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UE o Brexit: una falsa alternativa per i lavoratori

L'esito del referendum britannico e la lotta anticapitalista contro l'UE

L'uscita della Gran Bretagna dalla UE apre un nuovo capitolo della crisi dell'Unione degli stati capitalisti del vecchio continente.

Da tempo a cavallo tra integrazione e dissoluzione, la UE ha visto moltiplicarsi nell'ultima fase le spinte disgregatrici. Il combinato della crisi capitalista, della prolungata stagnazione, della profonda crisi di consenso delle politiche di austerità ha sospinto un approfondimento delle contraddizioni nazionali nella UE . Il fiscal compact è virtualmente fallito senza che si delinei un nuovo equilibrio. L'Unione bancaria resta al palo, col rifiuto tedesco di una assicurazione europea sui depositi, mentre l'intero settore bancario europeo è investito da nuovi venti di crisi (crisi dei crediti deteriorati in Italia, crisi dei derivati nella finanza tedesca e nordica). Il riconoscimento o meno della Cina come economia di mercato amplifica il contrasto tra capitalismo tedesco (disponibile) e interesse opposto di Italia e Francia, minacciate sul proprio mercato interno dalla concorrenza asiatica. La pressione migratoria - fattore strutturale di lungo periodo - sospinge processi combinati di rinazionalizzazione dei confini, con la dissoluzione del blocco est-europeo a trazione tedesca e nuovi processi di polarizzazione politica xenofoba all'interno di diversi paesi. Fattore a loro volta di nuove spinte centrifughe e di effetti politici destabilizzanti all'interno dei diversi paesi dell'Unione.

La Brexit è stata un effetto di questo quadro generale di crisi, e al tempo stesso concorre ad approfondirlo.


LA NATURA DELL'OPERAZIONE CAMERON. LA CITY A FAVORE DEL REMAIN 

Lo scontro interno alla Gran Bretagna tra “remain” e Brexit ha visto affrontarsi su opposti versanti forze ugualmente nemiche dei lavoratori britannici e dei lavoratori europei. Sia sul fronte politico, sia sul fronte sociale.

Sul fronte politico, David Cameron ha ideato il referendum sull'appartenenza della Gran Bretagna alla Unione Europea in funzione del proprio rafforzamento nel partito conservatore e nel governo, contro i propri avversari interni, lungo la linea di continuità dell'attacco ai lavoratori britannici. Prima la promessa del referendum, poi il negoziato con la UE, infine la campagna a favore del remain brandendo le “concessioni” ottenute in sede UE (contro i diritti sociali degli stessi immigrati comunitari), hanno perseguito un solo obiettivo: incassare il plauso popolare per coronare la propria ambizione politica. La disfatta della cinica operazione ha sancito la fine politica di Cameron, a vantaggio di quegli stessi avversari interni (Boris Johnson) che puntava a sgominare.

Al di là degli scopi politici di Cameron, la campagna per il remain ha selezionato e raccolto attorno a sé il fiore della grande borghesia britannica: il cuore della City londinese, la principale piazza del capitale finanziario europeo; la grande borghesia industriale (l'80% degli aderenti alla Confindustria britannica ha aderito alla campagna); la maggioranza delle Camere di commercio (sia pure con una percentuale minore). La ragione del sostegno borghese maggioritario al remain è molto semplice: la UE rappresenta il 45% delle esportazioni del Regno Unito. Una uscita della Gran Bretagna dalla UE significa la rinegoziazione dell'accesso al mercato unico, in condizioni presumibilmente più difficili.

Per ragioni di classe complementari, la permanenza della Gran Bretagna nel Regno Unito era la speranza del grosso del capitalismo mondiale, delle grandi borghesie europee e dei loro governi nazionali, interessati ad evitare sia i contraccolpi economici della Brexit sul mercato finanziario, in una situazione già critica; sia un nuovo possibile fattore di incoraggiamento delle spinte centrifughe nell'Unione. Ma era la speranza anche degli Stati Uniti, da sempre alleato storico privilegiato della Gran Bretagna. La permanenza del Regno Unito nell'Unione rispondeva a molteplici interessi USA: preservare la principale piattaforma finanziaria delle proprie multinazionali e banche sul mercato europeo; mantenere una propria sponda politica fidata all'interno della UE; favorire una tenuta dell'Unione quale fattore di contenimento della crisi capitalistica mondiale ed anche possibile alleata ai fini del controbilanciamento della potenza cinese (accordi TTIP). Per tutte queste ragioni è indubbio che la vittoria della Brexit contraddice gli interessi dominanti del capitalismo internazionale. Il crollo delle borse di venerdì, proporzionale al loro investimento sulla permanenza nell'UE, è un primo metro di misura del contraccolpo subito.


BREXIT COME VITTORIA DEI LAVORATORI E DELLA DEMOCRAZIA? 

