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Strano ma virus

Gli scioperi operai e i cambiamenti della psicologia di massa

14 Marzo 2020
Gli scioperi operai di questi tre ultimi giorni contro l'assenza delle misure di sicurezza sono il più importante episodio di lotta degli ultimi anni all'interno delle fabbriche italiane. Lo sono per la loro diffusione territoriale, dal nord al sud Italia. Lo sono per la diversità dei comparti industriali coinvolti, dai metalmeccanici alla cantieristica alla chimica alla logistica. Lo sono per il tasso di partecipazione elevatissima che hanno registrato tra i lavoratori e le lavoratrici, molto superiore a quello dei (pochi) scioperi ordinari convocati ritualmente dalle burocrazie. Lo sono per il loro carattere spesso spontaneo, ciò che ha sorpreso i vertici sindacali e lo stesso governo, che infatti si è affrettato a convocare sindacati e industriali a stretto giro di posta per cercare di tappare la falla.


GLI SCIOPERI OPERAI NELLA SORPRESA GENERALE

Non capitava da tempo che scioperi operai avessero un impatto politico diretto. Naturalmente è al momento solo un episodio. Naturalmente si è prodotto in un contesto politico eccezionale, segnato da un'emergenza pubblica senza precedenti nel dopoguerra italiano. Tuttavia è esattamente questa emergenza pubblica ad aver spinto in avanti gli scioperi. Questo è il punto. “Il coronavirus riscopre la lotta di classe” titola in prima pagina un organo di stampa borghese on line. L'articolista non avrebbe mai immaginato di dover ricorrere a quel titolo. Esso riflette, nel linguaggio borghese, la sorpresa generale. Gli operai? Nessuno li aveva considerati negli ultimi anni se non come oggetto statistico, o curiosità sociologica, o bacino elettorale. Neppure... le direzioni sindacali ne avevano avvertito la presenza, se non per qualche parata d'immagine a uso telecamere: al punto che la stessa apertura della stagione contrattuale per nove milioni di lavoratori nel solo settore privato è come fosse assente dallo scenario pubblico. Né scioperi, né manifestazioni, né nulla. Per quale ragione dunque avrebbe dovuto occuparsi degli operai il governo Conte, per di più nel momento del coronavirus? Il decreto ministeriale non li nomina neppure, dà per scontato che in fabbrica si continui a lavorare normalmente, perché così avviene ogni giorno, nella quiete generale. Del resto questa era stata la richiesta pubblica di Confindustria. Un governo padronale non poteva fare altrimenti.

Ebbene, gli scioperi nelle fabbriche sono a loro modo una risposta a tutto questo. “Non siamo carne da macello, se non c'è sicurezza non si lavora”. In questo sentimento di massa c'è innanzitutto la paura fisica del contagio. Ma c'è anche qualcosa di più e di diverso. C'è la reazione alla rimozione generale e la sofferenza della propria condizione. C'è soprattutto il rifiuto del silenzio. Non è un caso che il primo segnale sia venuto martedì proprio da FCA Pomigliano, dal settore di classe più ricattato del proletariato industriale, quello da più tempo passivizzato e umiliato nella propria condizione e nei propri diritti. Quello da cui era impensabile attendersi una reazione di lotta, secondo i tanti benpensanti della sinistra politica. Invece proprio operai che stanno da dieci anni in “quarantena”, sotto il tallone di ferro del padrone, sono quelli che hanno rialzato la testa per primi. E a modo loro hanno suonato la sveglia per gli altri.


