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18 Marzo 2020
Il governo dà i numeri. La manovra aggiuntiva sul coronavirus ha ballato ogni giorno in queste settimane. Prima 3,5 miliardi, poi 7,5, poi 12, poi 25 miliardi ma spendendone subito solo 12, infine 25 miliardi da spendere tutti che attiverebbero per l'effetto leva addirittura 350 miliardi... Una «manovra poderosa», esclama compiaciuto il Presidente del Consiglio gonfiando il petto. E indubbiamente lo sforzo c'è stato, sotto la frusta della crisi. Ma tanto più perché lo sforzo c'è stato, emerge paradossalmente la sproporzione enorme tra l'entità obiettiva del disastro e le capacità strutturali di una manovra di bilancio dentro il quadro capitalista. E questo sia in rapporto alla crisi sanitaria, sia in rapporto alla crisi sociale.
PANNICELLI CALDI PER LA CRISI SANITARIA
La crisi sanitaria non si annuncia breve. Sia per la dinamica di propagazione del contagio sia per la difficoltà di tenuta di un servizio sanitario disossato negli anni dalle politiche di austerità. Difficoltà che il contagio sta spingendo verso un'autentica precipitazione.
Solo per attrezzare adeguatamente in mezzi e numeri le terapie intensive occorrerebbero – secondo le stime non sospettabili del Sole 24 Ore – 12 miliardi di nuovi investimenti. Poi c'è il problema più generale dei posti letto, degli spazi adeguati per il numero crescente di ricoveri, della necessità di non abbandonare la cura delle altre patologie, della riorganizzazione dei pronto soccorso, della rimessa in piedi dei presidi ospedalieri soppressi, dunque dell'ampliamento enorme di organici necessari nel personale medico e paramedico, e di tutta la strumentazione necessaria; oltre alla riconduzione sotto controllo pubblico dell'intero sistema sanitario, nazionalizzando la sanità privata.
Mettiamola così: dopo 37 miliardi di tagli diretti o indiretti alla sanità pubblica, il solo riassetto del servizio sanitario in condizioni normali richiederebbe un investimento complessivo che almeno raddoppi l'attuale spesa sanitaria in Italia, che in termini di incidenza percentuale sul PIL è la più bassa tra i principali paesi dell'UE. A maggior ragione questo raddoppio sarebbe necessario a fronte della situazione straordinaria che si è determinata e che si profila per il prossimo futuro.
Invece, in piena emergenza sanitaria, la manovra aggiuntiva del governo prima stanzia per la sanità 1 miliardo, poi lo estende a 3,5 miliardi, comprendendovi la protezione civile. Meglio dei soliti tagli, si potrebbe dire, oggi peraltro improponibili. Ma rispetto al disastro sanitario? Solo spiccioli.
Persino i dettagli legati all'emergenza sono emblematici.
Ad esempio. Sembrano disponibili 10000 nuovi medici per via del riconoscimento del carattere abilitante della laurea. Una misura in sé positiva, se solo si combinasse col finanziamento delle specializzazioni. Ma l'organico necessario richiederebbe un incremento di medici cinque volte superiore, per non parlare degli infermieri. Tuttavia siccome nonostante tutto occorre continuare a “risparmiare”, si richiamano in servizio i medici in pensione e si blocca l'accesso alla pensione dei medici che ne hanno diritto, pur sapendo che l'età avanzata accresce l'impatto di un possibile contagio. E che già oggi si contano migliaia di operatori sanitari contagiati anche perché spesso mancano (persino per loro) i dispositivi più elementari di protezione e gli esami tampone. Sostituire lavoratori provati dall'età e oggi da orari di lavoro massacranti non dovrebbe essere una necessità elementare anche in relazione all'emergenza?
