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Zohran Mamdani vince le primarie democratiche a New York

 


Buona notizia per l'affluenza, nessuna soluzione per la città

28 Giugno 2025

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Il 24 giugno il socialdemocratico Zohran Mamdani ha vinto le primarie del Partito Democratico per la carica di sindaco di New York City, anche se le vittoria è per ora ufficiosa, dato che le primarie hanno utilizzato il sistema di voto alternativo (voto a scelta classificata, ranked choice) e i risultati finali non saranno pubblicati prima del primo luglio.

Mamdani ha ottenuto il 43,5% dei voti di prima scelta; Andrew Cuomo, il suo avversario espressione dell'establishment del Partito Democratico, ha ottenuto il 36,4%; e Brad Lander ha ottenuto l'11,3% . Poiché Mamdani e Lander prima del voto si sono dichiarati sostegno reciproco, i voti di seconda scelta dati a Lander sarebbero presumibilmente andati a Mamdani, garantendogli la maggioranza. Piuttosto che prolungare l'umiliazione, Cuomo ha ammesso la sconfitta.

Mamdani ha basato la sua campagna elettorale su un programma di riforme municipali, tra cui il congelamento degli affitti per 1 milione di appartamenti a canone calmierato, l'abolizione delle tariffe sugli autobus, l'assistenza all'infanzia gratuita (o sovvenzionata), la creazione di negozi di alimentari di proprietà comunale nei cosiddetti “deserti alimentari”, e l'aumento del salario minimo nella città di New York a 30 dollari l'ora. La sua elezione ha dimostrato un ampio sostegno a tali misure.

Mamdani ha trentatré anni, è un musulmano di origini indiane e proviene da una famiglia benestante. Ha un passato di attivismo studentesco e locale, e di solidarietà con la Palestina. È membro dei Democrati Socialists of America (DSA). Nella sua campagna elettorale non ha messo in evidenza il suo attivismo e la sua appartenenza ai DSA, ma non li ha rinnegati.

La campagna di Mamdani ha fatto uso abilmente dei social media e ha coinvolto migliaia di giovani volontari. Mamdani ha ottenuto buoni risultati tra gli elettori bianchi, latini, asiatici e giovani, mentre non ha avuto lo stesso successo tra gli elettori neri, ebrei e anziani.

Mamdani ha buone possibilità di diventare sindaco di New York, a novembre, ma la sua vittoria non è certa. Il New York Times e il Washington Post sono i principali mezzi di informazione liberal (progressisti, ndt) della classe dirigente statunitense. Il Washington Post è di proprietà di Jeff Bezos, che possiede anche Amazon ed era l'uomo più ricco del mondo fino a quando Elon Musk non lo ha scalzato. Bezos potrebbe riconquistare il titolo di più ricco, dato che le buffonate politiche di Musk stanno trascinando Tesla verso il basso, e i suoi razzi Starship continuano a esplodere. Ecco il punto di vista capitalista liberal del Washington Post sulle elezioni di Mamdani, citato per esteso perché molto rivelatore:

«La vittoria di Zohran Mamdani è un male per New York e per il Partito Democratico. [titolo]

[...] Ora, un uomo che crede che il capitalismo sia un “furto” è in lizza per guidare la città più grande del Paese e la capitale finanziaria del mondo. Le sue idee principali sono “negozi di alimentari di proprietà della città”, gratuità dei trasporti pubblici, congelamento degli affitti su 1 milione di appartamenti regolamentati e aumento del salario minimo a 30 dollari. Senza dubbio queste potrebbero sembrare idee allettanti ad alcuni elettori. Ma, come per molte proposte dell'estrema sinistra americana, queste scelte danneggerebbero proprio le persone che dovrebbero aiutare.

Un salario minimo elevato avrebbe un effetto negativo sull'occupazione dei lavoratori poco qualificati. Il congelamento degli affitti ridurrebbe l'offerta di alloggi e ne diminuirebbe la qualità. Il taglio delle tariffe degli autobus creerebbe un buco nei finanziamenti dei trasporti pubblici che, se non venisse in qualche modo colmato, comprometterebbe il servizio. Nel frattempo, il settore alimentare opera con margini ridotti, e il progetto di negozi gestiti dalla città porterebbe probabilmente a una riduzione delle scelte, a un servizio scadente e a carenze di prodotti, poiché i negozi privati chiuderebbero piuttosto che cercare di competere con quelli sovvenzionati dalla città.

Mamdani in precedenza aveva chiesto di tagliare i fondi alla polizia e di smantellarla. Anche se ha moderato le sue posizioni, continua a opporsi all'assunzione di nuovi agenti.

Almeno una cosa Mamdani la ammette: il candidato vuole tasse ancora più elevate in una città dove sono già molto pesanti. Vuole un'imposta patrimoniale annuale del 2% sull'1% più ricco dei newyorkesi, e aumentare l'aliquota dell'imposta sulle aziende dallo 7,25% all'11,5%. La Grande Mela già soffre di fuga di capitali. Gli hedge fund e altri soggetti finanziari si sono trasferiti in luoghi più favorevoli alle imprese, come la Florida. I piani fiscali di Mamdani stimolerebbero un esodo delle imprese e spingerebbero più persone ricche a lasciare la città, minando la base imponibile e rendendo più difficile mantenere i servizi esistenti
».

I ricchi finanziatori e i media di establishment faranno pressione sul Partito Democratico affinché saboti la campagna di Mamdani negandogli il proprio sostegno e i propri finanziamenti. Cuomo e l'attuale sindaco democratico Eric Adams, entrambi candidati come indipendenti alle elezioni di novembre, potrebbero stringere un accordo in base al quale uno dei due si ritirerebbe a favore dell'altro.

Se Mamdani vincerà, dovrà affrontare grandi ostacoli. Egli propone di finanziare le sue riforme con una patrimoniale e un aumento delle tasse sul reddito d'impresa. Ma il sindaco non ha alcun controllo su nessuna delle due cose, e il governatore dello stato di New York Kathy Hochul ha escluso qualsiasi aumento delle tasse. Senza finanziamenti, le riforme di Mamdani sarebbero sconfitte dalle forze del mercato, e lui non durerebbe a lungo in carica.

Se la massa dei lavoratori e degli oppressi si mobilitassero, Mamdani potrebbe superare la resistenza dei capitalisti. Ma non siamo ancora in quel mondo.

In assenza di una mobilitazione di massa, Mamdani rischia piuttosto di diventare un altro Brandon Johnson, l'attuale sindaco di Chicago. Le credenziali di Johnson tra la base e gli elettori erano persino migliori di quelle di Mamdani, dato che è stato insegnante nelle scuole pubbliche di Chicago per molti anni e membro del sindacato Chicago Teachers Union (CTU). Accettando i limiti imposti dalla sua carica di sindaco, Johnson non è riuscito a portare avanti le sue riforme progressiste, ha deluso la sua base e avrà difficoltà a vincere un secondo mandato nel 2027.

La vittoria di Mamdani ha entusiasmato gli attivisti di base, che vogliono credere nella possibilità di ottenere riforme attraverso le elezioni, e rivendicano la conquista del Partito Democratico come partito del popolo. Avevano quasi rinunciato al loro impegno dopo le delusioni delle amministrazioni di Barack Obama e Joe Biden, le candidature di Hillary Clinton e Kamala Harris, il dietrofront di Bernie Sanders e l'integrazione di Alexandria Ocasio-Cortez e della Squad (gruppo di deputati e deputate vicini/e politicamente a Ocasio-Cortez, ndt) nell'ordine congressuale.

Il titolo di un articolo del 25 giugno di Liza Featherstone sul sito Jacobin coglie il cambiamento: «In un momento politico cupo, Zohran Mamdani offre speranza».

La vittoria di Mamdani conferma ciò che stiamo vedendo nelle grandi manifestazioni contro Donald Trump. Un gran numero di lavoratori e giovani vogliono opporsi e resistere. I marxisti rivoluzionari ripettano questo impulso. Allo stesso tempo, dobbiamo spiegare con pazienza che il Partito Democratico è un partito neoliberista e guerrafondaio. I loro politici sono costretti a scegliere tra acconsentire a ciò che sanno essere sbagliato o essere buttati fuori dai loro incarichi.

I marxisti rivoluzionari non dovrebbero candidarsi nel Partito Democratico né sostenere i democratici. Di conseguenza, è improbabile che i candidati che invece sosteniamo possano vincere le elezioni al di sopra del livello dei consigli comunali. Ma per noi, con l'attuale livello della lotta di classe, le elezioni servono a diffondere le nostre idee, non a conquistare cariche pubbliche.

Man mano che i lavoratori e gli oppressi si mobiliteranno, la situazione cambierà. I lavoratori in movimento chiederanno una rappresentanza politica, un partito di massa della classe lavoratrice. Le elezioni continueranno a riguardare principalmente la propaganda, ma l'elezione di lavoratori e rivoluzionari consentirà una maggiore diffusione di tale propaganda.

Le lotte decisive emergeranno dall'organizzazione sul posto di lavoro, nella comunità locali e nell'esercito, con manifestazioni, scioperi, picchetti, occupazioni e autodifesa organizzata. Per vincere, i lavoratori avranno bisogno di un partito rivoluzionario di massa, non solo di un partito che partecipa alle elezioni. Un discorso che dobbiamo iniziare.

Peter Solenberger

La nostra solidarietà a Potere al Popolo


 Un'infame operazione di infiltrazione poliziesca in diverse città

Dichiariamo la nostra piena solidarietà a Potere al Popolo, oggetto di un'infame operazione di infiltrazione poliziesca in diverse città (Milano, Bologna, Roma, Napoli).

Cinque casi documentati di infiltrazione prolungata – di almeno otto mesi – non sono un episodio tra i tanti. Misurano il salto di livello dell'azione repressiva dello Stato borghese contro gli ambienti d'avanguardia che oggi si oppongono al governo Meloni e alle politiche dominanti. Il fatto che tre interrogazioni parlamentari al riguardo non abbiano ancora ricevuto risposta dimostra l'imbarazzo e l'ipocrisia del governo, e innanzitutto del ministero degli Interni.

La documentazione raccolta sull'infiltrazione poliziesca inchioda il governo alle sue responsabilità. In tutti i cinque casi il percorso preparatorio dell'infiltrazione poliziesca è stato il medesimo. Tutti agenti del 223esimo corso allievi agenti di polizia, tutti trasferiti dopo un periodo di prova alla Direzione centrale della polizia di prevenzione (antiterrorismo), e da qui impiegati nell'azione. È il profilo di un'operazione orchestrata di cui il ministero dell'Interno non può che essere il mandante, e in ogni caso il primo responsabile.

La vicenda colpisce Potere al Popolo, ma non riguarda solo Potere al Popolo. Emerge il vero significato del famigerato decreto sicurezza. Non solo un decreto contro gli spazi di lotta e le forme d'azione della lotta di classe, come di ogni forma di disobbedienza e insubordinazione al potere. Ma anche una misura di potenziamento dell'apparato repressivo dello Stato, della sua libertà d'azione, della sua impunità. La pubblica licenza di legge per l'infiltrazione poliziesca, e persino la copertura legale preventiva per l'azione criminosa degli agenti infiltrati, sono stati votati nero su bianco da tutta la maggioranza di governo, su proposta dell'esecutivo. I successivi progetti annunciati della Lega sullo scudo legale garantito per un agente che spara, o per la cancellazione di fatto del reato di tortura, vanno nella medesima direzione.

