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Ortega e la repressione in Nicaragua

Il regime nicaraguense di Daniel Ortega ha lanciato una vera e propria "operazione di pulizia" contro la resistenza popolare. L'offensiva delle forze paramilitari nicaraguensi di domenica 8 luglio ha portato al massacro di 21 persone nelle città di Diriamba e Jinotepe Carazo. Si contano ormai oltre 400 morti, migliaia di feriti, centianaia di desaparecidos. Innumerevoli in particolare i rapimenti di giovani e sindacalisti. La Chiesa cattolica, sospinta dal capitale, è scesa in campo, invitando al dialogo il governo e presentandosi come una sorta di mediatore della società civile. Ma Ortega ha definito “demoni” gli stessi ambienti della Chiesa e chiunque protesti, e ha respinto la richiesta avanzata dal clero di anticipare le elezioni: «Il nostro mandato elettorale si concluderà con le elezioni del 2021, quando ci sarà il prossimo voto» (intervista a Fox News).
Nelle piazze del paese si solleva un solo grido: “Que se vaja Ortega!”. L’ex guerrigliero è ostaggio di se stesso, insieme alla moglie, Rosaria Murillo, una sorta di regina del '700 che ha assaggiato i privilegi del lusso e del potere a cui non vuole rinunciare.
Come Partito Comunista dei Lavoratori condanniamo il regime sanguinario di Ortega. Chiediamo libertà per i prigionieri politici, giustizia per le vittime, piene libertà democratiche.
Decisiva è la prospettiva dell'opposizione popolare. Le forze della destra (Alleanza Civica per la Giustizia e Democrazia) e la gerarchia ecclesiastica cercano una soluzione di ricambio politico più indolore possibile per evitare di mettere a rischio gli interessi della classe dominante e dell'imperialismo, ben tutelati da Ortega per undici anni. Si tratta di perseguire una prospettiva opposta: quella di una soluzione classista, anticapitalista, socialista della crisi nicaraguense. Una soluzione dalla parte degli sfruttati, che rivendichi lavoro, salario, terra, e che chieda la cessazione del pagamento del debito estero, l'esproprio del capitale finanziario, la rottura col FMI. È la soluzione di un governo dei lavoratori e dei contadini poveri, basato sulle loro strutture di autorganizzazione e la loro centralizzazione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Cosa accade in Nicaragua

Marxismo e campismo a confronto

31 Luglio 2018
La dinamica politica del Nicaragua ripropone l'esigenza di un'analisi marxista contro ogni lettura impressionistica, sia essa genericamente democratica, sia essa all'opposto di natura campista.

Chi presenta la vicenda nicaraguense come aggressione imperialista a un governo progressista dovrebbe fare i conti con la realtà.
Il Nicaragua sandinista non è Cuba, che ancora si regge nonostante tutto su rapporti di produzione socialisti (nonostante la natura burocratica del suo regime politico e la prospettiva di restaurazione del capitalismo). Ma non è neppure equivalente al Venezuela di Chavez e Maduro, che pur tutelando la proprietà borghese e pagando il debito estero all'imperialismo, è in qualche modo politicamente indipendente da quest'ultimo. Il regime di Daniel Ortega e Rosaria Murillo, già al suo terzo mandato consecutivo, ha governato per undici anni come garante diretto dell'imperialismo in Nicaragua; ha regalato al capitale straniero le risorse naturali del paese; ha sviluppato il progetto del canale transoceanico, direttamente dettato dal grande capitale, con effetti devastanti sulla condizione di ampi settori contadini e sulle comunità indigene; ha favorito la concentrazione della proprietà terriera; ha promosso privatizzazioni nella (modesta) industria, nei servizi, nel terziario; ha applicato le ricette del FMI in fatto di politiche di bilancio per pagare regolarmente il debito estero; ha precarizzato il lavoro e bloccato i salari.