Ma è perciò stesso la Brexit una vittoria dei lavoratori e della democrazia?
Colpisce il sostegno entusiasta alla Brexit di forze diverse della sinistra europea (e non solo). Come il tripudio ideologico per la sua "vittoria".

La campagna a favore della Brexit è stata ispirata e diretta dalle forze politiche più reazionarie del panorama inglese. Dallo UKIP xenofobo di Farage, alleato del M5S nel Parlamento europeo. Dai movimenti fascisti della Gran Bretagna. Dalle bande ostili a Cameron nel Partito Conservatore e nel governo stesso. Il tono ideologico della campagna è emblematico. Da un lato la campagna ossessiva contro i migranti: contro gli immigrati comunitari (inclusi i tanti giovani e lavoratori italiani emigrati) e la loro “pretesa” di diritti sociali; e tanto più contro i migranti extracomunitari e la loro presunta “invasione”, a partire dall'immagine simbolo dell'accampamento disperato di Calais, rappresentato come avamposto minaccioso della UE ai confini della patria. Dall'altro, la rivendicazione del peggiore sciovinismo all'insegna della nostalgia del vecchio impero britannico e della grande potenza inglese nel mondo. «Una grande potenza imperiale che potrebbe tornare a risorgere, se solo la gran Bretagna si liberasse della Unione Europea», ha testualmente annunciato Farage.

Anche settori della borghesia inglese si sono allineati al fronte della Brexit, a partire da un consistente settore delle Camere di commercio. Ai quali Boris Johnson si è così rivolto: «Noi potremo fare accordi con le economie emergenti del mondo intero, accordi che la UE è incapace di siglare a causa delle forze protezioniste europee. Liberiamoci delle catene dell'Unione.» (Le Monde). È la (improbabile) promessa al capitalismo britannico di un autonomo aggancio al mercato cinese aggirando l'Unione Europea e il suo contenzioso con la Cina. L'appello al libero mercato mondiale e alla sue umani sorti e progressive si combinava dunque col vezzo ideologico nazionalista, dentro un comune impasto reazionario.


UNA MINACCIA REAZIONARIA CONTRO I LAVORATORI 

La vittoria di questo fronte reazionario è una minaccia per i lavoratori britannici e per il movimento operaio europeo.

Certo, un settore di classe lavoratrice e la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne sono stati catturati dalle sirene della Brexit. La rabbia sociale accumulata dalla crisi capitalista e dalle politiche di austerità è stata dirottata con successo contro l'Unione Europea. Il ritorno mitologico alla “vecchia potenza inglese” è stato venduto come canale di riscatto sociale ed emancipazione. Ma si tratta di una cinica truffa, oggi rilanciata su scala continentale da tutti gli ambienti politici più reazionari d'Europa, a partire da Le Pen e Salvini.

Il capitalismo britannico e la sua sovrana sterlina non sono meno responsabili dell'Unione Europea per la miseria crescente dei lavoratori inglesi. Ben prima della UE, fu il governo - nazionalista - di Margaret Thatcher (quello che brandì la guerra all'Argentina sulle Malvinas) a realizzare il grande sfondamento liberista contro il movimento operaio (guerra ai minatori) e l'attacco frontale allo stato sociale. Blair e Cameron, nel quadro della UE (ma fuori dall'Euro), hanno amministrato la continuità devastante di quella politica, che Farage, già nelle vesti di deputato conservatore, e tanto più Boris Johnson, hanno fedelmente e attivamente sostenuto. Oggi proprio Boris Johnson, astro nascente della Brexit, si candida a gestire una nuova pesante stagione di austerità contro i lavoratori inglesi, e una stretta discriminatoria xenofoba contro gli immigrati. Naturalmente nel nome di "Britain First" e della guerra tra poveri. Presentare tutto questo, a sinistra, come "vittoria della democrazia" e come "esempio per i popoli europei" significa aver perso la testa.


CONTRO L'UNIONE EUROPEA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA 

Siamo da sempre contro l'Unione Europea. Una Unione di stati capitalisti unicamente interessati a partecipare alla spartizione del mondo dopo il crollo dell'URSS, nel nuovo mercato globale. Per questo interessati a concertare le proprie politiche di rapina contro i propri lavoratori. Per la stessa ragione ci siamo sempre opposti e tanto più ci opponiamo oggi alle illusioni di una possibile UE “democratica e sociale”, portate avanti dai partiti di Sinistra Europea (Syriza, Rifondazione Comunista, Izquierda Unida, Die Linke, PCF...). Partiti che si sono ciclicamente compromessi nei diversi governi borghesi dell'Unione Europea gestendo le stesse politiche di austerità e di rapina che dall'opposizione dicevano di combattere. La capitolazione di Tsipras alla troika è solo l'ultimo esempio del fallimento del riformismo europeista.

Ma la lotta contro l'Unione Europea può procedere da opposti versanti, politici e di classe, e mirare ad opposte prospettive.