Anche lo spionaggio emerso di giornalisti e attivisti democratici, impegnati nella difesa dei migranti (Luca Casarini), attraverso l'uso del software Graphite della società israeliana Paragon, è indicativo del clima. L'autorizzazione offerta ai servizi segreti ad usare gli spyware di Paragon è stata data dal sottosegretariato agli Interni Alfredo Mantovano il 5 settembre 2024, come riporta, senza smentite, il Corriere della Sera (16 giugno 2025). Peraltro, il sistema Paragon della fidata Israele è in dotazione solo al governo. Meloni tace, ma i fatti parlano.

E tuttavia, per dirla tutta, l'azione di spionaggio non è nuova. Fu il primo governo di Giuseppe Conte, quello che oggi fa il pacifista, ad autorizzare i servizi segreti nell'azione di spionaggio di Casarini (settembre 2019). Il suo ministro degli interni era il forcaiolo Salvini. Conte ha ammesso il fatto, salvo precisare che non aveva autorizzato a spiare i giornalisti ma “solo” alcuni attivisti, per controllare la legalità del loro comportamento. Una confessione in piena regola. Che spiega non solo chi è Giuseppe Conte, ma anche cos'è lo Stato borghese nella sua vita ordinaria. Altro che “democrazia”! La Costituzione democratica è solo una foglia di fico, che maschera e copre il potere reale. Oggi un governo a guida postfascista presenta questo potere col suo vero volto, quello degli agenti di polizia. La cosiddetta “sicurezza” pubblica è solo la sicurezza delle classi dominanti e del loro Stato da ogni minaccia reale o presunta al loro reale potere.

Per questa ragione la doverosa solidarietà a Potere al Popolo deve risolversi nella ripresa di una mobilitazione generale unitaria di tutte le organizzazioni del movimento operaio contro il governo Meloni e i nuovi poteri di polizia.

Partito Comunista dei Lavoratori

Argentina. Udienza pubblica al Congresso Nazionale. Per l'assoluzione di Alejandro Bodart

 


In vista di una nuova seduta del tribunale per l'appello presentato contro la sentenza che intende condannare Alejandro Bodart per aver espresso solidarietà alla causa palestinese e denunciato il genocidio in corso perpetrato dallo Stato di Israele, lunedì 23 si è tenuta un'udienza pubblica presso il Congresso Nazionale. Tra gli altri, hanno partecipato gli avvocati difensori di Bodart, María del Carmen Verdú e Ismael Jalil, insieme a deputati nazionali, organizzazioni per i diritti umani, organizzazioni sociali, politiche, ambientali, rappresentanti della comunità araba ed ebraica.


Durante l'udienza Bodart ha dichiarato: «Tre anni fa ho pubblicato sulle mie pagine social una denuncia contro lo Stato di Israele, accusandolo di razzismo e genocidio, ed ho espresso la mia solidarietà al popolo palestinese. Denunciare la barbarie ha portato a una denuncia da parte della DAIA [Delegazione delle Associazioni Israeliane in Argentina], che mi ha assurdamente accusato di antisemitismo. Accusa dalla quale sono stato assolto in due gradi di giudizio, considerando che le mie espressioni erano tutelate dal diritto alla libertà di espressione. Tuttavia, la giustizia argentina ha dato un'ulteriore dimostrazione di servilismo nei confronti del potere in carica. I giudici Ignacio Mahiques e Jorge Atilio Franza hanno tentato nuovamente di condannarmi, e nell'udienza di giovedì abbiamo presentato ricorso contro questa decisione antidemocratica. Il Tribunale Internazionale dell'Aia, la Corte Penale Internazionale, la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, innumerevoli organizzazioni per i diritti umani, settori democratici, persino Papa Francesco, hanno condannato tali crimini di Israele contro l'umanità. Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra ricercato, ma loro vogliono mettere a tacere me per aver detto la verità in solidarietà con il popolo palestinese. Non ci riusciranno, perché siamo in tanti a non tacere di fronte a questa barbarie».

Bodart ha aggiunto: «Trovo assolutamente ingiusto che si cerchi di condannarmi, in quello che vedo come un chiaro tentativo di mettere a tacere chi denuncia il genocidio contro il popolo palestinese. Sono convinto che mettere in discussione le politiche di uno Stato non debba essere confuso con un atto di discriminazione nei confronti della sua popolazione. Non rinuncerò mai al mio impegno per la causa palestinese. Insieme ai miei avvocati, María del Carmen Verdú e Ismael Jalil, ricorreremo contro questa sentenza in tutte le istanze necessarie, chiedendo la mia assoluzione totale. La difesa dei diritti umani e della libertà di espressione non può essere criminalizzata. Questo processo non riguarda solo me, ma costituisce un pericoloso precedente per tutte le persone che lottano per la giustizia e la verità».



26 giugno. Mobilitazione al tribunale. Assoluzione per Alejandro Bodart.

Giovedì 26 giugno, a partire dalle ore 10:00, si terrà una manifestazione di solidarietà con Alejandro Bodart, leader politico e segretario generale del Movimiento Socialista de los Trabajadores (MST) nel FIT-U e coordinatore della Lega Internazionale Socialista, perseguitato per aver denunciato il genocidio perpetrato dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese.

La mobilitazione partirà dall'incrocio tra Avenida Libertad e Avenida Marcelo Torcuato de Alvear a Buenos Aires, e arriverà fino alle porte della Sala III della Camera Penale, dove Bodart dovrà affrontare un nuovo processo. In vista di questo appuntamento giudiziario, lunedì si è tenuta un'importante udienza pubblica al Congresso, dove un ampio settore di organizzazioni e leader ha espresso il proprio sostegno ad Alejandro Bodart.

Questo caso rappresenta una grave violazione della libertà di espressione e un tentativo di mettere a tacere le voci che denunciano il massacro, l'infanticidio e l'apartheid che lo Stato sionista di Israele perpetra quotidianamente contro il popolo palestinese.

Bodart era già stato assolto, ma a seguito dell'appello della DAIA, una giustizia complice insiste nel mantenere aperto il processo giudiziario, e cerca di condannare Bodart. Questo giovedì le bandiere di sostegno al popolo palestinese torneranno a sventolare nuovamente, e grideremo a gran voce che denunciare un genocidio non è un reato, chiedendo l'assoluzione di Bodart.

Vi invitiamo a unirvi alla mobilitazione e ad affiancarvi a noi nella richiesta di assoluzione, per il diritto di parola ed espressione senza alcuna censura.

Periodismo de Izquierda - MST


L'attacco USA all'Iran, nuovo capitolo del banditismo imperialista

 


La politica di Trump nella complessità del Medio Oriente

23 Giugno 2025

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L'attacco dei bombardieri USA all'Iran è un ulteriore capitolo del banditismo imperialista della prima potenza mondiale. Un'ulteriore riprova del cordone ombelicale tra lo stato sionista e l'imperialismo USA, quale che sia il colore politico dell'amministrazione americana e del governo israeliano. Nulla di ciò che lo stato sionista ha fatto e fa sarebbe possibile senza il sostegno strutturale di lungo corso dell'imperialismo USA (e non solo). È una verità che non va mai dimenticata.

Le motivazioni formali e pubbliche dell'aggressione sionista/americana contro l'Iran sono di per sé rivelatrici di un'arroganza e ipocrisia senza limiti. Una potenza imperialista che detiene più di cinquemila testate nucleari, e uno stato coloniale sionista che ne possiede circa duecento, pretendono insieme di vietare a uno stato sovrano del Medio Oriente di costruirne una. E paradossalmente lo possono bombardare anche per il fatto che non la possiede (a differenza della Corea del Nord, che guarda caso nessuno oggi si sogna di minacciare).
Il fatto che Israele, al contrario dell'Iran, non aderisca all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, e abbia gestito il proprio armamento nucleare nella massima segretezza e fuori da ogni controllo, rende la sua denuncia delle “violazioni iraniane” ancor più grottesca e provocatoria.
Il fatto che tutte le potenze imperialiste – non solo gli imperialismi occidentali ma persino Russia e Cina – dichiarino all'unisono che “l'Iran non può avere la bomba” misura la profondità della loro comune connivenza con lo stato sionista, al di là dei diversi posizionamenti diplomatici di fronte alla guerra.

Donald Trump ha voluto salire sul carro della guerra sionista contro l'Iran. Non è chiaro se e quando avrà intenzione di scendere. Di certo la sua scelta di guerra smentisce una volta di più le idiozie sparse a piene mani in questi mesi, soprattutto da parte cegli ambienti campisti, sulla vocazione “pacifista” della nuova amministrazione USA. La più grande potenza imperialista del pianeta non è e non può essere, per la sua stessa natura, una forza di pace. Tutta la storia dell'imperialismo USA lo dimostra. Inclusi i nuovi stanziamenti di bilancio di Donald Trump per l'industria militare americana.

Il vero problema strategico e di fondo dell'imperialismo USA è come gestire la propria politica di rapina, a fronte del proprio declino e dell'ascesa dell'imperialismo cinese. La linea con cui il secondo Trump sembra affrontare il problema è effettivamente nuova. È la proposta rivolta alla Russia e alla Cina di una spartizione negoziata del mondo sulla base di aree di influenza continentali: l'America agli americani (inclusa l'America Latina, il Centro America, il Canada e persino la Groenlandia); l'Ucraina alla Russia; l'Asia alla Cina (con disponibilità negoziali su Taiwan?).
La clamorosa apertura di Trump a Putin e a un suo possibile ruolo globale, l'evidente abbandono americano dell'Ucraina (dopo un accordo di rapina sulle sue risorse minerarie), la marginalizzazione umiliante degli imperialismi “alleati” europei su ogni scacchiere della politica mondiale, lo stesso relativo disimpegno USA dal Vecchio continente, sono un risvolto della nuova linea. Non una iniziativa di pace, ma di spartizione del bottino tra banditi imperialisti. Non sappiamo se avrà successo, ma sappiamo che questa è la sua natura.


LA DIFFICOLTÀ DELLA LINEA TRUMPIANA IN MEDIO ORIENTE

Il Medio Oriente è un punto di difficoltà della linea trumpiana. Ma è anche un campo obbligato di esercitazione e sperimentazione. La crisi dell'egemonia USA nella regione è il portato di una lunga catena di disastri e sconfitte, dall'Iraq all'Afghanistan. Nell'ultimo decennio era stato l'imperialismo russo il principale beneficiario della crisi USA, attraverso il consolidamento dell'asse con Assad, lo sbarco in Libia, il blocco con gli Emirati Arabi, l'alleanza col regime iraniano e la sua rete di appoggio (in Libano, Siria, Yemen). Ma negli ultimi due anni l'azione genocida del sionismo in Palestina ha nuovamente scompaginato il campo: col crollo di Assad, la sconfitta di Hezbollah, l'indebolimento complessivo dell'Iran e della sua rete di relazioni. La nuova guerra sionista contro l'Iran è quindi (anche) la risultante dei nuovi rapporti di forza nella regione, e al tempo stesso il coronamento dell'espansionismo israeliano (occupazione di Gaza, annessione della Cisgiordania, espulsione manu militari della popolazione palestinese, allargamento nel Golan siriano, subordinazione del Libano al nuovo ordine sionista). È il progetto della Grande Israele.

Ma fino a che punto la Grande Israele si concilia col disegno imperialistico globale di Trump? L'interrogativo è aperto. Trump punta ad allargare gli Accordi di Abramo all'Arabia Saudita come nuovo architrave di una stabilità medio orientale: ciò che gli coprirebbe le spalle nella regione consentendogli di dedicarsi alla partita strategica con la Cina sul Pacifico.
Ma il governo saudita può avventurarsi in un accodo storico con Israele nel momento stesso della carneficina di Gaza? Più in generale, possono farlo l'insieme delle monarchie del Golfo, sfidando l'odio della popolazione araba? Ai loro occhi, il ridimensionamento dello storico rivale iraniano è di per sé benvenuto, al di là delle dissociazioni formali dalla guerra. Ma lo è anche un espansionismo senza rete dello stato sionista nella regione?