La lunga stabilità politica del Nicaragua negli ultimi lustri - fatto eccezionale in Centro America - è stata al servizio di questa politica.


DANIEL ORTEGA AL SERVIZIO DEL FMI 

Tutto questo è talmente vero che il fatto scatenante della protesta popolare degli ultimi mesi è stata proprio l'applicazione dell'ennesima ricetta economica del FMI.

Il 17 aprile il governo Ortega varava per decreto l'aumento dei contributi di lavoratori e imprese al fondo pensionistico, assieme ad un taglio sulle pensioni. Si trattava di applicare le disposizioni del FMI sulle politiche finanziarie per mettere "in stabilità" il sistema pensionistico: le stesse misure lacrime e sangue oggi in corso in Brasile ed Argentina, e già sperimentate in forme diverse in tutto il mondo capitalista. Ma questa volta la classica goccia ha fatto traboccare il vaso. La reazione sociale è stata vasta, nelle strade e nelle piazze di tutte le principali città nicaraguensi a partire da Managua. Ha coinvolto una massa popolare multiforme, composta da popolazione povera, disoccupati, settori declassati della piccola borghesia, larga parte della gioventù studentesca. La classe operaia non ha fatto ancora irruzione diretta sulla scena. Il suo ingresso nella lotta può essere decisivo nel bilanciamento delle forze e nel segnare la dinamica della mobilitazione. In ogni caso, la mobilitazione popolare ha avuto già un impatto talmente dirompente da costringere Ortega a revocare il decreto, nella speranza di disinnescare la protesta.

Ma la revoca del decreto non ha posto termine alle proteste. La protesta sociale, incoraggiata dal primo risultato raggiunto, si è rapidamente intrecciata con la protesta politica democratica contro il regime. La repressione del governo ha ulteriormente saldato i due elementi. La repressione è stata brutale ed è in pieno corso. Ha utilizzato non solo le forze regolari di polizia ma l'apparato paramilitare delle milizie sandiniste. Quattrocento morti nelle piazze, migliaia di feriti, centinaia di desaparecidos. Assediato nel proprio bunker, Daniel Ortega si è rivelato disposto a tutto pur di preservare il potere. Un potere sempre più familista, raccolto attorno ad una cerchia cortigiana di fedelissimi, inviso ormai a parte significativa dello stesso FLSN.


IL DISEGNO DELLE DESTRE E DELLA CHIESA 

Questo scenario esplosivo ha innescato il riposizionamento politico di diversi attori, a partire dalla Confindustria nicaraguense.

La COSEP (Consiglio Superiore dell'Impresa Privata) aveva sostenuto attivamente e a lungo il governo Ortega, perché il FSLN garantiva alle politiche confindustriali una base sociale d'appoggio sicuramente invidiabile. Ma nel momento della frattura tra regime e masse, perché arrischiare le proprie fortune per legarsi alle incerte sorti di Ortega? Meglio provvedere sin che si è in tempo ad una soluzione politica alternativa - la più indolore possibile - che tuteli i propri interessi. Da qui la nuova saldatura tra COSEP e lo schieramento politico della destra (Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia) nella richiesta di elezioni politiche anticipate. Mentre la gerarchia ecclesiastica, con la benedizione di Papa Francesco, rivendica un "dialogo nazionale” per la pace (...tra le classi) che possa regalarle il ruolo di regista.

In realtà la ricerca di una soluzione negoziata o di un ricambio politico perseguono in forme diverse lo stesso obiettivo: prevenire e disinnescare una precipitazione rivoluzionaria della crisi politica e sociale che possa aprire il varco ad un'alternativa di classe. Garantire la continuità del potere dei capitalisti, degli agrari, del capitale finanziario, dall'urto destabilizzante di una insurrezione popolare.
Non è un caso se la destra sventola la sola bandiera “democratica”, senza toccare i temi sociali della mobilitazione.


