconfitta elettorale ricadrà pesantemente sul PD, prevedibilmente diviso tra l'opzione di rilancio dell'asse liberale progressista col M5S e quella di un asse liberalconfindustriale col "terzo polo". Il ritiro annunciato di Letta in vista del prossimo congresso è solo l'inizio della valanga.

Il Movimento 5 Stelle (15,6%) ha realizzato una rimonta indubbia negli ultimi due mesi, rispetto al tracollo vissuto durante la legislatura. Il 32% del 2018 è naturalmente un ricordo lontano, ma il M5S ha riguadagnato il 15% su scala nazionale, il primato in diverse regioni del sud d'Italia, un pacchetto di collegi uninominali.
Conte ha capitalizzato diversi fattori tra loro combinati. Ha occupato lo spazio liberato a sinistra del PD dal corso draghiano di Letta, rivendicando la rappresentanza delle istanze sociali (reddito di cittadinanza, salario minimo). Ha investito nella propria riconoscibilità popolare di ex Presidente del Consiglio, a fronte del profilo algido e aristocratico di Mario Draghi. Ha beneficiato della scissione di Di Maio, rilanciando il mito di un ritorno alle origini, seppur corretto da una curvatura “di sinistra”. Ha soprattutto per questa via conquistato il M5S, marginalizzando progressivamente il ruolo di Grillo e assumendo la tolda di comando, ormai indiscusso, del Movimento.
Ora la sconfitta del PD e le sue contraddizioni laceranti offrono al M5S uno spazio di consolidamento del proprio risultato e della nuova collocazione, peraltro agevolato non solo dal PD ma dalla crisi della sinistra politica e della sua subalternità a un approccio civico democratico.

Il risultato complessivo delle sinistre politiche registra il perdurare della loro crisi, riflesso di una crisi del movimento operaio cui hanno concorso e concorrono in modo determinante.

Sinistra Italiana ha guadato la soglia del 3% ma dentro una coalizione col PD liberale, confermando il cordone ombelicale che la subordina a quel partito. Il suo ruolo parlamentare sarà quello di rilanciare il campo largo coi liberali e col M5S in chiave di “fronte popolare democratico”.
Sul versante opposto, il blocco di Rizzo con organizzazioni sovraniste reazionarie nell'illusione di un possibile approdo istituzionale ha conosciuto una netta sconfitta. Dell'operazione tricolore di Italia Sovrana e Popolare resta la destrutturazione del PC.
Unione Popolare, com'era prevedibile, ha mancato largamente l'obiettivo del quorum (1,4%). Attribuire l'esito esclusivamente ai tempi brevi delle elezioni significa mettere la testa sotto la sabbia. La verità è che tutta l'operazione è stata costruita lungo un cliché abbondantemente sperimentato: la vecchia illusione di poter riguadagnare una presenza parlamentare nascondendo la propria identità sotto i panni di una lista civica di cittadini democratici. La figura di De Magistris, come a suo tempo quella di Ingroia, ha simboleggiato l'operazione, dandole un carattere personalistico in questo caso ancor più marcato. La proposta insistita di un accordo col M5S era figlia di questa stessa impostazione. La suggestione di replicare l'operazione Mélenchon, al netto di ogni considerazione su quest'ultimo, prescindeva totalmente dalla diversità della dinamica di classe nei due paesi, affidandosi a un richiamo retorico privo di basi materiali.
Il tentativo ora di rilancio di Unione Popolare da parte di De Magistris per una «alternativa etica, culturale, sociale, economica e politica nelle istituzioni» nel nome di «una forza credibile e vera di sinistra, pacifista, ambientalista, per i diritti civili, che operi con rigore l’attuazione della Costituzione antifascista» conferma la continuità di una logica cittadinista, estranea alla centralità della lotta di classe e della rappresentanza del lavoro salariato.

Il nodo centrale resta questo, tanto più oggi: la costruzione di un partito della classe lavoratrice, indipendente da tutti i partiti borghesi, capace di ricondurre le lotte di resistenza a una prospettiva anticapitalista. È il partito che manca, l'unico di cui i lavoratori e le lavoratrici hanno bisogno.
La stessa astensione dal voto di ampi settori di salariati è la registrazione indiretta di un vuoto di rappresentanza. È questo il tema che il PCL ha posto in questa stessa campagna elettorale, anche laddove abbiamo potuto essere presenti, cioè alle elezioni del Senato in Liguria. Naturalmente non potevamo riempire noi con le nostre forze il vuoto enorme di rappresentanza del movimento operaio, tanto più in una sola regione. Siamo un piccolissimo partito, che in Liguria ha riportato un risultato assai modesto (anche se triplicato rispetto al 2018, passando da 1500 voti a 4380), ma siamo stati e siamo l'unica organizzazione che pone al centro della propria azione e proposta la ricostruzione di un partito del lavoro su un programma anticapitalista. E che da oggi rilancerà questa proposta nel vivo delle lotte contro l'annunciato governo a guida postfascista. Per la preparazione di un vero sciopero generale.

Solo un'irruzione sul campo della classe lavoratrice, con un ampio fronte unitario di massa, può alzare un argine contro il nuovo governo, allargare le contraddizioni del blocco sociale reazionario, capovolgere i rapporti di forza, aprire dal basso uno scenario nuovo. Il PCL sarà come sempre in prima fila nella ricostruzione di una opposizione di classe e di massa, per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Partito Comunista dei Lavoratori