Oppure. Si dà alle regioni la possibilità di requisire, se necessario, locali e mezzi della sanità privata. Benissimo. Ma poi si dice che se lo si fa occorre pagare ai privati l'indennizzo al 100% del valore requisito, negoziandolo di volta in volta con gli azionisti delle cliniche e i loro consigli di amministrazione. Ma come, già la sanità privata è lautamente finanziata con risorse pubbliche sottratte al servizio sanitario di tutti, e ora dovremmo pure pagare i privati con altre risorse pubbliche solo per poter usare temporaneamente le loro strutture? E questo nel mezzo della più grave crisi sanitaria della storia italiana! Si dirà che l'indennizzo è previsto dai manuali del diritto e dalla Costituzione. Vero. Ma questo prova per l'appunto la natura borghese dell'ordine istituzionale e sociale vigente, non certo l'interesse generale della società.
LA MANOVRA E LA CRISI SOCIALE
La crisi è poi una crisi economica e sociale. E per alcuni aspetti la crisi sociale avrà probabilmente un corso più lungo del contagio virale.
L'Europa capitalista è destinata alla recessione, l'Italia è già in recessione. E la nuova recessione italiana si sovrappone agli effetti ancora operanti della recessione del 2008 e poi di quella del 2012, una autentica depressione economica che ha ridotto del 25% la base industriale in Italia. La risultante sarà una nuova stagione di miseria sociale. Settori di classe media, legati al commercio, al turismo, alla ristorazione, subiranno un colpo frontale, come già si profila. Un'ampia fascia di piccole partite Iva scivolerà nella disoccupazione senza disporre di protezioni sociali. Centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici precari saranno gettati su una strada. La classe operaia dell'industria verrà colpita dal calvario annunciato di chiusure aziendali, tagli produttivi, fusioni e scomposizioni societarie, senza più disporre dello scudo protettivo dell'articolo 18 come nelle crisi precedenti. La cassa integrazione ordinaria e straordinaria, già in salita verticale negli ultimi mesi del 2019, conoscerà una nuova espansione, con i relativi tagli salariali. Ciò che viviamo in queste settimane è solo l'antipasto di ciò che sarà.
Una risposta alla crisi che sia all'altezza della sua radicalità richiederebbe misure altrettanto radicali: blocco dei licenziamenti, nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano, ripartizione generale del lavoro con la riduzione generale dell'orario a parità di paga, regolarizzazione dei lavoratori precari, salario pieno ai lavoratori e lavoratrici che debbono assentarsi dal lavoro per accudire i figli, un vero salario garantito ai disoccupati, un grande piano di lavori pubblici in tutti i settori di pubblica utilità, a partire da ambiente, sanità, istruzione.
Tutto ciò richiederebbe l'investimento di risorse enormi, se si pensa che la sola messa in sicurezza di scuole, ospedali e territorio ammonterebbe secondo stime prudenziali a non meno di 400 miliardi. Risorse che si possono finanziare solo con una patrimoniale seria sulle grandi ricchezze, con l'abolizione del debito pubblico, con la drastica riduzione delle spese militari.
Il governo del capitalismo italiano segue ben altre logiche. Non ciò che è necessario, ma ciò che è compatibile con l'interesse del capitale.
“Nessuno perderà il lavoro” dichiara solennemente il Presidente del Consiglio. Ma il blocco dei licenziamenti viene limitato a due soli mesi: non inferisce sulle migliaia di licenziamenti che in queste settimane già sono fioccati nella ristorazione, nel turismo, nei trasporti, nella logistica, nella giungla delle ditte d'appalto e delle cooperative; né su quelli che verranno programmati oggi per essere esecutivi tra sessanta giorni, tanto più nel contesto immutato del Jobs Act.
La cassa integrazione è molto rafforzata, con l'ampia estensione della deroga. Ma viene negata a milioni di colf e badanti che si vedranno private del lavoro, né è accessibile all'esercito di lavoratori in nero (quasi 4 milioni in Italia), di cui i padroni se necessario si libereranno con disinvoltura. E in ogni caso l'amputazione del 20% del salario, a fronte di stipendi già impoveriti, sarà un duro colpo alle condizioni di vita di ampi settori di lavoro dipendente.