PER UNA SOLUZIONE CLASSISTA, ANTICAPITALISTA, SOCIALISTA 

Si tratta allora di battersi per la prospettiva esattamente opposta.

Via le leggi di precarizzazione del lavoro, abolizione del latifondo e ripartizione della terra, rifiuto del pagamento del debito estero e suo annullamento, cancellazione di tutte le misure imposte dal FMI (a partire da pensioni, sanità, istruzione), rifiuto del Canale transoceanico imposto dalle potenze imperialiste, esproprio del capitale finanziario, nazionalizzazione del commercio con l'estero e dell'industria estrattiva, controllo generale dei lavoratori sulla produzione. Questa è l'unica via che possa dare alla mobilitazione popolare una prospettiva di alternativa vera: classista, anticapitalista, socialista. È la prospettiva di un governo dei lavoratori e dei contadini poveri, il solo governo che possa realizzare queste misure di rottura.

La popolazione povera del Nicaragua ha una tradizione rivoluzionaria alle proprie spalle.
Lo sciopero generale di 28 giorni consecutivi nel 1978 fu decisivo per innescare il rovesciamento della dittatura di Anastasio Somoza nell'anno successivo. La direzione nazionalista del FSLN - che il grosso del centrismo internazionale, inclusi i “trotskisti” del Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, salutò allora come “bolscevica” - contenne in realtà la spinta di massa dentro i limiti di una economia mista rispettosa della borghesia nazionale, rifiutando apertamente la via cubana (col consenso pubblico di Fidel Castro). Così facendo si espose prima alla controrivoluzione reazionaria della Contras sostenuta dagli USA e da Israele, poi a un lungo logoramento, infine alla caduta (1990) a vantaggio delle forze imperialiste.

Nel nuovo quadro internazionale post '89, segnato dal crollo dello stalinismo e dal riflusso/involuzione degli stessi movimenti nazionalprogressisti, il FSLN ha rifondato col tempo la propria natura per trasformarsi in un normale partito borghese con influenza di massa che si candida a gestire l'alternanza di governo in Nicaragua, dentro il quadro della subordinazione all'imperialismo e a garanzia di quest'ultimo. Così, dopo quasi mezzo secolo, il Daniel Ortega “rivoluzionario” nazionalista del 1979 è divenuto il Daniel Ortega Bonaparte che impugna il crocifisso reprimendo il popolo nel sangue. Lo stesso popolo che nel 1979 lo portò al potere. L'alternativa di prospettiva storica tra rivoluzione socialista o reazione capitalista (e imperialista) ha dunque trovato anche in Nicaragua la propria conferma. Di questo ci parla il trasformismo sandinista, smentendo clamorosamente ogni illusione, vecchia e nuova.

Ma ogni popolo conserva la memoria delle proprie esperienze, seppur in forma confusa e frammentaria. Così la popolazione povera Nicaraguense. Se nel 1979 insorse contro Somoza, oggi può insorgere contro Ortega. Ma come insegna anche l'esperienza del '79, non è sufficiente il rovesciamento di un dittatore se poi si preserva il potere della borghesia. “Rifare il '79”, sollevarsi contro il nuovo regime, ma per rompere una volta per tutte, a differenza di allora, con la borghesia nazionale e con l'imperialismo: questa può e deve essere la parola d'ordine dei marxisti rivoluzionari in Nicaragua.

Lavorare ad estendere la mobilitazione popolare, a partire dal rifiuto delle ricette del FMI; rivendicare la libertà dei prigionieri politici e piene libertà democratiche; promuovere e organizzare l'irruzione in campo della classe lavoratrice, e delle sue autonome rivendicazioni; sviluppare, coordinare, centralizzare i comitati di autodifesa popolare contro la repressione; portare nella mobilitazione di massa il programma di un'alternativa di sistema, fuori e contro l'operazione truffa delle destre: questa è la via per onorare il sangue dei caduti e riscattare la memoria di quaranta anni fa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Quanto vale una bimba rom?

