♠ in Bergamo,blocco,Confindustria,contagio,Coronavirus,Cura Italia,DPI,FFP2,mascherine,OOSS,portaletetre,Poste Italiane,raccomandata at 02:22
Due dipendenti postali a Bergamo, uno a Lecce e uno a Merate sono morti per il contagio da Covid-19. La dirigente sindacale dell'SLC-CGIL Bergamo ha chiaramente denunciato la connessione tra il contagio e le condizioni di lavoro di portalettere e impiegati degli uffici postali.
In perfetta sintonia con i vertici di Confindustria, anche i vertici di Poste Italiane SpA sono pronti a sacrificare la vita e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici nel nome della quadratura dei bilanci, della difesa degli imponenti utili e della concorrenza con le altre aziende private per difendere le proprie quote di mercato.
Una schifosa competizione mortifera nel nome del profitto, che mette in mostra come questa tragica pandemia sia diventata disvelatrice di tutte le inaccettabili contraddizioni di questa società.
Non è quindi un caso che, come per la gran parte della classe lavoratrice d'Italia, la salute e la sicurezza dei lavoratori sia considerata come inevitabilmente e inderogabilmente sacrificabile, ben più della garanzia dei profitti dei loro padroni e delle loro amministrazioni.
Così, nei vari decreti, si è molto dettagliati nel fornire garanzie, benefici fiscali e blocchi dei pagamenti – finanziati con le contribuzioni e le tasse della grande massa di salariati, gli unici che non possono evadere il fisco con le stesse gabole finanziarie dei loro padroni – ma non si è altrettanto precisi e dettagliati nel garantire misure di sicurezza, DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) e le loro caratteristiche minime (come le mascherine, il gel igienizzante e i guanti), pieno salario per i contagiati e a chi rimane a casa per il fermo delle lavorazioni a causa dell'emergenza e così via.
Per cui, padroni, ministri e burocrazie sindacali fanno riunioni e conferenze Skype, dal comfort sicuro delle loro regge, con cui decidono che i salariati devono continuare a lavorare senza tutele minime reali, senza contare tutta quella enorme fetta di lavoratori in nero, spesso e volentieri giovani e/o immigrati senza diritti e sotto ricatto, che non sono neppure sfiorati dai ragionamenti delle trattative.
LA RACCOMANDATA VAL BEN UN CONTAGIO: DOV'È' LA SICUREZZA?
Ma non serve andare così distante, perché anche l'azienda misto pubblico-privato più grande d'Italia, con 130.000 dipendenti – che hanno appena subito pesanti ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali in cambio di miseri aumenti salariali e riduzione di diritti e garanzie – e oltre 1,5 miliardi di utili in un anno, triplicati rispetto ai 500 milioni del 2018, sempre grazie ai sacrifici di quei lavoratori che ne sono ossatura e muscolatura, manda al macello tutti i giorni chi gli garantisce dividendi e fatturato.
Così Poste Italiane dà vita a un tragicomico valzer di fasulle misure di precauzione, dichiarate sulla carta, applicate a singhiozzo e col contagocce nei vari uffici postali, di recapito, centri di smistamento e produzione e negli uffici impiegatizi.
L'azienda ha ovviamente aspettato gli “obblighi” di un governo compiacente per cominciare a muovere i primi passi, e anche quando l'emergenza – dell'epidemia prima e della pandemia poi – era evidente e acclarata, le misure sono rimaste insufficienti, tardive e applicate a spizzichi e bocconi, spesso delegate direttamente all'autorecupero sul mercato locale dei singoli direttori e capisquadra.
Poste ha così la pretesa di far credere ai suoi dipendenti che basti mantenere un metro di distanza tra lavoratori e con gli utenti, incuranti del fatto che non si sta parlando di uffici statici e chiusi al pubblico, e giustificando così la mancanza della necessità di mascherine FFP2 o di quelle chirurgiche, guanti e gel igienizzanti, nonostante le disposizioni di Istituto Superiore di Sanità e Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nonostante questo alibi di carta, l'azienda ha fornito a ogni dipendente una maschera FFP2 con valvola – con un periodo di usura di 8 ore di utilizzo, ergo poco meno di un turno di lavoro, con la clausola che quella sarebbe dovuta bastare a tempo indefinito e che, per essere sicuri, sarebbe stato sufficiente “igienizzarla” con dell'alcol ogni giorno.
Passata una settimana, alle prime rimostranze dei vertici nazionali dei principali sindacati – CISL, CGIL, UIL, FAILP, UGL – le FFP2 vengono sostituite con cosiddette “mascherine” composte da due strisce sovrapposte di tessuto non tessuto – una sorta di panno cattura polvere con due buchi per le orecchie. Sostanzialmente inutili, perché dopo qualche ora di utilizzo si usurano, filtrano a malapena polveri e batteri, e non riescono a coprire contemporaneamente bocca e naso.
Queste farse sono ampiamente coperte dal decreto “Cura Italia”, che sembra curare principalmente tasche e interessi dei padroni ma non la salute pubblica e dei lavoratori. Infatti, mentre le mascherine chirurgiche vengono definite DPI, con un comma si permette di derogare sulle certificazioni senza stabilire caratteristiche minime da garantire, e si legittima la mancata fornitura ai lavoratori in caso di impossibilità di reperirle sul mercato, senza per questo prevedere il blocco delle lavorazioni.
In più, l'azienda, per rassicurare i lavoratori ha fatto nel giro di settimane e con estrema lentezza una sanificazione sola per ufficio, come se i lavoratori degli uffici di recapito non uscissero tutti i giorni per entrare a contatto con centinaia di persone e migliaia di portoni, ambienti e superfici potenzialmente contaminanti, per poi raggrupparsi nuovamente nell'ufficio. O come se gli uffici postali, a maggior ragione chiudendone qualcuno, non vedessero centinaia di persone entrare e uscire ogni giorno, per quanto scaglionate.
Negli uffici (postali e di recapito), intanto, si genera il caos con indicazioni sulle modalità di lavorazione dei prodotti a firma, quelli più a rischio perché richiedono il diretto contatto con l'utente. Un caos dovuto, appunto, ad una sconclusionata e parziale chiusura degli uffici postali in cui ritirare i prodotti giacenti, con cambiamenti quotidiani. Per fare un esempio, nel giro di qualche giorno si è passati dal blocco della consegna degli atti giudiziari all'obbligo di mettere l'avviso in cassetta (ergo facendo fare al postino un giro a vuoto, poi un secondo giro per la seconda comunicazione di giacenza il giorno dopo, e poi costringendo l'utente a recarsi all'ufficio postale, che magari nel frattempo è stato chiuso, per ritirare un atto di un procedimento giudiziario che probabilmente è stato sospeso o prorogato, sempre a causa dell'emergenza), e infine alla possibilità di immetterli in cassetta, come viene fatto per le raccomandate normali. Anche per l'immissione in cassetta delle raccomandate ordinarie si è passati dal mantenimento della consegna a mano per ditte e uffici alla "postalizzazione" anche per quei destinatari, accorgendosi che anche quei luoghi sono frequentati da persone potenzialmente contagiose.
Rimane che non sempre è possibile per il portalettere garantire di non trovarsi a meno di un metro da un utente o di entrare in contatto con un locale o una superficie potenzialmente contaminante, soprattutto dopo la conferma che il virus può rimanere attivo fino a 72 ore su plastica e metalli.
A tutto questo si aggiunge anche il mancato rispetto dei normali accordi sindacali e del limitato protocollo d'intesa siglato tra sindacati, governo e Confindustria. Infatti dapprima Poste si è accordata con le OOSS per una riduzione del 25% del personale in servizio attraverso una rotazione settimanale del personale, lasciando intendere l'utilizzo degli ammortizzatori sociali e in particolare della cassa integrazione all'80% del salario. Poi viene rimandato l'incontro per definire la remunerazione e l'inquadramento regolamentare di questa turnazione. Infine l'azienda ha deciso, unilateralmente e improvvisamente, di sospendere qualsiasi turnazione e di far tornare in servizio la totalità dei dipendenti in barba alle disposizioni finalizzate alla rarefazione delle presenze negli uffici di recapito.
Nonostante questo caos e l'emergenza sanitaria, non si sono mai interrotte le pressioni alla massimizzazione della consegna, con la consueta tiritera dei ricatti nei confronti dei precari, spingendo alla consegna dei prioritari anche delle zone spente per compensare la riduzione dei prodotti postali in consegna (con una mano tolgono carico lavorativo, con l'altra lo aumentano da dietro) e, comunque, continuando a far arrivare ai portalettere prodotti che non sono affatto urgenti, indispensabili, improrogabili o essenziali (come le pubblicità, le réclame, rendicontazioni, cartoline, etc.) nonostante gli impegni presi.
