♠ in Borsa,Cina,Coronavirus,crisi. capitalismo,debito,economia,Italia,recessione,Trump,UE,Usa at 03:06
11 Marzo 2020
L'altalena delle borse in tutto il mondo dimostra che il contagio in corso non è solo quello del virus. O più precisamente che il coronavirus non si occupa solo della vita delle persone ma anche della borsa dei capitalisti.
Quella parte del commentario borghese che cerca di minimizzare la crisi sanitaria per paura della recessione usa tra i suoi vari argomenti quello per cui molti tra i malati che muoiono non muoiono per il coronavirus ma a causa di patologie pregresse e per la precarietà generale della salute. Il virus agirebbe come semplice concausa del decesso. Non sappiamo se questo argomento può consolare i defunti, ma non è privo di un fondamento. Ecco, lo stesso vale in un certo senso per l'impatto del coronavirus sull'evoluzione economica mondiale. Con l'unica differenza, non secondaria, che... nessun decesso del capitalismo è possibile per effetto di una crisi economica, per quanto grave essa sia, ma solo per mano di una rivoluzione sociale. Ma questo è un altro discorso.
LE PATOLOGIE PREGRESSE DEL CAPITALE
Le tendenze alla recessione internazionale preesistono al coronavirus, e hanno le loro radici nella crisi apertasi nel 2008.
La grande crisi del capitalismo del 2008-2009 non è stata risolta nel suo fondamento strutturale: una gigantesca sovrapproduzione di merci e capitale che investe tutti i rami principali dell'economia e della produzione, a partire dall'acciaio e dall'automobile.
Nell'ultimo decennio quella crisi è stata tamponata dal combinarsi di due elementi: da un lato la tenuta dello sviluppo cinese favorita dal gigantesco investimento pubblico infrastrutturale promosso dal regime di Pechino dopo il 2008 proprio per sottrarsi alla crisi internazionale; dall'altro lato l'enorme iniezione di liquidità sui mercati finanziari da parte di tutte le banche centrali, e degli stessi bilanci pubblici, in proporzioni sconosciute alla intera storia del capitalismo.
Il punto è che entrambi questi fattori, se hanno contenuto la precipitazione, hanno concorso per altra via ad estendere le basi materiali di una nuova crisi.
Per un verso il grande sviluppo capitalistico della Cina e la sua proiezione imperialista su scala mondiale hanno concorso in molti settori ad accrescere la sovrapproduzione complessiva (si pensi all'acciaio); per altro verso l'iniezione di liquidità nelle vene dell'economia mondiale ha prodotto una bolla finanziaria molto più grande di quella che esplose nel 2007-2008 negli USA attorno ai mutui subprime, coinvolgendo oggi la stessa Cina. L'emissione di titoli finanziari da parte delle imprese come forma di autofinanziamento parallelo al credito bancario, e la pratica di acquisto da parte dei capitalisti di azioni della propria azienda (buy-back) per farle lievitare sul mercato hanno rappresentato un nuovo veicolo di sviluppo del debito privato, mentre gli Stati nazionali impegnati a ridurre le tasse dei capitalisti per contendersi gli investimenti esteri hanno continuato a finanziarsi a debito presso il capitale finanziario. La risultante è che oggi la somma di debito pubblico e privato nel mondo raggiunge la cifra iperbolica di 235.000 miliardi. È la misura del parassitismo del capitale.
La ripresa eccezionalmente prolungata del capitalismo USA – effetto di rimbalzo della grande crisi del 2008, e in qualche modo drogata a partire dal 2016 dalle politiche fiscali di Trump – ha tenuto su, nonostante tutto e in una certa misura, il tono dell'economia mondiale. Ma nell'ultimo biennio ha cominciato a delinearsi un nuovo giro di boa. La guerra dei dazi tra USA e Cina, e tra USA e UE, sospinta dalla saturazione dei mercati, dalle contraddizioni interimperialiste, e dal nuovo corso nazionalista dell'imperialismo USA; il rallentamento netto del tasso di sviluppo cinese; la tendenza al ripiegamento del Giappone; il nuovo rallentamento delle principali economie europee con l'arretramento della produzione industriale di Germania, Italia e Francia, hanno configurato nel loro insieme, e nella loro successione, il possibile innesco di una tendenza mondiale recessiva. Non una certezza, ma neppure un'eventualità remota.
L'IRRUZIONE DEL CORONAVIRUS IN UNA ECONOMIA MALATA
Il coronavirus ha fatto la propria irruzione in questo scenario instabile. Ha colpito una economia cinese infinitamente più interconnessa col mercato globale che nei primi anni 2000; e al tempo stesso ha colpito il capitalismo europeo a partire dall'Italia, già trascinata al ribasso dalla crisi tedesca. Lo stesso crollo del prezzo del petrolio è l'effetto non solo della guerra saudita e russa allo shale oil americano, ma anche dell'arretramento dello sviluppo cinese e del calo della produzione industriale che il virus sospinge.