25 luglio 2018 - Immaginate per un attimo lo scenario seguente: un rom imbraccia il fucile e dal balcone di casa spara a una bambina italiana di 13 mesi colpendola alla schiena e condannandola alla probabile paralisi. Tutti i TG si aprirebbero su questa infamia. Il nuovo ministro degli Interni parlerebbe a reti unificate urlando ancora che “la pacchia è finita” e che i rom vanno cacciati una volta per tutte, essendo provato che sono delinquenti e anche assassini. Il giorno dopo, rastrellamenti polizieschi nei campi rom a uso delle telecamere e deportazioni esemplari. La stampa liberaldemocratica, in imbarazzo, confesserebbe penitente il proprio eccesso di buonismo verso la criminalità rom, avallando le misure poliziesche. Sui social si scatenerebbe un'isteria incontrollata, e Salvini raggiungerebbe nei sondaggi il 32%.

Invece la scena reale è esattamente capovolta. È un italiano ad aver sparato a una bimba rom con un fucile che voleva “testare”. Naturalmente dichiara: «non sono razzista», «il colpo è partito per caso», anche se la mira è stata perfetta. Sui TG si dà la notizia sottovoce, parlando di “accertamenti in corso su un episodio...”, (dopo aver alluso per 48 ore a una “faida interna tra rom”!). La stampa reazionaria accusa “la sinistra” di montare un caso inesistente per proteggere “i delinquenti rom”, che naturalmente, se anche fosse, se la sono cercata. La stampa “progressista” (La Repubblica) ne parla in diciannovesima pagina, tra i fatti di cronaca inquietanti. Intanto, la sindaca Raggi butta su una strada i rom del Camping River, persino la Corte di Strasburgo ha da ridire, e Salvini denuncia il buonismo della UE...
Così la vita prosegue indisturbata, giorno dopo giorno. La bimba rom e la sua mamma avranno una vita intera per farsene una ragione.

Nulla più di questo episodio criminale e della sua viltà misura l'ipocrisia reazionaria. Due pesi e due misure, una morale pubblica da un tanto al chilo a misura del nuovo governo giallo-verde. Un governo che dà la stura ai peggiori sentimenti reazionari, quelli dei bassifondi dell'animo umano, quelli più inconfessabili. Quelli che oggi possono armare un fucile, e un domani sospingere i pogrom.

Non solo la storia, ma anche la cronaca - come si vede - la scrivono i vincitori. E tuttavia i vincitori di oggi che si credono eterni, che credono di potersi consentire impunemente tutta l'immondizia della propria subcultura, mangeranno la polvere quando girerà il vento, come sempre è accaduto a tutti i parvenu inebriati dal successo. E il vento prima o poi girerà, come sempre, nonostante tutto. Noi lavoriamo perché possa trovare un progetto di rivoluzione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Sergio Marchionne, eroe borghese

24 Luglio 2018
Impressiona vedere in queste ore la commozione lirica della stampa padronale e dei media nel compiangere l'amministratore delegato di FCA, magnificarne la memoria, esaltarne le gesta. Uno slancio retorico e fluviale persino imbarazzante nella sua uniformità. Marchionne è il nuovo eroe dei due mondi finalmente ritrovato, bandiera dell'orgoglio nazionale, sintesi di patriottismo e internazionalismo (...del capitale). Nessuna critica è “moralmente” consentita, neppure la più inoffensiva. Tutta l'Italia è tenuta ad onorare il capitano d'impresa morente. Ogni voce fuori dal coro diventa tradimento patrio.