Può procedere dal versante dell'opposizione di classe del movimento operaio, a difesa delle proprie ragioni e diritti sociali. Come ha mostrato la lunga ascesa del movimento di massa in Grecia contro la troika prima del tradimento di Syriza. Come mostra oggi la mobilitazione di massa prolungata ancora in corso in Francia contro la Loi Travail del governo Hollande. Questa è la dinamica di lotta che ha valore progressivo, che può unire gli sfruttati, che può ricomporre attorno alla classe operaia un blocco sociale anticapitalista, che può alimentare una solidarietà di classe internazionale tra i lavoratori d'Europa. La proposta di una Europa socialista, nella forma degli Stati Uniti socialisti d'Europa, è l'unica proposta strategica capace di dare una prospettiva storica a questa dinamica di lotta. L'unica che può indicare un'alternativa reale all'Unione Europea del capitale, nell'interesse dei lavoratori.

La lotta contro l'Unione Europea e contro l'Euro oggi indicata dalla Brexit, e promossa dai Farage, Le Pen, Salvini, è non solo diversa, ma esattamente opposta. È la lotta che mira a far leva sulla crisi capitalista, e sulla mancata risposta del movimento operaio alla crisi, per costruire uno sbocco reazionario, in ogni paese e su scala continentale. All'insegna della continuità delle politiche di rapina, e di un nuovo drammatico appesantimento dell'offensiva dominante contro i diritti sociali, sindacali, democratici del movimento operaio europeo e di tutti gli oppressi.

Ogni subordinazione a questa dinamica reazionaria va apertamente denunciata e combattuta, tra le fila dei lavoratori, tra i giovani, in ogni organizzazione sindacale e di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Ballottaggi: contro le tre destre, dalla parte dei lavoratori

I ballottaggi del 19 giugno vedono contrapposte, in forme diverse, le tre destre che oggi si contendono la rappresentanza della borghesia italiana, e dei poteri forti sul territorio, contro la classe lavoratrice: Il PD di Renzi, il centrodestra a trazione salviniana o berlusconiana, il Movimento 5 Stelle. 

Il primo è impegnato non solo in una politica di aggressione frontale al lavoro, ma in un progetto istituzionale reazionario di tipo bonapartista senza precedenti nella storia repubblicana. 
Il secondo rappresenta la continuità del vecchio blocco politico reazionario degli ultimi vent'anni, con una selvaggia disputa interna sulla sua leadership (lepenista o berlusconiana). 
Il terzo coltiva un disegno di repubblica plebiscitaria via web, al servizio di un progetto sociale nemico del lavoro. 

Tre forme di populismo reazionario, la prima di governo, le altre di opposizione (cui si aggiunge il fenomeno particolare e diverso del "peronismo" progressista e trasformista di De Magistris a Napoli). 

La sinistra riformista italiana, prima col suo tradimento sociale nei governi nazionali e nelle giunte locali di centrosinistra, poi col suo abbandono della classe lavoratrice proprio nella stagione della grande crisi del capitalismo, ha dato un contributo determinante allo sviluppo del populismo tra le fila dei lavoratori. E persino oggi, dopo il disastro prodotto, perpetua in forme diverse una politica subalterna: o perché rifiuta una rottura chiara col PD nelle amministrazioni locali nonostante Renzi. O perché avalla l'equivoco 5 Stelle e un loro presunto progressismo. O perché si subordina al "peronismo" di De Magistris a Napoli. Con ulteriori effetti di confusione e disorientamento nella classe lavoratrice. 

Il PCL è da sempre contrapposto alle tre destre nemiche del lavoro, ed è autonomo da ogni forma di populismo, a partire da una politica di indipendenza del movimento operaio, dentro il progetto di costruzione di una sinistra di classe e rivoluzionaria. 
Solo il rilancio di una vera mobilitazione di classe e di massa contro la borghesia italiana può aprire dal basso una prospettiva di vera alternativa. E il rilancio della mobilitazione di massa, attorno alle ragioni indipendenti del lavoro, richiede la contrapposizione al populismo e l'autonomia dal populismo, in ogni sua forma. 

Da qui la nostra contrapposizione alle tre destre nei ballottaggi del 19 giugno (e il rifiuto di un sostegno elettorale a De Magistris a Napoli), in naturale continuità con le stesse ragioni di classe della nostra campagna elettorale al primo turno.

Nessuna indicazione per il ballottaggio. Il Partito Comunista dei Lavoratori farà opposizione politica e sociale chiunque sia il vincitore.

Comunicato stampa di Ermanno Lorenzoni, candidato sindaco del PCL a Bologna

A fronte di un risultato elettorale piuttosto deludente (anche se prevedibile, visto lo scontento diffuso) c'era da aspettarsi un Merola molto attivo sul piano delle promesse. Nell'ultima settimana l'ineffabile Sindaco ha promesso di tutto, a destra e a manca, ha trovato soldi per fare quasi tutto quello che non ha fatto nei cinque anni passati. A cadere in questa farsa "berlusconiana" finora sono stati solo i Verdi, che si sono addirittura "apparentati", facendosi promettere dal PD cose improbabili (vista la diversità di vedute sul Passante di mezzo e su altre opere). Ma tant'è: probabilmente un Assessorato val bene un Passante!!!

