♠ in aziende,capitalismo,Coronavirus,Covid-19,governo,Il Sole 24 Ore,mascherine,nuovo protocollo,Politecnico di Torino,sindacati,spese militari at 02:53
La nuova intesa tra governo, padroni, burocrazie sindacali
Non potendo portare la realtà al livello dell'esigenza umana, il protocollo adatta l'esigenza alla realtà. Quella del capitalismo, un'organizzazione della società che in Italia spende 30 miliardi annui in spese militari ma non può dare all'operaio nemmeno una mascherina
Il 24 aprile governo, padroni e burocrazie sindacali hanno stipulato un nuovo protocollo d'accordo per “la ripartenza”. Le direzioni sindacali lo hanno presentato come sviluppo del precedente protocollo d'intesa del 14 marzo. In realtà ne rappresenta in larga parte la ricopiatura. L'unica vera novità è il riferimento a non meglio precisati comitati territoriali che dovrebbero vigilare sul rispetto delle norme sanitarie nelle proprie zone. Per il resto nulla di nuovo. Una lunga serie di «possono...» quando si parla dei padroni, di «devono...» quando si parla dei lavoratori. I lavoratori «devono» (giustamente) restare a casa in caso di febbre superiore a 37,5 gradi e informare subito l'azienda se manifestano sintomi di influenza. L'azienda «potrà» disporre di misure protettive. La responsabilità della sicurezza è un obbligo per l'operaio, una facoltà per il suo padrone.
In realtà l'intera logica del protocollo è la “sicurezza” degli operai secondo le disponibilità dei padroni. Una modica quantità di salute compatibile con la legge del profitto, e con le sue miserie. Che questa sia il vero significato dell'intesa lo dimostra l'esempio banale delle mascherine, il dispositivo di protezione individuale elementare. Il protocollo riesce a dire tutto e il suo contrario sull'argomento. Dice che saranno le intese aziendali ad indicare i dispositivi di protezione individuale da adottare «sulla base del complesso dei rischi valutati». Dunque non esiste una prescrizione generale. Poi afferma che le mascherine dovranno essere garantite solo qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza minore di un metro. Ma anche che l'adozione «è evidentemente legata alla disponibilità in commercio» delle stesse. Ma se «evidentemente» in commercio non se ne trovano?
Di più. Si dice che qualora un lavoratore accusi sintomi da Covid-19 dovrà essere posto in isolamento e «dotato, ove già non lo fosse, di una mascherina chirurgica». “Ove già non lo fosse”: dunque l'accordo riconosce, incidentalmente, che l'adozione della mascherina non è dovuta. Insomma, la defatigante trattativa notturna per stipulare l'intesa, di cui ci parlano le cronache, è stata spesa per trovare l'equilibrio fra tutto e il suo opposto. Tra il sì, il no, il forse. Un equilibrio effettivamente non facile, ma nulla a che fare con la sicurezza dei lavoratori.
L'esempio banale delle mascherine demolisce alla radice l'intero castello di carta del protocollo. Se non c'è garanzia neppure del dispositivo di protezione più elementare, se anzi neppure il protocollo la richiede, di cosa stiamo parlando?
La verità è che il protocollo non richiede la mascherina perché nella realtà se ne trovano poche. Secondo il Politecnico di Torino occorrerebbero 35 milioni di mascherine al giorno per coprire la ripartenza. Secondo Il Sole 24 Ore addirittura 40. Ma le 87 aziende rapidamente convertitesi alla loro produzione (perché attratte da incentivi fiscali) ne sfornano al massimo 3 milioni (tre!) su scala giornaliera, mentre il commercio mondiale alza ovunque barriere nazionali protezioniste a difesa dei propri articoli sanitari. Dunque, per dirla con la parole del protocollo, non c'è una adeguata disponibilità di commercio delle mascherine. Per non parlare dei loro prezzi e delle immonde speculazioni in materia.
Non potendo portare la realtà al livello dell'esigenza umana, il protocollo adatta l'esigenza alla realtà. Quella del capitalismo. Quella di un'organizzazione della società che in Italia spende quasi 30 miliardi annui in commesse militari ma non riesce ad assicurare all'operaio neppure venti centimetri di stoffa per la sua protezione dal contagio.
Per non vedere questa enormità occorre essere ciechi. Per non provare scandalo di fronte ad essa occorre essere cinici. Da inguaribili rivoluzionari non siamo né l'uno né l'altro.
In realtà l'intera logica del protocollo è la “sicurezza” degli operai secondo le disponibilità dei padroni. Una modica quantità di salute compatibile con la legge del profitto, e con le sue miserie. Che questa sia il vero significato dell'intesa lo dimostra l'esempio banale delle mascherine, il dispositivo di protezione individuale elementare. Il protocollo riesce a dire tutto e il suo contrario sull'argomento. Dice che saranno le intese aziendali ad indicare i dispositivi di protezione individuale da adottare «sulla base del complesso dei rischi valutati». Dunque non esiste una prescrizione generale. Poi afferma che le mascherine dovranno essere garantite solo qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza minore di un metro. Ma anche che l'adozione «è evidentemente legata alla disponibilità in commercio» delle stesse. Ma se «evidentemente» in commercio non se ne trovano?
Di più. Si dice che qualora un lavoratore accusi sintomi da Covid-19 dovrà essere posto in isolamento e «dotato, ove già non lo fosse, di una mascherina chirurgica». “Ove già non lo fosse”: dunque l'accordo riconosce, incidentalmente, che l'adozione della mascherina non è dovuta. Insomma, la defatigante trattativa notturna per stipulare l'intesa, di cui ci parlano le cronache, è stata spesa per trovare l'equilibrio fra tutto e il suo opposto. Tra il sì, il no, il forse. Un equilibrio effettivamente non facile, ma nulla a che fare con la sicurezza dei lavoratori.
L'esempio banale delle mascherine demolisce alla radice l'intero castello di carta del protocollo. Se non c'è garanzia neppure del dispositivo di protezione più elementare, se anzi neppure il protocollo la richiede, di cosa stiamo parlando?
La verità è che il protocollo non richiede la mascherina perché nella realtà se ne trovano poche. Secondo il Politecnico di Torino occorrerebbero 35 milioni di mascherine al giorno per coprire la ripartenza. Secondo Il Sole 24 Ore addirittura 40. Ma le 87 aziende rapidamente convertitesi alla loro produzione (perché attratte da incentivi fiscali) ne sfornano al massimo 3 milioni (tre!) su scala giornaliera, mentre il commercio mondiale alza ovunque barriere nazionali protezioniste a difesa dei propri articoli sanitari. Dunque, per dirla con la parole del protocollo, non c'è una adeguata disponibilità di commercio delle mascherine. Per non parlare dei loro prezzi e delle immonde speculazioni in materia.
Non potendo portare la realtà al livello dell'esigenza umana, il protocollo adatta l'esigenza alla realtà. Quella del capitalismo. Quella di un'organizzazione della società che in Italia spende quasi 30 miliardi annui in commesse militari ma non riesce ad assicurare all'operaio neppure venti centimetri di stoffa per la sua protezione dal contagio.
Per non vedere questa enormità occorre essere ciechi. Per non provare scandalo di fronte ad essa occorre essere cinici. Da inguaribili rivoluzionari non siamo né l'uno né l'altro.