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Il colpo di mano reazionario di Viktor Orbán

Il premier ungherese Viktor Orbán ha realizzato un colpo di mano di chiaro stampo reazionario in Ungheria, imprimendo una ulteriore torsione bonapartista al proprio regime. I sogni analoghi di Matteo Salvini spiegano il suo prontissimo plauso al premier magiaro.

Facendo leva sull'emergenza sanitaria del coronavirus, Orbán ha concentrato nelle proprie mani poteri eccezionali senza limiti di tempo, incluso quello di prolungare ad libitum lo stato d'emergenza già in vigore. In aggiunta, chi dovesse diffondere “notizie false” sul virus (false per il regime) rischia cinque anni di carcere. Una enormità.

Le leggi speciali non sono un inedito per Orbán. Al governo dal 2010, forte di un consenso maggioritario nella società magiara (ma non nella città di Budapest), il premier ha progressivamente rafforzato il proprio potere, con ripetute leggi speciali che hanno subordinato i media e la magistratura al controllo dell'esecutivo. L'ultimo colpo di mano rappresenta un ulteriore passo di questa deriva. Il voto parlamentare a favore dei poteri eccezionali da parte della maggioranza assoluta del Parlamento, con l'opposizione dei borghesi liberali e socialdemocratici da un lato e del partito fascista Jobbik dall'altro, è solo la formale copertura “democratica” del colpo di mano. Il premier infatti, grazie ai poteri conferitigli dal proprio partito, può giungere a sciogliere il Parlamento stesso e a modificare qualsiasi legge. I principali gruppi imprenditoriali del paese, a partire dal blocco dei grandi oligarchi, sostiene apertamente Orbán, da cui riceve servigi straordinari, tra cui tasse irrisorie.

Colpisce il balbettio del liberalismo borghese europeo nei confronti del regime ungherese. Il PPE, cui Orbán appartiene, si divide combinando critiche formali e imbarazzati silenzi. Lo stesso fanno i diversi governi europei. È un silenzio eloquente. Da un lato rivela la paura che una rottura con l'Ungheria possa trascinare con sé una rottura col gruppo di Visegrád e precipitare un processo di dissoluzione della UE. Dall'altro lato, misura indirettamente i processi di involuzione della stessa democrazia liberale in Europa sotto la pressione dell'emergenza sanitaria e della recessione continentale che si profila.

Di certo, sul piano interno, l'unica alternativa al regime di Orbán è il movimento operaio ungherese. I processi di investimento estero in Ungheria, attratti dai vantaggi fiscali e salariali, hanno ammassato nel paese un proletariato industriale di grandi dimensioni, concentrato in molte grandi e medie fabbriche. Un anno fa importanti scioperi operai hanno sfidato per la prima volta il governo e le sue leggi favorevoli all'allungamento dell'orario di lavoro, ed in particolare straordinari obbligatori e non pagati. Questa è la classe sociale che può prendere la testa di una più ampia opposizione sociale e politica al regime e dare a questa una prospettiva politica realmente alternativa. Di certo non lo possono fare i gruppi dell'opposizione liberal-democratica, che erano disposti a negoziare con Orbán la prosecuzione dei poteri eccezionali per tre mesi, offrendogli in cambio i propri voti, e che alla fine sono stati ignorati e scaricati dal premier, dopo essere stati umiliati.

Lo stesso vale, in altra forma e contesto, su scala continentale. L'aggravarsi della crisi sociale porrà sul tappeto, una volta di più, il bivio di prospettiva tra rivoluzione e reazione in Europa. Solo la prospettiva di un governo dei lavoratori, sul terreno della lotta di classe, può indicare un'alternativa progressiva alla crisi della vecchia democrazia borghese liberale. I fatti di Ungheria ci dicono una volta di più che, fuori da questa prospettiva, la crisi del liberalismo può generare mostri.
Partito Comunista dei Lavoratori