C'è, in questa cantica di regime, il segno di una ipocrisia rivoltante. L'unica vittoria che Sergio Marchionne ha assicurato riguarda il portafoglio degli azionisti FIAT. Sede legale della FIAT ad Amsterdam, sede fiscale a Londra, propria residenza personale in Svizzera, per pagare meno tasse possibili. Fusione con la Chrysler in bancarotta grazie alle risorse pubbliche garantite da Obama (garanzia pubblica dei prestiti ottenuti), al saccheggio di fondi pensione e sanitari dei lavoratori americani, al drastico taglio del loro salario, al blocco per cinque anni del loro diritto allo sciopero (con il sindacato UAW complice). Risanamento del debito aziendale della famiglia Agnelli, grazie a chiusure di stabilimenti, falcidie dei posti di lavoro, cancellazione dei diritti sindacali individuali e collettivi.
Il miracolo di Marchionne ha il segno della lotta di classe dal versante del capitale. Altro che interesse dell'impresa come interesse generale della società! La società ha pagato a peso d'oro il parassitismo degli azionisti.

Il caso italiano è emblematico. Il famoso Progetto Italia annunciato da Marchionne dieci anni fa, e lodato come sempre con squillo di fanfare da tutta la stampa nazionale, si è rivelato una clamorosa bufala. Invece che piena occupazione chiusura di fabbriche (a partire da Termini Imerese), una valanga di nuova cassa integrazione, un contratto aziendale separato che prevede più turni, taglia le pause, vieta lo sciopero, sbatte la FIOM fuori dai cancelli (salvo reintegro giudiziario) come mai era avvenuto, neppure negli anni '50. Il tutto con l'arma più odiosa del ricatto (o accettate la distruzione dei diritti o ce ne andiamo) e con il ripristino dei famigerati reparti confino (Nola) per gli operai recalcitranti. Il perché di tutto questo l'ha confessato candidamente Marchionne: “occorre uniformare il contratto dei lavoratori italiani al contratto dei lavoratori americani”. Lo stesso che Marchionne aveva peraltro abbattuto.

L'intero padronato italiano, grazie alla complicità sindacale, è entrato successivamente nel varco aperto da Marchionne, generalizzando la sua vittoria. «Si va avanti per traumi o per confronti. Marchionne scelse la prima via e noi invece siamo arrivati più tardi, l'approdo però è lo stesso», dichiara l'attuale Presidente di Confindustria (Corriere della Sera, 23 luglio). Proprio così.

Salvo aggiungere un piccolo dettaglio. Se Marchionne vinse, e se l'intera borghesia ha capitalizzato il suo sfondamento, ciò non è avvenuto per un destino cinico e baro, per una forza superiore e imbattibile. È avvenuto perché la classe operaia non ha avuto una direzione all'altezza del livello di quello scontro. La FIOM rifiutò di occupare Termini Imerese, e poi di unire in una lotta sola gli operai dei diversi stabilimenti della FIAT, votandosi alla sconfitta fabbrica per fabbrica in ordine sparso. Le burocrazie sindacali accettarono negli anni successivi proprio il modello imposto da Marchionne, firmando la capitolazione al padronato. Landini ha concluso la propria carriera di segretario FIOM siglando il peggior contratto della storia dei metalmeccanici, assunto oggi a riferimento da Confindustria come paradigma dei contratti futuri.

La borghesia seppellisce Marchionne con tutti gli onori, salvo farlo quando è ancora in vita e a mercati chiusi per contenere i contraccolpi sulle azioni della Famiglia.
CGIL e FIOM tacciono pudicamente, perché non possono neppure rivendicare il vecchio disaccordo col padrone nel momento in cui si sono arresi.
Noi diciamo a voce alta, tanto più oggi, che la lotta per cancellare le vittorie di Marchionne è parte della lotta per la costruzione di un'altra direzione, sindacale e politica, del movimento operaio.
Partito Comunista dei Lavoratori

