♠ in allarmismo,avanguardia,Confindustria,Conte,controllo operaio,Coronavirus,FIOM,governo,Protocollo di intesa,salario,scioperi,sciopero generale,sindacati,testo congiunto,Unità di classe at 02:35
24 Marzo 2020
Gli scioperi operai riprendono e si allargano, contro la pretesa di Confindustria e governo di imporre la continuità della produzione e del lavoro, a prescindere da ogni condizione di sicurezza per chi lavora, da ogni rapporto con la distribuzione territoriale del contagio, da ogni attinenza reale con le esigenze essenziali sanitarie e alimentari.
Gli scioperi hanno investito un'ampia gamma di grandi aziende, da Nord a Sud, dal gruppo Leonardo a DEMA, il cuore del proletariato industriale in produzione. È un fatto che impatta sulle relazioni industriali tra burocrazie sindacali e padronato, e al tempo stesso riflette la loro impasse.
LA LINEA DELLE BUROCRAZIE SINDACALI
La politica di collaborazione con Confindustria perseguita in queste settimane dalle direzioni sindacali conosce una crisi profonda. Basta ricostruire le tappe dell'ultimo mese.
A fine febbraio e a inizio contagio i vertici di CGIL, CISL e UIL firmavano un testo congiunto con le organizzazioni padronali all'insegna del “basta allarmismo”, "l'Italia non si ferma”. Erano gli stessi giorni in cui Confindustria lombarda imponeva l'esclusione di Bergamo e Brescia da ogni “soluzione Codogno”, nel nome della continuità produttiva. Una responsabilità criminale.
Esploso il contagio, di fronte agli scioperi operai sul tema sicurezza, le direzioni sindacali si affrettavano a firmare in piena notte un Protocollo di intesa col padronato (14 marzo) obiettivamente truffaldino, che non poneva alcun vincolo reale agli industriali mentre imponeva comportamenti vincolanti agli operai. Una soluzione talmente grottesca da lasciare basita la stessa FIOM.
Una settimana dopo, di fronte alla continuità degli scioperi (nonostante il protocollo di accordo), le direzioni sindacali, a partire dalla segreteria CGIL, hanno proposto a padroni e governo di sospendere provvisoriamente la produzione per «evitare che la paura dei lavoratori si trasformi in rabbia» (Landini): una sorta di disinnesco concordato della miccia, nel segno della “comune responsabilità” di fronte all'emergenza sanitaria. Una chiusura produttiva di unità nazionale.
CONFINDUSTRIA TIRA LA CORDA
Qui però l'operazione conosce un clamoroso incidente. Confindustria prima condivide l'accordo che formalmente sanciva la sospensione della produzione per due settimane nei settori produttivi non essenziali (sanitario e alimentare), pur chiedendo contropartite finanziarie ingenti. Ma poche ore dopo attiva dietro le quinte un lavoro di pressione sul governo, e direttamente sul Presidente del Consiglio, per ottenere l'allargamento a dismisura dei settori produttivi da mantenere aperti (tessile, aero-spazio, difesa...), obiettivamente estranei all'emergenza. Di più: pretende che siano i prefetti a decidere in ultima istanza quali sono le fabbriche da tenere aperte, in quanto “strategiche”. Conte annuisce, e allarga l'elenco delle produzioni aperte sotto dettatura telefonica di Confindustria, come lui stesso in qualche modo riconosce. Il tutto ha un solo significato politico: governo e padronato scaricano le burocrazie sindacali dopo aver abusato della loro collaborazione.
Le burocrazie, ed in particolare la CGIL, si sono trovate dentro una morsa. Da un lato, un governo cui hanno garantito sin dall'inizio un sostegno politico aperto e una Confindustria con cui non vogliono rompere. Dall'altro, il rischio concreto di vedersi scavalcate da quella rabbia dei lavoratori che si voleva disinnescare. Da qui una duplice operazione: un comunicato di protesta con la minaccia di uno sciopero generale – che non si vuole – quale strumento di pressione sul governo per ottenere un nuovo incontro e recuperare un accordo minimamente presentabile; parallelamente la copertura degli scioperi di fabbrica subito annunciati nei territori, a partire dai metalmeccanici, per evitare di perdere il controllo sulla dinamica di conflitto e quindi cercare di pilotarlo.
