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Sciopero per la Palestina!

  No all'aggressione alla Flottilla. No al piano Trump-Blair-Netanyahu 2 Ottobre 2025 Testo del volantino che verrà distribuito in occas...

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Sciopero per la Palestina!

 


No all'aggressione alla Flottilla. No al piano Trump-Blair-Netanyahu

2 Ottobre 2025

Testo del volantino che verrà distribuito in occasione dello sciopero generale del 3 ottobre


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Mentre Trump e Netanyahu varano un piano neocoloniale per la Palestina e per Gaza, la marina militare dello Stato sionista tutela il proprio blocco navale nel mare di Gaza minacciando, aggredendo, sequestrando le imbarcazioni della Flotilla. È un fatto gravissimo e inaccettabile.

Il blocco navale di Gaza che dura da diciotto anni (...altro che 7 ottobre) è di fatto parte integrante della guerra genocida che Netanyahu ha scatenato contro il popolo palestinese. Denunciarlo e contestarlo non solo è un diritto ma un dovere. Questo è lo scopo dichiarato della Global Sumud Flotilla.

L'aggressione alla Flotilla da parte di Israele è la riprova, se ve ne era bisogno, che lo Stato sionista conosce una sola legge: quella della prevaricazione e del terrore contro ogni turbativa, persino simbolica, dei suoi interessi di Stato oppressore. È la stessa pratica del terrore di questi due anni di guerra a Gaza e in Cisgiornania col loro carico di morte e distruzioni. Una pratica non solo impunita, ma sostenuta, finanziata, armata da tutti i governi cosiddetti democratici. E avallata da tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove.

Il governo italiano ha fornito a Israele una copertura totale. Sino ad addossare agli attivisti della Flotilla la responsabilità dell'aggressione di Israele nei suoi confronti. Nessuna meraviglia: è lo stesso governo che tutela l'accordo militare dell'Italia con Israele, che offre l'aeroporto di Sigonella al rifornimento degli aerei israeliani, che fornisce a Israele attraverso Leonardo elicotteri da impiegare contro la resistenza, che concede all'ENI il mare di Gaza per ricavarne profitti.

La definizione di Israele come “paese amico”, e della Flotilla come presenza ostile, sta in questo quadro. L'appello corale alla Flotilla da parte della Presidenza della Repubblica, dei vertici della Chiesa, di larga parte della cosiddetta opposizione parlamentare, perché rinunciasse a violare il blocco navale accontentandosi di qualche pacca sulle spalle misura solamente la complicità istituzionale con Israele di tutta la politica borghese. La stessa che un anno fa in Parlamento votò la spedizione navale in Golfo Persico contro gli houthi, al fianco di Israele e contro la resistenza palestinese.

L'aggressione alla Flotilla e la complicità di cui quest'aggressione gode è un ulteriore fascio di luce sul vero volto del piano Trump-Netanyahu. La pace eterna che il piano rivendica è quella dei cimiteri. Una pietra tombale sull'autodeterminazione della Palestina. I palestinesi sono privati di ogni voce in capitolo sulla loro sorte. Ogni loro resistenza è minacciata di distruzione totale. Sulla Cisgiordania si lascia mano libera a Netanyahu, mentre Gaza è affidata ad un protettorato coloniale angloamericano con tanto di occupazione militare. A garanzia di Israele, degli interessi imperialisti, degli appetiti di affaristi e immobiliaristi. Una infamia. Di cui sono complici tutti i governi arabi e tutti gli Stati imperialisti, incluse la Russia e la Cina, che dichiarano il proprio appoggio al piano di pace di Trump augurandogli pieno successo.

È la riprova che i palestinesi non hanno amici in alto, ma solo in basso. Nel coraggio della loro resistenza, nella mobilitazione pro Palestina della giovane generazione di tutto il mondo, nella classe lavoratrice internazionale.

Viva lo sciopero per la Palestina contro lo Stato coloniale di Israele e la sua barbarie genocida!

Per il blocco a oltranza nei porti e negli aeroporti di ogni traffico con Israele, con potere di controllo e di veto dei lavoratori sulle merci in entrata e in uscita.

Giù le mani dalla Flottilla.

No al protettorato neocoloniale previsto dal Piano Trump-Blair-Netanyahu.

Per la piena autodeterminazione del popolo palestinese.

Per il diritto del ritorno dei palestinesi nella propria terra.

Per una Palestina unita dal fiume al mare, libera dal sionismo, dall'imperialismo, da ogni forma di colonialismo.

Per una Palestina laica e socialista, in un Medio Oriente socialista.

Partito Comunista dei Lavoratori

Lo sciopero e le manifestazioni del 22 settembre per la Palestina

 


La giornata dello sciopero generale per la Palestina, promosso dall'Unione Sindacale di Base, CUB e SGB ha registrato un indubbio successo politico. Le ottanta manifestazioni di piazza tenutesi in altrettante città grandi e piccole hanno visto una partecipazione eccezionalmente ampia. Una partecipazione soprattutto di giovani e giovanissimi, studenti delle scuole superiori e dell'università, che hanno invaso strade e piazze, in diverse centinaia di migliaia, portandovi una carica combattiva radicale.


A Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna, persino i dati di partecipazione forniti dalle questure hanno largamente travalicato tutte le previsioni della vigilia. Per fare un solo esempio, la questura di Roma, che aveva previsto una partecipazione di 8000 manifestanti, è stata costretta a dichiarare una partecipazione di oltre 20000 persone.

La pressione di piazza si è tradotta in molteplici azioni dirette e di massa: presidi, occupazione e blocco delle stazioni ferroviarie, di autostrade, di snodi portuali. In alcuni casi la polizia ha caricato e ha fatto arresti (Milano, Bologna), ma nella maggior parte delle situazioni, nonostante le leggi forcaiole sull'ordine pubblico, non sono state in grado né di impedire né di contrastare le azioni di blocco. Anche questo ha misurato la forza delle manifestazioni.

Non solo. La stessa stampa borghese è stata costretta a testimoniare innumerevoli casi di accoglienza solidale delle manifestazioni e delle azioni di blocco da parte di automobilisti, passanti, persone affacciate ai balconi. La bandiera della Palestina ha sventolato ovunque per l'intera giornata.
Il sentimento pro Palestina è plebiscitario nella società italiana. Le ottanta manifestazioni del 22 settembre gli hanno dato un'espressione e un volto.

È vero, il numero effettivo dei lavoratori/lavoratrici in sciopero è stato modesto. La burocrazia CGIL ha apertamente sabotato lo sciopero, temendo una sua riuscita. Per questo venerdì 19 aveva indetto una propria giornata di mobilitazione sul tema Palestina, con caratteri diversificati per territori e categorie: lo scopo evidente dell'iniziativa era disinnescare il rischio che settori importanti della propria base potessero aderire allo sciopero generale del 22 settembre.

Non solo, dunque, la CGIL non ha unito le proprie forze allo sciopero generale, ma ha puntato apertamente sul suo fallimento.
Questa manovra burocratica ha tuttavia mancato il proprio obiettivo sotto diversi aspetti. Nel settore dei servizi, nella sanità, e in particolare nella scuola, un settore importante della base CGIL ha scioperato. A Roma la presenza degli insegnanti in sciopero al fianco dei propri studenti è stata uno degli aspetti più significativi della grande manifestazione. Così come la presenza del personale sanitario in camice bianco nella manifestazione di Napoli.

Ma soprattutto, al di là dei numeri, conta il dato politico. Lo sciopero è stato visto con grande simpatia e sostegno anche da parte di quella maggioranza dei salariati che non vi ha partecipato. Prima di tutto dalla base di massa della CGIL, che si è identificata nella marea di giovani discesa nelle strade nel nome della Palestina. La sproporzione tra l'iniziativa in sordina del 19 e il successo di immagine dello sciopero del 22 è stata enorme. Uno smacco bruciante per l'apparato CGIL. Prova ne sia che per l'intera giornata del 22 la direzione della CGIL è stata muta, senza una sola parola di commento su quanto stava accadendo.

Ora, dopo il grande successo di immagine e di partecipazione alle manifestazioni, l'esigenza di un vero sciopero generale, unitario, di massa, contro lo Stato sionista, contro il governo italiano che lo sostiene, e per la liberazione della Palestina, assume un carattere ancora più evidente.

La giornata del 22 settembre pone a tutti la responsabilità di una prospettiva e azione di fronte unico. La burocrazia CGIL, dopo la magra figura, vorrebbe parlar d'altro per medicare la ferita. La direzione di USB vorrebbe lustrare il proprio successo d'immagine in chiave autocentrata. Ma a nessuno deve essere consentita la via di fuga. La marea di giovani scesa in piazza si attende una continuità della propria azione. I fatti tragici di Palestina, e la complicità del governo italiano, pongono ogni giorno di più tale necessità. Il tema stesso dello sciopero politico per la Palestina è ormai sdoganato e legittimato nella percezione di massa, così come il tema del blocco totale nei porti ed aeroporti di ogni trasporto d'armi, di ogni traffico commerciale con Israele.

Unire le forze in questa direzione, al di là di ogni steccato divisorio, è il compito del momento. Il PCL si batterà ovunque con questa parola d'ordine, assieme alla rivendicazione più generale della liberazione della Palestina dal sionismo e dall'imperialismo.
La grande manifestazione nazionale convocata unitariamente da tutte le organizzazioni palestinesi per il 4 ottobre a Roma sarà in questo senso un appuntamento centrale.

Partito Comunista dei Lavoratori

A sostegno degli scioperi per la Palestina

 


L'ulteriore salto dell'offensiva genocida dello Stato coloniale di Israele con l'invasione militare di Gaza City pone una volta di più l'esigenza della più ampia mobilitazione antisionista a sostegno della resistenza palestinese. Una mobilitazione che vada al di là della pur giusta e importante iniziativa della Sumud Flotilla sul terreno del soccorso umanitario della popolazione colpita. Peraltro la stessa difesa e protezione della flotilla dalle minacce militari omicide di Israele richiama la necessità di un salto della mobilitazione generale.