L'ordine di Salvini

La repressione Lega-M5S colpisce l'Askatasuna

Questa notte, a Torino, quindici attivisti del centro sociale Askatasuna sono stati arrestati dalla polizia su mandato della Procura con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale per i fatti accaduti nel corso del corteo del Primo maggio 2017. Quel Primo maggio la polizia cercò di impedire che lo spezzone organizzato dal centro sociale entrasse col resto del corteo in Piazza San Carlo, arrogandosi il diritto di decidere chi partecipa e chi no ad una manifestazione sindacale del movimento operaio. Il reato imputato ai quindici compagni è semplicemente di essersi opposti a quest'arbitrio. Il fatto che tra gli arrestati figurino i principali dirigenti del centro sociale rende ancor più chiara la fisionomia politica dell'operazione. Un'operazione di repressione e intimidazione rivolta non solo verso l'Askatasuna, ma verso tutti gli spazi e pratiche di piazza non omologabili all'ordine costituito.

«Complimenti alla polizia. Nell'Italia che voglio nessun delinquente deve restare impunito», così ha dichiarato a commento dell'operazione il ministro degli Interni Matteo Salvini. Non è un caso. “È finita la pacchia” non riguarda solamente le politiche dell'immigrazione: è anche un segnale di via libera ai settori più reazionari della magistratura e della polizia nella gestione dell'ordine pubblico. Il licenziamento di un'insegnante torinese per frasi "irriguardose" verso i poliziotti durante un corteo antifascista era solo un segno premonitore. Ora l'operazione di polizia contro l'Askatasuna aggiunge un nuovo tassello. Il governo giallo-verde, che alcuni settori di estrema (?) sinistra giungono addirittura a sostenere o abbellire, si configura in realtà come ariete di sfondamento sul terreno della repressione dell'avanguardia, come promotore di una gestione delle piazze che sembra guardare al modello Erdogan.

Per questa ragione non solo rivendichiamo l'immediata libertà per i quindici arrestati, la piena solidarietà all'Askatasuna contro la repressione dello Stato, e la più ampia campagna di denuncia dell'operazione torinese e del suo significato; ma crediamo importante tanto più oggi la ricostruzione di un'opposizione di classe e di massa al governo Salvini-Di Maio, la sola che può allargare gli spazi e i diritti di lotta nei luoghi di lavoro e nelle piazze.
Partito Comunista dei Lavoratori

Per un mondo senza frontiere e sfruttamento

Il PCL aderisce al corteo di Ventimiglia del 14 luglio

12 Luglio 2018
I governi europei e la loro Unione varano politiche criminali e inumane verso i migranti. Il governo giallo-verde di Salvini e Di Maio è capofila di queste politiche: chiusura dei porti, boicottaggio dei soccorsi, sostegno alla guardia costiera libica e ai suoi lager, taglio delle risorse per l'accoglienza a vantaggio dei respingimenti, attacco alla protezione umanitaria, discriminazione verso gli stessi immigrati “regolari” per l'assegnazione di asili, case, sussidi... Sulla scia di Minniti, ma oltre Minniti.

I paesi imperialisti, che sgomitano gli uni con gli altri per la spartizione delle zone di influenza in Africa, vogliono incassare i frutti della propria rapina senza pagarne gli oneri. L'Africa è da secoli terra di saccheggio da parte del capitalismo, a partire dallo schiavismo e dal colonialismo. Le migrazioni di oggi sono l'effetto ultimo di questo saccheggio storico. Anche per questo la distinzione tra rifugiati e migranti economici è del tutto ipocrita. Non solo perché gli stessi rifugiati e richiedenti asilo sono oggi privati dei propri diritti (con la copertura delle Nazioni Unite), ma anche perché morire per fame o per sete non è diverso che morire per guerra. Fame e guerre entrambe portate o alimentate dalla grande rapina imperialista.

La verità è che gli stessi governi europei di ogni colore politico che impongono sacrifici ai propri lavoratori cercano di dirottare la loro rabbia contro i migranti per impedire che si rivolga contro i capitalisti. Per questo alimentano xenofobia, odio, razzismo, nazionalismo. Le politiche xenofobe servono solo a dividere gli sfruttati a tutto beneficio dei loro sfruttatori.