Le oscillazioni di Donald Trump nella vicenda sono emblematiche. Prima un negoziato in proprio (persino) con Hamas, per liberare un prigioniero USA, poi con gli houthi, per mettere al sicuro le navi americane, poi con l'Iran, per accordarsi sul nucleare. Il tutto scavalcando Netanyahu, e persino ignorandolo durante il giro delle capitali arabe. In questo quadro, l'attacco militare di Netanyahu all'Iran ha tutta l'aria di essere stato mirato (anche) alla rottura del gioco negoziale di Trump: un modo per mettere gli USA di fronte al fatto compiuto e nella necessità di doversi allineare ad Israele.
Trump, “avvisato” ma non coinvolto, ha inizialmente abbozzato. Poi ha proposto alla Russia un ruolo di mediazione per disinnescare il conflitto nel nome della de-escalation, alludendo allo scambio tra una capitolazione iraniana sotto pressione di Putin e un ulteriore semaforo verde alla guerra di Putin in Ucraina. Poi ha lodato lo «spettacolare successo militare» israeliano. Infine ha scelto di condividere questo successo con i propri bombardieri. Fino a quando e per cosa? Per puntare ad un cambio di regime in Iran sotto la pressione della guerra, magari contando su possibili defezioni e ricollocazioni di una parte dei pasadaran? Oppure per provare a riprendere in mano il negoziato interrotto con l'Iran, dopo aver provato ad Israele la propria fedeltà in guerra, e dunque con la speranza (non si sa se fondata) di uno spazio di manovra maggiore? Di certo, lo spartito trumpiano dell'apertura globale all'imperialismo russo si concilia a fatica con la guerra all'Iran, che della Russia è alleato. L'incontro a Mosca del presidente iraniano con Putin è un messaggio per Trump.


LA DIFESA DELL'IRAN DA ISRAELE E USA.
CON UN PROGRAMMA DI RIVOLUZIONE


I prossimi giorni chiariranno. Resta il fatto fondamentale: tutte le trame di guerra e di “pace” in Medio Oriente tra i diversi briganti imperialisti e lo stato sionista avvengono sulla pelle dei popoli oppressi della regione. Innanzitutto della popolazione palestinese, ma più in generale di tutta la popolazione araba e persiana.

Lo stato sionista ha avuto l'impudicizia di appellarsi alla ribellione anti-Khamenei nel momento stesso in cui bombarda le città iraniane. Ma “donna, vita, libertà” non sarà mai un canto di guerra d'Israele, perchè è il grido della rivoluzione iraniana. Sono i lavoratori, le lavoratrici, la popolazione povera dell'Iran che hanno tutto il diritto di presentare il conto al regime odioso che li opprime. Non i bombardieri sionisti. Non lo stato coloniale genocida che da due anni sta massacrando il popolo di Palestina davanti agli occhi del mondo.

Difendere incondizionatamente l'Iran e la sua sovranità dall'attacco del mostro sionista/americano, e al tempo stesso battersi per la prospettiva di un governo operaio e contadino in Iran, non sono affatto parole d'ordine inconciliabili, né disegnano scansioni temporali. Sono due tasselli paralleli e complementari del posizionamento marxista rivoluzionario. Lo stesso posizionamento che tenemmo di fronte alla guerra imperialista contro l'Iraq del boia Saddam Hussein nel 2003, o alla guerra dell'imperialismo britannico contro l'Argentina del generale Galtieri nel lontano 1982.

Contro l'imperialismo e il sionismo, sempre e incondizionatamente. Con un programma di rivoluzione socialista: l'unico che può dare agli oppressi una pace vera e giusta.

Marco Ferrando

L'Iran è solo contro l'aggressione sionista, coperta da tutti gli imperialismi d'Occidente

 


Mentre Russia e Cina negano ogni aiuto reale all'Iran

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La guerra dello stato sionista contro l'Iran ha il diretto sostegno, e/o la copertura politica, di tutti i vecchi imperialismi di America ed Europa. Senza che i nuovi imperialismi (Russia e Cina), rivali dei primi, muovano un dito per difendere l'Iran. È un fatto. Denso di significato politico, per chiunque voglia guardare in faccia la realtà.

Innanzitutto: la guerra sionista in poche ore ha fatto tabula rasa delle ipocrite recite umanitarie degli imperialismi europei dopo 70000 mila palestinesi ammazzati. Tutti i governi del vecchio continente si sono schierati come un sol uomo a sostegno del “diritto di Israele all'autodifesa” contro l'Iran. Nessuna sorpresa. È il replay su scala diversa del post-7 ottobre, e più in generale della rappresentazione capovolta della storia di Israele e del Medio Oriente. Quella storia che dipinge lo stato sionista come baluardo democratico assediato dagli arabi e dai persiani. Il fatto paradossale che l'unico stato del Medio Oriente dotato di (duecento) testate nucleari pretenda di vietare ad un altro stato della regione di costruirne una è rimosso nella sua enormità, come ogni evidenza di verità. Mentre il diritto dell'Iran alla propria autodifesa contro l'aggressione sionista – un diritto elementare di sovranità – viene denunciato come... escalation.
L'abbiamo detto e lo ripetiamo: il regime teocratico reazionario di Teheran è nemico dei lavoratori e delle masse oppresse dell'Iran. Ma sono queste, e solo queste, che hanno diritto di rovesciarlo, per una propria alternativa di società. Non certo il regime sanguinario di Netanyahu per il proprio controllo dispotico del Medio Oriente.

I fatti dimostrano che il terrorismo di Israele ha in ogni caso e ovunque il passaporto della “legalità”, a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria, ed ora in Iran: è il passaporto di uno stato coloniale col timbro certificato dell'imperialismo. Lo stesso imperialismo, prima britannico, poi americano, che benedisse ab origine la colonizzazione sionista della Palestina (nel 1948 con il voto e le armi di Stalin). Tutta la storia di Israele è in fondo la replica della sua genesi.

Ciò che invece non dovrebbe essere scontato, stando alla logica della sinistra campista, è il comportamento della Russia e della Cina.
Russia e Cina, com'è noto, hanno relazioni dirette con l'Iran. La Russia ha formalmente stipulato un partneriato strategico con Teheran (politico, diplomatico, economico, militare). La Cina è il principale cliente del petrolio iraniano. L'Iran è parte, del resto, della famosa area dei BRICS a guida russo-cinese, da più versanti esaltata come contraltare democratico e progressivo alla NATO.
Bene. Cosa stanno facendo Russia e Cina per aiutare l'Iran, nel momento dell'aggressione sionista? Niente di niente. Non parliamo, ovviamente, di un ingresso in guerra, che sarebbe catastrofico. Parliamo semplicemente di un aiuto militare, che è cosa qualitativamente diversa. L'Iran avrebbe ad esempio un disperato bisogno di aiuto nella difesa aerea, per proteggere città, infrastrutture, aziende. E avrebbe tutto il diritto ad usare ogni aiuto degli imperialismi alleati per difendersi dall'aggressione sionista. Così come l'Ucraina ha diritto a usare gli aiuti degli imperialismi NATO per difendersi dall'invasione dell'imperialismo russo. Invece, niente.

La Cina, che sta trattando con gli USA sui dazi, si è limitata ad una platonica “preoccupazione”. Putin ha telefonato a Trump, sostenitore decisivo della macchina da guerra israeliana – nel momento stesso in cui Trump esaltava il successo militare di Israele – per offrire un aiuto diplomatico... agli USA per una imprecisata mediazione.
Immaginiamo il messaggio: “Caro Trump, se hai bisogno di un aiuto per ottenere la capitolazione dell'Iran sono disponibile... Basta che tu in cambio ci lasci proseguire, come già stai facendo, la nostra guerra d'invasione in Ucraina, nel nome della sua futura spartizione tra noi”.
La verità è che l'imperialismo russo, come l'imperialismo cinese, non ha alcuna intenzione di rovinare le proprie relazioni negoziali con gli USA, e neppure con Israele, per difendere un proprio alleato. Neppure quando questi è sotto le bombe sostenute dagli imperialismi rivali.

Per le potenze imperialiste vecchie e nuove, il mondo è solo un tavolo da gioco. Per loro, i diritti dei popoli sono solo merce di scambio. Non esistono imperialismi “amici”. I popoli oppressi, a partire dal popolo di Palestina, non hanno da attendersi nulla da quel versante. Solo una mobilitazione rivoluzionaria dei popoli oppressi può liberare il Medio Oriente dal sionismo e dall'imperialismo. Solo una rivoluzione socialista internazionale può liberare il mondo dai banditi che lo dominano.

Partito Comunista dei Lavoratori

Una prima lettura del risultato referendario


 Il risultato referendario, pur nella sua parzialità, è una cartina di tornasole dello scenario italiano. Di valenza politica e sindacale. Su questo esprimiamo una primissima valutazione di carattere generale, che segnala gli aspetti contraddittori del risultato ma soprattutto pone l'esigenza di una svolta generale di linea politica e sindacale del movimento operaio italiano. Lo facciamo con tanta più determinazione avendo partecipato, con una nostra autonoma impostazione, alla campagna referendaria per i cinque "sì".



LE CONTRADDIZIONI DI UN RISULTATO

1) Dodici milioni di voti a sostegno del "sì" sui temi del lavoro non sono in sé un dato irrilevante. Né lo è il 30% di partecipazione complessiva al voto. Tanto più considerando il fatto che il calcolo percentuale è fatto comprendendo tra gli aventi diritto gli italiani all'estero, spesso ignari dell'esistenza stessa del referendum. Una autentica truffa dal punto di vista democratico, taciuta e rimossa paradossalmente dagli stessi promotori del referendum, e non solo. Inoltre l'esclusione dalla partita referendaria, per decisione della Consulta, dell'Autonomia differenziata ha sicuramente ridimensionato l'afflusso al voto, com'era prevedibile, in particolare nel Sud (ma non solo). Così a loro volta i primi dati di domenica sull'affluenza hanno contribuito a ridurre ulteriormente la partecipazione.

2) Il voto raccoglie il grosso dell'elettorato di sinistra e di centrosinistra, senza scalfire la massa abnorme dell'astensione (secondo i sondaggi, il 58% dei lavoratori salariati alle ultime elezioni europee), e senza incidere sul blocco sociale ed elettorale della destra (tra cui un 39% di voto operaio sull'elettorato attivo per Fratelli d'Italia, sempre secondo i sondaggi). Nel complesso, i blocchi elettorali e i relativi rapporti di forza appaiono sostanzialmente intatti. Dopo due anni e mezzo di governo Meloni, la destra tiene la propria base sociale. Ma la pretesa della destra di intestarsi l'astensione come proprio consenso politico è abusivo. La destra tiene ma non è maggioranza nella società italiana. Se ha il 59% dei parlamentari a fronte del 44% dei voti (elezioni politiche del 2022) è grazie ad una legge elettorale varata dal PD, il "Rosatellum". Ciò che nessuno ricorda.

3) La distribuzione geografica e territoriale del voto ricalca l'articolazione interna dei due principali blocchi elettorali. I fenomeni di passivizzazione conoscono un'espressione particolarmente concentrata nel Meridione, nei piccoli centri, nella provincia profonda. Che sono anche, in linea generale, il principale bacino della destra. Mentre le grandi città nel loro complesso rivelano una maggiore sensibilità sociale e democratica. Significa che la città non egemonizza la provincia, e che quest'ultima continua a fare da zavorra.