L'Italia è ormai in recessione, con elementi di autentico crollo per settori portanti della sua struttura economica (manifattura, turismo, ristorazione, trasporti, logistica), e la recessione della seconda potenza industriale d'Europa ricadrà a sua volta su una economia continentale già stagnante. Il virus è già sbarcato in America, in un paese privo di un sistema sanitario pubblico, in cui i malati tenderanno a nascondersi per evitare il licenziamento o il costo insostenibile delle cure, col rischio di una propagazione ancor più drammatica che in Europa. Il rodeo delle elezioni presidenziali USA sarà funestato da questo ospite imprevedibile, che Trump fin che può fingerà di ignorare, col solito fare bullesco, ma che a modo suo si occuperà (anche) di Trump.
Le borse mondiali registrano come un sismografo tutto questo scenario, perché il virus può agire come punta di spillo sulla bolla finanziaria che si è ingrandita nel decennio. Il mercato azionario in giro per il mondo aveva registrato autentici record negli ultimi anni, da Wall Street a Piazza Affari. I tassi di interesse bassi o nulli assieme al fiume di liquidità hanno spinto il capitale finanziario verso l'investimento di borsa. Gli azionisti si sono divertiti a comprare e ricomprare le proprie stesse azioni per aumentarne il valore e ingrassare i dividendi. I manager al loro servizio si sono gettati nella corsa per compiacere gli azionisti e gonfiare i propri sontuosi stipendi. Ma quando si sale troppo in alto ci si fa male quando poi si cade. Il divario tra la festa delle borse e la miseria dell'economia reale si era fatto troppo grande per evitare una nuova crisi. Vedremo i suoi tempi, la sua intensità, e le sue forme. Segnaliamo solo il fatto che i margini di intervento delle banche centrali in funzione anticrisi sono minori di dieci anni fa per via dei tassi d'interesse piatti, e i bilanci pubblici degli Stati capitalisti sono gravati da un debito pubblico cresciuto a dismisura proprio per i costi del salvataggio di banche e imprese durante il decennio trascorso.
Una nuova valanga si abbatterà sulle condizioni dei salariati. Il coronavirus è una minaccia, il capitalismo una certezza. Ed è una patologia infinitamente più grave. Lo stesso sistema sociale che ha demolito ovunque i servizi sanitari per sostenere i capitalisti e le banche riverserà nuovamente la propria crisi sulla maggioranza della società a partire dal lavoro.
Anche per questo la guerra contro il coronavirus è inseparabile da quella contro il capitalismo. È il caso di dire: o la Borsa o la vita.
Quella parte del commentario borghese che cerca di minimizzare la crisi sanitaria per paura della recessione usa tra i suoi vari argomenti quello per cui molti tra i malati che muoiono non muoiono per il coronavirus ma a causa di patologie pregresse e per la precarietà generale della salute. Il virus agirebbe come semplice concausa del decesso. Non sappiamo se questo argomento può consolare i defunti, ma non è privo di un fondamento. Ecco, lo stesso vale in un certo senso per l'impatto del coronavirus sull'evoluzione economica mondiale. Con l'unica differenza, non secondaria, che... nessun decesso del capitalismo è possibile per effetto di una crisi economica, per quanto grave essa sia, ma solo per mano di una rivoluzione sociale. Ma questo è un altro discorso.
LE PATOLOGIE PREGRESSE DEL CAPITALE
Le tendenze alla recessione internazionale preesistono al coronavirus, e hanno le loro radici nella crisi apertasi nel 2008.
La grande crisi del capitalismo del 2008-2009 non è stata risolta nel suo fondamento strutturale: una gigantesca sovrapproduzione di merci e capitale che investe tutti i rami principali dell'economia e della produzione, a partire dall'acciaio e dall'automobile.
Nell'ultimo decennio quella crisi è stata tamponata dal combinarsi di due elementi: da un lato la tenuta dello sviluppo cinese favorita dal gigantesco investimento pubblico infrastrutturale promosso dal regime di Pechino dopo il 2008 proprio per sottrarsi alla crisi internazionale; dall'altro lato l'enorme iniezione di liquidità sui mercati finanziari da parte di tutte le banche centrali, e degli stessi bilanci pubblici, in proporzioni sconosciute alla intera storia del capitalismo.
Il punto è che entrambi questi fattori, se hanno contenuto la precipitazione, hanno concorso per altra via ad estendere le basi materiali di una nuova crisi.