L'EMERGENZA SCUOTE L'IMMAGINARIO COLLETTIVO

Certo, ciò che è accaduto in questi tre giorni non può cancellare d'incanto, nella coscienza dei lavoratori, il deposito di veleno che si è sedimentato negli anni. Anche pulsioni razziste, suggestioni nazionaliste, domanda d'ordine. Chi si facesse prendere dall'entusiasmo rischia di esporsi a una cantonata. Eppure oggi c'è stata una scossa. Una scossa non è di per sé un terremoto, ma è un segnale; un segnale importante, tanto più dopo un lungo riflusso. Chi coltiva una visione ideologica e statica dello lotta di classe è spesso insensibile alla stessa categoria della svolta. Accade sia a chi immagina una classe sempre all'attacco sia a chi teorizza all'opposto una sconfitta epocale. Per entrambi nessun episodio è di per sé rilevante, se non a conferma di una tesi precostituita. Invece la lotta di classe procede per scatti e per svolte, soprattutto nelle epoche di crisi, soprattutto quando grandi fatti imprevisti scuotono l'immaginario collettivo.

Il coronavirus e lo stato d'emergenza rappresentano uno di questi fatti. Sono tre settimane ormai che l'Italia è segnata da uno stato d'emergenza sanitaria. Queste tre settimane non hanno cambiato solamente la vita quotidiana di ciascuno, hanno anche mutato l'agenda pubblica e scosso la psicologia di massa. Per lunghi anni il tema della sicurezza è stato declinato in chiave reazionaria, o in direzione xenofoba, o in termini manettari, o in nome della giustizia fai da te (legittima difesa). È stato il terreno di pascolo del salvinismo negli anni della sua grande ascesa, la sua rendita di posizione assicurata. Ora quella rendita di posizione si è dissolta, come mostrano peraltro gli stessi sondaggi. Ora, dopo tre settimane, la sicurezza è per tutti quella della salute e della vita. Ora la sicurezza è per tutti una sanità che finalmente funzioni. Ora lo scandalo vero per tutti non è il barcone dei migranti, ma i 37 miliardi tagliati in dieci anni al servizio sanitario pubblico – tagliati da tutti i governi e da tutti i principali partiti, anche da Salvini che votò il pareggio di bilancio in Costituzione o da Meloni che con Berlusconi votò persino la legge Fornero di Monti.
Ora gli operai che in massa hanno votato a destra, perché a questa consegnati dalla sinistra, sono tra quelli che scioperano contro le pretese dei padroni. Salvini li rincorre offrendosi come loro protettore (per cui adesso “bisogna chiudere tutto”, mentre prima tutto andava aperto), ma è appunto lui che li rincorre, non viceversa. Questo è il cambio.

Se guardiamo bene, persino la rivolta dei detenuti è stata percepita diversamente. Nella situazione precedente, a fronte di una rivolta con quei caratteri, la demagogia reazionaria e securitaria avrebbe sfondato nell'opinione diffusa, anche operaia, forse soprattutto operaia. Oggi no. La rivolta non è per lo più condivisa, ma non è demonizzata. Perché la massa di detenuti pigiati senza protezioni nelle prigioni richiama in fondo, sottotraccia, l'immagine di una ingiustizia, non molto diversa da quella che si vive, senza protezioni, nella realtà quotidiana della fabbrica. Non è cambiata (ancora) la coscienza, ma è cambiato l'angolo di sguardo. Un cambio provvisorio ma significativo.

La nostra piccola rubrica quotidiana registra questo cambio con interesse.
A differenza di tante altre scuole di pensiero non abbiamo mai idolatrato i movimenti, perché sappiamo che il punto cruciale è la coscienza e la direzione. E tuttavia una coscienza e una direzione alternativa non si costruiscono in laboratorio, ma in un rapporto vivo con ciò che accade, con gli avvenimenti vivi della lotta di classe, con i mutamenti della psicologia collettiva, anche quando sono ancora incerti, embrionali, tremolanti. Per questo salutiamo gli scioperi operai come aria fresca, dopo anni di palude e di ristagno. Per questo viviamo l'attuale stato d'eccezione non solo come esperienza drammatica, quale indubbiamente è, ma anche come terreno di possibile maturazione di uno scenario nuovo sul terreno della battaglia anticapitalistica e di classe.
Partito Comunista dei Lavoratori