È necessario spezzare questa dinamica. È necessario unire la lotta di tutti gli oppressi contro il nemico comune, contro ogni forma di concorrenza al ribasso tra gli sfruttati.

Certo, occorre battersi coerentemente per i diritti democratici dei migranti contro ogni forma di giustificazione (magari “sovranista”) di politiche razziste.
Ci battiamo contro la chiusura dei porti e delle frontiere.
Chiediamo corridoi umanitari a garanzia della vita dei migranti.
Ci battiamo per un sistema di accoglienza dignitoso e non carcerario, magari finanziato dalla cancellazione delle enormi spese di militarizzazione delle frontiere e dei respingimenti.
Rivendichiamo l'abolizione delle leggi anti-migranti degli ultimi 20 anni ( Turco Napolitano, Bossi Fini, Minniti Orlando), a partire dalla cancellazione del legame ricattatorio tra permesso di soggiorno e lavoro.

MA NON BASTA 
una lotta per i diritti dei migranti se non metti in discussione l'organizzazione capitalistica della società. “ Se non c'è lavoro, casa, cure sanitarie per noi, come possono esservi per i migranti?” Questo è il tasto battuto da Salvini e con lui da tutti i reazionari.
E' necessario attaccare frontalmente questo pregiudizio. Dimostrare che il problema non sono i migranti ma il capitalismo; che lo stesso capitalismo che è all'origine delle migrazioni è il principale impedimento all'integrazione dei migranti; che una organizzazione alternativa della società è l'unica via per risolvere il problema.

OCCORRE RIVENDICARE 
la ripartizione del lavoro tra tutti, con la riduzione dell'orario a parità di paga.
Un grande piano di nuovo lavoro in opere sociali di pubblica utilità, a partire da case popolari e asili
La requisizione di grandi proprietà immobiliari, per dare a tutti il diritto alla casa.
L'abolizione del debito pubblico verso le banche e la nazionalizzazione delle banche, per garantire a tutti le protezioni sociali, a partire da sanità, pensioni, istruzione.

E' una piattaforma di lotta che potrebbe unire lavoratori italiani e immigrati, rompere le loro divisioni, moltiplicare la loro forza. Ma l'insieme di queste misure chiama in causa il capitalismo e ne richiede il rovesciamento. Una prospettiva di liberazione per sua natura rivoluzionaria e internazionale.

Nè Unione Europea degli Stati capitalisti, né sovranismo nazionalista: solo un'Europa socialista governata dai lavoratori può liberare il vecchio continente dallo sfruttamento e dal razzismo. Solo la classe lavoratrice, al di là di ogni frontiera e di ogni colore, può guidare questa rivoluzione.
Costruire controcorrente tale consapevolezza tra gli sfruttati è il nostro impegno quotidiano.
Partito Comunista dei Lavoratori

I facinorosi e il ministro Toninelli

«I due facinorosi sono stati individuati e saranno puniti». Così il ministro Toninelli ha dato annuncio dell'arresto di due immigrati, uno del Ghana, l'altro del Sudan, colpevoli di aver «fomentato un ammutinamento sulla nave Diciotti mettendo a rischio l'equipaggio».

Perché l'ammutinamento? Perché 67 migranti si sono ribellati all'idea di essere riconsegnati alla Guardia Costiera libica, cioè ai lager, alle torture, agli stupri, al commercio degli schiavi, ai mille orrori delle prigioni libiche, finanziate da soldi italiani. Il ministro Toninelli aveva disposto la riconsegna agli aguzzini. Gli immigrati l'hanno respinta. Hanno esercitato, nel loro piccolo, l'eterno diritto alla ribellione contro la violenza , l'oppressione, l'arbitrio. Se i due immigrati chiamati in causa sono stati a capo della rivolta, se attraverso la forza collettiva hanno preteso venisse loro salvata la vita, o quella delle loro mogli e dei loro figli, vuol dire che hanno avuto coraggio, fosse pure il coraggio della disperazione. Vuol dire che la loro dignità ha un valore, tanto più a fronte della viltà di un ministro che sa solo ripararsi dietro lo scudo della legge. Toninelli può oggi purtroppo “punire” chi vuole, per dissuadere altre possibili ribellioni in circostanze analoghe; ma non potrà cancellare il coraggio di due uomini liberi, né il loro esempio, né la loro capacità fosse pure per una sola notte di trascinare la voglia di libertà di altre decine di oppressi.