4) Mentre il voto sui quesiti del lavoro raccoglie al proprio interno oltre un 80% di consenso al "sì" (attorno ai 12 milioni di voti), il 35% per il "no" sul quesito della cittadinanza (quasi 5 milioni di voti) riflette la perdurante influenza di posizioni e pregiudizi reazionari sul tema dell'immigrazione all'interno della stessa base elettorale del centrosinistra. Un fatto eloquente. Un riflesso della presa della destra sul senso comune di ampi settori popolari. Ma anche delle politiche del centrosinistra.


UN BILANCIO DI VERITÀ. L'ESIGENZA CENTRALE DI UNA SVOLTA

Questi primi elementi di osservazione richiamano l'esigenza di un bilancio, e soprattutto di un cambio radicale di prospettiva.

La gestione della campagna referendaria da parte dei suoi promotori è stata un riflesso della loro natura. Il PD liberalprogressista ha dovuto contorcersi per motivare la richiesta di abrogazione di misure come il Jobs act, che aveva votato e varato. Il M5S contiano ha pensato bene di dissociarsi sul quesito relativo alla cittadinanza, avendo coltivato nel tempo politiche anti-immigrazione (la denuncia dei «taxi del mare»). Senza potersi ancorare per loro natura a contenuti di classe, PD e M5S hanno condotto essenzialmente una campagna referendaria “contro la destra”, incapace di incunearsi nel suo blocco sociale.
La burocrazia CGIL, con Maurizio Landini, ha fatto in un certo senso l'opposto: si è richiamato giustamente alla centralità dei contenuti sociali dei quesiti ma dicendo che non erano contro il governo e la destra, con l'idea che spoliticizzare la campagna potesse allargare la sua presa.
Il risultato smentisce il combinato disposto di entrambe le impostazionien; mentre le contraddizioni passate e presenti del campo referendario hanno fornito armi preziose alla speculazione delle destre («il referendum è una lotta interna alla sinistra pagata dagli italiani»). La loro volontà di intestarsi politicamente l'astensione, per quanto abusiva, è stata parte di questa operazione.

Detto questo, il risultato non riflette tanto la gestione della campagna referendaria quanto i processi di più lungo corso. Processi inseparabili dalla linea generale delle direzioni del movimento operaio e sindacale.
La passivizzazione della maggioranza dei salariati, combinata con l'influenza delle destre nelle loro file, è il prodotto di una lunga stagione di subalternità e di compromissione, per responsabilità della sinistra politica sindacale. È il deposito di mezzo secolo. Non puoi pensare di dissolverlo e neppure di scuoterlo con una pura iniziativa di carattere referendario nei fatti concepita come surrogato della mobilitazione.
La stessa storia delle campagne referendarie dimostra che i risultati vincenti sono sempre stati un sottoprodotto, diretto o indiretto, di grandi mobilitazioni. Così fu per il divorzio (1974) e l'aborto (1981), così fu in un contesto diverso per la stessa vittoria referendaria sull'acqua pubblica nel 2011, sullo sfondo di un'ampia mobilitazione contro il governo Berlusconi. I referendum dell'8 e 9 giugno, invece, nonostante il loro carattere progressivo, avevano al piede la zavorra di una prolungata passività dell'azione sindacale, più che decennale, sul terreno della lotta di classe: nessuna piattaforma generale riconoscibile, nessuna unificazione di lotta delle centinaia di vertenze delle aziende in crisi, nessuna unificazione sul terreno delle vertenze contrattuali di categoria, nessuna azione di sciopero vero mirata ad incidere realmente sui rapporti di forza. Il fatto che la destra e/o i fautori del "no" abbiano contrapposto ai referendum il tema del salario («il problema oggi non è il Jobs act ma il fatto che i lavoratori non arrivano a fine mese...») non misura solamente la loro sconfinata ipocrisia, ma anche la mancanza di una battaglia salariale unificante, e di una piattaforma generale che la comprenda.

Tutto ciò ha conseguenze anche sul piano democratico. È vero, la CGIL si è pronunciata contro l'infame decreto sicurezza anche con manifestazioni e presidi. Ma senza legare la sacrosanta battaglia democratica alle ragioni di uno scontro sociale vero, nelle sue ragioni di classe riconoscibili e nelle sue forme d'azione, la stessa battaglia democratica non riesce ad incidere sul senso comune di massa. Il fatto che oggi i sondaggi ci dicano che il decreto sicurezza ha un consenso del 70% (!) nonostante il suo contenuto arcireazionario lo dimostra in modo drammatico.
Così la stessa ricomposizione di un blocco sociale alternativo, che recuperi le grandi masse del Mezzogiorno, è impensabile senza una piattaforma sociale unificante che connetta la classe operaia con la più larga massa della popolazione povera: il fatto che i sindacati abbiano subito senza una reale azione di lotta la cancellazione del reddito di cittadinanza (al di là della rituale critica nei talk show) è corresponsabile della passivizzazione nel Sud.
Lo stesso vale, infine, sul tema cruciale dell'immigrazione: senza un approccio di classe alla questione, che parta dall'organizzazione diretta dei salariati immigrati, e che comprenda i diritti dei migranti dentro una piattaforma di lotta unificante, il richiamo democratico resta più debole della semplificazione reazionaria, anche all'interno della classe lavoratrice («arrivano in massa, ci tolgono il lavoro, ci comprimono i salari...»).


“RIPARTIRE”: IN CHE MODO E PER ANDARE DOVE?

Landini ora dice che occorre ripartire dai milioni di "sì". Ma in che modo, e per andare dove? L'idea di recuperare l'esperienza della cosiddetta “coalizione sociale” di sette anni fa, cioè una rete di rapporti di vertice con diverse associazioni laiche e cattoliche progressiste, può forse servire alla burocrazia CGIL e al suo peso negoziale nel rapporto col centrosinistra, ma non serve al movimento operaio e sindacale. Ciò che serve è l'apertura di una vertenza generale vera, che rompa gli argini della pace sociale, e punti ad unificare realmente sul terreno della lotta i 18 milioni di salariati, e attorno a essi un più vasto blocco sociale alternativo. Senza lavorare a questa svolta generale non si sviluppa la coscienza della classe, non si scuote l'indifferenza, la passività, la demoralizzazione. Tanto meno si disgrega il blocco sociale della destra.

Solo una rivolta sociale vera, non solo declamata, può aprire dal basso una pagina nuova, ed anche strappare risultati parziali. È con questa linea di intervento che il PCL ha partecipato alla campagna dei cinque "sì", fuori da ogni illusione istituzionale. È con questa proposta che daremo battaglia nei sindacati di classe, tra i lavoratori e le lavoratrici, nella giovane generazione proletaria.

Ma battersi per questa svolta significa battersi per un'altra direzione del movimento operaio sul piano sia sindacale che politico. Milioni di lavoratori e lavoratrici sono senza una propria rappresentanza politica autonoma. Il rifiuto di Landini di rompere coi partiti borghesi di centrosinistra e di costruire un autonomo partito del lavoro concorre a questa privazione di rappresentanza. Occorre battersi per svilupparla.

Va costruito un partito indipendente della classe lavoratrice tanto radicale quanto sanno essere i partiti padronali a difesa della loro classe. Un partito che riconduca ogni battaglia immediata alla prospettiva di un'alternativa di società, nella quale a comandare siano i lavoratori e non i capitalisti. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, unica vera alternativa.

Il PCL si batte ogni giorno per la costruzione di questo partito, assieme ai marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

La nostra critica alla piattaforma del 7 giugno

 


Per una liberazione della Palestina dal sionismo e dall'imperialismo! Tutti a Roma il 21 giugno!

Il PCL partecipa e aderisce alla manifestazione nazionale per Gaza del 21 giugno. Non partecipiamo alla manifestazione del 7, le cui parole d'ordine non condividiamo. Tantomeno condividiamo le posizioni delle forze politiche promotrici (PD, M5S, Sinistra Italiana, Verdi), rispetto alle quali siamo sempre stati in opposizione. Ciononostante, interverremo con un nostro volantino per criticare la piattaforma della manifestazione e allo stesso tempo per interloquire con chi sente di doversi doverosamente mobilitare contro il genocidio sionista, anche in questa occasione.


Il massacro della popolazione palestinese da parte dello stato d'Israele solleva ovunque una vasta indignazione. Per questo la manifestazione di oggi vede la presenza di tante persone giustamente sdegnate contro il terrorista criminale Netanyahu e contro Meloni. È un sentimento che facciamo nostro. Ma la piattaforma su cui il centrosinistra l'ha convocata non risponde affatto ad una esigenza di chiarezza. Al contrario. Tace ad esempio sul sostegno che tutti i governi imperialisti al mondo, per due anni, hanno assicurato ad Israele e alle sue politiche genocide, inclusi i governi di centrosinistra; come tace sul voto a favore nel Parlamento italiano alla missione militare in Golfo Persico, contro gli houthi e al fianco di Israele, che ha visto convergere Schlein e Conte con Meloni, Salvini, Tajani. Altro che opposizione al governo!
Ma non solo.

1) La piattaforma del 7 giugno ignora la resistenza palestinese contro le truppe d'occupazione. Come se la resistenza non esistesse. Come se la resistenza a una forza militare occupante non fosse il diritto di ogni popolo oppresso. Si recita il solito bilanciamento tra la richiesta del cessate il fuoco da un lato e la liberazione degli ostaggi dall'altro, con un esercizio salomonico ipocrita: come se fosse possibile equiparare una azione di resistenza e un esercito occupante. Ciò che avalla ancora una volta l'idea per cui “tutto è iniziato il 7 ottobre” capovolgendo la verità. No, l'aggressione sionista deve finire subito e incondizionatamente, perché è parte di una oppressione coloniale, che ha cento anni di storia alle proprie spalle. Punto.

2) La piattaforma del 7 giugno si guarda dal rivendicare la rottura unilaterale dell'Italia con Israele, limitandosi a sollecitare la sospensione (perché non la fine?) dell'accordo di associazione UE-Israele. Ma sappiamo che in UE vige il criterio dell'unanimità, per cui il “sollecito” è lettera morta. Ci si deve battere invece innanzitutto in Italia, come in ogni altro paese, per la rottura di ogni relazione diplomatica, commerciale, militare con lo stato sionista. Una rottura immediata e incondizionata. I portuali del Marocco hanno bloccato con la propria azione diretta i traffici mercantili con Israele. Crediamo che il movimento operaio italiano dovrebbe riprendere questo esempio. Si scioperò a suo tempo per il Vietnam, perchè non scioperare per Gaza? Bisogna fare di Gaza e Cisgiordania il Vietnam di Israele!

3) La piattaforma del 7 giugno tace sulla complicità diretta dell'industria militare italiana con l'apparato militare israeliano. Si può chiedere platonicamente di sospendere (perché non cancellare?) la compravendita di armi con Israele senza chiamare con nome e cognome le responsabilità dei grandi gruppi capitalistici di casa nostra? Leonardo fornisce ad Israele gli elicotteri militari con cui mitragliare la resistenza palestinese in Cisgiordania. Perché non dirlo? Forse perché nella Fondazione Leonardo siedono ex ministri del PD con tanto di immacolato riconoscimento pubblico? Forse perché il PD si è opposto alle manifestazioni universitarie che chiedono la fine delle complicità con la macchina da guerra di Israele nel campo della ricerca? La verità è che – al pari degli altri – tutti i governi di centrosinistra per trent'anni hanno tutelato e incrementato le relazioni col sionismo. Anche quelli sostenuti dalla sinistra cosiddetta radicale, come nel caso dei due governi Prodi. Quanto a Conte, si può solo ricordare che i due governi da lui diretti non solo confermarono l'accordo militare e industriale con Israele del governo Renzi (2015) ma aumentarono le esportazioni di armi verso Israele. Altro che “pacifismo”!