Per un verso il grande sviluppo capitalistico della Cina e la sua proiezione imperialista su scala mondiale hanno concorso in molti settori ad accrescere la sovrapproduzione complessiva (si pensi all'acciaio); per altro verso l'iniezione di liquidità nelle vene dell'economia mondiale ha prodotto una bolla finanziaria molto più grande di quella che esplose nel 2007-2008 negli USA attorno ai mutui subprime, coinvolgendo oggi la stessa Cina. L'emissione di titoli finanziari da parte delle imprese come forma di autofinanziamento parallelo al credito bancario, e la pratica di acquisto da parte dei capitalisti di azioni della propria azienda (buy-back) per farle lievitare sul mercato hanno rappresentato un nuovo veicolo di sviluppo del debito privato, mentre gli Stati nazionali impegnati a ridurre le tasse dei capitalisti per contendersi gli investimenti esteri hanno continuato a finanziarsi a debito presso il capitale finanziario. La risultante è che oggi la somma di debito pubblico e privato nel mondo raggiunge la cifra iperbolica di 235.000 miliardi. È la misura del parassitismo del capitale.
La ripresa eccezionalmente prolungata del capitalismo USA – effetto di rimbalzo della grande crisi del 2008, e in qualche modo drogata a partire dal 2016 dalle politiche fiscali di Trump – ha tenuto su, nonostante tutto e in una certa misura, il tono dell'economia mondiale. Ma nell'ultimo biennio ha cominciato a delinearsi un nuovo giro di boa. La guerra dei dazi tra USA e Cina, e tra USA e UE, sospinta dalla saturazione dei mercati, dalle contraddizioni interimperialiste, e dal nuovo corso nazionalista dell'imperialismo USA; il rallentamento netto del tasso di sviluppo cinese; la tendenza al ripiegamento del Giappone; il nuovo rallentamento delle principali economie europee con l'arretramento della produzione industriale di Germania, Italia e Francia, hanno configurato nel loro insieme, e nella loro successione, il possibile innesco di una tendenza mondiale recessiva. Non una certezza, ma neppure un'eventualità remota.
L'IRRUZIONE DEL CORONAVIRUS IN UNA ECONOMIA MALATA
Il coronavirus ha fatto la propria irruzione in questo scenario instabile. Ha colpito una economia cinese infinitamente più interconnessa col mercato globale che nei primi anni 2000; e al tempo stesso ha colpito il capitalismo europeo a partire dall'Italia, già trascinata al ribasso dalla crisi tedesca. Lo stesso crollo del prezzo del petrolio è l'effetto non solo della guerra saudita e russa allo shale oil americano, ma anche dell'arretramento dello sviluppo cinese e del calo della produzione industriale che il virus sospinge.
L'Italia è ormai in recessione, con elementi di autentico crollo per settori portanti della sua struttura economica (manifattura, turismo, ristorazione, trasporti, logistica), e la recessione della seconda potenza industriale d'Europa ricadrà a sua volta su una economia continentale già stagnante. Il virus è già sbarcato in America, in un paese privo di un sistema sanitario pubblico, in cui i malati tenderanno a nascondersi per evitare il licenziamento o il costo insostenibile delle cure, col rischio di una propagazione ancor più drammatica che in Europa. Il rodeo delle elezioni presidenziali USA sarà funestato da questo ospite imprevedibile, che Trump fin che può fingerà di ignorare, col solito fare bullesco, ma che a modo suo si occuperà (anche) di Trump.
Le borse mondiali registrano come un sismografo tutto questo scenario, perché il virus può agire come punta di spillo sulla bolla finanziaria che si è ingrandita nel decennio. Il mercato azionario in giro per il mondo aveva registrato autentici record negli ultimi anni, da Wall Street a Piazza Affari. I tassi di interesse bassi o nulli assieme al fiume di liquidità hanno spinto il capitale finanziario verso l'investimento di borsa. Gli azionisti si sono divertiti a comprare e ricomprare le proprie stesse azioni per aumentarne il valore e ingrassare i dividendi. I manager al loro servizio si sono gettati nella corsa per compiacere gli azionisti e gonfiare i propri sontuosi stipendi. Ma quando si sale troppo in alto ci si fa male quando poi si cade. Il divario tra la festa delle borse e la miseria dell'economia reale si era fatto troppo grande per evitare una nuova crisi. Vedremo i suoi tempi, la sua intensità, e le sue forme. Segnaliamo solo il fatto che i margini di intervento delle banche centrali in funzione anticrisi sono minori di dieci anni fa per via dei tassi d'interesse piatti, e i bilanci pubblici degli Stati capitalisti sono gravati da un debito pubblico cresciuto a dismisura proprio per i costi del salvataggio di banche e imprese durante il decennio trascorso.
Una nuova valanga si abbatterà sulle condizioni dei salariati. Il coronavirus è una minaccia, il capitalismo una certezza. Ed è una patologia infinitamente più grave. Lo stesso sistema sociale che ha demolito ovunque i servizi sanitari per sostenere i capitalisti e le banche riverserà nuovamente la propria crisi sulla maggioranza della società a partire dal lavoro.
Anche per questo la guerra contro il coronavirus è inseparabile da quella contro il capitalismo. È il caso di dire: o la Borsa o la vita.