Si estende a 15 giorni il congedo indennizzato dal lavoro per chi ha figli sotto i dodici anni. Ma è un tempo assai limitato rispetto alle necessità imposte dall'accudimento dei figli, e finirà col ricadere soprattutto sulle donne. Mentre il salario è ridotto al 50%, con una penalizzazione obiettivamente proibitiva.
“Diamo sostegno ai lavoratori autonomi con ben 2,8 miliardi” dichiara soddisfatto il ministro dell'economia. Ma siccome la cifra va divisa per milioni di lavoratori (piccoli commercianti, artigiani, coltivatori, co.co.co., stagionali del turismo e dell'agricoltura con almeno 50 giorni di lavoro nel 2019), si riduce a 600 euro una tantum: una miseria con cui non campa nessuno. Mentre lo stesso reddito di cittadinanza, già condizionato da una miriade di requisiti, è oggi amputato dal fatto che chi ne usufruisce non può fare acquisti on line, oltre ai suoi limiti temporali, alla nota esclusione dal reddito degli immigrati che non abbiano residenza da almeno dieci anni, alla penalizzazione delle famiglie numerose.
IL SOLO ASPETTO “PODEROSO” È L'AIUTO AI CAPITALISTI
Si può continuare a lungo, ma la conclusione è chiara. La manovra sociale «poderosa» è solo il galleggiamento nel disastro sanitario e sociale, quello sì poderoso davvero. E serve a nascondere l'altra faccia della medaglia dei provvedimenti in corso, quelli ben più generosi a favore del capitale: la garanzia pubblica sui crediti delle banche, che in sé mobilita a favore dei loro azionisti una montagna di risorse pubbliche; il sostegno all'export della filiera del made in Italy per una cifra di 2,6 miliardi messi dallo Stato a garanzia della SACE; il fondo di garanzia pubblica per le piccole e medie imprese (1,2 miliardi) sino a coprire l'80% del finanziamento; la copertura pubblica delle esposizioni della Cassa Depositi e Prestiti fino all'80% della sua esposizione. Cui si aggiunge la promessa di «ristorare la perdita di fatturato dei singoli settori produttivi» come annuncia la sottosegretaria all'economia Laura Castelli (M5S).
Qual è la ratio di queste misure? Il sostegno pubblico ai capitalisti, ed in particolare alle banche.
Le banche italiane hanno subito l'onda d'urto della grande crisi del 2008, con una montagna di crediti inesigibili da ripetute convulsioni e bancarotte (Monte dei Paschi, Banche Venete, Carige, Popolare di Bari...). Si sono rifatte grazie a fusioni, taglio massiccio del personale per 30000 lavoratori, rialzo delle commesse, e soprattutto soccorso pubblico. Ora una nuova recessione minaccia pesantemente il loro assetto, ciò che lo Stato borghese non può permettersi, perché le banche sono le principali acquirenti di titoli di Stato, cioè i suoi creditori, cioè i suoi finanziatori. E lo sono tanto più in un contesto in cui ogni Stato nazionale gareggia col suo vicino nel ridurre il più possibile il prelievo fiscale sulle imprese, al fine di attrarre gli investimenti di capitale.
Salvare le banche, e cioè i loro grandi azionisti, è dunque per lo Stato il vero imperativo categorico. Come lo è per la BCE, che inaugura una nuova stagione di acquisti di obbligazioni societarie e di titoli di Stato iniettando nelle vene delle banche nazionali un'altra pioggia di miliardi. Del resto non è forse vero che la manovra economica è tutta in deficit per generosa concessione della Commissione UE? E cosa significa una manovra in deficit se non un nuovo finanziamento a debito verso le banche da ripagare loro con lauti interessi (per di più in nuova crescita) messi sul conto dei lavoratori?