4) Ma soprattutto la piattaforma del 7 giugno rimuove la questione decisiva: la prospettiva di soluzione della questione palestinese. Si chiede di riconoscere lo stato di Palestina come stato democratico e sovrano. Di grazia, dove dovrebbe sorgere concretamente questo stato? Senza una indicazione chiara su questo aspetto centrale, si resta nel regno dell'ipocrisia. Guardiamo in faccia la realtà. Gaza è occupata militarmente, coi suoi due milioni di abitanti bombardati e affamati. La Cisgiordania, coi suoi quattro milioni di palestinesi, è da tempo occupata da oltre 700000 coloni sionisti, armati sino ai denti, che ogni giorno uccidono e stuprano. Due milioni di palestinesi sono segregati in Israele, subendo discriminazione e ricatto. Altri sei milioni di palestinesi sono dispersi nei campi profughi della nazione araba, spesso tenuti dai diversi governi in una condizione umiliante.

Domanda: questo grande popolo di Palestina ha diritto oppure no a ritornare nella terra da cui fu cacciato per mano del terrorismo sionista, con la benedizione degli imperialismi (e le armi di Stalin)? Si può rispondere in modo diverso a questo interrogativo. Ma non si può rimuoverlo. La nostra risposta è sì: il popolo palestinese ha diritto a tornare nella propria terra, perché ha diritto come ogni popolo oppresso alla propria autodeterminazione nazionale.

Ma proprio questo inviolabile diritto al ritorno chiama in causa le basi giuridiche, confessionali, militari dello stato d'Israele. Uno stato coloniale, nato da un progetto coloniale, il progetto del sionismo. Un progetto reazionario respinto per lungo tempo dalla stessa maggioranza dell'ebraismo, e tuttora contestato dalla sua parte migliore nel mondo. Altro che equiparazione tra antisionismo ed antisemitismo! In tutto il mondo non c'è stata una sola mobilitazione di massa pro Palestina che abbia avuto contenuti antisemiti. Il fatto che Israele evochi questo rischio per coprire la propria azione genocida misura solamente il suo cinismo.

La verità è che senza mettere in discussione lo stato coloniale sionista non c'è possibile soluzione della questione palestinese. I famosi accordi di Oslo nel nome di “due popoli, due stati” sono stati una truffa, che ha peggiorato la condizione palestinese. Significa, questo, buttare al mare gli ebrei? Niente affatto. Significa rivendicare una Palestina unita e libera dal fiume al mare con i diritti nazionali della minoranza ebraica. Una soluzione difficile, ma l'unica soluzione reale. L'alternativa è la tragica continuità del presente.

Questo progetto di liberazione pone l'esigenza di una direzione alternativa del popolo palestinese e della sua eroica resistenza. Non la direzione della ANP, che agli stessi occhi dei palestinesi è da tempo compromessa con le forze di occupazione. Non la direzione di Hamas, che sembra interessata unicamente al progetto di un proprio regime islamista, di taglio iraniano. Ma una direzione nuova che riconduca la lotta di liberazione della Palestina a una prospettiva anticoloniale e antimperialista. Una prospettiva inevitabilmente connessa alla liberazione rivoluzionaria dell'intera nazione araba. È la prospettiva di una Palestina laica e socialista in una federazione socialista del Medio Oriente.

La Lega Internazionale Socialista (LIS) è impegnata in tutto il mondo nel sostegno incondizionato al popolo palestinese e alla sua resistenza. La sezione libanese della LIS è stata ed è in prima fila nella lotta per la liberazione della Palestina. Ciò in piena coerenza con il movimento trotskista delle origini: l'unica corrente del movimento operaio internazionale che contestò alla radice il progetto coloniale del sionismo, e la nascita dello stato coloniale di Israele.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, sezione italiana della LIS, porterà le sue posizioni nella manifestazione nazionale convocata a Roma il 21 giugno. Come abbiamo fatto in tutte le manifestazioni pro Palestina promosse dalle organizzazioni palestinesi in questi due anni... senza aspettare settantamila morti.

Partito Comunista dei Lavoratori

Massacro sionista, ipocrisia europea, squallore italiano

 


Facciamo di Gaza e Cisgiordania il Vietnam di Israele!

29 Maggio 2025

L'orrore si aggiunge all'orrore. Lo spettacolo quotidiano della barbarie sionista a Gaza (e Cisgiordania) è una provocazione inaccettabile per qualunque persona dotata di un senso elementare di umanità. Ai 60000 palestinesi assassinati dai bombardamenti si aggiungono le morti per fame e malattie, la distruzione continua e pianificata delle abitazioni, la disperazione di un vagabondaggio senza meta di una massa enorme di uomini e donne privati di tutto, costretti a rincorrere sotto le bombe una improbabile razione di cibo gestita cinicamente dalle stesse forze di occupazione. L'indignazione per questo scenario di morte contro lo stato terrorista di Israele attraversa larga parte dell'opinione pubblica mondiale. È un salto dell'emozione collettiva.

Ora governi europei si pongono il problema di contenere e gestire questa indignazione dilagante. Per questo, dopo due anni, iniziano a balbettare, più o meno sottovoce, parole di riprovazione verso Netanyahu, e persino a ipotizzare una revisione degli accordi tra Unione Europea ed Israele. Ipocrisia pura. Gli accordi tra UE e Israele sono solo una confezione diplomatica che copre i ben più lucrosi accordi bilaterali tra stati, e per di più, anche solo per rivedere quella confezione diplomatica, sarebbe necessaria la impossibile unanimità dei governi UE.

La verità è che le diplomazie imperialiste cercano di dirottare l'indignazione su un binario morto, per mascherare la copertura economica e militare che ogni stato imperialista continua ad assicurare al sionismo. Quella copertura che per due anni ha consentito a Israele di scaricare 100000 tonnellate di bombe su due milioni di persone. Quella copertura che per due anni ha sostenuto «il diritto dello stato di Israele a difendersi dal terrorismo», cioè a scatenare il proprio terrore coloniale contro il popolo di Palestina e il suo diritto a resistere al colonialismo. Quella copertura che per due anni ha perseguito come antisemitismo la semplice denuncia del colonialismo (a beneficio oltretutto dell'antisemitismo autentico).
Quanto a Trump, ha come unica preoccupazione il fatto che la guerra di Netanyahu, oltre una certa soglia, possa rovinare gli affari americani in Arabia Saudita e dintorni. La persecuzione degli attivisti pro Palestina nelle università americane parla da sola. Come i piani trumpiani di deportazione dei palestinesi. Come la continuità degli armamenti USA ad Israele.

In questo mare di ipocrisia rivoltante, il governo italiano riesce ugualmente a distinguersi in fatto di complicità col sionismo. Ieri in Parlamento il governo Meloni ha difeso a spada tratta il famigerato memorandum ratificato nel 2005 sulla cooperazione militare tra Italia e Israele.
«Il rinnovo del memorandum tra il governo della Repubblica italiana e il governo dello stato di Israele sulla difesa e cooperazione militare è, come segnalato dal ministro della difesa, previsto per l'aprile del 2026. Per far prevalere le ragioni della diplomazia è necessario costruire canali di comunicazione, non reciderli» (Luca Ciriani, Ministro dei rapporti col Parlamento).
Chiaro, no? Per sussurrare innocue preoccupazioni alle orecchie di uno stato terrorista è «necessario» continuare ad armarlo. Anche nel momento in cui quel terrore è sempre più indigeribile agli occhi del mondo. Vergogna!

La contiguità di tutta la destra tricolore con gli ambienti sionisti coinvolge anche settori significativi della cosiddetta opposizione liberale, da Italia Viva ad Azione a numerose personalità del PD. Del resto, la cooperazione con lo stato di Israele non è stata forse salvaguardata e coltivata da tutti i governi di centrosinistra, nessuno escluso (Prodi 1996-1998, D'Alema 1999-2000, Amato 2000-2001, nuovamente Prodi 2006-2008)? Lo stesso vale naturalmente per i governi Conte, che oggi fa il “pacifista”, e per il governo Draghi.

Contro l'ipocrisia di ieri e di oggi di tutti i governi e stati imperialisti, contro la vergogna dell'imperialismo italiano e il governo Meloni, è necessario passare dalle parole ai fatti.
È necessaria la più ampia mobilitazione di massa contro il massacro in corso, ben al di là di iniziative di testimonianza.
Ogni rapporto con Israele va troncato. Sia esso un rapporto diplomatico, commerciale, militare.

Ènecessario che il movimento operaio italiano e tutte le sue organizzazioni, grandi e piccole, promuovano unitariamente l'embargo contro Israele. I portuali del Marocco nelle ultime settimane, sfidando il proprio governo, hanno attivato il blocco di ogni commercio con lo stato sionista, paralizzando i traffici con Tel Aviv. È un esempio da riprendere e generalizzare.

Va boicottato ogni gruppo industrial-militare italiano coinvolto nella collaborazione con Israele, come il gruppo Leonardo.
Va rilanciato il movimento antisionista nelle università.

Occorre fare di Gaza e Cisgiordania il Vietnam di Israele!

Per il pieno diritto di autodeterminazione del popolo palestinese
Per il sostegno alla resistenza palestinese contro lo stato coloniale di Israele
Per una Palestina unita e libera, dal fiume al mare
Per una Palestina laica e socialista


Il Partito Comunista dei Lavoratori, sezione italiana della Lega Internazionale Socialista, porterà queste parole d'ordine nella manifestazione nazionale del 21 giugno a Roma.

Partito Comunista dei Lavoratori

Spazzare via la reazione! Lottiamo contro l’oppressione!

 


27 Maggio 2025

Volantino in diffusione dalle Femminist3 Rivoluzionari3 nei pride di queste settimane

I paesi imperialisti attraverso le loro guerre di rapina e distruzione cercano di imporre i propri interessi economici aprendo scenari agghiaccianti come in Ucraina e in Palestina. Inoltre, ciascun paese cerca di sfruttare al massimo la classe lavoratrice attraverso politiche di tipo espansivo che intaccano sempre di più il salario: aumento della precarizzazione, diminuzione delle tutele sul lavoro e tagli ai servizi sociali.

Imponendo politiche repressive e reazionarie, i governi tentano di sfondare tra le masse per inasprire lo sfruttamento di classe, spegnere il conflitto e capitalizzare una parte de3 sfruttat3 come base per il proprio consenso. La vittoria di Trump segna un passo in avanti in questo scenario, anche a livello mondiale, rafforzando l’offensiva contro i diritti civili, in particolare della comunità LGBTQIAP+.

Un altro segno della crociata transfobica è la recente sentenza della corte suprema britannica: “Il termine donna si riferisce al sesso biologico”. Sostanzialmente non c’è possibilità di autodeterminazione della propria identità di genere. Non ci stupisce, inoltre, l’appoggio e il plauso delle femministe borghesi e di note intellettuali e influencer che, anche in Italia, cercano di ritagliarsi una fetta di visibilità e di potere, corteggiando le istituzioni borghesi e schierandosi con gli oppressori. La società sta colando a picco e a dimostrarlo è anche il dilagare di femminicidi, di transcidi e di episodi di violenza genere. Questo è il patriarcato! Un complesso rapporto di assoggettamento delle donne a scopo riproduttivo e la stigmatizzazione di chi non rientra nella logica binaria perpetrata dal determinismo biologico.