Il Partito Comunista dei Lavoratori al ballottaggio non sosterrà un sindaco uscente espressione dei poteri forti (costruttori e banchieri) di questa città, che ha governato spesso in modo arrogante contro i lavoratori e le loro istanze. Naturalmente non pensiamo neanche che possa essere la Lega Nord - espressione della parte più reazionaria e xenofoba della città - a risolvere i problemi di chi in questi anni ha sofferto più di altri la crisi economica e sociale.

La legge elettorale maggioritaria doppio turno è congegnata in modo da votare "il meno peggio" al secondo turno; noi non ci faremo piacere per forza Merola. Che al ballottaggio vinca il PD o la Lega Nord, il Partito Comunista dei Lavoratori starà sempre dalla parte dell'opposizione sociale dal versante dei lavoratori alla prossima Giunta.


Bologna, 13 giugno 2016
Ermanno Lorenzoni

Il segno politico delle elezioni del 5 giugno


Mentre Renzi ha esaurito la spinta propulsiva e vede il suo spazio di manovra restringersi, il M5S cresce sulle macerie della destra e sul non sfondamento del lepenismo di Salvini. La crisi della sinistra riformista è aggravata.

Le elezioni comunali del 5 giugno sono un passaggio importante dello scenario politico generale. Il quadro complessivo è molto frastagliato, e il risultato dei ballottaggi del 19 giugno sarà molto importante per valutare il segno politico complessivo della prova elettorale. Tuttavia già il primo turno fornisce indicazioni chiare di tendenza.


LA CRISI DEL RENZISMO

Il PD registra una perdita consistente di voti, sia in assoluto, sia in percentuale, in larga parte d'Italia (210.000 voti in meno nei ventiquattro capoluoghi) con una flessione più accentuata nelle periferie metropolitane e nel Mezzogiorno. Il renzismo ha esaurito da tempo la spinta propulsiva di quel populismo sociale di governo (gli 80 euro) che ne aveva accompagnato la scalata nelle elezioni europee del 2014 (41%). Già le elezioni regionali di un anno fa registravano la dispersione del bottino. Le elezioni comunali del 5 giugno confermano il dato. Il progetto del partito della nazione è al palo.

Ciò non significa che quel progetto sia sconfitto e tanto meno archiviato. Al contrario. La prospettiva del referendum istituzionale di ottobre, e la ricerca dell'incoronazione plebiscitaria del Capo, riflettono la volontà di rilancio del richiamo populista sul terreno politico e istituzionale. Ma il populismo politico ( «mando a casa un politico su tre», «riduco lo stipendio ai senatori»…) fatica a nutrirsi del populismo “sociale”. Renzi moltiplica, da buon imbonitore, annunci e promesse di regalie sociali in vista della prossima Legge di stabilità (riduzione Irpef, 80 euro alle pensioni minime, flessibilizzazione delle uscite pensionistiche, abolizione del bollo auto e tanto altro). Ma la crisi capitalista, i limiti della ripresa, il quadro negoziale complesso in sede UE, restringono pesantemente lo spazio di manovra delle politiche di bilancio. Molte promesse sono destinate a restare tali, con un possibile effetto boomerang. La ragione dell'anticipo del referendum istituzionale al 2 ottobre sta anche qui: la volontà di anticipare non solo il responso della Consulta sulla legge elettorale prevista per il 4 ottobre, ma anche la presentazione della Legge di stabilità. È la confessione di una paura, che i risultati del 5 giugno non possono che accrescere.

Inoltre proprio quei risultati aggiungono un ulteriore elemento di incertezza. Il successo politico del M5S, il suo possibile configurarsi come il principale candidato al ballottaggio contro Renzi alle future elezioni politiche, esaltano il difetto di sistema della legge elettorale inventata da Renzi. In un quadro tripolare come l'attuale, un M5S al ballottaggio diventa temibilissimo per il PD per la sua maggiore capacità di attrazione elettorale trasversale. (Da questo punto di vista sarà interessante il ballottaggio di Torino, ancor più di Roma.) Una legge elettorale concepita a misura di un "Renzi al 41%" rischia di trasformarsi in un cappio al collo per un Renzi al 30%.
È un elemento di preoccupazione per la borghesia italiana. Renzi si è presentato ai suoi occhi, e agli occhi del capitale finanziario europeo, come l'argine vincente contro il populismo di opposizione. Anche per questo la borghesia ha investito su Renzi. Per la stessa ragione, un cedimento dell'argine PD contro i 5 Stelle investirebbe come un ciclone le relazioni di potere del renzismo.