Il salto della mobilitazione passa per l'ingresso del movimento operaio nella lotta a sostegno della Palestina, attraverso l'arma dello sciopero generale combinato col blocco totale di ogni traffico portuale o aereo con Israele. Solo l'azione diretta, radicale, di massa del movimento operaio può incidere sui rapporti di forza, colpire materialmente lo Stato sionista, aiutare la resistenza palestinese. È un'esigenza che si pone in ogni paese, su scala europea, su scala mondiale.In questo quadro, il PCL sostiene tutte le diverse iniziative di sciopero promosse attualmente in Italia a sostegno della Palestina. 

Sia lo sciopero generale promosso da USB per la giornata del 22 settembre sia le iniziative promosse dalla CGIL per il 19 settembre.Il sostegno pieno e incondizionato a ogni iniziativa di sciopero non ci esime dal rilevarne i limiti.La direzione della CGIL ha atteso due anni e sessantamila palestinesi assassinati per indire finalmente un'iniziativa di sciopero sulla Palestina. E lo ha fatto per la concorrenza dello sciopero generale promosso da Unione Sindacale di Base per il 22 settembre. In più ha articolato la propria iniziativa in modo differenziato per categorie e territori, ha limitato il più possibile la portata dello sciopero, ha riproposto nella sua piattaforma le illusioni senza futuro attorno all'ONU senza un sostegno alla resistenza palestinese.

Dal canto suo, lo sciopero generale promosso da USB il 22 settembre, pur essendo stato convocato per tutte le categorie, sull'intera giornata, e su una piattaforma più avanzata, risente della logica molto autocentrata del gruppo dirigente USB anche nel rapporto con gli altri sindacati di base. Una logica estranea alla costruzione reale di un largo fronte di massa.

Per questo, partecipando a tutte le iniziative di lotta e di mobilitazione a sostegno della Palestina, e quindi in primo luogo a tutte le azioni di sciopero convocate, riproponiamo in ognuna di queste l' esigenza decisiva del più ampio sciopero generale, unitario, radicale, di massa contro lo stato sionista e la sua barbarie genocida; contro tutti gli imperialismi vecchi e nuovi che lo sostengono o ne sono complici; per un sostegno incondizionato alla resistenza palestinese; per una Palestina libera dal fiume al mare, laica, democratica, socialista, in un Medio Oriente socialista, libero dal sionismo e dall'imperialismo.

Partito Comunista dei Lavoratori

CONTRO I LICENZIAMENTI COLLETTIVI DI YOOX NET-A-PORTER!

 


I primi di settembre uno dei maggiori siti di e-commerce di moda online Yoox Net-a-Porter, di recente acquisito dal gruppo tedesco LuxExperience, consegna ai sindacati un documento di 10 pagine in cui annuncia una procedura di licenziamenti collettivi: si tratta di 700 dipendenti in tutto il mondo (il 20% della forza lavoro complessiva) e 211 fra Bologna e Milano: circa 150 solo nella sede di Interporto, dove ci sono lavoratori e lavoratrici che rischiano di perdere il lavoro, anche dopo 20 anni di attività per la cosiddetta azienda “unicorno” del bolognese, come viene definita dalla stampa, creata da Federico Marchetti nei primi anni del 2000, e venduta nel 2021 al gruppo svizzero Richemont per 5,3 miliardi di euro.

Un numero spropositato, ma la cosa ancora più sconcertante è il fatto che l’azienda faccia scattare questi licenziamenti collettivi senza aver dichiarato lo stato di crisi e assolutamente in barba alle normali procedure, che avrebbero previsto degli incontri preliminari con i sindacati, e per giunta senza nemmeno prendere in considerazione l’uso di ammortizzatori sociali. 

No, niente di tutto questo: si sono limitati a comunicare questi tagli della forza lavoro adducendo come motivazioni le difficoltà di mercato e le perdite di bilancio.

Siamo alle solite: i padroni scelgono di scaricare il peso delle riorganizzazioni e dei loro errori strategici degli ultimi anni sui lavoratori, che nella loro idea dovrebbero accettarne passivamente le conseguenze. Tutto questo è vergognoso.

I sindacati Filcams-GGIL, Uiltucs-UIL e Fisascat-CISL hanno avuto un incontro con l’azienda mercoledì 10 settembre, in cui hanno presentato una diffida e richiesto, non una revisione della procedura di licenziamento, bensì la sua cancellazione e, come prevedibile, la dirigenza è rimasta sulle sue posizioni, con una generica apertura agli ammortizzatori sociali. Inaccettabile.

Nel frattempo, YNAP ha raccolto la solidarietà del sindaco di Zola Predosa Dall’Olmo che ha definito la situazione come “un pugno nello stomaco che non ci aspettavamo”, la Regione Emilia-Romagna ha convocato un altro incontro per il 17 settembre, e ora la vicenda ha assunto un rilievo nazionale, visto che di recente si è espresso anche il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso annunciando l’apertura di un tavolo di crisi per il 23 settembre.

Ma non ci facciamo illusioni e non ci aspettiamo grandi ribaltamenti da un governo che ci ha dimostrato a più riprese di essere dalla parte delle aziende e delle banche. Se si vogliono ottenere dei risultati i lavoratori e le lavoratrici uniti devono scendere in piazza e far sentire la loro voce, e rispondere all’arroganza di questi padroni che pensano di poter prendere qualsiasi decisione senza colpo ferire, trattando i dipendenti come fossero numeri per far quadrare i loro conti.

I sindacati hanno dichiarato lo stato di agitazione e sono state già previste almeno 16 ore di sciopero, di cui 4 sono già state usate lunedì 8 settembre con presidi davanti alle sedi bolognesi di Interporto e Zola Predosa, e un prossimo sciopero dell’intera giornata lavorativa è previsto per mercoledì 17, con concentramento davanti alla sede dell’Emilia-Romagna, dove si terrà il tavolo con l’azienda.

Bisogna essere compatti nella lotta, a prescindere dalla provenienza o dall’appartenenza sindacale: occorre unire le vertenze del territorio e colpire il padronato con scioperi, picchetti e la ripresa di un’incisiva azione sindacale.

Per questo il PCL dà piena solidarietà ai lavoratori e delle lavoratrici di YNAP in lotta: i licenziamenti massivi non devono passare!

CONTRO L’ARROGANZA DEI PADRONI SOLTANTO LA MOBILITAZIONE DELLA

CLASSE LAVORATRICE UNITA PUÒ OTTENERE DEI RISULTATI


 In un vile tentativo di intimidazione, i sionisti hanno attaccato in acque tunisine una delle navi della flottiglia umanitaria. Nonostante l'esplosione causata dall'aggressione, l'equipaggio è al sicuro.


La nave su cui navigano Greta Thunberg, Thiago Saif e parte del Comitato Direttivo della Global Sumud Flotilla (GSF) è stata colpita dall'attacco di un drone in acque internazionali. Secondo il comunicato ufficiale della GSF, una delle imbarcazioni principali, la Family Boat, che naviga sotto bandiera portoghese, «ha subito danni causati dal fuoco sul ponte principale e nell'area di stoccaggio sottocoperta» dopo essere stata bombardata da un drone.

Secondo le prime informazioni, «i sei passeggeri e l'equipaggio sono al sicuro». Inoltre, il comunicato ufficiale precisa che «è in corso un'indagine e, non appena saranno disponibili ulteriori informazioni, queste saranno rese note immediatamente».

«Gli atti di aggressione volti a intimidire e far fallire la nostra missione non ci dissuaderanno. La nostra missione pacifica di rompere l'assedio di Gaza e portare solidarietà al suo popolo continua con determinazione e fermezza». Nonostante il vile attacco, la flottiglia rimane salda nella sua missione di rompere l'assedio sionista al popolo palestinese che si trova a Gaza.

Celeste Fierro, che fa parte della flottiglia ma si trova su un'altra imbarcazione (Adara), è in viaggio verso la Tunisia, dove si trova un'altra parte della flottiglia.

Il sionismo e i suoi alleati stanno cercando di sabotare questa missione umanitaria, che intende rompere l'embargo illegale e portare cibo a Gaza. Di fronte a questa minaccia, dobbiamo raddoppiare la mobilitazione e la solidarietà internazionale.

Periodismo de Izquierda - MST
https://periodismodeizquierda.com/global-sumud-flotilla-el-sionismo-ataca-con-un-dron-a-uno-de-los-barcos/

SOLIDARIETÀ OPERAIA E MILITANTE A3 LAVORATOR3 DELLA FILIERA GRUPPO 8

 


SOLO LA LOTTA OPERAIA ABBATTE LO SFRUTTAMENTO

La sezione Romagna del Partito Comunista dei Lavoratori aderisce alla manifestazione del 6 settembre a Forlì, indetta da SUDD Cobas.

La vicenda dei lavoratori della filiera Gruppo 8 è così platealmente vergognosa che per ampi settori della società civile (e persino per alcuni partiti alla guida di varie autorità locali, che finora hanno tenuto gli occhi ben chiusi) non è possibile non schierarsi dalla parte degli operai. Da dicembre dell’anno scorso i lavoratori si sono ribellati alle condizioni inumane di sfruttamento a cui venivano sottoposti, un regime di semi-schiavitù in cui dormivano in un capannone fatiscente lavorando 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. Sono queste, infatti, le condizioni che come un cancro infestano il comparto del mobile imbottito, quel famoso Made In Italy che la destra postfascista erge a feticcio. È una malattia di lunga data che prevede sostanzialmente il subappalto non solo delle fasi produttive quanto del caporalato, aprendo e chiudendo del giro di poco aziende fittizie, che hanno come unico scopo quello di applicare condizioni di lavoro “cinesi”. Sono zavorre vuote, pronte per essere abbandonate alla prima protesta dei lavoratori o a qualche ispezione o indagine. Una delocalizzazione dietro casa. La giustizia borghese si è dimostrata clamorosamente inefficace, proprio in una provincia in cui il Sindaco ha cavalcato il tema della “sicurezza” in campagna elettorale. L’unica sicurezza che viene garantita è il profitto del padronato, tutelato proprio dagli elementi della destra cittadina che – in una corrispondenza di amorosi sensi – difendono fattivamente e politicamente lo sfruttamento e l’insicurezza creata dal sistema criminale emerso nella vertenza. Contro i lavoratori che scioperano, gli avvocati-politici dell’azienda invocano continuamente l’applicazione del DL 1660, rendendo chiaro (se ancora ce ne fosse bisogno) che questa norma repressiva serve solo a manganellare e incarcerare chi lotta per il posto di lavoro e un tipo di società diverso. Come Partito Comunista dei Lavoratori siamo al fianco degli operai della filiera Gruppo 8 e sosteniamo la piattaforma rivendicativa di Sudd Cobas, che altro non è che il ripristino delle condizioni minime e dovute. La tenacia di questi lavoratori ha scoperchiato un vaso di Pandora che rende questa vertenza molto di più di una diatriba sindacale, come qualcuno vorrebbe. I lavoratori di un intero comparto, a volte distanti solo pochi metri o chilometri, nell’ennesimo capannone fatiscente, guardano a questi colleghi che hanno alzato la testa. È dovere di tutta la classe operaia muoversi compatti nella lotta, a prescindere dalla provenienza o dall’appartenenza sindacale. Occorre unire le vertenze del territorio e colpire il padronato dove fa più male, il portafoglio, con scioperi, picchetti e la ripresa di un’incisiva azione sindacaleal di là delle sigle.  Il padronato tenta di dividere i lavoratori per provenienza geografica, settore, contratto, azienda; soffia sul razzismo per usare i pregiudizi come leva salariale, per fare in modo che chi lavora non si riconosca più come classe. Occorre una vertenza generale, che rimetta al centro la classe operaia: serve un fronte unico di classe! Come dimostra in modo esemplare questa vertenza, è la classe lavoratrice l’unica che ha la capacità di rovesciare i rapporti di sfruttamento: occorre dare vita a una nuova stagione di mobilitazione e strappare di nuovo quei diritti che sembravano acquisiti ma che il padronato ci ha tolto, con il silenzio e la connivenza delle burocrazie sindacali. Chiediamo:

  • La nazionalizzazione sotto il controllo operaio, senza indennizzo, di tutte le aziende che delocalizzano, anche dietro casa, basta con il sistema di subappalto, basta con il caporalato
  • Per una cassa nazionale di resistenza a sostegno degli scioperi
  • Per l’abolizione di tutte le leggi repressive finalizzate a colpire i lavoratori in lotta per il posto di lavoro. No al DL 1660.
  • Salari dignitosi! I salari sono fermi da vent’anni, è un’emergenza non più rinviabile. Reintroduzione della scala mobile e abolizione di sfruttamento e precarietà!
  • Per un’indennità di disoccupazione dignitosa per i giovani e le persone in cerca di lavoro

PER LA RIPRESA DI UNA MOBILITAZIONE OPERAIA GENERALE, UNIRE LE LOTTE, ABBATTERE LO SFRUTTAMENTO!

PER UN’ALTERNATIVA DI SOCIETÀ! PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI!

Per l'esproprio dell'industria bellica, sotto controllo operaio

 


Per una risposta antimilitarista che vada al di là del pacifismo

3 Settembre 2025

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«La guerra è una gigantesca impresa commerciale, soprattutto per l'impresa bellica. Per questo le "200 famiglie" sono le prime fautrici del patriottismo e le prime provocatrici di guerra. Il controllo operaio sull'industria bellica è il primo passo contro i fabbricanti di guerra.
Alla parola d'ordine dei riformisti "imposta sui profitti di guerra" contrapponiamo la parola d'ordine "confisca dei redditi di guerra e espropriazione delle aziende che lavorano per la guerra". Dove l'industria bellica è già nazionalizzata, come in Francia, la parola d'ordine del controllo operaio conserva tutto il suo valore: il proletariato non ha nello Stato della borghesia più fiducia di quanto ne abbia nel singolo. Non un uomo, non un soldo per il governo borghese!
Non un programma di armamenti, ma un programma di lavori di pubblica utilità!
»

(Trotsky, 1938, dal Programma di transizione)


La corsa agli armamenti attraversa tutti i paesi imperialisti. La guerra in Ucraina è stata sicuramente un fattore di accelerazione di questa corsa. Ma la corsa ha una portata planetaria enormemente più ampia dell'Ucraina.
L'imperialismo russo si appoggia ormai su un'economia di guerra in piena regola, investendo nell'apparato militare il 6% del proprio PIL. L'imperialismo cinese sta sviluppando le proprie capacità militari a livelli inediti su terra, cielo e mare, il suo bilancio per la difesa supera ormai i 500 miliardi annui, la sua flotta ha ormai superato la concorrente flotta americana.

L'imperialismo USA sotto la seconda amministrazione Trump (che alcuni vorrebbero “pacifista”) promuove un nuovo massiccio investimento in armamenti: assieme alla riduzione delle tasse per i capitalisti, l'aumento della spesa militare è infatti il principale ambito di investimento dei soldi risparmiati coi tagli sociali nell'attuale legge di bilancio trumpiana. Se il Pentagono, a differenza del Dipartimento di Stato, ha più volte frenato sugli aiuti all'Ucraina è perché i generali americani vogliono rimpinguare i propri arsenali e non sguarnirli (anche quando gli arsenali USA già dispongono, per dare l'idea, di 13700 Patriot).

Gli imperialismi europei hanno appena concordato in sede NATO un raddoppio o triplicazione dei propri investimenti in armi (sino al 5% del PIL), già agevolati dalle clausole di salvaguardia previste dal nuovo Patto di stabilità (possibilità di accrescere dell'1,5% il proprio bilancio di spesa per la difesa).

Le pressioni di Trump, ma soprattutto la minaccia di un disimpegno USA dal fronte europeo, hanno spinto tutti i governi imperialisti del Vecchio Continente oltre i vecchi confini di spesa. Tutti. Il governo “di sinistra” dell'imperialismo spagnolo, che i partiti della sinistra europea esaltano come esempio, ha evitato di porre il veto in ambito NATO, ha firmato l'accordo sull'aumento del 5% delle spese militari al pari degli altri, ha già disposto l'aumento di spesa militare nel proprio bilancio, al di là delle pose “pacifiste” da telecamera.

La verità è che tutti gli imperialismi europei, nessuno escluso, seguono la rotta militarista. In un quadro capitalista internazionale in cui la potenza militare è da sempre uno dei metri di misura delle ambizioni imperialiste, i governi europei non possono fare altrimenti. Solo ricostruendo una propria potenza militare possono sperare in un posto a tavola nella futura spartizione del mondo, senza essere schiacciati, come oggi sono, nella morsa tra USA, Cina, Russia.

Al tempo stesso, l'unione degli imperialismi europei è attraversata più che mai da forti rivalità nazionali anche sul terreno militare.

La Germania ha predisposto un piano di riarmo senza precedenti nel dopoguerra, e senza possibili punti di paragone in Europa, grazie a un margine di manovra finanziaria di cui nessun altro paese europeo può disporre. La rivendicazione di un primato militare tedesco in Europa è già sul piatto della bilancia degli equilibri continentali. La proiezione della Germania verso il Nord Europa, quale suo possibile scudo protettivo – a fronte della minaccia di un disimpegno trumpiano – si appoggia su questa base.

La Francia reagisce alla concorrenza tedesca raddoppiando il proprio bilancio militare nel decennio 2017-2027 e realizzando un patto con la Gran Bretagna fondato sulla comune dotazione dell'arma nucleare e sulla comune presenza nel Consiglio di sicurezza dell'ONU: l'offerta franco-britannica di un proprio ombrello nucleare protettivo sull'Europa, controllato da Londra e Parigi, è una replica alle ambizioni di Berlino. La Gran Bretagna entra per questa via nelle contraddizioni interne alla UE portando in dote la propria consumata esperienza bellica.

L'imperialismo italiano è pienamente partecipe del grande gioco. Ha dato sponda all'imperialismo USA e alla sua politica in Medio Oriente e in Africa per capitalizzare a proprio vantaggio lo sfaldamento dell'area coloniale francese nel Sahel, e ha chiesto in cambio il riconoscimento USA del primato italiano nel Mediterraneo. L'avvento di Donald Trump ha complicato l'operazione, ma non l'ha annullata. Il forte potenziamento della spesa militare in Italia, già a partire dall'annunciato incremento di 4 miliardi nella prossima legge di bilancio, è un suo tassello ineliminabile. Così come lo è il gioco di intesa con l'imperialismo tedesco in funzione scopertamente antifrancese.

L'industria bellica tricolore è la prima beneficiaria di questo contesto generale. Leonardo, Fincantieri, OTO Melara, Iveco, i grandi capitalisti in armi vedono le proprie azioni salire in Borsa e i propri affari estendere il proprio raggio: nella costruzione del caccia militare più potente al mondo in consorzio con Gran Bretagna e Giappone, nella fabbricazione di nuovi carri armati in sinergia con la Germania, nella costruzione della flotta militare dei Paesi del Golfo, nella cantieristica militare globale. USA inclusi: il Ministro degli esteri italiano ha da poco esibito al Segretario di Stato USA Marco Rubio il fior fiore degli stabilimenti di Fincantieri in Wisconsin e Florida, e le fabbriche di Leonardo in Virginia, Ohio, North Carolina, California, New York, Alabama, Arizona, quale riprova e misura del contributo italiano all'apparato militare americano, e perciò stesso ragione (auspicata) di attenzioni e riguardi verso l'Italia, magari sui dazi.

Ma non è tutto. Avanzano in Italia i progetti di possibile riconversione bellica di pezzi dell'industria automobilistica e della componentistica, in perfetto parallelismo con analoghi progetti tedeschi e francesi. Il salto dell'investimento militare, obbligato dal nuovo quadro mondiale, viene usato come antidoto alla stagnazione economica e alle spinte recessive. Un nuovo tonico del capitalismo italiano. Naturalmente, come in ogni parte del mondo, a carico dei propri salariati.

In questo quadro generale, emerge con sempre maggiore evidenza la totale impotenza delle illusioni pacifiste. Anche quando sono sincere. Anche quando non sono la copertura retorica di qualche nuova potenza imperialista e delle sue “soluzioni di pace”.

La rotta della politica mondiale, in una prospettiva storica, marcia verso la guerra. Le guerre imperialiste, dall'invasione russa dell'Ucraina ai bombardamenti USA sull'Iran, segnano come un sismografo le scosse telluriche che attraversano il pianeta. La politica criminale e guerrafondaia dello Stato sionista, al di là delle sue specificità, si pone in perfetta sintonia con la politica di potenza che percorre il mondo, e non a caso si avvale del sostegno o della complicità di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, nessuna esclusa.

L'idea che qualsivoglia diritto di autodeterminazione nazionale dei popoli oppressi possa essere affidato a fantomatiche “conferenze di pace” istruite dall'ONU e benedette dal Papa misura solamente l'eredità delle vecchie illusioni truffaldine sulla diplomazia imperialista, proprio nel momento in cui quelle illusioni sono strapazzate e umiliate ogni giorno dal nuovo quadro delle relazioni mondiali. L'idea che la raccomandazione pacifista al proprio governo imperialista possa fermare la rotta militarista non è meno peregrina. Solo il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e dell'imperialismo può liberare un futuro di pace vera e giusta per l'umanità e per ogni popolo oppresso.

Proprio per questo, nei paesi imperialisti, a partire dall'imperialismo di casa nostra, è importante dotarsi di parole d'ordine e rivendicazioni che traccino un ponte tra la sincera domanda di pace antimilitarista, il rifiuto di pagare le spese di guerra con tagli sociali, e la necessaria prospettiva anticapitalista.

La rivendicazione dell'esproprio senza indennizzo e sotto controllo operaio dell'industria bellica può e deve entrare in ogni mobilitazione contro la guerra e contro l'economia di guerra, accanto alla difesa del diritto di resistenza di ogni popolo oppresso.

La rivendicazione dell'esproprio dell'industria bellica appartiene alla tradizione migliore del movimento operaio rivoluzionario, ed è oggi di straordinaria attualità. Essa si concentra, sul versante interno, contro il cuore delle attuali politiche dominanti. Contro la conversione dell'industria in produzione bellica va pianificata la conversione di parte dell'industria bellica in produzione civile. E nessuna conversione dell'industria bellica può avvenire nel rispetto dei diritti dei lavoratori senza espropriare i suoi azionisti – i “fabbricanti di guerra” – e senza controllo operaio. Per tutte queste ragioni la rivendicazione dell'esproprio dell'industria bellica chiama in causa l'ordine borghese della società. Per questo pone l'esigenza di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici quale unica possibile alternativa.

A chi difende la “nostra” industria bellica, e soprattutto la sua proprietà, nel nome della difesa della patria (sia essa nazionale o della UE) – magari proprio evocando i venti di guerra che soffiano nel mondo – rispondiamo con le parole di Trotsky:

«"Difesa della patria"? Ma dietro questa astrazione la borghesia nasconde la difesa dei suoi profitti e dei suoi saccheggi. Noi siamo pronti a difendere la patria contro i capitalisti stranieri, se mettiamo le catene ai nostri capitalisti e impediamo loro di attaccare la patria altrui, se gli operai e i contadini diventano i veri padroni del paese, se le ricchezze nazionali passano dalle mani di un'infima minoranza nelle mani del popolo, se l'esercito cessa di essere strumento degli sfruttatori e diventa strumento degli sfruttati.
Bisogna saper tradurre queste idee fondamentali in idee più particolari e più concrete secondo il corso degli avvenimenti e l'evolvere dello stato d'animo delle masse. Bisogna, inoltre, distinguere rigorosamente tra il pacifismo del diplomatico, del professore, del giornalista e il pacifismo del carpentiere, del bracciante o della lavandaia. Nel primo caso il pacifismo è una copertura dell'imperialismo. Nel secondo è l'espressione confusa di una diffidenza verso l'imperialismo.
Quando il piccolo contadino o l'operaio parlano di difesa della patria, intendono difesa della loro casa, della loro famiglia e della famiglia altrui dall'invasione nemica, dalle bombe, dai gas asfissianti. Il capitalista e il suo giornalista per difesa della patria intendono la conquista di colonie e di mercati, l'estensione tramite il saccheggio della partecipazione "nazionale" al reddito mondiale. Il pacifismo e il patriottismo borghese sono del tutto menzogneri. Nel pacifismo e persino nel patriottismo degli oppressi ci sono elementi che riflettono da una parte l'odio contro la guerra distruttrice e dall'altra l'attaccamento a quello che considerano il loro bene e che bisogna saper cogliere per trarne le conclusioni rivoluzionarie necessarie. Bisogna saper contrapporre antagonisticamente queste due forme di pacifismo e di patriottismo.
»

(Trotsky, 1938, Programma di transizione)

Proprio così. Larga parte della sinistra fa spesso, paradossalmente, l'opposto: si adatta al pacifismo borghese (del proprio imperialismo o dell'imperialismo altrui) e rifiuta di tradurre in termini rivoluzionari il pacifismo operaio e popolare.
Rivendicare l'esproprio dell'industria bellica è un modo di tradurre e attualizzare la lezione del vecchio capo dell'Armata Rossa, nel quadro più generale della politica rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

Chat Control: il Parlamento Europeo vota la sorveglianza di massa


 Il Chat Control 2.0 verrà votato il 14 ottobre. Una legge figlia di giri e intrighi del capitalismo euro-statunitense e delle forze di polizia nazionali: la sorveglianza di massa interessa alle lobby, ai funzionari europei e ai governi nazionali che si sfregano le mani

CHE COSA RENDE SICURE LE COMUNICAZIONI ONLINE?

Il 6 luglio del 2021 si istituisce il Chat Control 1.0, cioè una legge europea che permette ai fornitori di servizi di messaggistica e di e-mail di effettuare controlli volontari sugli scambi di messaggi e di e-mail dei loro utenti.
Oggi la privacy delle comunicazioni online viene garantita principalmente tramite il protocollo di crittografia end-to-end, utilizzata dalla maggior parte dei servizi. La crittografia end-to-end garantisce che un messaggio possa essere letto solo dal mittente e dal destinatario, perché solo i loro dispositivi hanno la chiave crittografica che permette di poterli decifrare e leggere. Questa chiave non è in mano all’azienda, ed è invece generata e conservata direttamente sui dispositivi dei due utenti che messaggiano. Come la chiave di un caveau, permette di accedere alla corrispondenza elettronica.

Perché questi messaggi possano essere letti dalle aziende, dalle autorità o dai governi – e comunque da un terzo soggetto tra mittente e destinatario – è necessario sviluppare algoritmi con chiavi alternative (chiavi di backup) possedute dalle autorità, o master password che permettono di accedere comunque alla conversazione.
La chiave crittografica in una conversazione end-to-end, in assenza di ciò, garantisce la riservatezza della comunicazione. Aziende come WhatsApp non possono in alcun modo decifrare le chat, e creano invece profitto vendendo i metadati, cioè i dati delle comunicazioni (come gli orari dei messaggi, le abitudini degli utenti, la loro posizione, le loro preferenze, ecc…). Alcune aziende che non usano la crittografia end-to-end.
Alcuni servizi come Telegram (eccetto se si utilizzano le chat segrete) conservano i messaggi con una crittografia client-server e server-client.

Ciò significa che l’azienda detiene la chiave e ha la possibilità di decrittograffare i messaggi. Per evitare che i governi facciano pressione affinché questa chiave gli venga fornita per scopi di sorveglianza, hanno comunque creato dei metodi superiori di sicurezza che fanno sì che la chiave sia di fatto irrintraccabile. Era il caso di Telegram, il cui CEO Pavel Durov venne arrestato a Parigi nell’agosto del 2024. Il suo rilascio è avvenuto solo sotto garanzia di offrire maggiori garanzie alle autorità rispetto all’introduzione di meccanismi di “moderazione” dei contenuti all’interno del servizio del capitalista russo.

In gergo si dice che una chiave crittografica permette di decrittografare le comunicazioni. Questa è una via attraverso cui può avvenire la sorveglianza, ma pone spesso alle autorità una serie di problemi di natura tecnica e logistica. L’alternativa è aggirare il problema della crittografia, accedendo alle comunicazioni ancora prima che vengano inviate e crittografate, cioè quando si trovano ancora nel dispositivo del mittente.

L’11 maggio 2022 la Commissaria Europea per gli affari interni Ylva Johansson presenta il Regolamento per la prevenzione e la lotta contro l’abuso sessuale su minori (CSAM), o Chat Control 2.0. Il Chat Control 2.0 è il possibile erede del blando, eppure già spaventoso, Chat Control 1.0.


CHE COS’È IL CHAT CONTROL?

La prima versione del CSAM, o Chat Control 2.0, venne dunque presentata nel 2022. Proponeva il monitoraggio e la scansione di tutte le comunicazioni tramite software di intelligenza artificiale. La novità è che al principio di volontarietà si sostituisce l’obbligo per i fornitori di servizi di messaggistica (come WhatsApp, Telegram, Instagram, Facebook, ecc…) e di servizi e-mail al controllo delle comunicazioni. Il controllo avviene, inoltre, lato client: cioè sul dispositivo del mittente, aggirando i problemi di decrittografazione del messaggio.

La proposta, dal 2022, ha subito rallentamenti e rivisitazioni. I rallentamenti sono dovuti per lo più a questioni di carattere tecnico [1] e di carattere etico [2]. Tra le varie versioni del CSAM proposte nel suo cammino lungo tre anni, ci sono state proposte più blande e meno blande. La più ‘moderata’ è stata la proposta belga che propone la scansione volontaria di foto, video e URL condivisi previo consenso dell’utente. La proposta danese è la più radicale di tutte.

Il Partito Pirata è un partito di attivisti che lottano per la libertà di circolazione della conoscenza, per la diffusione dei software liberi e open source contro i software privati, per la collettivizzazione e neutralità della rete, contro la sorveglianza di massa e contro le Big Tech. Per Patrick Breyer, esponente europeo del Partito Pirata «Questa proposta prevede la scansione di massa obbligatoria delle comunicazioni private e mira a compromettere la crittografia sicura, imponendo la scansione lato client all’interno delle app di messaggistica. È significativo che account governativi e militari saranno esentati da questa sorveglianza invadente e inaffidabile» [3].

Sarebbe come se i Carabinieri potessero accedere alla camera da letto di ognuno in ogni momento, senza sospetti né mandati d’arresto, e senza che nessuno se ne possa nemmeno accorgere.
Con questa riforma radicale dei metodi di comunicazione, sarebbe inoltre molto più facile per degli intrusi (i cosiddetti bad actors) accedere ai messaggi degli utenti, cercando falle negli algoritmi che a quel punto gli permetterebbero di accedere direttamente ai contenuti delle chat.


TU CERCA CHI NE TRAE BENEFICIO E…

A maggio 2022, poche settimane prima della proposta formale del CSAM al Parlamento Europeo, il commissario per gli affari interni dell’UE Ylva Johansson contattò l’azienda statunitense Thorn. Thorn sviluppa sistemi di intelligenza artificiale (AI) e in particolare strumenti AI capaci di individuare immagini di abusi sessuali su minori online. Chatal Delaney è un ex funzionario dell’Europol (agenzia europea per la lotta al crimine) che ha lavorato al progetto pilota per il rilevamento di abusi su minori tramite AI. Dopo la sua esperienza all’Europol, entra a far parte di Thorn e in un incontro con la stessa Europol presenta un prodotto AI della sua nuova azienda [4].

Nel registro lobbystico dell’UE per la trasparenza ci sono poche tracce di Thorn. Ha avuto un solo contributo di 219.000 euro nel 2021 da parte della WeProtect Global Alliance. WeProtect era inizialmente una alleanza co-fondata dagli USA e dalla Gran Bretagna.

Nel 2020 è stata trasformata in una fondazione che sulla carta è privata e indipendente dai governi, con sede nei Paesi Bassi. Tra i suoi membri figurano potenti agenzie di sicurezza nazionali, funzionari di numerosi governi, manager di aziende della Big Tech, ONG e Antonio Labrador Jimenez, uno dei funzionari di gabinetto di Ylva Johansson e incaricato alla lotta all’abuso sessuale sui minori, dunque al CSAM. WeProtect stessa ha dichiarato di essere guidata «da un comitato di politica globale multi-stakeholder; membri includono rappresentanti dei paesi, organizzazioni della società internazionale e civile e dell’industria tecnologica» [5].

Douglas Griffiths è un altro membro del consiglio di amministrazione di WeProtect, ed ex funzionario del Dipartimento di Stato degli USA. Attualmente è anche presidente della Oak Foundation di Ginevra, fondazione che raccoglie organizzazioni filantropiche di tutto il mondo e che ha fornito supporto per le comunicazioni a WeProtect.

Oak Foundation finanzia inoltre una serie di organizzazioni ombrello che fanno pressione a favore della legislazione CSAM. Una di queste è la European Child Sexual Abuse Legiscourse Advocacy Group (ECSALAG), che ha nel suo comitato direttivo anche Thorn, oltre a una serie di organizzazioni per i diritti dei bambini. La Oak Foundation ha donato a Thorn 5 milioni di dollari, e altre centinaia di migliaia di dollari ad altre organizzazioni nella sua orbita, per coinvolgere i responsabili politici entro una legislazione contro la crittografia end-to-end col fine dichiarato di tutelare i bambini dagli abusi online. Eppure, fornendo possibilità strutturali di aggirare la crittografia end-to-end, si rende più facile a tutti accedere ai dispositivi.

Nel 2022 la Oak Foundation finanzia ancora la WeProtect con 2,33 milioni di dollari «per riunire governi, settore privato, società civile e organizzazioni internazionali per sviluppare politiche e soluzioni che proteggano i bambini dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali online».

Da questa ondata di beneficienza illuminata che ha creato una rete rodata di grandi capitali e di figure politiche di spicco del mondo borghese Occidentale, è stata però estromessa ‘Offlimits’, più nota come ‘Online Child Abuse Expertise Agency’, la più antica linea per la segnalazione di abusi su minori e adulti. Nonostante l’esperienza decennale in materia di raccolta delle segnalazioni e di tutela dei soggetti a rischio o abusati. Ylva Johansson non sembra aver tenuto conto delle richieste dell’ex deputato olandese Arda Gerkens di attivare dei contatti con la Offlimits, preferendo i contatti con il mondo del Big Tech statunitense.

Pressioni di gruppi capitalistici statunitensi, pressioni di governi nazionali europee (e delle relative forze di polizia) e legami profondi tra gli uni e gli altri, nascosti dietro ONG e presunti gruppi filantropici. Questi soggetti internazionali stanno spingendo, ad ora, per l’approvazione del Chat Control 2.0.


IL PARLAMENTO EUROPEO AL VOTO A OTTOBRE

Il 14 ottobre 2025 è prevista l’approvazione del Chat Control 2.0 da parte dei ministri dell’interno dell’UE. Dopodiché si svolgeranno i negoziati trilaterali tra Commissione, Parlamento e Consiglio per redigere il testo finale della legislazione Chat Control 2.0 e arrivare all’approvazione definitiva.

Al momento gli Stati europei a favore sono la maggioranza, e ben 15 su un totale di 27. Gli Stati membri contrari sono solo 6, e altrettanti sono gli Stati ‘indecisi’. Va però considerato che tra i ‘contrari’ e gli ‘indecisi’ sono tanti gli Stati che non hanno posizioni contrarie ai princìpi della legge sulla sorveglianza di massa. La loro posizione rispecchia invece delle questioni di forma della legge, o implicazioni secondarie. In ogni caso, la probabilità che la legge venga approvata è al momento molto alta.

Dopo decenni di leggi all’avanguardia mondiale in materia di tutela delle comunicazioni online, figlie della mobilitazione di attivisti di tutto il continente, l’Unione Europea capitola alle pulsioni politiche ed economiche del suo nuovo corso, stringendo la morsa attorno al collo delle libertà fondamentali. Dopo aver storto il naso davanti al securitarismo distopico della Cina e al subdolo controllo della vita sociale di marca statunitense, nonché ai rozzi metodi autoritari di censura nella Russia putiniana, anche l’UE si appresta a tutelare i propri interessi di stabilità politica e i rapporti sotterranei con le grandi aziende tech.

Non è la prima volta che i governanti utilizzano la paura per legiferare il controllo e la repressione. Lo abbiamo visto, in Italia, quando al percepito pericolo della violenza nelle città ha fatto seguito l’istituzione delle zone rosse e il DL ‘Sicurezza’.
Quest’ultimo già permette, ora, profondi abusi da parte delle forze di polizia rispetto al materiale considerato pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica, anche se fosse un file PDF conservato nella memoria del proprio computer.

Mentre gli europarlamentari italiani non hanno espresso posizioni esplicite sull’argomento, sembra che il Governo Meloni guardi positivamente al Chat Control 2.0. Sarebbe un passo in avanti che ben si sposerebbe con il progetto nazionale di sorveglianza, controllo e repressione già in atto. D’altra parte anche Marianna Madia, PD, chiede di rispolverare, discutere e approvare una legge bipartisan per regolare l’accesso ai social e a internet in Italia [6].


I MEDIA PER LA COSTRUZIONE DEL CONSENSO

Sarà forse un caso, eppure curioso, che a meno di due mesi dal giorno dell’approvazione del Chat Control 2.0, i media di regime stiano offrendo ampia copertura a due scandali online che smuovono proprio i sentimenti di insicurezza rispetto al possibile abuso persino di persone vicine. È successo in pochi giorni prima con il vomitevole gruppo Facebook ‘Mia Moglie’ [7] e poi con il forum ‘Phica.eu’ [8]. Il primo gruppo fa parte di una piattaforma che giornalmente censura con molta facilità contenuti che hanno a che fare con la Palestina. Il secondo chiude invece dopo ben venti anni di attività passati impunemente, che hanno permesso all’azienda madre di fatturare oltre un 1,3 milioni di euro.

Sembra che tutto sia votato, ancora, a costruire mediaticamente un ‘casus belli’ utile a giustificare una legiferazione che più che risolvere i problemi, mira invece a dar la sensazione di risolverli per risolverne altri. Problemi più attinenti alle necessità securitarie del Governo, che alla sicurezza dei bambini e dei soggetti potenzialmente vittime di abusi.

Sembra che i media stiano tentando di svegliare pulsioni emotive che di solito ben si guardano di toccare. I media con la Rai da capofila strumentalizzano in maniera squallida, ancora una volta, le vittime di abusi.
Da una parte si risponde alle paure sociali con strumenti immediati e inadatti, dall’altra rispondendo a queste paure sociali i Governi sorridono alla possibilità di un controllo di massa senza precedenti.


COSTRUIRE UN’ALTERNATIVA OPERAIA, UN PARTITO COMUNISTA

Nonostante organizzazioni e partiti di stampo progressista come il Partito Pirata si stiano ben muovendo contro le tendenze autoritarie dell’UE, questi agiscono senza considerare la divisione in classi della società.
Purtroppo le tendenze autoritarie che combattono non sono riformabili perché l’Unione delle borghesie Europee non è riformabile. Quanto avviene per mano dei suoi funzionari, e per quanto scandaloso sia, risponde alla sua natura: consentire che gruppi di pressione dai grossi capitali possano pilotare le scelte politiche, che infine ricadono con maggior peso sulle classi oppresse e sulle loro lotte.

Le giuste resistenze di queste organizzazioni si scontreranno sempre, in fin dei conti, con la realtà dei fatti. Cioè che senza la costruzione di una piattaforma di lotta ampia, che riguardi innanzitutto l’organizzazione di un partito di massa dei lavoratori, ogni singola battaglia si risolve inevitabilmente entro il campo del sistema.

Solo un partito indipendente dagli organismi di governo delle classi borghesi, e un programma di transizione adatto, può unire le singole lotte affinché siano tutte irrimediabilmente utili a quella principale: l’abbattimento del capitalismo.

Un mondo in cui le aziende siano pubbliche e collettive, e le loro tecnologie siano sviluppate e utilizzate in maniera trasparente, per il bene comune e non per la repressione e il controllo di una manciata di uomini di potere sui lavoratori.
Un mondo in cui non possono esistere lobby di potere economico che costruiscono il proprio profitto sulla pelle degli abusati.


MOBILITIAMOCI!

Questo è l’ennesimo mattone della borghesia, che dopo il DL Sicurezza continua il suo accanimento contro le libertà sociali fondamentali a garanzia della repressione.

Perciò è necessario far convergere i percorsi già avviati e costruire in Italia e in Europa una mobilitazione contro la repressione e il controllo da una prospettiva anticapitalista e di classe.

Da qui a ottobre chiamiamo alla mobilitazione delle reti contro la repressione, già esistenti in Italia e in Europa, per costruire questo nuovo fronte di lotta sulla scia della mobilitazione contro l’infame DL Sicurezza.

Un nuovo fronte per combattere la stessa battaglia.




[1] Il servizio giuridico del Consiglio dell’UE nel 2023 bocciò la proposta per via dell’ambiguità del testo nel rapporto tra “l’abuso sessuale di minori” e la pretesa “sicurezza nazionale” del regolamento. Si veda: https://www.euractiv.com/section/tech/news/eu-councils-legal-opinion-gives-slap-to-anti-child-sex-abuse-law/

[2] Di particolare rilevanza è l’iniziativa del Partito Pirata. Per approfondire si veda la dettagliatissima pagina dell’europarlamentare Patrick Breyer: https://www.patrick-breyer.de/en/posts/chat-control/

[3] “L’UE rilancia il “Chat Control”: messaggi tutti nel mirino” di Patrizio Coccia. Si veda: https://global.techradar.com/it-it/computing/cyber-security/lue-rilancia-il-chat-control-messaggi-tutti-nel-mirino

[4] È l’inchiesta che è passata, pur sottotraccia, con il nome di ‘Chatcontrol-gate’. Si veda: https://pirati.io/2025/02/chatcontrol-il-mediatore-europeo-critica-la-porta-girevole-tra-europol-e-thorn-il-lobbista-della-sorveglianza-sui-messaggi/

[5] Il virgolettato è riportato su Balkan Insight. Si veda: https://balkaninsight.com/2023/09/25/who-benefits-inside-the-eus-fight-over-scanning-for-child-sex-content/

[6] Età minima sui social e verifica obbligatoria con SPID. La proposta bipartisan in Parlamento. Madia: “Cosa dobbiamo aspettare ancora per approvarla?” di Andrea Carlino. Si veda: https://www.orizzontescuola.it/eta-minima-sui-social-e-verifica-obbligatoria-con-spid-la-proposta-bipartisan-in-parlamento-madia-cosa-dobbiamo-aspettare-ancora-per-approvarla/

[7] Dopo migliaia di segnalazioni, Meta chiude il gruppo Facebook “Mia moglie”: 32mila iscritti si scambiavano foto di donne di F. Q. Si veda: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/08/20/gruppo-mia-moglie-facebook-meta-chiuso-notizie/8099757/

[8] Il fatturato da oltre un milione di euro, l'amministratore italiano: chi c'è dietro "Phica.eu". Si veda: https://lespresso.it/c/attualita/2025/8/29/phica-sito-porno-chi-dietro-fatturato-amministratore-italiano/56490

Emerigo C.

Dagli accampamenti per la Palestina alle flotille. Il coraggio è contagioso

 


1 Settembre 2025

In tutto il mondo sono in corso nuove proteste, sempre più massicce e frequenti, per porre fine al genocidio in Palestina. Le mobilitazioni di massa, gli accampamenti universitari e le flottiglie cercano di rompere l'assedio, dando forma a un movimento globale sempre più radicalizzato. Ripercorriamo gli antecedenti di queste iniziative navali, che nell'ultima flotilla annovera tra i suoi membri Celeste Fierro del MST-FIT (Argentina)

Nonostante la campagna dell'estrema destra per instaurare un senso comune a favore di Israele, in tutto il mondo continuano incessanti i movimenti in difesa del popolo palestinese. Il potere economico e politico a livello mondiale è complice del genocidio in corso, ma i palestinesi di tutto il pianeta hanno trovato uno spazio per far sentire la loro voce insieme ad altri gruppi organizzati, dimostrando che la solidarietà popolare è la loro arma più potente per la resistenza.

Va sottolineato che l'appello a un cessate il fuoco continua a guadagnare terreno, a quasi due anni dall'intensificarsi del massacro perpetrato dallo Stato di Israele. La resistenza di bambini, adulti e anziani nella Striscia di Gaza ispira azioni, proteste e discorsi di artisti e personalità dei media. La campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) rafforza le azioni che mirano a indebolire il potere militare e il sostentamento economico di Israele, che dipende dalle risorse di multinazionali come Starbucks, McDonald's, Unilever, tra le altre.

In questo momento, mentre il genocidio avanza verso la “soluzione finale” accumulando crimini di guerra confessati dagli stessi vertici militari, assistiamo a una crudeltà esponenziale. Il blocco imposto al rifornimento di acqua, cibo e attrezzature mediche, la distruzione di ospedali, campi profughi e chiese, l'uccisione di bambini, donne e anziani in fila per ricevere aiuti umanitari e lo sfollamento di massa di un'intera popolazione sotto la minaccia di uno sterminio totale sono alcune delle principali violazioni dei diritti umani che si stanno commettendo nella regione e che, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, non si pensava potessero ripetersi. È urgente raddoppiare gli sforzi per fermare la macchina di sterminio in atto.


AZIONI COLLETTIVE PER GAZA IN TUTTO IL MONDO

Le proteste in corso, iniziate in alcune città fin dal 2023, si sono presto diffuse in tutto il mondo. La solidarietà ha mobilitato i lavoratori, che hanno fatto pressione sulle aziende affinché disinvestissero in Israele. La mobilitazione ha coinvolto studenti di tutto il mondo, che hanno organizzato accampamenti per chiedere alle università di prendere posizione, soprattutto negli Stati Uniti, dove esistono legami diretti tra importanti università e Israele. Recentemente è stata riattivata la strategia dell'invio di flottiglie per rompere l'isolamento imposto alla Palestina.

Il tentativo di raggiungere Gaza con aiuti umanitari via mare non è nuovo. Il rigido controllo terrestre e aereo esercitato da Israele, che comprende il controllo e il blocco degli alimenti, rende la rotta marittima l'unica possibilità reale per far arrivare gli aiuti nel territorio palestinese.

1. Nel 2010, la Freedom Flotilla è stata brutalmente attaccata da Israele in acque internazionali, causando otto morti e decine di feriti.

2. Nel 2015 e nel 2018 altre iniziative non sono riuscite ad arrivare in Palestina, venendo intercettate. Nel 2025 ci sono già stati due tentativi: nel primo, a maggio, la nave è stata attaccata con dei droni. L'equipaggio, che includeva personaggi noti come Greta Thunberg, è stato sequestrato e arrestato dalle forze israeliane.

3. Successivamente, anche la nuova flotilla, guidata dalla nave Madleen, è stata intercettata.


LA GLOBAL SUMUD FLOTILLA

Ora è in corso un nuovo tentativo di rompere l'assedio. In questo momento, migliaia di attivisti da tutto il mondo si stanno dirigendo verso Gaza per la più grande azione di protesta che ci sia mai stata contro l'assedio e la crisi umanitaria. Per aumentare la visibilità dell'azione, attivisti, influencer e militanti di diverse lotte si stanno unendo alle flotte per portare aiuti al popolo palestinese.

Dall'Argentina, siamo orgogliosi di essere rappresentati dalla compagna Cele Fierro, militante del Movimiento Socialista de los Trabajadores (MST) e deputata della città di Buenos Aires per il Frente de Izquierda - Unidad, parte della delegazione che cerca di aprire, finalmente, un canale umanitario permanente e fermare il genocidio. Questo è un grande passo avanti per costruire una risposta internazionale forte e attiva in difesa di una Palestina libera, democratica, laica e socialista, come rivendicato dalla Lega Internazionale Socialista.

Da tutti i fiumi a tutti i mari, la Palestina vincerà!

Lucas Finger

La LIS parteciperà alla Global Sumud Flotilla diretta a Gaza, a sostegno della Palestina

 


La Lega Internazionale Socialista (LIS) farà parte della flotta umanitaria che salperà il 31 agosto alla volta di Gaza. Più di 50 navi, in partenza da diversi punti d'Europa, tenteranno di rompere il blocco imposto dallo Stato di Israele e portare aiuti umanitari alla popolazione palestinese.


Questa azione internazionalista mira a denunciare e contrastare l'embargo sanitario e alimentare al quale lo Stato di Israele sottopone milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, nel quadro del genocidio in corso. La flotilla si inserisce nella tradizione di lotta e solidarietà attiva che diverse organizzazioni in tutto il mondo promuovono per sostenere la resistenza palestinese contro l'occupazione e la barbarie sionista.

La deputata argentina del MST e del Frente de Izquierda, Celeste Fierro, farà parte di questa spedizione e rappresenterà la Lega Internazionale Socialista (LIS) in questa iniziativa internazionalista: «Riaffermiamo il nostro impegno per la causa palestinese e per la mobilitazione internazionale contro il massacro a Gaza. Rifiutiamo la complicità dei governi che danno sostegno politico e materiale allo Stato di Israele ed esigiamo la rottura delle relazioni con questo mostro genocida. Insieme ai milioni di persone che si mobilitano in tutto il mondo e mettono in atto ogni tipo di mobilitazione, non ci fermeremo finché l'occupante non sarà espulso e la Palestina sarà libera, dal fiume al mare», ha affermato.

La Global Sumud Flotilla fa parte di una campagna più ampia per rompere l'embargo, denunciare il genocidio e rafforzare l'organizzazione internazionalista a sostegno del popolo palestinese. Da parte della LIS invitiamo a moltiplicare la solidarietà attiva: la Palestina vincerà!

Lega Internazionale Socialista

Sionismo e bolscevismo

 


«Compagni,


il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista ha dato un fraterno benvenuto ai compagni da voi delegati al III Congresso Internazionale e con loro ha esaminato molto attentamente la questione dell’affiliazione della vostra organizzazione all’Internazionale Comunista. Il Comitato Esecutivo riconosce il fatto che avete iniziato a espellere dalle vostre file gli elementi apertamente riformisti e centristi. Riconosce che, in quasi tutti i paesi in cui avete organizzazioni, siete pronti a condurre la lotta contro la borghesia a fianco delle sezioni comuniste di quei paesi. Riconosce inoltre che, grazie ai vostri sforzi comuni, siete riusciti a gettare le basi di un movimento comunista in Palestina che, una volta ratificate tutte le condizioni stabilite dal Comitato Esecutivo, sarà idoneo a diventare la sezione nazionale dell’Internazionale Comunista.
Tuttavia, nel vostro movimento esistono tendenze in linea di principio incompatibili con quelle dell’Internazionale Comunista, che ci preoccupano molto. L’idea che la concentrazione delle masse proletarie, semiproletarie ed ebraiche in Palestina possa fornire una base per l’emancipazione sociale e nazionale della classe operaia ebraica è utopica e riformista e in realtà controrivoluzionaria nelle sue conseguenze pratiche, poiché equivale alla colonizzazione della Palestina, che, in ultima analisi, rafforzerebbe la posizione dell’imperialismo britannico in Palestina.
La completa liquidazione di tale ideologia è la condizione più importante che ci sentiamo in dovere di stabilire. Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista è consapevole del fatto che la forte emigrazione, che è un’espressione concreta delle peculiari condizioni industriali del proletariato ebraico, è un problema di cui le sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista devono occuparsi nella misura in cui possono essere utilizzate nella lotta per la dittatura del proletariato e per l’adempimento delle rivendicazioni vitali concrete dei lavoratori. È dovere delle sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista istituire gli organi appropriati per l’indagine e la soluzione di questa questione.
Il Comitato Esecutivo ha deciso di istituire un Ufficio Ebraico nel centro dell’attività ebraica, il cui compito sarà quello di portare avanti la propaganda comunista tra i proletari ebrei in tutto il mondo. Il Comitato Esecutivo invita il vostro Ufficio Centrale a convocare una conferenza internazionale di tutte le organizzazioni comuniste del Poale Zion entro sei mesi, allo scopo di sciogliere definitivamente la vostra organizzazione internazionale e di fondere le vostre organizzazioni nelle sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista, entro un periodo non superiore a due mesi e alle condizioni sopra menzionate.
In conclusione, il Comitato Esecutivo fa appello a tutti i lavoratori comunisti ebrei affinché combattano contro le tendenze particolaristiche prevalenti nel movimento operaio comunista ebraico e si rendano conto che i lavoratori ebrei rivoluzionari possono diventare parte integrante della famiglia dei Grandi Lavoratori Comunisti solo all’interno dell’Internazionale Comunista.
Lunga vita all’Unione degli Operai Comunisti Ebrei nell’Internazionale Comunista!
Lunga vita alla Terza Internazionale che sola è in grado di guidare la lotta per l’emancipazione dei lavoratori di tutte le nazioni alla vittoria finale!»

Così il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista rispondeva alla richiesta di adesione del Poale Zion, il 26 agosto 1921. Di fronte alle condizioni del Comintern, una parte del movimento sionista-socialista rinunciò al sionismo e si mise sulla strada dell’internazionalismo proletario. Nel Poale Zion divennero dominanti le tendenze sioniste e riformiste.

Era stata la ex bundista Maria «Esther» Jakovlevna Frumkina, a dichiarare al II congresso del Comintern:

«Un esempio mostrerà di quali menzogne siano state vittime le masse lavoratrici di una nazionalità oppressa, menzogne che rappresentano una grande risorsa per l’Intesa e per la borghesia delle nazioni in questione. È il caso dei sionisti in Palestina che, con il pretesto di fondare uno stato ebraico indipendente, reprimono la popolazione lavoratrice e gli arabi che vivono in Palestina sotto il giogo britannico, sebbene gli ebrei siano ancora una minoranza. Questa menzogna senza precedenti deve essere combattuta, e in modo molto energico, poiché i sionisti in ogni paese lavorano avvicinando tutte le masse arretrate di lavoratori ebrei e cercando di creare gruppi di lavoratori con tendenze sioniste (Poale Zion), che ultimamente si sforzano di adottare una versione comunista. Vorrei citare qui uno degli esempi più eclatanti del movimento sionista. In Palestina non abbiamo a che fare con una popolazione a maggioranza ebraica. Abbiamo a che fare con una mera minoranza che cerca di sottomettere la maggior parte dei lavoratori del Paese alla capitale dell’Intesa. Dobbiamo combattere questi tentativi con la massima energia. I sionisti cercano di conquistare sostenitori in ogni paese e, attraverso la loro agitazione e la loro propaganda, servono gli interessi della classe capitalista. L’Internazionale Comunista deve combattere questo movimento con la massima energia».

Nel 1943, morirà nei gulag staliniani.

Il sionismo non è una creatura atavica, come millanta la mistica delle élite ebraiche. È artefatto tutto contemporaneo, figlio della decadenza capitalistica. L’avaria del sistema classista manifesta con forza la necessità del suo superamento. Chi non vuol concedersi a questo superamento si ritrova costretto a conservare il sistema oltre i suoi limiti razionali, indicando la responsabilità dei suoi guasti in cause fantasiose, col risultato di protrarre e aggravare ogni guasto. La borghesia nazista creerà il mito del giudeo parassita dell’economia, cospiratore filostraniero e filocomunista, principale ragione della sconfitta nazionale della Prima Guerra mondiale.

La borghesia ebraica risponderà non con la confutazione della mistica, ma col suo rovesciamento: l’ebreo che da millenni aspira al ritorno alla primordiale patria di Sionne, per sfuggire all’antisemitismo strutturale del mondo intero. La verità è che, dall’esilio babilonese e dalla dispersione romana lungo tutto il medioevo fino alla storia recente, gli ebrei hanno vissuto in altre terre e, se poté in essi conservarsi un sentimento religioso, caratteristiche culturali e una memoria più o meno condivisa a identificarli come popolo, non è vero che questo popolo ambì al ritorno a una terra perduta millenni addietro. I problemi del popolo ebraico contemporaneo sono i problemi della contemporaneità, risolvibili solo nel suo quadro, non col ricorso a leggende. Di questo avviso furono gli stessi ebrei che, per secoli, pretesero un posto nelle società in cui vivevano e mai invece guardarono a tali società come un luogo di passaggio, in attesa che il Messia ponesse fine alla diaspora.

Dirà Abraham Léon: «il sionismo è un movimento recente e il più giovane dei movimenti nazionali europei, ma ciò non gli impedisce di pretendere – ancor più degli altri nazionalismi – (oggi, anzi, diremmo “ferocemente contro gli altri nazionalismi”) di avere le sue radici nel lontano passato».

La genesi del sionismo, ideologia rovesciata dell’antisemitismo, si annida nella patria dei pogrom, l’impero zarista. Fu il pamphlet Autoemancipazione! (1882) del medico ebreo russo Leo Pinsker, il primo a parlare della fobia secolare e irrazionale per gli ebrei, una «malattia della mente delle nazioni non ebraiche», un pregiudizio insuperabile in qualunque modo non fosse la formazione di una colonia «in America o in una terra adatta in Oriente» (il fondatore dell’Hibbat Zion puntava già alla Palestina). Che il massimo esponente del sionismo politico, Theodor Herzl, lo abbia letto o meno, spiccheranno le analogie col suo Lo Stato degli ebrei. Quando Herzl elabora la sua ideologia si trova a Parigi, scenario dell’affare Dreyfus, il processo a un ufficiale ebreo dell’esercito francese ingiustamente accusato di tradimento, e dell’esplosione di antisemitismo che ne seguì. Si ribadisce: la metafisica sionista venne generandosi come risposta piccolo-borghese alla metafisica della borghesia imperialista, russa, francese, più tardi tedesca.