Le istituzioni borghesi sono marce, perché marcio è il capitalismo che le sostiene. Contro tutto questo è necessario ritrovare la bussola e organizzarsi per lo scontro! Con delle rivendicazioni chiare che rispondano colpo su colpo a chi ci vuole oppress3 e sfruttat3!

Mandiamo a casa il governo Meloni e tutti i governi che tutelano gli interessi dei capitalisti, anche quelli che si dipingono come fautori dei diritti civili ma piegano la testa di fronte alla Chiesa e si limitano a qualche concessione per illudere l3 oppress3.

Solo con un governo de3 lavorator3 è possibile cambiare lo stato di cose presenti e immaginare un futuro migliore, libero da sfruttamento e oppressione. Solo con il socialismo su scala mondiale possiamo realizzare la nostra emancipazione e decidere sui nostri corpi.


Alcuni punti del nostro programma:

- Sicurezza e tutela sul lavoro sotto il controllo operaio, per condizioni di lavoro più sicure e più salubri.

- Abolizione di tutte le leggi che comprimono i diritti sindacali e di sciopero, abolizione del reato di blocco stradale, no alle precettazioni illegittime.

- Abolizione di ogni forma di precarietà e flessibilità: ripristino dei diritti sindacali conquistati e perduti dal movimento operaio, abolizione delle leggi antioperaie.

- Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: lavorare meno, ridistribuire il lavoro tra chi non ce l’ha e avere più tempo libero!

- Parità salariale effettiva: a uguale lavoro uguale salario! Per tutt3.

- Salario di disoccupazione dignitoso per chi il lavoro l’ha perso e per chi è in cerca di lavoro.

- Socializzazione del lavoro di cura contro qualsiasi proposta di salario alle casalinghe o reddito di esistenza: il servizio pubblico deve essere rafforzato, creando nuovi posti di lavoro. Utilità sociale e collettiva contro qualsiasi forma di individualismo piccolo- borghese.

- Lotta contro la violenza maschilista e patriarcale (stupri, femminicidi, discriminazioni delle persone LGBTQIAP+).

- Pieno riconoscimento delle persone LGBTQIAP+ a livello legislativo.

- Abolizione di tutte le leggi che patologizzano le soggettività LGBTQIAP+ e istituzione di percorsi di autodeterminazione tutelati, gratuiti e garantiti.

- Lotta agli stereotipi di genere e agli stereotipi abilisti

- Creazione di un percorso garantito per le vittime della violenza patriarcale ma rifiuto della denuncia obbligatoria

- Pari diritti per le famiglie omogenitoriali, pieno riconoscimento de3 figli3 e dei diritti di famiglia per tutt3; diritto all’adozione per le famiglie omogenitoriali.

- Abolizione di ogni finanziamento statale agli enti religiosi sotto qualsiasi forma. Percorsi dedicati per le persone queer e la loro autodeterminazione nei consultori e negli ospedali, con una corretta informazione medica e professionale.

- Superamento della Legge 164/82 e pieno sostegno ai percorsi di transizione e di autodeterminazione di genere che devono essere gratuiti e garantiti.

- Allargamento della rete dei consultori laici e abolizione di quelli religiosi, sotto controllo dell3 utent3.

- Educazione libera dagli stereotipi di genere e dai pregiudizi razziali, revisione dei pro- grammi scolastici.

- Educazione sessuale ed affettiva nelle scuole di ogni ordine e grado, svolta da professionisti e medici.

- Carriere alias per le persone queer.

- Accoglienza e tutela delle donne e delle soggettività queer migranti e ius soli, permessi di soggiorno, documenti e diritto alla residenza.


Aiutaci a costruire Femminist3 Rivoluzionari3 nella tua città!



(volantino allegato in fondo a questa pagina)

Femminist3 Rivoluzionari3

La confluenza dell'Opposizione Trotskista Internazionale nella Lega Internazionale Socialista

 


Avanza l'unità dei marxisti rivoluzionari nel mondo

26 Maggio 2025

English version

Il congresso dell'Opposizione Trotskista Internazionale (OTI), tenutosi a Rimini il 23-24-25 maggio, ha deciso a larghissima maggioranza il proprio scioglimento in funzione della confluenza nella Lega Internazionale Socialista (LIS). È un passo avanti dell'unità dei trotskisti conseguenti nel mondo.

La scelta compiuta dall'OTI è coerente con la sua impostazione di fondo. L'OTI è stata una piccola organizzazione internazionale (presente in Italia, Stati Uniti, Danimarca, Gran Bretagna, Francia, Ungheria), di cui il PCL ha rappresentato la principale sezione, che si è sempre battuta per il raggruppamento rivoluzionario internazionale attorno a un quadro comune di programma generale e di principi fra tutte le organizzazioni e tendenze che condividono tale programma, indipendentemente dalla loro diversa provenienza, sulla base del centralismo democratico leninista. Una impostazione esattamente opposta alla logica assurda della frammentazione fra tante piccole internazionali-frazione autocentrate che purtroppo ha segnato tanta parte del movimento trotskista, anche nella sua area rivoluzionaria.

L'incontro con la LIS è maturato su questo terreno. La LIS è un'organizzazione internazionale marxista rivoluzionaria presente in quaranta paesi del mondo, in tutti i continenti. È nata nel 2019 dal raggruppamento internazionale, su una comune base programmatica, di organizzazioni di diversa storia e provenienza, a partire dal forte Movimiento Socialista de los Trabajadores (MST, Movimento Socialista dei Lavoratori) argentino, proveniente dalla tradizione morenista, e da The Struggle, consistente organizzazione pachistana proveniente dalla tradizione di Ted Grant. Il suo rapido sviluppo è passato anche per la conquista di organizzazioni che hanno rotto con lo stalinismo, come nel caso delle sezioni kenyota e libanese della LIS, entrambe nate da una scissione dei settori giovanili dei partiti comunisti dei rispettivi paesi.

Due anni di intenso confronto politico con la LIS ci hanno permesso di verificare non solo la comune base programmatica e metodo di costruzione, ma anche una comune analisi del mondo, in tutti i suoi aspetti decisivi: a partire dalla comprensione dello scontro fra vecchie e nuove potenze imperialiste, quale chiave di lettura dello scenario internazionale. Il pronunciamento comune sulla complessa crisi ucraina, contro l'invasione dell'imperialismo russo e contro la spartizione imperialista del paese; il pronunciamento comune sulla questione palestinese, per la distruzione rivoluzionaria dello stato sionista; il comune pronunciamento sulla guerra indo-pachistana, a favore di una impostazione disfattista bilaterale; la comune battaglia contro il riarmo imperialista ed ogni economia di guerra, hanno misurato non solo lo stesso posizionamento di fondo sui principali fatti mondiali, ma anche la capacità di applicare correttamente l'impostazione leninista in tutte le sue articolazioni. Contro ogni posizione campista o semicampista. Contro ogni subordinazione al pacifismo imperialista. Contro ogni negazione antileninista dei diritti nazionali dei popoli oppressi.

Lo stesso vale per la comune linea generale di intervento nella lotta di classe, nelle organizzazioni sindacali, nei movimenti femministi e trasfemministi, nel movimento ambientalista: per ricondurre le rivendicazioni immediate di ogni movimento di classe o progressivo alla prospettiva rivoluzionaria del governo dei lavoratori e delle lavoratrici, contro ogni subordinazione a impostazioni riformiste, piccolo-borghesi, aclassiste. Da qui la centralità delle rivendicazioni transitorie e del metodo transitorio. Non a caso il congresso dell'OTI ha registrato la totale convergenza con la LIS circa la linea di intervento sulla questione di genere, a partire dalla ricca discussione sull'importante documento elaborato dalle nostre compagne, approvato unitariamente dal congresso.

La confluenza dell'OTI nella LIS è tanto più importante perchè non si tratta di un fatto isolato. La Lega per la Quinta Internazionale, proveniente dalla tradizione del Socialist Workers Party britannico, e oggi presente in diversi paesi (Germania, Gran Bretagna, Svezia, Pachistan...) è stata anch'essa coinvolta nella prospettiva della propria confluenza nella LIS, condividendo con LIS e OTI i comuni pronunciamenti prima citati e il confronto politico che li ha accompagnati. Da qui la previsione ottimistica formulata dalla delegazione della Lega per la Quinta Internazionale presente al nostro congresso, circa la prospettiva del proprio ingresso a breve nella LIS.

Non solo. L'avvenuta confluenza dell'OTI nella LIS, e quella altamente probabile della Lega per la Quinta Internazionale, ponendosi finalmente in controtendenza rispetto alle dinamiche di frammentazione settaria, possono moltiplicare a loro volta la capacità attrattiva della LIS nei confronti di altre importanti organizzazioni rivoluzionarie di diversi paesi e continenti. Organizzazioni che in diversi casi hanno già hanno espresso la propria attenzione e giudizio positivo sul processo di raggruppamento in corso. Lo scopo della LIS infatti non è quello di preservare sé stessa ma di lavorare alla costruzione della nuova Internazionale rivoluzionaria, quale direzione alternativa dell'avanguardia di classe nel mondo. «Raccogliere il meglio delle diverse tradizioni del trotskismo per costruire insieme una nuova tradizione» è lo scopo dichiarato della LIS, e al tempo stesso un passo avanti necessario per la prospettiva della nuova Internazionale.

La confluenza dell'OTI nella LIS è infine un fatto di estrema importanza per il Partito Comunista dei Lavoratori. Di ulteriore motivazione della nostra organizzazione militante e di rilancio della sua capacità di aggregazione e di crescita. Per questo tanto più oggi rivolgiamo un appello a tutti/e i compagni e compagne che condividono il nostro progetto perchè rafforzino il PCL, quale nuova sezione italiana della Lega Internazionale Socialista. Il momento è ora. Invitiamo i nostri aderenti a passare a militanti, e dunque a partecipare a pieno titolo al congresso mondiale della LIS che si terrà alla fine del 2025. Invitiamo tanti nostri interlocutori e simpatizzanti a sciogliere ogni riserva e ad aderire al PCL nella forma che ognuno liberamente sceglierà.

La prospettiva della costruzione di una nuova Internazionale rivoluzionaria ha fatto un importante passo in avanti. Facciamo insieme il nuovo cammino.

Partito Comunista dei Lavoratori

Referendum dell'8 e 9 giugno. I nostri cinque 'sì'

 


Ma è necessaria una svolta di lotta generale

16 Maggio 2025

Diciamo 'sì' ai referendum, 'sì' all'abrogazione di leggi ingiuste

Invitiamo tutti a votare "sì" l'8 e 9 giugno, contro la propaganda astensionista del governo a guida postfascista, e contro il "no" di Matteo Renzi.


Votiamo come abbiamo lottato.

• Per abrogare la cancellazione dell'articolo 18 voluta dal governo Renzi, votata dal PD e dalle destre. Perché nessuno possa essere licenziato senza giusta causa.
• Per abolire il tetto delle sei mensilità di risarcimento per i lavoratori delle piccole imprese ingiustamente licenziati. Perché a pari lavoro corrispondano uguali diritti
• Per cancellare la liberalizzazione dei contratti a termine senza causali, votata dal PD e peggiorata dalle destre. Perché non riconosciamo al padrone la libertà di precarizzare il lavoro, per di più senza neppure motivarlo.
• Per fermare la valanga di appalti e subappalti sulla pelle dei lavoratori e del loro diritto alla sicurezza. Perché 1000 omicidi bianchi ogni anno sono un lutto inaccettabile.
• Per cancellare le misure peggiorative sul diritto di cittadinanza introdotte nel 92, e mantenute da tutti i governi negli ultimi trent'anni. Perché i diritti non hanno colore di pelle.