PICCOLE E TIMIDE REAZIONI. BISOGNA GENERALIZZARE LA LOTTA!
In risposta a tutto questo si sono sviluppate piccole e timide rimostranze tra alcuni portalettere.
Di fronte al blocco degli scioperi e alla definizione di servizio essenziale, in un settore non particolarmente noto negli ultimi anni per la sua combattività, lo spauracchio di ritorsioni anche pesanti ha dato il colpo di grazia a qualsiasi possibilità di vedere scintille di mobilitazione particolarmente conflittuali. A questo va anche aggiunto un abile lavoro dei vertici sindacali e della ramificata struttura sindacale della CISL – egemone in Poste Italiane – nel frenare qualsiasi spirito bollente, giustificare l'azienda, ridimensionare i timori sui rischi e quant'altro potesse venire comodo per buttare acqua sul fuoco.
Le uniche reazioni un po' più consistenti sono state astensioni dal lavoro in contestazione all'assenza di DPI e igienizzazioni, con lavoratori che hanno presentato rimostranze scritte o autodichiarazioni, facendo appello in particolare al Testo Unico sulla sicurezza (Decreto legislativo 81/08), tornando a casa o rimanendo nei piazzali a distanza di sicurezza attendendo la fine del turno di lavoro. Reazioni però a macchia di leopardo, spesso individuali e solo raramente capaci di coinvolgere i lavoratori di tutto un ufficio.
Tutti i sindacati di base – CUB Poste, SLG-CUB Poste, SI Cobas Poste, Cobas Poste – hanno fin da subito posto la rivendicazione del blocco del servizio, ma sono presenze assolutamente marginali e prive di reale influenza in questa azienda.
Anche settori territoriali particolarmente combattivi della SLC-CGIL, però, si sono lanciati fin da subito nella pretesa del blocco del servizio (fatte salve le reali lavorazioni essenziali e improrogabili, come i pagamenti delle pensioni e le consegne urgenti), come quello ligure e quello lombardo.
Anche con il decreto del 22 marzo, con cui viene intimato il blocco di una piccolissima parte della produzione, e a cui Confindustria si è opposta apertamente ottenendo un ulteriore affievolimento al primo elenco di attività da fermare, il governo non prevede nulla di diverso per il settore postale, delle consegne e della logistica. Considerandoli a pieno titolo servizi essenziali, non viene previsto alcun blocco temporaneo, nessuna particolare imposizione ai datori di lavoro e alle amministrazioni per quanto riguarda la fornitura di dispositivi di protezione individuali, nessuna particolare indicazione di quali merci, prodotti e servizi siano indispensabili e quali no.
Tutto questo mette in evidenza una cosa che era già chiara da principio, ma che viene sempre di più a galla: se il profitto, le rendite e i fatturati vengono prima della salute e della vita dei lavoratori e delle lavoratrici, per imporre condizioni e misure di sicurezza necessarie per la salute pubblica e per i lavoratori stessi non rimangono che i rapporti di forza dati dalla lotta di classe e dalla combattività della classe lavoratrice.
E in questo diviene altrettanto evidente come le burocrazie sindacali, in particolare quelle confederali della triade CGIL-CISL-UIL, si presentino come incapaci, o peggio complici del padronato. Incapaci di difendere gli interessi della classe lavoratrice nel suo complesso e di organizzarla in termini sufficienti a porre la propria forza nella società per determinare scelte politiche, sociali ed economiche.
Per fare questo diviene oggi più che mai necessario coordinare in maniera autorganizzata tutte le realtà lavorative e gli uffici che hanno espresso forme di conflittualità; tutti i delegati e le delegate sindacali attivi nell'opporsi a questo stato di cose, a prescindere dalla loro appartenenza sindacale; tutti e tutte le lavoratrici e i lavoratori combattivi disposti ad attivarsi per pretendere il blocco delle operazioni postali per almeno quindici giorni e, laddove non sia possibile, la garanzia di condizioni igienico-sanitarie di lavoro e forniture di DPI per ridurre al minimo il rischio contagio o, altrimenti, fermare anche lì il lavoro.
Questo nel quadro e nella prospettiva di una unificazione di tutti i fronti del lavoro che si stanno mobilitando per pretendere che anche i lavoratori e le lavoratrici di tutti i settori non essenziali e emergenziali possano stare a casa per proteggersi e proteggere dal contagio, contro i decreti farsa del governo PD-M5S, contro le pretese sporche di sangue di Confindustria, e in alternativa alla linea morbida delle burocrazie sindacali nazionali.