Nel 1897 Herzl, raccogliendo l’appello di Pinsker per un Congresso Ebraico, ideerà, convocherà e presiederà a Basilea il primo Congresso Sionista. Al cospetto di 17 delegati, fonderà l’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO). Quanto mai eloquente il suo manifesto: «Formiamo una parte del baluardo per l’Europa contro l’Asia, saremo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie». Nasceva ufficialmente un nuovo movimento, il quale tuttavia si trovava inevitabilmente a misurarsi col panorama politico del secolo, venendone alternamente condizionato. Il sionismo conobbe diverse articolazioni, tutte costitutive di un medesimo progetto coloniale. Tra le più importanti: il sionismo politico di Herzl, la cui cifra distintiva era una insistenza sull’aspetto diplomatico del progetto, l’importanza del riconoscimento internazionale e di un mandato legale per l’insediamento in Palestina. Costola tattica di questa articolazione ideologica fu il sionismo sintetico di Chaim Weizmann, che nell’Italia fascista giocò un ruolo diplomatico di rilievo. Col motto «Conquista o muori!», seguì il sionismo-revisionista, la variante ultramilitarista e parafascista di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, fondatore del Betar per la «Grande Israele», ispiratore delle squadracce punitive del Brit HaBirionim in Palestina, comandante in capo delle milizie dell’Igrun. Dal Partito Revisionista Sionista (Hatzohar) discende l’Herut (1948-1988) da cui discende l’attuale Likud di Benjamin Netanyahu.

Ma il grande fermento rivoluzionario che agitava il mondo non poteva esimere dal rapporto col socialismo quella parte di popolo ebraico variamente interessato al sionismo. Dal rifiuto del Bund ebraico di integrare l’ideologia sionista, nacque il Poale Zion (Operai di Sion), prima come movimento e nel 1906, per impulso di Ber Borochov, costituitosi in partito.

Il Bund sosteneva che la lotta del proletariato ebraico avrebbe dovuto svilupparsi all’interno della diaspora, nei Paesi in cui viveva, senza la necessità di un’emigrazione di massa o della creazione di uno Stato ebraico. Sul piano ideologico, considerava la proposta sionista come una fuga dalla lotta di classe. Circa le ricadute materiali, il Bund, che nel 1921 si scioglieva in maggioranza nel Partito Comunista Russo, maturò una lettura del sionismo in tutto combaciante col Comintern dopo l’inizio della Prima guerra mondiale e del mandato britannico in Palestina: il progetto sionista come manovra della borghesia occidentale, quinta colonna dell’imperialismo britannico in Medio Oriente.

Prima della Nakba, i marxisti-rivoluzionari che si espressero sul sionismo non poterono prevedere l’immane carneficina cui Israele avrebbe dato corso nei decenni, ma diffusamente si ritrovano preziose intuizioni. Nell’intervista rilasciata ai corrispondenti della stampa ebraica al suo arrivo in Messico (gennaio 1937), Trotskij affermava già che «il conflitto tra ebrei e arabi in Palestina assume un carattere sempre più tragico e minaccioso» e che, in regime capitalistico, ogni tentativo di risoluzione del problema ebraico «non può che essere un palliativo e spesso persino un’arma a doppio taglio, come dimostra l’esempio della Palestina», avendo in mente le prime sollevazioni arabe contro gli ebrei.

La Prima Guerra mondiale si conclude con la sconfitta dell’Impero Ottomano e la sua perdita della regione palestinese. La Rivolta Araba esplosa nel 1916, prima dell’arrivo delle truppe britanniche, aveva cominciato una lotta su vasta scala contro l’oppressione turca finalizzata alla creazione di uno stato arabo indipendente. Strumentalmente, il Regno Unito supportò l’insurrezione; poi si unì militarmente al conflitto. La corrispondenza Hussein-McMahon (1915-1916), con la quale la Gran Bretagna, tramite il suo alto commissario in Egitto Henry McMahon, prometteva allo Sharif Hussein della Mecca, leader della Rivolta, il riconoscimento di un grande regno arabo in cambio del suo aiuto militare contro l’Impero Ottomano, portò dapprincipio una parte dell’insurrezione a battersi a fianco delle truppe inglesi, credendo sincere le promesse.

Le illusioni si sgretolarono quando, nel 1917, gli arabi scoprirono che, con l’accordo di Sykes-Picot, stipulato un anno prima, inglesi e francesi programmavano la spartizione del Medio Oriente in zone di influenza, contraddicendo apertamente la promessa di un regno arabo unito e indipendente; e soprattutto che, con la Dichiarazione Balfour, il Regno Unito s’impegnava a sostenere la creazione di una «patria nazionale per il popolo ebraico» nella Palestina che gli arabi consideravano parte del loro futuro Stato.

Da quel momento, fu un prosieguo ininterrotto di sollevazioni popolari contro l’occupazione britannica e i sionisti suoi protetti, che compravano terreni dagli effendi residenti in altri stati e ne cacciavano gli arabi che li abitavano e li coltivavano. Da parte araba, nasceva un nazionalismo che portava a una inedita lotta anche contro ebrei non sionisti, in una regione in cui da sempre arabi ed ebrei avevano convissuto. Da parte inglese e sionista, massacri di migliaia di arabi. I moti di Gerusalemme (1920) e il massacro di Hebron (1929), centinaia di morti. La seconda Grande Rivolta Araba (1936-1939), seimila arabi uccisi. L’ultimo dei capitoli prima della fondazione di Israele e della Nakba, ma che naturalmente le comprende, fu la guerra civile del 1947-1948, quando l’ONU sancisce di fatto la nascita dello Stato Ebraico e le truppe inglesi si ritireranno. Dopo averla aggiogata, l’Inghilterra lascerà la Palestina in dote all’ONU e, col declinare progressivo del proprio primato imperialista, perderà la supremazia della sua partnership con Israele in favore degli USA, emergenti dalla Seconda Guerra Mondiale come nuova superpotenza.

Nel frattempo, lo stalinismo aveva vinto nel mondo e anche dell’antisionismo genetico del bolscevismo si apprestava a far strame. Credendo di poter istituire un’alleanza con Israele e di farsene strumento di pressione contro l’imperialismo, in sede ONU anche il Cremlino votava a favore della fondazione di Israele. Il veto dell’Unione Sovietica, potenza temuta e decisiva per gli equilibri internazionali, avrebbe fatto saltare il progetto. Ma Stalin non si fermò a ignorare la natura sociale di uno Stato che si fondava sulla soppressione più efferata del diritto di autodeterminazione dei popoli, lui che, del resto, georgiano, era stato il primo a negarlo alla Georgia. Fece di più. Fu il primo a rifornire di armi Israele.

Data l’escalation preoccupante del conflitto in Palestina, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU impose un embargo sulle armi a tutti i paesi della regione coinvolti nel conflitto. Ma l’embargo penalizzava soprattutto Israele, che si ritrovò ad affrontare gli eserciti di diversi Stati arabi con una quantità molto limitata di armamenti. Tradotto in parole semplici, l’operazione equivaleva a dire "ci abbiamo provato! Ma se il rischio è di trovarci nuovamente trascinati in un conflitto mondiale, non intendiamo correrlo per Israele". Fu Stalin a salvare Israele, ripetendo la mossa del Molotov-Ribbentrop quando aggirò l’embargo e armò Hitler. Egli vide nella violazione dell'embargo un’opportunità per indebolire l’influenza occidentale in Medio Oriente e per creare un potenziale alleato. Decise quindi di fornire armi a Israele attraverso la Cecoslovacchia, divenuta stato satellite il febbraio 1948.

Le forniture, organizzate nell’ambito dell’«Operazione Balak», furono decisive per le sorti del conflitto. Tra il 1948 e il 1949, la Cecoslovacchia vendette a Israele un’enorme quantità di armi, tra cui fucili, munizioni, mitragliatrici e persino aerei da caccia come gli Avia S-199, una versione cecoslovacca dei Messerschmitt Bf 109 tedeschi. Queste armi, trasportate con ponti aerei clandestini, furono fondamentali per permettere a Israele di resistere all’attacco e di riportare la vittoria nella sua guerra coloniale.

Il Partito Comunista di Palestina guidato da Radwan Hassan al Hilou (Musa), sezione palestinese dell’Internazionale Comunista, veniva lacerato da una crisi irreversibile. La componente araba, nella quale spiccava Najati Sidqi, abbondonò in massa il partito. Il PCP perse quasi completamente la sua credibilità e la sua influenza all’interno della comunità araba palestinese. La spaccatura rese il partito un’organizzazione prevalentemente ebraica e lo isolò dal movimento nazionalista palestinese e dalle masse arabe. La rottura sancì il fallimento del progetto di un partito misto, arabo-ebraico, che secondo la tradizione bolscevica saldava la lotta di classe e l’anticolonialismo in un’unica organizzazione.

Israele, oggi, è tra le mostruosità più sanguinose che la degenerazione del socialismo su scala internazionale, la controrivoluzione stalinista, ha lasciato in eredità al ventunesimo secolo.

La storia presenta sempre il conto. Non è un caso che i marxisti-rivoluzionari siano arrivati al nuovo secolo anche sulla base della rottura con la tradizione stalinista su Israele e sull’autodeterminazione dei popoli. Progetto Comunista, l’area embrionale del Partito Comunista dei Lavoratori, rompeva dal Partito della Rifondazione Comunista proprio per la sua denuncia del ruolo imperialista giocato dalle truppe italiane in Iraq e sul rifiuto della soluzione "due popoli, due stati" per la Palestina. In Palestina, lo stato sionista nasce proprio contro la nascita di uno o più stati arabi. Nasce come avamposto dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Qualunque sia la forma di governo di cui possa dotarsi, lo Stato sionista è la pallottola che la prima terribile guerra globale tra le potenze imperialiste ha lasciato nel cuore del Medio Oriente e lo sta uccidendo per avvelenamento.

Dal socialdemocratico Ben Gurion all’ultranazionalista Netanyahu, Israele non ha fatto altro che sfruttare e rubare, espellere e sterminare. Non ha mai conosciuto eccezioni a questa politica. Perché altra politica non può avere il colonialismo. Il sionismo era ieri e tanto più lo è oggi una vergognosa copertura ideologica di un’impresa criminale. Con la sua strumentalizzazione dell’Olocausto per riprodurre lo stesso crimine contro altri popoli, è la più grande offesa che abbia mai conosciuto il popolo ebraico. Solo la rivoluzione saprà far sì che sia l’ultima.

Salvo Lo Galbo