Ognuno ha in fondo gli eroi che si merita. Toninelli ha il plauso di Salvini, della Guardia libica, dei torturatori di Tripoli. I due “facinorosi” hanno quello di tutti coloro che non vogliono smarrire la propria umanità.
Partito Comunista dei Lavoratori

Sul Decreto dignità di Luigi Di Maio

Un “Decreto dignità dei lavoratori e delle imprese”. Così recita il titolo-immagine del decreto che il Ministro del Lavoro Luigi Di Maio presenta oggi in Consiglio dei ministri. Un decreto sbandierato per ragioni elettorali come "lotta al precariato”. 


Falso. Si tratta di piccoli ritocchi formali che non incidono affatto sulla condizione reale di milioni di sfruttati. Il ritorno della causale per i contratti a termine è previsto solo per il rinnovo del contratto. Resta la possibile estensione del contratto sino a 36 mesi, con l'unica riduzione del numero di proroghe da 5 a 4 e con la crescita del costo contributivo (+0,5) a partire dal secondo rinnovo. Resta inalterato il lavoro a somministrazione, smentendo i precedenti annunci, con soddisfazione delle agenzie interinali. Resta sullo sfondo soprattutto la soppressione dell'articolo 18, architrave del Jobs Act e della precarizzazione reale dei nuovi assunti. Mentre il Ministro del Turismo Centinaio, col plauso di Coldiretti, annuncia il ritorno dei voucher in agricoltura.
Sarebbe questa la lotta al precariato?

Si è fatto molto rumore attorno al contrasto delle delocalizzazioni (restituzione maggiorata degli incentivi pubblici). Ma il tempo di applicazione della misura deterrente è stato ridotto da 10 a 5 anni su pressione padronale: dal sesto anno l'impresa può andare dove vuole col malloppo in tasca. Peraltro i vantaggi strutturali della delocalizzazione sono spesso tali - in termini di manodopera a prezzi stracciati, concessione gratuita dei terreni, aliquote fiscali vicine allo zero - da ridurre la multa a un costo relativamente marginale, in ogni caso non determinante. In più le delocalizzazioni restano libere e impunite per le aziende non incentivate dallo Stato.
Sarebbe questa la difesa del lavoro?

Infine alle imprese si regala il disboscamento fiscale e la promessa solenne della flat tax a carico dei servizi sociali e dei salariati, che già reggono sulle proprie spalle l'80% delle tasse. La “dignità” dei profitti, a spese di chi lavora, è dunque ben tutelata, come prima e meglio di prima.

È vera però una cosa: la memoria delle politiche di austerità, la loro profondità, le sofferenze che hanno prodotto, possono riverberare paradossalmente una luce positiva sul “decreto dignità” nell'immaginario di settori di massa, abbellendone la realtà. Grazie anche a burocrazie sindacali del tutto passive, colluse coi padroni, incapaci di offrire una prospettiva alternativa ai lavoratori.

Costruire allora una piattaforma di lotta generale della classe lavoratrice attorno a proprie rivendicazioni unificanti e riconoscibili è l'unica via per tracciare la linea di demarcazione verso il governo giallo-verde e le sue elemosine truffaldine. Per ridefinire la linea di frontiera del movimento operaio sul terreno della lotta di classe. Per riaprire lo scenario politico italiano.
Partito Comunista dei Lavoratori