Non sappiamo quale sarà l'esito formale del referendum. La stessa legislazione reazionaria che nega la cittadinanza agli immigrati la concede a più di sei milioni di emigrati italiani e di loro eredi per due o tre generazioni, tutti conteggiati come “aventi diritto al voto”. È una delle leggi truffa tenute in piedi da tutti i governi. Una legge che falsifica il calcolo del quorum referendario.

Ma siamo estranei a una logica puramente istituzionale. Sappiamo che milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici andranno comunque a votare giustamente per il "sì", esprimendo per questa via l'opposizione a Meloni e una domanda di svolta. È una domanda preziosa, cui dare da subito una prospettiva di azione e mobilitazione, ben al di là delle urne: quella prospettiva che la burocrazia sindacale ha sinora negato, al di là della retorica dei talk show, a tutto vantaggio dei partiti padronali (e a danno degli stessi referendum).

Perché è bene aver chiara una cosa. Meloni oggi governa l'Italia non solo perché il PD ha varato una legge elettorale truffa che dà alle destre il 59% dei parlamentari col 44% dei voti, ma anche perché il 58% dei salariati si astiene dal voto, dopo essere stati traditi da tutti, mentre il 39% dei salariati che votano cercano assurdamente a destra quello che non hanno trovato a sinistra. È il bilancio di un grande disastro, in cui sono coinvolti i gruppi dirigenti di tutte le sinistre, sindacali e politiche, incluse quelle cosiddette radicali.

Per questo è necessaria e urgente una svolta vera. Solo una svolta sul terreno della lotta di classe può rimontare la china del disastro. Solo una rivolta sociale vera, ben al di là delle urne, può riaprire dal basso lo scenario politico. Questa rivolta richiede tre cose: una piattaforma di lotta generale in cui la classe lavoratrice possa riconoscersi, una azione di lotta radicale che la sostenga, una direzione che voglia non solo partecipare ma vincere. È l'unico evento che il padronato e Meloni temono davvero.

• Per un aumento generale di salari e stipendi di almeno 400 euro netti.
• Per una riduzione drastica dell'orario di lavoro a parità di paga (30/32 ore pagate 40).
• Per il blocco dei licenziamenti e la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano.
• Per la cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
• Per un raddoppio dell'investimento in sanità, istruzione, lavoro, finanziato da una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco, e dall'abbattimento delle spese militari.
• Per la cancellazione del debito pubblico verso le banche e la loro nazionalizzazione


Attorno a questa piattaforma di svolta va preparato uno sciopero generale vero. Non il tradizionale sciopero simbolico e innocuo, ma uno sciopero generale prolungato che punti davvero a bloccare l'Italia. È l'unica via per ribaltare i rapporti di forza e strappare risultati reali.
Perché governi e padroni cedono solo alla forza. Altro che chiedere ogni volta udienza a Meloni per poi lamentarsi del suo rifiuto annunciato e ritrovarsi in mano un pugno di mosche. Occorre un'azione di lotta tanto radicale quanto radicale sa essere il capitale. Del resto, senza ribaltare i rapporti di forza persino un successo dei cinque "sì" al referendum rischierebbe di restare carta straccia, come accadde nel 2011 col referendum vittorioso sull'acqua pubblica.

Ma battersi per questa svolta significa battersi per un'altra direzione del movimento operaio sul terreno sia sindacale che politico. Milioni di lavoratori e lavoratrici sono senza una propria rappresentanza politica autonoma. Va costruita. Va costruito un partito indipendente della classe lavoratrice, tanto radicale quanto sanno esserlo i partiti padronali a difesa della loro classe. Un partito che riconduca ogni lotta immediata alla prospettiva di una alternativa di società, nella quale a comandare siano i lavoratori e non i capitalisti: un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, l'unica vera alternativa.

Il PCL si batte ogni giorno per la costruzione di questo partito assieme ai marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Gramsci e la 'bolscevizzazione' del PCd'I: 1924-1926

 


20 Maggio 2025

Il destino di Gramsci nella storia del movimento operaio è singolare: raramente un dirigente comunista è stato apprezzato da una tanto vasta e contraddittoria area. Dai trotskisti agli stalinisti, passando per alcune correnti socialdemocratiche, tutti, con l'unica comprensibile eccezione delle tendenze che si richiamano alla "Sinistra italiana" (bordighisti), trovano in Gramsci un fondamento per le loro posizioni politiche. D'altro canto, a seconda del periodo preso in esame, Gramsci si presta a differenti interpretazioni, il che dimostra una ambiguità di fondo del suo pensiero, e un'evoluzione contraddittoria, dall'Ordine nuovo ai Quaderni del carcere.

L'ascesa di Gramsci alla testa del Partito Comunista d'Italia (PCd'I) avviene negli anni cruciali che vanno dal 1924 (quinto congresso dell'Internazionale Comunista) al 1926, data del congresso di Lione, quando il processo di estromissione della sinistra bordighista dalla direzione del PCd'I si può considerare concluso. La vittoria del centro di Gramsci-Togliatti non sarebbe stata possibile in maniera così rapida e così completa senza la trasformazione che in quegli anni stava conoscendo l'Internazionale Comunista, da Internazionale di partiti comunisti votati alla rivoluzione socialista a strumento subordinato della diplomazia dello stato sovietico. Il socialismo "in un solo paese" è stata l'ideologia di questa trasformazione, ovvero il programma con il quale una casta burocratica dominata da Stalin assumeva il potere in Urss, e la "bolscevizzazione" dell'Internazionale il suo strumento organizzativo.
 
Questo articolo intende fornire una valutazione storica, sganciata dal mito, e necessariamente sintetica, dell'evoluzione di Gramsci in questi anni cruciali. Qui non è possibile esaminare in dettaglio le differenti interpretazioni che di questo processo hanno dato vari studiosi, preoccupati più di difendere un proprio punto di vista politico che di spiegare lo svolgersi degli avvenimenti, e mi riferisco innanzitutto a Berti e a Togliatti.
Ciò che maggiormente stupisce è l'interpretazione dei vari gruppi che in Italia si richiamano (o si sono richiamati) al trotskismo: in sostanza non si discostano dalla vulgata togliattiana, secondo cui il processo di formazione di un nuovo gruppo dirigente nel PCd'I nel 1923-'26 si spiega con l'allontanamento di Gramsci dall'estremismo bordighista e la riappropriazione del metodo e del programma leninista, che sarebbe in definitiva codificato nelle tesi di Lione.
 

GRAMSCI E LA "BOLSCEVIZZAZIONE" DELL'INTERNAZIONALE
 
Invece è avvenuto l'inverso: Gramsci, dopo un'iniziale adesione alle ragioni della critica di Trotsky alla nascente burocrazia sovietica, si muove gradualmente verso il gruppo dirigente stalinista, convinto che senza il sostegno dell'Internazionale non potrà avere ragione della sinistra bordighista. I punti d'avvio e d'arrivo di questa evoluzione sono la lettera del 9 febbraio 1924 e la lettera dell'ottobre 1926.

La data del distacco di Gramsci da Bordiga può considerarsi il rifiuto di firmare il "Manifesto" bordighista del 1923 (che invece aveva il sostegno di Togliatti e altri), un documento rivolto a una critica dell'intera politica dell'Internazionale Comunista. A Mosca, dove si trovava negli anni 1922-23 per incarico del PCd'I, Gramsci aveva maturato il distacco dall'estremismo di Bordiga grazie soprattutto all'influenza di Trotsky: tracce di questa influenza si ritrovano nella lettera del febbraio 1924, diretta al CC (Comitato Centrale) del PCd'I, nella quale lettera si trova una valutazione di Trotsky del tutto differente da quella dei Quaderni.

Nello spiegare la lotta all'interno del Partito russo, sulle due questioni fondamentali della democrazia interna al Partito e della rivoluzione tedesca, Gramsci sostanzialmente difende le posizioni trotskiste contro la "troika", dando anche del passato (la disputa sull'Ottobre del 1917) e della rivoluzione permanente una valutazione assai simile a quella trotskista (la lettera è pubblicata in Togliatti: La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano, Editori Riuniti).

 Ma il giudizio di Gramsci sulle vicende interne al Pc russo cambia subito dopo, e comincia l'allineamento alla maggioranza di Stalin-Zinoviev: quasi certamente questo avviene per i motivi della lotta antibordighista e sotto la pressione del gruppo dirigente sovietico. Nella sua battaglia contro Bordiga, Gramsci ha bisogno del sostegno dell'Internazionale, in quel momento in mano alla troika antitrotskista. Dal canto loro Stalin e Zinoviev hanno bisogno di direzioni nazionali fedeli che li sostengano nella lotta contro Trotsky, mentre Bordiga assume decisamente le difese del fondatore dell’Armata rossa contro il "socialismo in un paese solo" che stava svuotando l'Internazionale del suo contenuto leninista rivoluzionario.
 
Così quando nel partito scoppia la cosiddetta "questione Trotsky" i due dirigenti fondatori del PCd'I si trovano dalle due parti opposte della polemica: Bordiga con il dirigente della rivoluzione d'Ottobre e compagno di Lenin, Gramsci con gli epigoni della troika Stalin-Zinoviev-Bucharin.

Fin dal maggio, del 1924 nello Schema di tesi sulla tattica e sulla situazione interna del PCI, la Centrale del PCd'i scrive: «Sulla questione russa riteniamo che è bene che tutte le sezioni diano il loro giudizio (...) dichiariamo di approvare la linea seguita dalla maggioranza del comitato centrale del Partito comunista russo» (pubblicato in «Lo stato operaio», 15 maggio 1924). Concetto ribadito nel novembre del 1924 da Gramsci nell'introduzione a un articolo della «Pravda» (senza firma, ma quasi certamente di Bucharin) che recensiva duramente il testo di Trotsky Le lezioni d'Ottobre e dava il via alla campagna antitrotskista:
 
Nel terzo volume delle sue opere (1917), appena pubblicato, vi è una prefazione di circa 60 pagine. Come altra volta gli epigoni di Marx, sotto la sua bandiera, hanno tentato la revisione del marxismo, così oggi Trotzki, in nome del leninismo, vuol revisionare il bolscevismo (in A. Gramsci: La costruzione del partito comunista, Einaudi 1978, p. 211)
 
Con la campagna per la "bolscevizzazione" il centro stalinista-zinovievista infatti pretende più di una accettazione passiva della lotta contro il "trotskismo": richiede alle varie direzioni una partecipazione attiva, sul loro terreno nazionale, per scardinare il prestigio internazionale di Trotsky. Contrariamente a quello che ritiene Berti (Introduzione all'Archivio Tasca, Annali Feltrinelli 1966) la "bolscevizzazione" non costituì una svolta a sinistra dell'Internazionale, nonostante l'offerta (rifiutata) della vice-presidenza a Bordiga al quinto congresso dell'Ic (che costituiva un modo di giubilarlo), ma il tentativo (riuscito) di rimpiazzare, alla testa delle sezioni nazionali, direzioni fedeli al centro russo. Dietro la maschera della «lotta al trotskismo» si destituirono amministrativamente le direzioni dei principali partiti comunisti europei: francese, tedesco, polacco, ecc., quali che fossero le loro posizioni. E al loro posto vennero nominati dirigenti che brillavano solo per la fedeltà al centro moscovita. Con la bolscevizzazione, in definitiva, si intendeva porre il bavaglio a quelle tendenze critiche della degenerazione burocratica del potere sovietico, e del "socialismo in un paese solo".
 