LA CRISI POLITICA DEL CENTRODESTRA

Il centrodestra aggrava la propria crisi politica. La competizione interna tra Forza Italia e il blocco lepenista lo ha frantumato in diverse città, a partire da Roma e Torino. Al tempo stesso non ha prodotto un vincitore. Il tramonto di Berlusconi prosegue, assieme al declino elettorale di Forza Italia. Ma il boom del salvinismo si è esaurito nello stesso centro-nord (Milano), e la speranza di Salvini di “nazionalizzare” la Lega attraverso una espansione a Roma e nel Sud è ad oggi fallita. Mentre l'alleato del blocco lepenista (FdI di Meloni), rafforzatosi a Roma e presente nel Sud, resta debolissimo al Nord. La crisi manifesta dell'egemonia berlusconiana non è dunque rimpiazzata da un'egemonia alternativa.

Tuttavia, se la crisi politica del centrodestra si aggrava, il suo blocco sociale ed elettorale tiene. Il renzismo non è riuscito ad aprire brecce significative in quel mondo, nonostante i suoi sforzi. Il tentativo di usare (anche) Verdini per aprire quella cassaforte elettorale è fallita (Napoli, Cosenza). I dati elettorali di Milano, e in termini aggregati di Roma, mostrano la forza perdurante del blocco sociale ed elettorale del centrodestra, al di là della sua crisi di direzione politica o della sua frantumazione.
Proprio questo fatto tiene aperto lo spazio in prospettiva di una ricomposizione della coalizione attorno ad un nuovo equilibrio, non facile ma possibile. Se questa ricomposizione si realizzerà, il centrodestra può tornare ad essere assolutamente competitivo.

L'esito del referendum istituzionale di ottobre non sarà indifferente per la sorte del centrodestra. Un'eventuale vittoria del Sì potrebbe favorire una scissione di Forza Italia in direzione di una ricomposizione con Renzi, passando per la riaggregazione con il centro di Alfano-Casini-Verdini (un partito di centro che si presenta autonomamente al voto, punta a passare la soglia di sbarramento del 3% prevista dall'Italicum, e poi si allea al governo con un PD vincente). Una eventuale vittoria del No, che innescherebbe un terremoto politico, indurrebbe Berlusconi a rilanciare la proposta di un governo di unità nazionale, con l'intento di spaccare il PD e rilanciare una propria centralità. Ciò che aprirebbe nuove contraddizioni con la Lega. In entrambi i casi si preannuncia una fase prolungata di instabilità politica all'interno del centrodestra.


IL SUCCESSO DEL M5S


Il M5S è il vincitore politico delle elezioni del 5 giugno.
Dal punto di vista elettorale i risultati del M5S sono in realtà molto disomogenei. Combinano grandi affermazioni (Roma e Torino), stagnazioni rispetto alle politiche 2013, vistose marginalità e persino crolli. Assieme ad una assenza da molte competizioni locali, legata a contrasti locali esplosivi e irrisolti. Tuttavia, la portata della grande vittoria riportata a Roma, e la forte affermazione conosciuta a Torino, con la seria probabilità (Roma) o possibilità (Torino) di una clamorosa vittoria ai ballottaggi, hanno consegnato al M5S l'immagine nazionale del vincitore politico. Come di fatto è stato. Con ulteriori possibili effetti moltiplicatori.

Il M5S capitalizza diversi elementi della situazione politica, tra loro connessi: l'appannamento del renzismo, la frantumazione del centrodestra, la crisi perdurante della sinistra politica, sullo sfondo della crisi sociale e dell'arretramento della lotta di classe. La prima analisi dei flussi elettorali mostra non a caso che a Roma e Torino il M5S ha polarizzato elettori di ogni provenienza. Un forte travaso diretto da elettorato PD “antirenziano”, un travaso da elettorato reazionario spinto dalla frantumazione del centrodestra a votare M5S (come voto utile anti-Renzi), un travaso dall'elettorato di sinistra in crisi di rappresentanza e riferimenti. Oltre ad un recupero, a Roma, sul bacino tradizionale dell'astensione.
In termini sociali, il M5S ha fatto il pieno a Roma e Torino del voto degli operai, dei disoccupati, dei giovani. Costruendo attorno a sé un blocco popolare a egemonia piccolo-borghese reazionaria, come ogni movimento reazionario di massa. In un quadro di crisi sociale dove milioni di lavoratori sono stati abbandonati a loro stessi dalla sinistra politica e sindacale, e condannati ad una disperata solitudine, milioni di operai assumono a riferimento elettorale un soggetto politico estraneo alle ragioni del lavoro, nemico del sindacato in quanto tale, segnato da una cultura plebiscitaria. È effetto e misura della regressione del movimento operaio.
Il M5S conferma e consolida una propria presenza nazionale, da Nord a Sud (a differenza della Lega), e una riuscita parziale “degrillizzazione” del proprio profilo d'immagine (non della sua realtà): attraverso l'affermazione di nuove giovani figure pubbliche (Di Maio, Di Battista), di ampia riconoscibilità di massa, quali costruttori di consenso. Una risorsa preziosa, sul terreno populista, contro il giovanilismo di Renzi.
Un consolidamento dell'immagine nazionale del M5S quale “vero avversario di Renzi” rappresenterebbe non solo, per le ragioni dette, un problema per Renzi (trasversalità elettorale del M5S in un ballottaggio politico nazionale), ma anche per la Lega e il blocco lepenista. Che già oggi si trovano a fronteggiare una concorrenza diretta sul loro stesso terreno populista, tanto più temibile nel quadro della frantumazione del centrodestra.


LA SINISTRA AL PALO

Le elezioni del 5 giugno, come già le precedenti elezioni regionali, fotografano e aggravano la crisi della sinistra politica riformista. Con l'eccezione parziale di Bologna, i candidati e le liste di Sinistra Italiana - o in ogni caso di coalizioni comunque nominate della sinistra riformista - registrano addirittura un arretramento rispetto ai voti riportati dalle liste Tspiras nelle elezioni europee del 2014 (o rispetto al voto riportato dalle liste di sinistra nelle successive elezioni regionali). Ciò è in particolare avvenuto proprio a Roma, Torino, Milano, nelle competizioni elettorali maggiormente cariche di valenza politica e in presenza di candidati a sindaco di sicura riconoscibilità nazionale (Fassina a Roma, Airaudo a Torino) o locale (Basilio Rizzo a Milano).
Il processo costituente del nuovo soggetto della sinistra italiana è dunque ulteriormente zavorrato dal voto. Persistono tutti i fattori che ostacolano il suo decollo elettorale: non solo il peso delle disfatte passate e delle relative responsabilità politiche (di cui nessuno ha tratto bilancio e conseguenze), ma l'assenza di un progetto nazionale dotato di una ragione sociale decifrabile, l'assenza di una leadership nazionale riconoscibile a livello popolare, la crisi dei livelli di mobilitazione sociale e di lotta di classe cui quella stessa sinistra (politica e sindacale) concorre. In questo quadro, il rafforzamento del M5S, anche come soggetto attrattivo dell'elettorato in uscita dal PD, oltre a rappresentare uno degli effetti della crisi della sinistra concorre ulteriormente ad aggravarla, perché restringe il suo spazio politico.
A ciò si aggiungono i nodi politici irrisolti di Sinistra Italiana attorno al proprio rapporto col PD, come si vede nello stesso posizionamento ai ballottaggi (Fassina è contro l'indicazione di voto a Giacchetti, Airaudo ha teorizzato il sostegno “da croce rossa” a Fassino), contraddizioni che percorrono verticalmente SEL sul piano nazionale, e che l'esito del voto obiettivamente approfondisce. Mentre ciò che resta di Rifondazione Comunista, attorno all'ex ministro Paolo Ferrero, ha scelto di imboscarsi senza eccezione nelle liste civiche “progressiste” di Sinistra Italiana, compromettendosi nel loro pasticcio e cancellando ogni propria presenza elettorale riconoscibile. Gli stessi gruppi dirigenti della sinistra italiana che hanno organizzato negli anni la sua disfatta si mostrano incapaci, per le stesse ragioni, di promuoverne il rilancio.


IL VOTO PER IL PCL

Il PCL ha scelto di presentarsi ovunque possibile alle elezioni comunali, come in ogni competizione elettorale. Non per una ragione elettoralista, e tanto meno per una illusione istituzionale, ma per la ragione esattamente opposta: usare la tribuna elettorale per presentare un programma comunista e rivoluzionario ai lavoratori e a tutti gli sfruttati. Contrastare la propaganda borghese, denunciare le mistificazioni populiste, costruire coscienza politica di classe e anticapitalistica. Un compito tanto più importante in un quadro di arretramento diffuso della coscienza politica dei lavoratori.

Naturalmente siamo sempre ben consapevoli delle difficoltà proprie del terreno elettorale.
Sullo sfondo di una situazione politica generale complessivamente negativa (crisi della mobilitazione sociale, arretramento dei livelli di coscienza della classe, crisi cronicizzata della sinistra politica sotto il peso dei disastri prodotti dai suoi gruppi dirigenti, politici e sindacali) e sulla base dei rapporti di forza reali con i soggetti concorrenti, prima e durante la campagna elettorale (in ordine agli spazi reali della comunicazione pubblica, alle risorse disponibili...), la presenza elettorale di un piccolo partito, comunista e rivoluzionario, non può che marciare controcorrente. Ma rinunciare ad usare la tribuna elettorale per presentare un programma comunista in ragione delle difficili condizioni sarebbe ben poco comunista. I comunisti non si nascondono mai, anche nelle situazioni più sfavorevoli. Ma lottano sempre su ogni terreno, anche su quello elettorale, per sviluppare la coscienza dei lavoratori. È l'insegnamento della tradizione leninista.

Il PCL è riuscito a presentare proprie liste a Torino, Milano, Bologna, Napoli, Savona, e in alcuni centri minori (Portofino, Trecate, Oderzo, Triggiano), con un lavoro ammirevole dei nostri militanti, cui va il ringraziamento di tutto il partito. I risultati elettorali sono tra loro difformi. Certo modesti, com'è inevitabile nelle condizioni date, ma complessivamente non negativi.

Negativo il risultato di Napoli, che segna un arretramento rispetto al risultato riportato dal PCL nel 2011. L'atipico fenomeno populista “peronista” di De Magistris, che ha caricato sul proprio carro elettorale l'intera sinistra partenopea (da SEL ai CARC) assieme a liste massoniche, ex candidati di Forza Italia, settori neoborbonici, trasformismi clientelari di varia natura - ha coinvolto ambienti sociali e popolari di estrema sinistra e di movimento (centri sociali) alla ricerca di favori istituzionali. Tutto ciò ha limitato lo spazio di consenso del PCL. A ciò si è aggiunta la concorrenza del PC stalinista di Marco Rizzo. Oltre a quasi due settimane di campagna elettorale (e spazi mediatici) in meno, a causa dell'iniziale respingimento delle nostre liste, un abuso intollerabile. L'arretramento subito è la risultante di tutti questi fattori. E tuttavia il nostro partito a Napoli è orgoglioso della campagna di verità condotta contro il peronismo trasformista, per l'indipendenza di classe degli sfruttati. Altri hanno capitolato a De Magistris. Noi no. Anche per questo abbiamo le carte in regola, con una riconoscibilità in ogni caso accresciuta, per costruire l'opposizione di classe al peronismo cittadino.

Negativo il risultato a Torino, dove il PCL ha confermato in voti e percentuale il risultato del 2011. E dove la presenza del PC di Marco Rizzo - sicuramente maggiore della nostra nella città natale e che lo ha visto segretario del PRC di massa nei primi anni '90, consigliere comunale, deputato per due legislature, deputato europeo - ha bloccato le potenzialità di crescita elettorale del PCL attorno alla positiva candidatura di Alessio Ariotto. Anch'esso peraltro penalizzato da una settimana di campagna elettorale abusivamente sottratta dalla contestazione della lista. Anche in questo caso la nostra sezione, sempre presente nelle lotte operaie della città, a partire dalla FIAT, si impegnerà in tutte le lotte di opposizione alla futura giunta cittadina. Sia essa a guida Fassino, in rappresentanza dei poteri forti della città, sia essa a guida della bocconiana pentastellata Appendino, alfiere della media impresa di cui è diretta espressione, estranea alle ragioni sociali degli operai che la votano. Un M5S torinese, oltretutto, particolarmente intriso di presenze reazionarie e xenofobe (Bertola) che il PCL, spesso da solo a sinistra, ha coerentemente denunciato.

Positivo invece il risultato riportato dal nostro partito a Milano, che accresce considerevolmente voti e percentuali (particolarmente negative) del 2011, e registra il dato migliore sinora riportato dal PCL in città, a ridosso di una campagna elettorale molto attiva che ha trascinato un salto di riconoscibilità pubblica del partito. Nel 2011 il PCL milanese aveva pagato elettoralmente il fatto di essersi presentato al primo turno - unico partito a sinistra - contro l'astro nascente Pisapia, che allora tutta la sinistra a partire dal PRC assumeva ad icona religiosa del cambiamento. Oggi il PCL capitalizza a Milano proprio il coraggio e la coerenza mostrata allora, a fronte di una giunta arancione che ha fatto, come avevamo previsto, il comitato d'affari di Expo e della borghesia cittadina.

Molto positivi inoltre i risultati del PCL a Bologna e Savona, dove il PCL supera nettamente in voti e percentuali ogni risultato precedente, travalicando la soglia dell'1% (1,3% a Bologna, 1,2% a Savona). Un risultato in particolare molto significativo a Bologna, perché accompagnato dallo sviluppo di nuove relazioni con ambienti sindacali classisti (SGB) e dalla marcata polarizzazione dell'elettorato di Rifondazione. Un risultato ugualmente positivo a Savona, dove si accompagna allo sviluppo del partito in città, tra i lavoratori (Tirreno Power) e gli studenti. Sia a Bologna che a Savona il nostro partito ha capitalizzato la coerenza della propria opposizione alle giunte locali di centrosinistra, a fronte della compromissione storica decennale delle cosiddette sinistre radicali. Oggi, in entrambi i casi, in fase di dissoluzione

Infine sono moderatamente positivi i risultati riportati dal PCL nei centri minori: 0,70 a Trecate nel novarese; 0,72% a Oderzo (dove in terra leghista superiamo con una candidatura operaia voti e percentuale della lista di SEL e Rifondazione); 0,84% a Triggiano (dove la sezione PCL, da poco costituita, ha presentato il candidato sindaco più giovane d'Italia, che ha raggruppato attorno a sé un'area di studenti); oltre il 3% a Portofino (dove la nostra sezione del Tigullio ha fatto una campagna di denuncia antiborghese di forte impatto mediatico locale mancando l'eletto per un solo voto).