In perfetta sintonia con i vertici di Confindustria, anche i vertici di Poste Italiane SpA sono pronti a sacrificare la vita e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici nel nome della quadratura dei bilanci, della difesa degli imponenti utili e della concorrenza con le altre aziende private per difendere le proprie quote di mercato.
Una schifosa competizione mortifera nel nome del profitto, che mette in mostra come questa tragica pandemia sia diventata disvelatrice di tutte le inaccettabili contraddizioni di questa società.
Non è quindi un caso che, come per la gran parte della classe lavoratrice d'Italia, la salute e la sicurezza dei lavoratori sia considerata come inevitabilmente e inderogabilmente sacrificabile, ben più della garanzia dei profitti dei loro padroni e delle loro amministrazioni.
Così, nei vari decreti, si è molto dettagliati nel fornire garanzie, benefici fiscali e blocchi dei pagamenti – finanziati con le contribuzioni e le tasse della grande massa di salariati, gli unici che non possono evadere il fisco con le stesse gabole finanziarie dei loro padroni – ma non si è altrettanto precisi e dettagliati nel garantire misure di sicurezza, DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) e le loro caratteristiche minime (come le mascherine, il gel igienizzante e i guanti), pieno salario per i contagiati e a chi rimane a casa per il fermo delle lavorazioni a causa dell'emergenza e così via.
Per cui, padroni, ministri e burocrazie sindacali fanno riunioni e conferenze Skype, dal comfort sicuro delle loro regge, con cui decidono che i salariati devono continuare a lavorare senza tutele minime reali, senza contare tutta quella enorme fetta di lavoratori in nero, spesso e volentieri giovani e/o immigrati senza diritti e sotto ricatto, che non sono neppure sfiorati dai ragionamenti delle trattative.
LA RACCOMANDATA VAL BEN UN CONTAGIO: DOV'È' LA SICUREZZA?
Ma non serve andare così distante, perché anche l'azienda misto pubblico-privato più grande d'Italia, con 130.000 dipendenti – che hanno appena subito pesanti ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali in cambio di miseri aumenti salariali e riduzione di diritti e garanzie – e oltre 1,5 miliardi di utili in un anno, triplicati rispetto ai 500 milioni del 2018, sempre grazie ai sacrifici di quei lavoratori che ne sono ossatura e muscolatura, manda al macello tutti i giorni chi gli garantisce dividendi e fatturato.
Così Poste Italiane dà vita a un tragicomico valzer di fasulle misure di precauzione, dichiarate sulla carta, applicate a singhiozzo e col contagocce nei vari uffici postali, di recapito, centri di smistamento e produzione e negli uffici impiegatizi.
L'azienda ha ovviamente aspettato gli “obblighi” di un governo compiacente per cominciare a muovere i primi passi, e anche quando l'emergenza – dell'epidemia prima e della pandemia poi – era evidente e acclarata, le misure sono rimaste insufficienti, tardive e applicate a spizzichi e bocconi, spesso delegate direttamente all'autorecupero sul mercato locale dei singoli direttori e capisquadra.
Poste ha così la pretesa di far credere ai suoi dipendenti che basti mantenere un metro di distanza tra lavoratori e con gli utenti, incuranti del fatto che non si sta parlando di uffici statici e chiusi al pubblico, e giustificando così la mancanza della necessità di mascherine FFP2 o di quelle chirurgiche, guanti e gel igienizzanti, nonostante le disposizioni di Istituto Superiore di Sanità e Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nonostante questo alibi di carta, l'azienda ha fornito a ogni dipendente una maschera FFP2 con valvola – con un periodo di usura di 8 ore di utilizzo, ergo poco meno di un turno di lavoro, con la clausola che quella sarebbe dovuta bastare a tempo indefinito e che, per essere sicuri, sarebbe stato sufficiente “igienizzarla” con dell'alcol ogni giorno.
Passata una settimana, alle prime rimostranze dei vertici nazionali dei principali sindacati – CISL, CGIL, UIL, FAILP, UGL – le FFP2 vengono sostituite con cosiddette “mascherine” composte da due strisce sovrapposte di tessuto non tessuto – una sorta di panno cattura polvere con due buchi per le orecchie. Sostanzialmente inutili, perché dopo qualche ora di utilizzo si usurano, filtrano a malapena polveri e batteri, e non riescono a coprire contemporaneamente bocca e naso.