Come espone Gramsci in un intervento alla Conferenza di Como (1924):
 
Non basta dichiarare di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato dall'Internazionale'. (...) Trotzki, pur partecipando 'disciplinatamente' ai lavori del partito aveva, col suo atteggiamento di opposizione passiva - simile a quello di Bordiga - creato uno stato di malessere in tutto il partito, il quale non poteva non avere sentore di questa situazione. (cfr. in La costruzione del partito comunista, cit., p. 461).
 
All'Esecutivo allargato del 1925, Stalin chiede alla delegazione italiana (Gramsci e Scoccimarro) di prendere parte attivamente sui due temi essenziali: la "bolscevizzazione" e la «lotta al trotskismo». Cosa che Gramsci e Scoccimarro assicurano.
Un resoconto di questa riunione, apparso nell'«Unità» del 4 luglio 1925, paragona il trotskismo al bordighismo, e istituisce un parallelo tra la lotta dell'Ic contro il "trotskismo" e la lotta del partito italiano contro l'"estremismo" di Bordiga.

Ma già nella relazione al CC del 6 febbraio 1925, che precedette la partenza della delegazione italiana per Mosca, Gramsci aveva espresso senza mezzi termini la propria adesione alla campagna antitrotskista:
 
Nella mozione si dovrebbe, inoltre, dire come le concezioni di Trotzki e soprattutto il suo atteggiamento rappresentano un pericolo, in quanto la mancanza di unità nel partito in un paese in cui vi è un solo partito, scinde lo Stato. Ciò produce un movimento controrivoluzionario; la qual cosa non significa, però, che Trotzki sia un controrivoluzionario: ché in questo caso ne dovremmo chiedere l'espulsione". (La costruzione..., cit., p. 473)
 
Questo richiamo all'unità, congiuntamente alla proibizione delle frazioni e all'adesione alla "bolscevizzazione", ha lo scopo di allineare il PCd'I alla direzione staliniana dell'Internazionale, in maniera acritica. Secondo una testimonianza resa da Leonetti a F. Ormea, Gramsci considerava Stalin nel 1925 "il migliore tra i compagni russi" (citato in F. Ormea: Le origini dello stalinismo nel PCI, Feltrinelli, p. 85). E infine, nella lettera dell'ottobre 1926, da vari commentatori di sinistra considerata una "presa di distanza" di Gramsci da Stalin, non si fa che ribadire l'adesione sostanziale alla linea della maggioranza del Pcr, con l'unica raccomandazione di "non stravincere". Che questa sia l'intenzione è Gramsci stesso a testimoniarlo in una successiva lettera a Togliatti:
 
la nostra lettera era tutta una requisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò più efficace e più seria. (La costruzione..., cit. p. 137)
 

LA DEFINITIVA SCONFITTA DELLA SINISTRA E IL CONGRESSO DI LIONE

Alla conferenza di Como del 1924 il partito è ancora saldamente in mano alla sinistra. Il congresso di Lione del 1926 invece assiste al definitivo trionfo del centro gramsciano-togliattiano. Questo non è avvenuto per mezzo della persuasione programmatica, ma con strumenti amministrativi, dei quali la disciplina alle decisioni dell'Internazionale stalinizzata non è stato il meno importante.

In preparazione del congresso di Lione il centro stalinista interviene per fornire le direttive organizzative sulla lotta contro la sinistra. In una lettera del 20 agosto del 1925 il presidium dell'Internazionale Comunista scrive tra l'altro:
 
Organizzare i congressi federali in maniera tale che le grandi federazioni che sono con il CC e dove Bordiga ha meno influenza, si pronuncino per prime. Pubblicare anche, ed utilizzare prima dei congressi federali, i voti delle cellule delle grandi fabbriche ove abbiamo la schiacciante maggioranza. (citato in La liquidazione della sinistra del PCd'I, edizioni L'internazionale, p.240)
 
Mentre il centro gramsciano-togliattiano agiva in pratica da frazione, congiuntamente con l'Internazionale stalinizzata, alla sinistra veniva proibita l'organizzazione in frazione (v. lettera del CE (Comitato Esecutivo) a Ottorino Perrone, id, p. 243). Lo stesso Spriano (uno storico non sospettabile di filobordighismo) scrive:
 
La cronaca del dibattito è ricca, all'inizio (...) di misure disciplinari che troncano sul nascere l'organizzazione della corrente bordighiana come frazione. E' la stessa internazionale che, con l'intervento di Humbert-Droz, intima di sciogliere il Comitato d'intesa [la frazione bordighista]… (in Storia del partito comunista italiano, Vol. I, Paolo Spriano, Einaudi 1978, p. 479).
 
Le stesse norme per i congressi federali e regionali e la nomina dei delegati, costituivano una vera e propria truffa ai danni della sinistra. Al punto n. 1 la circolare del CE recitava:
 
Si deve rendere noto a tutti i compagni che per coloro che si trovano nella impossibilità di partecipare alla riunione suindicata [dove si votano i delegati e le tesi, nota] e intendano dare il loro voto alle tesi di estrema sinistra, di comunicarlo per iscritto agli organi responsabili i quali sono tenuti a darne comunicazione al congresso federale. Per tutti coloro che assenti non facessero pervenire alcuna comunicazione, il loro voto si considera dato per le tesi presentate dalla Centrale. (La liquidazione..., p. 247).
 
Si può immaginare cosa questo potesse significare nel 1925, quando la partecipazione ai congressi veniva resa quasi impossibile dalla polizia fascista.

La pressione dell'Internazionale sul partito italiano, la manipolazione dei congressi da parte della centrale e l'attribuzione al centro di tutti i voti non dati per iscritto alla sinistra, spiegano come al congresso di Lione il centro di Gramsci-Togliatti abbia ottenuto oltre il 90 per cento dei delegati, mentre la sinistra bordighista non abbia raggiunto il 10 per cento. Ciò che avvenne in Italia nel 1925-'26 è la fotocopia di quello che era avvenuto nel partito russo nel 1923-'24, quando per sconfiggere la sinistra di Trotsky vennero cambiate le regole di formazione dei delegati al congresso, in modo da assicurare alla frazione Stalin-Zinoviev la maggioranza al XIII congresso, da cui partire per sconfiggere definitivamente l'ala bolscevica rivoluzionaria.

In seguito l'Opposizione di sinistra parlò di questo periodo come del "termidoro" del potere sovietico. Fatti i debiti paragoni, ciò che avvenne nel partito italiano è paragonabile al termidoro sovietico. E così come Zinoviev in definitiva spianò la strada a Stalin (dal quale poi venne sconfitto e infine assassinato), Gramsci spianò la strada alla degenerazione togliattiana del PCd'I.
 

LE TESI DI LIONE
 
Nella Formazione del gruppo dirigente del PCI, Togliatti scrive: «La conquista della maggioranza del partito venne condotta a termine da questo gruppo, di fatto, soltanto al III congresso del partito, che si tenne a Lione nel gennaio 1926» (p. 11).

In effetti il congresso di Lione costituisce il punto d'arrivo del processo che aveva portato il centro di Gramsci e Togliatti a rompere con il leninismo per aderire alla direzione internazionale di Stalin-Zinoviev e il punto di passaggio per la stalinizzazione del PCI. Le tesi (scritte congiuntamente da Gramsci e Togliatti) costituirono la sintesi e la codificazione di questo processo. A Lione venne approvato un corpo di 5 tesi (sulla situazione internazionale; sulla questione nazionale e coloniale; sulla questione agraria; politica: situazione italiana e bolscevizzazione del PCI; sindacale). Le tesi sulla situazione politica sono passate alla storia come le "Tesi di Lione".

La natura contraddittoria di queste Tesi riflette il fatto che il processo non è compiuto, che permangono tracce dell'impostazione leninista-trotskista dei primi quattro congressi dell'Internazionale Comunista. Fermarsi tuttavia a considerare l'adesione delle Tesi alla tattica del fronte unico (benché anche questa non priva di ambiguità, oscillando tra la concezione leninista e una concezione frontepopulista) o alla necessità di parole d'ordine di carattere transitorio è un inutile esercizio scolastico, senza rilevanza pratica: occorre studiare attentamente le implicazioni concrete di tali formulazioni. Il problema in definitiva consiste nel coglierne le novità e le rotture. E le novità sono l'indice della trasformazione del PCI da partito rivoluzionario a partito stalinizzato.
 
Rompendo con la concezione leninista del partito le tesi sanciscono decisamente la proibizione delle frazioni. Scrive Gramsci: «La esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo la via alla influenza di altre classi» (La costruzione del partito comunista, cit. p. 506).

Tuttavia, la proibizione di frazioni in effetti valeva solo per la sinistra bordighiana ed è stato uno degli strumenti per le manovre burocratiche del centro di Gramsci-Togliatti.
Uno strumento organizzativo burocratico non è un fine, ma semplicemente un mezzo per una politica riformista o centrista. Così la debolezza maggiore delle Tesi di Lione salta agli occhi quando si traccia la politica che intende seguire il PCI in Italia.
 

UNA POLITICA CENTRISTA
 
Dopo aver dichiarato la necessità di parole d'ordine intermedie, di carattere democratico e transitorio, l'esempio che le Tesi forniscono di queste parole d'ordine si ferma all'agitazione antimonarchica da condurre con lo slogan dell'"assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini". Attorno a questa parola d'ordine ruotava tutta la propaganda e l'agitazione del PCI a partire dall'assassinio Matteotti, formulata per la prima volta in una lettera alle opposizioni aventiniane. Più di una volta Trotsky criticò questa prospettiva. In particolare, scrive Trotsky nel maggio del 1930:
 
L’"Assemblea repubblicana" costituisce innegabilmente un organismo dello stato borghese. Che cosa sono invece i 'Comitati operai e contadini'? E' evidente che in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. (...) Come è possibile, in queste condizioni, che un'assemblea repubblicana - organo supremo dello stato borghese - abbia come base degli organismi di Stato proletario? (in Scritti sull'Italia, ed. Controcorrente, p. 184)
 
E, il 25 settembre 1929, aveva scritto alla Frazione bordighista, in un testo che approvava la "Piattaforma della sinistra" al congresso di Lione:

A proposito, non è Ercoli [Togliatti, nota] che tenta di adattare all'Italia l'idea della 'dittatura democratica' del proletariato e dei contadini', sotto forma di un'assemblea costituente appoggiantesi su 'un'assemblea operaia e contadina'? (id. p. 149)

Sarebbe esagerato considerare il congresso di Lione come la fase conclusiva del processo che ha condotto il PCI dal leninismo a togliattismo, ma, nello stesso tempo Lione costituisce la porta della degenerazione riformista del PCI attraverso il breve interregno centrista di Gramsci.

In seguito Gramsci ruppe definitivamente con lo stalinismo negli anni tra il 1927 e il 1930, tanto che, secondo alcune testimonianze, venne espulso dal PCd'I per la sua opposizione alla svolta dell’Internazionale verso la teoria del socialfascismo e alle misure burocratiche che hanno accompagnato questa svolta. I Quaderni del carcere costituiscono ancora oggi uno dei testi più fecondi per comprendere la storia d’Italia e un classico del pensiero politico. Benché non privi di ambiguità e contraddizioni, permangono uno strumento essenziale per l’emancipazione delle classi subalterne.

Gino Candreva