Il PC di Rizzo, là dove presente (Torino, Napoli, Roma) ha potuto mettere a frutto la relativa continuità dell'esposizione mediatica del suo leader (coi relativi effetti di "legittimazione" e riconoscibilità) che a noi oggi è negata. Ed anche un volume di risorse finanziarie incomparabilmente maggiore da investire nelle campagne elettorali (ad esempio in spot e manifesti). Tuttavia proprio per questo il risultato riportato da Rizzo a Torino (0,8%) è una clamorosa sconfitta politica. Che smentisce brutalmente la grande aspettativa (politica e personale) alimentata dal capo nel proprio ambiente, e sgonfia la bolla d'immagine creata. Quella di un “partito comunista” presente in TV ma privo di reali radici nel mondo del lavoro e nei sindacati di classe; che si presenta classista e anticapitalista nel proprio frasario solo per far dimenticare il voto favorevole di Marco Rizzo ai bombardamenti di D'Alema su Belgrado (1999), alla precarizzazione del lavoro (Pacchetto Treu, 1997) e alle privatizzazioni di Prodi. Crimini politici che hanno sempre convissuto felicemente col culto ideologico di Stalin e del regime dinastico nordcoreano, fondato sulla schiavitù degli operai.

Il PCL - l'unico partito della sinistra a non aver mai tradito gli operai - è ora impegnato a investire la campagna elettorale condotta nel processo della propria costruzione, la costruzione controcorrente di una sinistra classista e rivoluzionaria. Nelle diverse situazioni coinvolte dal voto, le nostre sezioni sono impegnate a promuovere, oltre a un bilancio della campagna condotta e ad un'analisi attenta del voto ottenuto, un'azione di capitalizzazione politica e organizzativa di quanto si è seminato (contatti, nuove relazioni d'ambiente, salto di riconoscibilità pubblica tra i lavoratori e i giovani). Un patrimonio, maggiore o minore, da investire nel radicamento sociale del partito, a partire dalla classe lavoratrice, e dalle sue lotte di ogni giorno.

LETTERA AI COMPAGNI DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

Cari compagni e compagne di Rifondazione Comunista e della sinistra bolognese, ci rivolgiamo a tutti voi, sapendo che spesso nel corso degli ultimi anni ci siamo incontrati nelle stessi sedi politiche o sindacali, nelle stesse piazze e negli stessi conflitti, perché domenica 5 giugno a Bologna il Partito Comunista dei Lavoratori sarà l'unica reale sinistra coerente presente sulla scheda elettorale.

Per sconfiggere le politiche padronali, oggi rappresentate in primo luogo dal Pd e dal renzismo, bisogna ricostruire una sinistra che voglia porsi sul terreno di un'alternativa economica e sociale, sapendo che sarà un percorso lungo e non facile. Non ci si può illudere che esistano scorciatoie come il voto al Movimento 5 Stelle che per noi rappresenta un'altra destra oltre a quella renziana e salviniana. Ad esempio sui migranti spesso Grillo si è trovato a condividere le stesse posizioni della Lega Nord, mentre sui diritti dei lavoratori la deputata – ed ex capogruppo – Roberta Lombardi ritiene l'art.18 e lo statuto dei lavoratori un'aberrazione.
Sul piano locale non può essere certo Coalizione Civica a rappresentare le istanze di una nuova sinistra, essendo nei fatti la propagazione bolognese di Sinistra Italiana e Sel, una lista piena di candidati che fino a poco fa sostenevano Merola ed erano alleati al Pd. Vogliamo ricordare che uno dei candidati di punta di Coalizione civica è l'ex assessore Alberto Ronchi che, fino a che Merola non lo ha dimesso – cioè trombato – dopo il caso Atlantide, ha condiviso tutte le scelte della giunta: dal tradimento dell'esito del referendum sui finanziamenti alle scuole private alla costruzione del People Mover. La stessa Sel che ha propri candidati all'interno di Coalizione civica, a partire da Federico Martelloni, in Regione è alleata del Pd e al renzianissimo Bonaccini.

Il 5 giugno a Bologna ci sarà però la possibilità di esprimere un voto controcorrente, coerentemente di sinistra e comunista con il Partito Comunista dei Lavoratori.

Un grande saluto a pugno chiuso.
 
Ermanno Lorenzoni
candidato sindaco PCL
 
Michele Terra
Stefania De Salvador
capilista PCL Bologna