Queste farse sono ampiamente coperte dal decreto “Cura Italia”, che sembra curare principalmente tasche e interessi dei padroni ma non la salute pubblica e dei lavoratori. Infatti, mentre le mascherine chirurgiche vengono definite DPI, con un comma si permette di derogare sulle certificazioni senza stabilire caratteristiche minime da garantire, e si legittima la mancata fornitura ai lavoratori in caso di impossibilità di reperirle sul mercato, senza per questo prevedere il blocco delle lavorazioni.
In più, l'azienda, per rassicurare i lavoratori ha fatto nel giro di settimane e con estrema lentezza una sanificazione sola per ufficio, come se i lavoratori degli uffici di recapito non uscissero tutti i giorni per entrare a contatto con centinaia di persone e migliaia di portoni, ambienti e superfici potenzialmente contaminanti, per poi raggrupparsi nuovamente nell'ufficio. O come se gli uffici postali, a maggior ragione chiudendone qualcuno, non vedessero centinaia di persone entrare e uscire ogni giorno, per quanto scaglionate.
Negli uffici (postali e di recapito), intanto, si genera il caos con indicazioni sulle modalità di lavorazione dei prodotti a firma, quelli più a rischio perché richiedono il diretto contatto con l'utente. Un caos dovuto, appunto, ad una sconclusionata e parziale chiusura degli uffici postali in cui ritirare i prodotti giacenti, con cambiamenti quotidiani. Per fare un esempio, nel giro di qualche giorno si è passati dal blocco della consegna degli atti giudiziari all'obbligo di mettere l'avviso in cassetta (ergo facendo fare al postino un giro a vuoto, poi un secondo giro per la seconda comunicazione di giacenza il giorno dopo, e poi costringendo l'utente a recarsi all'ufficio postale, che magari nel frattempo è stato chiuso, per ritirare un atto di un procedimento giudiziario che probabilmente è stato sospeso o prorogato, sempre a causa dell'emergenza), e infine alla possibilità di immetterli in cassetta, come viene fatto per le raccomandate normali. Anche per l'immissione in cassetta delle raccomandate ordinarie si è passati dal mantenimento della consegna a mano per ditte e uffici alla "postalizzazione" anche per quei destinatari, accorgendosi che anche quei luoghi sono frequentati da persone potenzialmente contagiose.
Rimane che non sempre è possibile per il portalettere garantire di non trovarsi a meno di un metro da un utente o di entrare in contatto con un locale o una superficie potenzialmente contaminante, soprattutto dopo la conferma che il virus può rimanere attivo fino a 72 ore su plastica e metalli.
A tutto questo si aggiunge anche il mancato rispetto dei normali accordi sindacali e del limitato protocollo d'intesa siglato tra sindacati, governo e Confindustria. Infatti dapprima Poste si è accordata con le OOSS per una riduzione del 25% del personale in servizio attraverso una rotazione settimanale del personale, lasciando intendere l'utilizzo degli ammortizzatori sociali e in particolare della cassa integrazione all'80% del salario. Poi viene rimandato l'incontro per definire la remunerazione e l'inquadramento regolamentare di questa turnazione. Infine l'azienda ha deciso, unilateralmente e improvvisamente, di sospendere qualsiasi turnazione e di far tornare in servizio la totalità dei dipendenti in barba alle disposizioni finalizzate alla rarefazione delle presenze negli uffici di recapito.
Nonostante questo caos e l'emergenza sanitaria, non si sono mai interrotte le pressioni alla massimizzazione della consegna, con la consueta tiritera dei ricatti nei confronti dei precari, spingendo alla consegna dei prioritari anche delle zone spente per compensare la riduzione dei prodotti postali in consegna (con una mano tolgono carico lavorativo, con l'altra lo aumentano da dietro) e, comunque, continuando a far arrivare ai portalettere prodotti che non sono affatto urgenti, indispensabili, improrogabili o essenziali (come le pubblicità, le réclame, rendicontazioni, cartoline, etc.) nonostante gli impegni presi.
PICCOLE E TIMIDE REAZIONI. BISOGNA GENERALIZZARE LA LOTTA!
In risposta a tutto questo si sono sviluppate piccole e timide rimostranze tra alcuni portalettere.
Di fronte al blocco degli scioperi e alla definizione di servizio essenziale, in un settore non particolarmente noto negli ultimi anni per la sua combattività, lo spauracchio di ritorsioni anche pesanti ha dato il colpo di grazia a qualsiasi possibilità di vedere scintille di mobilitazione particolarmente conflittuali. A questo va anche aggiunto un abile lavoro dei vertici sindacali e della ramificata struttura sindacale della CISL – egemone in Poste Italiane – nel frenare qualsiasi spirito bollente, giustificare l'azienda, ridimensionare i timori sui rischi e quant'altro potesse venire comodo per buttare acqua sul fuoco.
Le uniche reazioni un po' più consistenti sono state astensioni dal lavoro in contestazione all'assenza di DPI e igienizzazioni, con lavoratori che hanno presentato rimostranze scritte o autodichiarazioni, facendo appello in particolare al Testo Unico sulla sicurezza (Decreto legislativo 81/08), tornando a casa o rimanendo nei piazzali a distanza di sicurezza attendendo la fine del turno di lavoro. Reazioni però a macchia di leopardo, spesso individuali e solo raramente capaci di coinvolgere i lavoratori di tutto un ufficio.
Tutti i sindacati di base – CUB Poste, SLG-CUB Poste, SI Cobas Poste, Cobas Poste – hanno fin da subito posto la rivendicazione del blocco del servizio, ma sono presenze assolutamente marginali e prive di reale influenza in questa azienda.
Anche settori territoriali particolarmente combattivi della SLC-CGIL, però, si sono lanciati fin da subito nella pretesa del blocco del servizio (fatte salve le reali lavorazioni essenziali e improrogabili, come i pagamenti delle pensioni e le consegne urgenti), come quello ligure e quello lombardo.
Anche con il decreto del 22 marzo, con cui viene intimato il blocco di una piccolissima parte della produzione, e a cui Confindustria si è opposta apertamente ottenendo un ulteriore affievolimento al primo elenco di attività da fermare, il governo non prevede nulla di diverso per il settore postale, delle consegne e della logistica. Considerandoli a pieno titolo servizi essenziali, non viene previsto alcun blocco temporaneo, nessuna particolare imposizione ai datori di lavoro e alle amministrazioni per quanto riguarda la fornitura di dispositivi di protezione individuali, nessuna particolare indicazione di quali merci, prodotti e servizi siano indispensabili e quali no.
Tutto questo mette in evidenza una cosa che era già chiara da principio, ma che viene sempre di più a galla: se il profitto, le rendite e i fatturati vengono prima della salute e della vita dei lavoratori e delle lavoratrici, per imporre condizioni e misure di sicurezza necessarie per la salute pubblica e per i lavoratori stessi non rimangono che i rapporti di forza dati dalla lotta di classe e dalla combattività della classe lavoratrice.
E in questo diviene altrettanto evidente come le burocrazie sindacali, in particolare quelle confederali della triade CGIL-CISL-UIL, si presentino come incapaci, o peggio complici del padronato. Incapaci di difendere gli interessi della classe lavoratrice nel suo complesso e di organizzarla in termini sufficienti a porre la propria forza nella società per determinare scelte politiche, sociali ed economiche.
Per fare questo diviene oggi più che mai necessario coordinare in maniera autorganizzata tutte le realtà lavorative e gli uffici che hanno espresso forme di conflittualità; tutti i delegati e le delegate sindacali attivi nell'opporsi a questo stato di cose, a prescindere dalla loro appartenenza sindacale; tutti e tutte le lavoratrici e i lavoratori combattivi disposti ad attivarsi per pretendere il blocco delle operazioni postali per almeno quindici giorni e, laddove non sia possibile, la garanzia di condizioni igienico-sanitarie di lavoro e forniture di DPI per ridurre al minimo il rischio contagio o, altrimenti, fermare anche lì il lavoro.
Questo nel quadro e nella prospettiva di una unificazione di tutti i fronti del lavoro che si stanno mobilitando per pretendere che anche i lavoratori e le lavoratrici di tutti i settori non essenziali e emergenziali possano stare a casa per proteggersi e proteggere dal contagio, contro i decreti farsa del governo PD-M5S, contro le pretese sporche di sangue di Confindustria, e in alternativa alla linea morbida delle burocrazie sindacali nazionali.
Cristian Briozzo
I Dispositivi di Protezione Individuale forniti da Poste Italiane