Dunque non solo la «manovra poderosa» è infinitamente più modesta della crisi per cui è stata invocata, ma persino le sue modeste concessioni sono messe a carico dei “beneficiari”.
La montagna ha partorito il topolino, e per di più il topolino è a carico del lavoro. Altro che “siamo tutti sulla stessa barca”. Semmai siamo tutti sullo stesso mare, al centro di una tempesta perfetta. Tenere una bussola anticapitalista è tanto più oggi l'unica via per uscirne dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici.
PANNICELLI CALDI PER LA CRISI SANITARIA
La crisi sanitaria non si annuncia breve. Sia per la dinamica di propagazione del contagio sia per la difficoltà di tenuta di un servizio sanitario disossato negli anni dalle politiche di austerità. Difficoltà che il contagio sta spingendo verso un'autentica precipitazione.
Solo per attrezzare adeguatamente in mezzi e numeri le terapie intensive occorrerebbero – secondo le stime non sospettabili del Sole 24 Ore – 12 miliardi di nuovi investimenti. Poi c'è il problema più generale dei posti letto, degli spazi adeguati per il numero crescente di ricoveri, della necessità di non abbandonare la cura delle altre patologie, della riorganizzazione dei pronto soccorso, della rimessa in piedi dei presidi ospedalieri soppressi, dunque dell'ampliamento enorme di organici necessari nel personale medico e paramedico, e di tutta la strumentazione necessaria; oltre alla riconduzione sotto controllo pubblico dell'intero sistema sanitario, nazionalizzando la sanità privata.
Mettiamola così: dopo 37 miliardi di tagli diretti o indiretti alla sanità pubblica, il solo riassetto del servizio sanitario in condizioni normali richiederebbe un investimento complessivo che almeno raddoppi l'attuale spesa sanitaria in Italia, che in termini di incidenza percentuale sul PIL è la più bassa tra i principali paesi dell'UE. A maggior ragione questo raddoppio sarebbe necessario a fronte della situazione straordinaria che si è determinata e che si profila per il prossimo futuro.
Invece, in piena emergenza sanitaria, la manovra aggiuntiva del governo prima stanzia per la sanità 1 miliardo, poi lo estende a 3,5 miliardi, comprendendovi la protezione civile. Meglio dei soliti tagli, si potrebbe dire, oggi peraltro improponibili. Ma rispetto al disastro sanitario? Solo spiccioli.
Persino i dettagli legati all'emergenza sono emblematici.
Ad esempio. Sembrano disponibili 10000 nuovi medici per via del riconoscimento del carattere abilitante della laurea. Una misura in sé positiva, se solo si combinasse col finanziamento delle specializzazioni. Ma l'organico necessario richiederebbe un incremento di medici cinque volte superiore, per non parlare degli infermieri. Tuttavia siccome nonostante tutto occorre continuare a “risparmiare”, si richiamano in servizio i medici in pensione e si blocca l'accesso alla pensione dei medici che ne hanno diritto, pur sapendo che l'età avanzata accresce l'impatto di un possibile contagio. E che già oggi si contano migliaia di operatori sanitari contagiati anche perché spesso mancano (persino per loro) i dispositivi più elementari di protezione e gli esami tampone. Sostituire lavoratori provati dall'età e oggi da orari di lavoro massacranti non dovrebbe essere una necessità elementare anche in relazione all'emergenza?
Oppure. Si dà alle regioni la possibilità di requisire, se necessario, locali e mezzi della sanità privata. Benissimo. Ma poi si dice che se lo si fa occorre pagare ai privati l'indennizzo al 100% del valore requisito, negoziandolo di volta in volta con gli azionisti delle cliniche e i loro consigli di amministrazione. Ma come, già la sanità privata è lautamente finanziata con risorse pubbliche sottratte al servizio sanitario di tutti, e ora dovremmo pure pagare i privati con altre risorse pubbliche solo per poter usare temporaneamente le loro strutture? E questo nel mezzo della più grave crisi sanitaria della storia italiana! Si dirà che l'indennizzo è previsto dai manuali del diritto e dalla Costituzione. Vero. Ma questo prova per l'appunto la natura borghese dell'ordine istituzionale e sociale vigente, non certo l'interesse generale della società.