Questa è la partita aperta. Ogni attore in commedia ha un margine di manovra limitato, a fronte di una situazione obbiettivamente drammatica sotto il profilo sociale e sanitario.
Confindustria ha il fiato sul collo di una pletora di padroni e padroncini che temono la propria catastrofe.
La burocrazia sindacale è sotto la pressione sociale di un conflitto di cui non vuole perdere il controllo, nell'interesse stesso del padronato.
Il governo non può e non vuole rompere né con Confindustria, da cui riceve il mandato, né con la burocrazia sindacale, su cui si appoggia.
Tutti vogliono la ricomposizione di un equilibrio, nessuno controlla il terreno su cui realizzarla. La situazione resta dunque fluida e instabile.
IL COMPITO DELL'AVANGUARDIA
Tanto più in questo quadro, il compito dell'avanguardia e di tutte le forze classiste è quello di lavorare alla più ampia unità di classe sul terreno della massima chiarezza.
La dinamica degli scioperi in corso conferma la proposta di sciopero generale che il nostro partito ha posto, controcorrente, a partire dal primo sciopero di FCA Pomigliano. Landini offre copertura sindacale agli scioperi territoriali e di fabbrica, premurandosi di precisare che non propone un'azione in senso generale. L'esigenza dell'avanguardia di classe è esattamente opposta: promuovere gli scioperi, generalizzarli, trasformarli in uno sciopero generale.
Parallelamente, la pressione del contagio a partire dalla Lombardia conferma la centralità delle rivendicazioni indicate: chiusura di ogni attività, ad eccezione ovviamente del servizio sanitario, nelle situazioni di massima intensità del contagio, a partire da Bergamo, Brescia, Lombardia; controllo dei lavoratori sulle condizioni della sicurezza in ogni luogo di lavoro, in ogni settore, e su scala nazionale, inclusa la produzione alimentare e il lavoro negli ospedali: condizioni che solo i lavoratori possono accertare, non certo i padroni né tanto meno i prefetti; copertura salariale piena al 100% per tutti i lavoratori e le lavoratrici esentati dalla produzione, in tutti i settori.
I militanti e le militanti del PCL portano e porteranno questa proposta in ogni lotta e iniziativa sindacale. Per un fronte unico di classe e di massa.
Gli scioperi hanno investito un'ampia gamma di grandi aziende, da Nord a Sud, dal gruppo Leonardo a DEMA, il cuore del proletariato industriale in produzione. È un fatto che impatta sulle relazioni industriali tra burocrazie sindacali e padronato, e al tempo stesso riflette la loro impasse.
LA LINEA DELLE BUROCRAZIE SINDACALI
La politica di collaborazione con Confindustria perseguita in queste settimane dalle direzioni sindacali conosce una crisi profonda. Basta ricostruire le tappe dell'ultimo mese.
A fine febbraio e a inizio contagio i vertici di CGIL, CISL e UIL firmavano un testo congiunto con le organizzazioni padronali all'insegna del “basta allarmismo”, "l'Italia non si ferma”. Erano gli stessi giorni in cui Confindustria lombarda imponeva l'esclusione di Bergamo e Brescia da ogni “soluzione Codogno”, nel nome della continuità produttiva. Una responsabilità criminale.
Esploso il contagio, di fronte agli scioperi operai sul tema sicurezza, le direzioni sindacali si affrettavano a firmare in piena notte un Protocollo di intesa col padronato (14 marzo) obiettivamente truffaldino, che non poneva alcun vincolo reale agli industriali mentre imponeva comportamenti vincolanti agli operai. Una soluzione talmente grottesca da lasciare basita la stessa FIOM.
Una settimana dopo, di fronte alla continuità degli scioperi (nonostante il protocollo di accordo), le direzioni sindacali, a partire dalla segreteria CGIL, hanno proposto a padroni e governo di sospendere provvisoriamente la produzione per «evitare che la paura dei lavoratori si trasformi in rabbia» (Landini): una sorta di disinnesco concordato della miccia, nel segno della “comune responsabilità” di fronte all'emergenza sanitaria. Una chiusura produttiva di unità nazionale.
CONFINDUSTRIA TIRA LA CORDA
Qui però l'operazione conosce un clamoroso incidente. Confindustria prima condivide l'accordo che formalmente sanciva la sospensione della produzione per due settimane nei settori produttivi non essenziali (sanitario e alimentare), pur chiedendo contropartite finanziarie ingenti. Ma poche ore dopo attiva dietro le quinte un lavoro di pressione sul governo, e direttamente sul Presidente del Consiglio, per ottenere l'allargamento a dismisura dei settori produttivi da mantenere aperti (tessile, aero-spazio, difesa...), obiettivamente estranei all'emergenza. Di più: pretende che siano i prefetti a decidere in ultima istanza quali sono le fabbriche da tenere aperte, in quanto “strategiche”. Conte annuisce, e allarga l'elenco delle produzioni aperte sotto dettatura telefonica di Confindustria, come lui stesso in qualche modo riconosce. Il tutto ha un solo significato politico: governo e padronato scaricano le burocrazie sindacali dopo aver abusato della loro collaborazione.
Le burocrazie, ed in particolare la CGIL, si sono trovate dentro una morsa. Da un lato, un governo cui hanno garantito sin dall'inizio un sostegno politico aperto e una Confindustria con cui non vogliono rompere. Dall'altro, il rischio concreto di vedersi scavalcate da quella rabbia dei lavoratori che si voleva disinnescare. Da qui una duplice operazione: un comunicato di protesta con la minaccia di uno sciopero generale – che non si vuole – quale strumento di pressione sul governo per ottenere un nuovo incontro e recuperare un accordo minimamente presentabile; parallelamente la copertura degli scioperi di fabbrica subito annunciati nei territori, a partire dai metalmeccanici, per evitare di perdere il controllo sulla dinamica di conflitto e quindi cercare di pilotarlo.
Questa è la partita aperta. Ogni attore in commedia ha un margine di manovra limitato, a fronte di una situazione obbiettivamente drammatica sotto il profilo sociale e sanitario.
Confindustria ha il fiato sul collo di una pletora di padroni e padroncini che temono la propria catastrofe.
La burocrazia sindacale è sotto la pressione sociale di un conflitto di cui non vuole perdere il controllo, nell'interesse stesso del padronato.
Il governo non può e non vuole rompere né con Confindustria, da cui riceve il mandato, né con la burocrazia sindacale, su cui si appoggia.
Tutti vogliono la ricomposizione di un equilibrio, nessuno controlla il terreno su cui realizzarla. La situazione resta dunque fluida e instabile.
IL COMPITO DELL'AVANGUARDIA
Tanto più in questo quadro, il compito dell'avanguardia e di tutte le forze classiste è quello di lavorare alla più ampia unità di classe sul terreno della massima chiarezza.
La dinamica degli scioperi in corso conferma la proposta di sciopero generale che il nostro partito ha posto, controcorrente, a partire dal primo sciopero di FCA Pomigliano. Landini offre copertura sindacale agli scioperi territoriali e di fabbrica, premurandosi di precisare che non propone un'azione in senso generale. L'esigenza dell'avanguardia di classe è esattamente opposta: promuovere gli scioperi, generalizzarli, trasformarli in uno sciopero generale.
Parallelamente, la pressione del contagio a partire dalla Lombardia conferma la centralità delle rivendicazioni indicate: chiusura di ogni attività, ad eccezione ovviamente del servizio sanitario, nelle situazioni di massima intensità del contagio, a partire da Bergamo, Brescia, Lombardia; controllo dei lavoratori sulle condizioni della sicurezza in ogni luogo di lavoro, in ogni settore, e su scala nazionale, inclusa la produzione alimentare e il lavoro negli ospedali: condizioni che solo i lavoratori possono accertare, non certo i padroni né tanto meno i prefetti; copertura salariale piena al 100% per tutti i lavoratori e le lavoratrici esentati dalla produzione, in tutti i settori.
I militanti e le militanti del PCL portano e porteranno questa proposta in ogni lotta e iniziativa sindacale. Per un fronte unico di classe e di massa.