LA MANOVRA E LA CRISI SOCIALE
La crisi è poi una crisi economica e sociale. E per alcuni aspetti la crisi sociale avrà probabilmente un corso più lungo del contagio virale.
L'Europa capitalista è destinata alla recessione, l'Italia è già in recessione. E la nuova recessione italiana si sovrappone agli effetti ancora operanti della recessione del 2008 e poi di quella del 2012, una autentica depressione economica che ha ridotto del 25% la base industriale in Italia. La risultante sarà una nuova stagione di miseria sociale. Settori di classe media, legati al commercio, al turismo, alla ristorazione, subiranno un colpo frontale, come già si profila. Un'ampia fascia di piccole partite Iva scivolerà nella disoccupazione senza disporre di protezioni sociali. Centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici precari saranno gettati su una strada. La classe operaia dell'industria verrà colpita dal calvario annunciato di chiusure aziendali, tagli produttivi, fusioni e scomposizioni societarie, senza più disporre dello scudo protettivo dell'articolo 18 come nelle crisi precedenti. La cassa integrazione ordinaria e straordinaria, già in salita verticale negli ultimi mesi del 2019, conoscerà una nuova espansione, con i relativi tagli salariali. Ciò che viviamo in queste settimane è solo l'antipasto di ciò che sarà.
Una risposta alla crisi che sia all'altezza della sua radicalità richiederebbe misure altrettanto radicali: blocco dei licenziamenti, nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano, ripartizione generale del lavoro con la riduzione generale dell'orario a parità di paga, regolarizzazione dei lavoratori precari, salario pieno ai lavoratori e lavoratrici che debbono assentarsi dal lavoro per accudire i figli, un vero salario garantito ai disoccupati, un grande piano di lavori pubblici in tutti i settori di pubblica utilità, a partire da ambiente, sanità, istruzione.
Tutto ciò richiederebbe l'investimento di risorse enormi, se si pensa che la sola messa in sicurezza di scuole, ospedali e territorio ammonterebbe secondo stime prudenziali a non meno di 400 miliardi. Risorse che si possono finanziare solo con una patrimoniale seria sulle grandi ricchezze, con l'abolizione del debito pubblico, con la drastica riduzione delle spese militari.
Il governo del capitalismo italiano segue ben altre logiche. Non ciò che è necessario, ma ciò che è compatibile con l'interesse del capitale.
“Nessuno perderà il lavoro” dichiara solennemente il Presidente del Consiglio. Ma il blocco dei licenziamenti viene limitato a due soli mesi: non inferisce sulle migliaia di licenziamenti che in queste settimane già sono fioccati nella ristorazione, nel turismo, nei trasporti, nella logistica, nella giungla delle ditte d'appalto e delle cooperative; né su quelli che verranno programmati oggi per essere esecutivi tra sessanta giorni, tanto più nel contesto immutato del Jobs Act.
La cassa integrazione è molto rafforzata, con l'ampia estensione della deroga. Ma viene negata a milioni di colf e badanti che si vedranno private del lavoro, né è accessibile all'esercito di lavoratori in nero (quasi 4 milioni in Italia), di cui i padroni se necessario si libereranno con disinvoltura. E in ogni caso l'amputazione del 20% del salario, a fronte di stipendi già impoveriti, sarà un duro colpo alle condizioni di vita di ampi settori di lavoro dipendente.
Si estende a 15 giorni il congedo indennizzato dal lavoro per chi ha figli sotto i dodici anni. Ma è un tempo assai limitato rispetto alle necessità imposte dall'accudimento dei figli, e finirà col ricadere soprattutto sulle donne. Mentre il salario è ridotto al 50%, con una penalizzazione obiettivamente proibitiva.
“Diamo sostegno ai lavoratori autonomi con ben 2,8 miliardi” dichiara soddisfatto il ministro dell'economia. Ma siccome la cifra va divisa per milioni di lavoratori (piccoli commercianti, artigiani, coltivatori, co.co.co., stagionali del turismo e dell'agricoltura con almeno 50 giorni di lavoro nel 2019), si riduce a 600 euro una tantum: una miseria con cui non campa nessuno. Mentre lo stesso reddito di cittadinanza, già condizionato da una miriade di requisiti, è oggi amputato dal fatto che chi ne usufruisce non può fare acquisti on line, oltre ai suoi limiti temporali, alla nota esclusione dal reddito degli immigrati che non abbiano residenza da almeno dieci anni, alla penalizzazione delle famiglie numerose.
IL SOLO ASPETTO “PODEROSO” È L'AIUTO AI CAPITALISTI
Si può continuare a lungo, ma la conclusione è chiara. La manovra sociale «poderosa» è solo il galleggiamento nel disastro sanitario e sociale, quello sì poderoso davvero. E serve a nascondere l'altra faccia della medaglia dei provvedimenti in corso, quelli ben più generosi a favore del capitale: la garanzia pubblica sui crediti delle banche, che in sé mobilita a favore dei loro azionisti una montagna di risorse pubbliche; il sostegno all'export della filiera del made in Italy per una cifra di 2,6 miliardi messi dallo Stato a garanzia della SACE; il fondo di garanzia pubblica per le piccole e medie imprese (1,2 miliardi) sino a coprire l'80% del finanziamento; la copertura pubblica delle esposizioni della Cassa Depositi e Prestiti fino all'80% della sua esposizione. Cui si aggiunge la promessa di «ristorare la perdita di fatturato dei singoli settori produttivi» come annuncia la sottosegretaria all'economia Laura Castelli (M5S).
Qual è la ratio di queste misure? Il sostegno pubblico ai capitalisti, ed in particolare alle banche.
Le banche italiane hanno subito l'onda d'urto della grande crisi del 2008, con una montagna di crediti inesigibili da ripetute convulsioni e bancarotte (Monte dei Paschi, Banche Venete, Carige, Popolare di Bari...). Si sono rifatte grazie a fusioni, taglio massiccio del personale per 30000 lavoratori, rialzo delle commesse, e soprattutto soccorso pubblico. Ora una nuova recessione minaccia pesantemente il loro assetto, ciò che lo Stato borghese non può permettersi, perché le banche sono le principali acquirenti di titoli di Stato, cioè i suoi creditori, cioè i suoi finanziatori. E lo sono tanto più in un contesto in cui ogni Stato nazionale gareggia col suo vicino nel ridurre il più possibile il prelievo fiscale sulle imprese, al fine di attrarre gli investimenti di capitale.
Salvare le banche, e cioè i loro grandi azionisti, è dunque per lo Stato il vero imperativo categorico. Come lo è per la BCE, che inaugura una nuova stagione di acquisti di obbligazioni societarie e di titoli di Stato iniettando nelle vene delle banche nazionali un'altra pioggia di miliardi. Del resto non è forse vero che la manovra economica è tutta in deficit per generosa concessione della Commissione UE? E cosa significa una manovra in deficit se non un nuovo finanziamento a debito verso le banche da ripagare loro con lauti interessi (per di più in nuova crescita) messi sul conto dei lavoratori?
Dunque non solo la «manovra poderosa» è infinitamente più modesta della crisi per cui è stata invocata, ma persino le sue modeste concessioni sono messe a carico dei “beneficiari”.
La montagna ha partorito il topolino, e per di più il topolino è a carico del lavoro. Altro che “siamo tutti sulla stessa barca”. Semmai siamo tutti sullo stesso mare, al centro di una tempesta perfetta. Tenere una bussola anticapitalista è tanto più oggi l'unica via per uscirne dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici.