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Vivaia TFQ sotto sgombero: la dittatura del profitto al lavoro!

 

Solo pochi mesi fa scrivevamo dell’ennesimo sgombero.

Oggi, 30 maggio, a freddo, durante una fase di trattative avviata con la proprietà e il Comune lo spazio trans-femminista queer Vivaia Tfq, è sotto attacco delle forze dell’ordine che tentano di sgomberarlo.

Lo spazio insiste su un’area di grande interesse pubblico, l’area verde dell’ex Vivaio Gabrielli, abbandonato all’incuria da molti anni.

Su questa area di proprietà privata, come in innumerevoli altre situazioni analoghe, incombe un progetto di speculazione edilizia per cui il Comune, che vorrebbe acquisirlo, promette al proprietario una permuta vantaggiosa per poter edificare.

Contro questo progetto e per la difesa di Vivaia Tfq si sono espressi migliaia di cittadini.

Si uniscono qui speculazione edilizia, l’interesse privato nella gestione della proprietà pubblica, e non ultima quella cementificazione che è una tra le cause che hanno favorito la tragica alluvione che ha colpito la regione.

Non è un caso che a consentire lo sgombero sia quella amministrazione cittadina che si definisce come la “più progressista” d’Italia. La speculazione edilizia ha solo il colore dei soldi, dei profitti privatistici, non ha colore politico. Qualsiasi governo, nazionale o locale, si rivela in definitiva sempre un comitato d’affari per i capitalisti, la classe proprietaria.

Nell’esprimere tutta la nostra solidarietà a chi oggi resiste allo sgombero e facendo nostre le loro parole “Vogliamo che le autogestioni e le occupazioni si moltiplichino e facciano vivere Bologna”, rivendichiamo l’unico governo che a livello nazionale cosi come locale possa avanzare una prospettiva di alternativa di società libera dalla dittatura del profitto: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori, insieme a tutti i settori oppressi della società

Partito Comunista dei Lavoratori

Sez. di Bologna

A sostegno della campagna "Ci vuole un reddito"


 Il 27 maggio è tenuta a Roma una manifestazione unitaria di diverse organizzazioni sindacali, strutture e reti di movimento, a sostegno della campagna “Ci vuole un reddito”. Il PCL sostiene questa campagna.


Il decreto lavoro del primo maggio del governo a guida postfascista ha attaccato frontalmente il vecchio reddito di cittadinanza, cancellandolo per centinaia di migliaia di poveri e limitandolo pesantemente per altri. L'obiettivo è favorire il potere di ricatto delle imprese e le pratiche di supersfruttamento, e al tempo stesso liberare risorse per la riduzione delle tasse sui profitti. Il tutto in perfetta connessione con l'allargamento del precariato attraverso la riduzione ulteriore della causali per i contratti a termine e la nuova liberalizzazione dei voucher. L'operazione sul cuneo fiscale, caricata sul debito pubblico e quindi a carico dei salariati, è solo lo specchietto per le allodole di questa politica: un tentativo scoperto di contrapporre i salariati ai disoccupati.

La campagna “Ci vuole un reddito” ha dunque un contenuto altamente positivo. Come positivo è il fronte unitario che si è determinato attorno ad essa. I comitati unitari a difesa del reddito ne sono l'espressione, a partire dal Meridione.

Al tempo stesso, è sempre più necessario collegare la battaglia sul reddito a una piattaforma di mobilitazione generale che contrasti le operazioni divisorie del governo e unifichi contro di esso l'intero blocco sociale alternativo. Non si tratta di sommare la carta delle doglianze e delle critiche alle misure del governo, ma di far emergere una piattaforma rivendicativa unificante che milioni di salariati, precari, disoccupati, possano avvertire come propria. A partire dalla rivendicazione di un salario minimo intercategoriale di 1500 euro, di un aumento salariale generale di almeno 300 euro netti, di una riduzione dell'orario a 30 ore pagate 40, di un raddoppio dell'investimento pubblico nella sanità, nell'istruzione, nel riassetto idrogeologico del territorio, pagato da una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco e dalla cancellazione del debito pubblico verso le banche.

Solo una piattaforma di lotta generale può tracciare il confine di classe tra sfruttatori e sfruttati, scomporre il blocco reazionario, dare un senso riconoscibile all'opposizione sociale. Solo una mobilitazione nazionale prolungata attorno a questa piattaforma può rovesciare i rapporti di forza e riaprire dal basso una prospettiva politica alternativa: quella di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Unire le mille lotte in una lotta sola, generale, di massa significa battersi per una direzione alternativa del movimento operaio contro l'attuale burocrazia sindacale, la prima responsabile della pace sociale e della deriva reazionaria dello scenario politico. Come significa battersi contro ogni logica di frammentazione ed autocentratura minoritaria, purtroppo presenti nel sindacalismo di classe, una logica più attenta alla conservazione della propria sigla che allo sviluppo e all'unificazione del movimento operaio.

La più ampia unità di lotta per una svolta radicale del movimento operaio è più che mai la nostra parola d'ordine, che porteremo anche nella campagna "Ci vuole un reddito".

Partito Comunista dei Lavoratori

 


Poesia e prosa del governo spagnolo

29 Maggio 2023

Qual è il contenuto della riforma del lavoro spagnola che piace alla sinistra italiana?

“Fare come in Russia” fu una parola d'ordine dei socialisti rivoluzionari europei dopo l'Ottobre 1917. “Fare come in Spagna” è oggi la parola d'ordine dei riformisti di casa nostra, con riferimento alle virtù dell'attuale governo PSOE-Podemos.
Dopo l'ingloriosa vicenda del governo Tsipras, un vasto fronte che va da Schlein a Fratoianni, da Acerbo a De Magistris, fa del governo spagnolo la nuova terra promessa della sinistra italiana. Distinguere poesia e prosa della politica spagnola è allora un esercizio utile di verità.

La riforma del lavoro recentemente varata dalla ministra Iolanda Diaz è universalmente presentata come paradigma di un riformismo possibile. Ma non non è tutto oro ciò che luccica È vero, i contratti a termine sono stati ridotti del 7%. Se ricordiamo che il primo governo Prodi, col voto di Rifondazione Comunista, varò l'introduzione del lavoro interinale nel 1997 (Pacchetto Treu), e poi il secondo governo Prodi, col ministro Paolo Ferrero, conservò le misure di precarizzazione estrema del precedente governo Berlusconi (legge 30 di Maroni), potremmo dire che la riforma Diaz è sicuramente più avanzata. Verrebbe da dire: ci vuole poco. E però bisogna dirla tutta.

Il tasso spagnolo dei contratti a termine era precedentemente del 24%, il più alto in Europa. La sua riduzione del 7% (17,5%) lo porta quasi al livello... italiano (16,1%). Presentare la misura come la cancellazione del precariato in Spagna è dunque una bufala. Il tentativo semmai è quello di stabilizzare il lavoro temporaneo, eliminando gli eccessi e riportandolo sul “normale” livello europeo.

L'aspetto più rilevante della riforma riguarda il contratto «para obra o servicio determinado», che in Spagna copre il 38% dei contratti a termine. La riforma stabilisce che la conclusione dell'opera per la quale si presta il servizio non determina più l'estinzione del contratto, in quanto l'impresa è tenuta a offrire al lavoratore una proposta di ricollocamento. Se il lavoratore rifiuta o semplicemente il ricollocamento si rivela impossibile, allora scatta l'estinzione del contratto con un'indennità corrispondente al 7% del contratto collettivo corrispondente. Sarebbe questa la “fine del precariato”?

La riforma introduce inoltre uno strano “contratto a tempo indeterminato”. Parrebbe una contraddizione in termini, ma così non è. Si tratta del «contrato fijo discontinuo», col quale il lavoratore è assunto a tempo indeterminato ma lavora quando occorre, con relative penalizzazioni nei periodi di mora. Non si tratta di situazioni marginali. Secondo i dati della Sicurezza sociale spagnola si tratta di un milione e trecento mila salariati. Vengono conteggiati come a tempo indeterminato ma sono a tutti gli effetti lavoratori precari. Con la riforma Diaz questa forma contrattuale tende a dilagare, come riconoscono le stesse burocrazie sindacali. Ciò che spiega sul punto la soddisfazione padronale.

Infine, quando si confrontano le regole contrattuali sarebbe necessario guardare non solo alle tipologie di assunzione ma anche alle tutele previste o non previste in caso di risoluzione. Bene. La riforma Diaz non tocca la legislazione spagnola sulla questione. In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, e anche di licenziamento discriminatorio (come tale definito dal giudice), il lavoratore ha diritto a ottenere un'indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Peggio di quanto previsto dalla normativa italiana, anche dopo il Jobs act. Dov'è la svolta epocale?

La realtà è dunque molto diversa dalla sua rappresentazione propagandistica. Lo ha capito bene Confindustria spagnola, che sostiene la riforma nel quadro della politica di concertazione sindacale. Una concertazione che ha visto col governo Sanchez un sicuro consolidamento.

In compenso, all'ombra di questo decantato progressismo, il governo socialisti-Podemos prosegue le politiche ordinarie dell'imperialismo spagnolo. Nega il diritto di autodeterminazione della Catalogna. Concorda col governo reazionario marocchino misure forcaiole contro i migranti, simili a quelle di Minniti e Salvini, con tanto di militarizzazione delle frontiere di Ceuta e Melilla e di inumani respingimenti in mare. Accresce il bilancio militare spagnolo con una forte crescita delle spese in armamenti in rapporto al PIL, secondo le disposizioni della NATO regolarmente rispettate. Sostiene l'allargamento della NATO in Nord Europa in direzione di Svezia e Finlandia, in piena fedeltà atlantista...

“Fare come in Spagna” cosa significa, allora? Significa rispolverare il mito illusorio di un possibile governo borghese progressista. E perciò stesso rivelare lo scopo autentico in ultima istanza dei dirigenti di Unione Popolare: fare... come Podemos ha fatto col PSOE. Ricomporre un quadro di governo con M5S e PD nel quadro del capitalismo italiano, del suo apparato statale, della sua collocazione internazionale. Una prospettiva oggi sicuramente remota, ma tutta interna alla logica dell'alternanza. La stessa logica già praticata ai tempi di Prodi, e già esaltata ai tempi di Tsipras. La stessa logica che ha preparato lo sfondamento della destra tra i salariati italiani.

Il PCL persegue una prospettiva opposta. Quella di un'alternativa di sistema, cioè di un'alternativa anticapitalista, di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. Una prospettiva certo difficile, ma l'unica soluzione di vera svolta. Una bussola di riferimento per le politiche dell'oggi, dentro il fronte unico di lotta contro la destra, per un' altra direzione del movimento operaio e sindacale.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il fango è una livella


 Il fango è una livella. È sempre uguale a se stesso. Stesso colore, stessa consistenza ovunque, in un’intera città. In due città. Tra la campagna e la città. In tutte le province. Il fango non è campanilista. Il fango copre tutto con il suo manto democratico. Non si capisce più se una casa è di un ricco o di un povero. Sono sporche uguali. Copre anche le persone allo stesso modo. Uscito dagli argini del fiume ha sfondato le case, le finestre, le vite. E adesso le strade hanno tutte lo stesso colore, l’asfalto non si vede, accatastate ci sono le barricate di una guerra, per chilometri. A qualche giorno dall’alluvione, grazie alle braccia di centinaia di persone, le case hanno vomitato quello che avevano in pancia. Sembra impossibile che contenessero tutto senza scoppiare. Materassi, lavatrici, giocattoli, vestiti, libri e una quantità di forme grottesche che non si sa neppure cosa siano state nella vita di prima. Ora non è strano trovare un mappamondo del Cinquecento accanto a un flipper. Una sorpresina dell’uovo Kinder su un campanello. Qualche pianta di pomodoro spunta da uno spiazzo, tra l’orto e la strada non c’è differenza. Le macchine sono parcheggiate in modo creativo, anche in verticale. In mezzo alle strade girano un sacco di persone che stanno andando da qualche parte, e indossano tutti gli stessi vestiti, color fango. Si sorridono, sono gentili. Qualcuno scherza, qualcuno canta, qualcuno si chiama. L’atmosfera è così piacevole forse per contrastare l’orrore monocromatico tutto intorno.


Per ogni casa ci sono decine di persone che fanno qualcosa. La frase che si sente ripetere più spesso è: “Avete bisogno?”. Spesso la risposta è: “No siamo già in troppi”. Altre è “Sì, laggiù”. Anche il confine tra il privato e il pubblico è stato spazzato via. Tutti i ricordi e gli oggetti di una vita sono per strada, la gente non si ferma all’ingresso, non chiede permesso, va e viene dalle cantine, dai salotti, dalle camere da letto. Non si sa neanche a che civico si sta spalando. A malapena la via.

In ogni casa però c’è un elemento architettonico comune: la riga. “È arrivata lì”. La si indica quasi con orgoglio, quasi come un figlio troppo cresciuto che non riesce più a essere misurato sullo stipite della porta. Anche perché la porta spesso è stata strappata via dai cardini.

Si collabora e ci si organizza spontaneamente in un enorme esperimento sociale di massa in cui quell* con l’idea più buona la dice e gli altri fanno. E in qualche modo funziona. Senza alcuna regia, senza alcuna autorità, senza chi comanda. Si condividono pale, asce, piedi di porco. Si spala, si raccoglie, si pulisce. Si decide in casa d’altri cosa si può salvare e cosa no. Si spaccano mobili, si fanno a pezzettini e si passano dalle finestre dei seminterrati. Chi per oggi ha finito a casa sua non sta fermo, va in giro e aiuta. Nel giro di tre giorni, il grosso del fango più ostinato è stato portato via, accompagnato gentilmente ai tombini, o portato in lunghissime catene umane di nuovo nell’alveo da cui è venuto. Ogni tanto qualcuno – pulito- passa a fare la domanda che ogni romagnol* si sente rivolgere più spesso: “Hai mangiato?”. E giù pollo, torte, caffè, acqua, frutta.

L’aria che si respira è bella, e viene da rammaricarsi perché si sa che non può durare. Tutta questa bontà, tutta questa gentilezza, questa solidarietà priva di barriere di provenienza, sesso, età, ecc.

A chi non è venuto da dire: “Ma non potrebbe essere sempre così?”. Forse qualche ragazzino lo pensa possibile. Noi siamo vecchi e sappiamo che insieme al fango monocromatico se ne andrà anche questa ritrovata umanità. Per ora la assaporiamo con la segreta speranza che un giorno si diffonda a livello mondiale e sia il collante che tiene unito il proletariato contro la classe sfruttatrice. Quella che ci ha messo in questa situazione.

MG

L’emergenza di un sistema fallito

 


Al momento in cui scriviamo l’emergenza è in pieno svolgimento. Tra le province di Forlì-Cesena e Ravenna i morti sembrano essere 8, oltre a diversi dispersi. Migliaia le persone evacuate, tra cui anche nostri compagni, a causa dell’esondazione del Savio e del Montone. In ampie zone manca la corrente e non funziona la rete di telefonia mobile. Nelle zone collinari molte frazioni sono isolate per frane e smottamenti.


Impossibile per ora quantificare i danni, le immagini che giungono dai canali di informazione sono sconfortanti, i soccorritori lavorano senza sosta. Questo è il copione già visto in tante altre regioni italiane che ora colpisce il nostro territorio.

I sindaci di ogni parte politica e colore indaffarati con il cellulare in mano, ministri che sorvolano il mosaico marrone di fango e tetti, chiacchiere a volontà sui social, di gente che si cerca e si informa, e si arrabbia. Gente che non sa da dove passare per andare al lavoro, perché il padrone la fabbrica non l’ha voluta chiudere. Nemmeno davanti a questo.

Adesso la priorità è evitare altri morti e prestare soccorso. Non possiamo che invitare lavoratori e lavoratrici a non uscire per andare a lavorare, a rifiutarsi di lavorare in condizioni di insicurezza, a proteggersi a ogni costo, che il portafoglio del padrone aumenta lo stesso tutti i giorni.

Per noi, questa ennesima tragedia non può essere vista in altro modo che un fallimento di un sistema, il sistema capitalistico.

Fino a poco tempo fa a Forlì il dibattito pubblico verteva su un paio di temi principali: da un lato di come fare per rendere la città un’attrazione turistica, dall’altro dell’ennesimo mega-mercato da costruire in zona periferica. Dell’ennesima cementificazione selvaggia. Di un ristorante sushi da trecento coperti, di un nuovo McDonald’s e di chissà quante altre mostruosità fra parcheggi, appartamenti e allegati vari, una operazione che vede alleati il mega-commercio, l’edilizia, la speculazione fondiaria e le banche, nell’estremo e disperato tentativo di moltiplicare i capitali da spartire.

La natura ci ricorda quanto il capitalismo sia miope. Non vede più in là del proprio profitto.

Gli alvei dei fiumi, gli argini e i fossi del territorio sono da tanto tempo carenti di manutenzione e controlli. Di prevenzione neanche l’ombra, o quando c’è è del tutto insufficiente. “Non ci sono i soldi” ci hanno sempre ripetuto gli amministratori di ogni parte politica e colore, e il personale degli enti preposti è insufficiente. Tanto per allargare il discorso, è drammatico notare che la parte del PNRR dedicata al risanamento ambientale è una presa in giro, più o meno come l’aumento dei salari di Renzi e Meloni.

Per i banchieri, i soldi devono rendere rapidamente.
Per i costruttori è più redditizio riversare nel terreno montagne di materie prime, invece di dedicarsi al governo del bene più prezioso e insostituibile, l’ambiente naturale.
Per i gruppi commerciali l’importante è vendere.
E per i politici, al loro servizio, l’importante e fare “sistema”, per rilanciare lo sviluppo dell’economia.

Cosa c’entra in tutto questo la maggior parte della popolazione? Coloro che vivono del proprio lavoro e che non sono responsabili di questa catastrofe? Niente! Mettendo un segno su una scheda ogni tanto non decidono nulla, ma i disastri li pagano loro.

I disastri li paghiamo noi.

Tra pochi giorni, quelli necessari per il lutto di facciata, torneremo a sorbirci la retorica della maschia unità contro le avversità di una natura matrigna, del “ce la faremo”, del “volemose bene”, della “Romagna che torna a essere terra di turismo” e le varie narrazioni che puntano a farci credere di essere tutti ugualmente vittime e ovviamente nessuno responsabile.

Invece i responsabili ci sono, hanno nomi e cognomi, ma soprattutto una professione. Quella degli sfruttatori: dei lavoratori, della natura, del territorio, delle risorse.

Quello che succede qui, in Romagna, ha un legame profondissimo con quello che succede in ogni altra parte del mondo, dove gli eventi meteorologici straordinari si susseguono alimentati da un cambiamento climatico fuori controllo.

Dal fango nello scantinato di casa, alla deforestazione amazzonica, una crisi globale non può che richiedere una soluzione globale, un rovesciamento radicale di un sistema che è il diretto mandante, esecutore e becchino di questa ennesima crisi.

Il capitalismo è fallito. E questo fatto non può più essere ignorato, per quanto vogliano farcelo credere da anni, con ogni sorta di menzogna. Solo una riorganizzazione ecosocialista della società può mettere gli interessi dei molti davanti a quelli dei (soliti) pochi, una rivoluzione che metta gli esseri viventi, umani e non, e l’ambiente davanti al profitto.

Partito Comunista dei Lavoratori - sezione Romagna

È uscito il nuovo numero di Unità di Classe

 


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16 Maggio 2023

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In questo numero:


Per un'opposizione di classe e di massa. Per un partito indipendente della classe lavoratrice. Editoriale

Francia. Una grande lotta, il ruolo delle burocrazie, il tema della prospettiva - Marco Ferrando

Sindacato. Unirsi oggi per opporsi meglio domani

I movimenti ambientalisti tra criminalizzazione del dissenso e tentativi di radicalizzazione - Tecla Fumai, Antonio Casagrande

A ottant’anni dall’insurrezione del ghetto di Varsavia

Cinema. «Moretti non si fa coi se»; e chi l’ha detto? - Salvo Lo Galbo

No all’estremismo nazionalistico di Zelensky

 


Per il ritiro delle truppe russe nei confini del 23 febbraio 2022.

Per una giusta pace con la Crimea nella Federazione Russa e l'autodeterminazione e l'autonomia del Donbass

Fin dall'inizio della guerra in Ucraina noi abbiamo denunciato, come del resto hanno fatto i compagni russi del Revolyutsionnaya Rabochaya Partiya (Partito Operaio Rivoluzionario), l'aggressione imperialista russa finalizzata non a difendere la popolazione pro russa del Donbass e il suo diritto all’autodeterminazione (che noi avevamo sostenuto fin dal golpe reazionario di Piazza Maidan), ma a distruggere l’indipendenza reale dell’Ucraina, denunciata da Putin come un'invenzione antirussa di Lenin e dei “comunisti bolscevichi”, in un'impresa neozarista.


Per questo noi abbiamo sostenuto il diritto dell’Ucraina e del suo popolo a resistere, a procurarsi le armi per tale resistenza ovunque possibile, e a recuperare i territori occupati dall’esercito russo e dai suoi mercenari nazifascisti della Wagner e islamofascisti ceceni di Kadyrov, a partire dall’inizio della guerra il 23 febbraio 2022.

Nel contempo abbiamo precisato che noi eravamo contrari a ogni intervento diretto della NATO nella guerra in corso, al suo riarmo, al suo allargamento; aggiungendo che un tale intervento avrebbe trasformato la natura del conflitto, rendendolo una vera e propria guerra interimperialistica, in cui noi saremmo stati per il disfattismo bilaterale (diventando in quel quadro la questione dell'indipendenza Ucraina, da questione principale, una questione secondaria).

Nel contempo avevamo precisato che la nostra posizione non significava in nessun caso sostegno al governo ucraino e al presidente Zelensky; così come la nostra difesa dell’Iraq nel 2003 non aveva in alcun modo significato sostegno, in quel caso, al dittatore Saddam Hussein. Anzi in questo come in quel caso indicavamo che le forze rivoluzionarie locali dovevano cercare di creare le condizioni per rovesciare il regime esistente e creare, nel quadro stesso della lotta nazionale, un governo operaio e contadino, così come i giacobini-montagnardi nel 1792 avevano rovesciato il governo monarchico-girondino nel quadro della guerra e creato la repubblica democratica.

Questo anche dichiarando la nostra contrarietà alla pura ricostruzione della Ucraina nei confini internazionalmente riconosciuti del 1991, ritendo infatti valida e rispondente ai desideri della maggioranza della popolazione l’annessione alla Federazione Russa della Crimea (“regalata” alla Ucraina da Kruscev solo nel 1954) e impossibile risolvere la questione del Donbass senza un democratico referendum di autodeterminazione. In questo senso non solo prima del 24 febbraio del 2022, ma anche dopo, ci siamo contrapposti al nazionalismo ucraino.

Nell’importante viaggio a Roma del 13 maggio, il presidente ucraino Zelensky, in particolare dopo l’incontro con Francesco Bergoglio, papa dei cristiani cattolici, ha respinto un piano di pace che rispondesse al diritto dei popoli dell'Ucraina e ha rivendicato un progetto nazionalistico di riconquista dei confini del 1991.
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Zelensky era stato eletto nel 2019 come candidato di centro (borghese, ovviamente) con il voto totale degli elettori russi e russofoni e di circa metà degli ucrainofoni, contro il candidato della destra nazionalista Poroshenko, votato dall’altra metà degli ucrainofoni, maggioritariamente nell’Ucraina occidentale. Allora si era presentato come un “uomo nuovo” capace di sconfiggere la corruzione e risolvere la questione della guerra “a bassa intensità” del Donbass. Aveva fallito, nolente o volente, su entrambi i punti. Tanto che, secondo i sondaggi, la sua popolarità era molto scesa.

La popolarità di Zelensky era molto risalita per l’atteggiamento tenuto il 24 febbraio 2022. Mentre il governo americano gli offriva un areo per fuggire, lasciando Kiev alle truppe russe (altro che spinta alla guerra a oltranza!), aveva risposto: “Non ho bisogno di un taxi ma di armi”, e capeggiato la resistenza del popolo ucraino contro l’invasore. Da quel momento la sua posizione sulla questione dei confini del 1991 era stata oscillante e contradditoria: a volte aveva affermato “sarà difficile riconquistare la Crimea”, salvo, sotto pressione dei suoi ministri e consiglieri, rimangiarsi il concetto pochi giorni dopo. Oggi sembra essere definitivamente e graniticamente sulla posizione della riconquista dei confini del 1991.

Non sappiamo se è una sceneggiata dell’attore o una reale posizione immutabile. Ma questo poco importa. Noi condanniamo con fermezza tale posizione e, come abbiamo sempre affermato, se nell’ipotesi che, dopo esser riuscite a liberare il largo corridoio sul Mar Nero tra Donbass e Crimea (ipotesi francamente del tutto improbabile) le forze ucraine cercassero di impadronirsi della Crimea e delle ex repubbliche del Donbass, noi cambieremmo la nostra posizione, non sosterremmo più l’Ucraina e il suo diritto di armarsi come può.

Così noi, da leninisti e trotskisti conseguenti, continueremo a sostenere, come sempre e come sempre indifferenti a insulti e calunnie da ogni parte provengano, solo gli interessi del proletariato e dei popoli oppressi. Fermo restando che i loro veri interessi e la pace potrebbero essere difesi solo dal successo della rivoluzione socialista, in Russia, in Ucraina e nel mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Riforme istituzionali e compiti dei rivoluzionari


 “Voglio stabilità!” tuona Giorgia Meloni aprendo l’iter delle controriforme istituzionali che spazia in un largo ventaglio di misure: presidenzialismo, premierato, autonomia differenziata; tanto per cominciare.

Perentorio poi il tono dell’invito al “dialogo” alle opposizioni, mentre Renzi e Calenda garantiscono la loro disponibilità sul premierato.

Per il PCL la linea delle riforme non è solo frutto di una base genetica di una destra brutta e cattiva; costitutivamente antidemocratica. Non c’è solo questo.
In realtà Giorgia Meloni è consapevole delle contraddizioni profonde che caratterizzano gli attuali assetti politici: il primato della destra in effetti si regge su un quadro economico di grandi difficoltà che cadono non solo sulle masse proletarie ma anche su quegli stessi settori di media e, soprattutto, piccola borghesia che oggi sono la base di massa dello stesso governo postfascista ma che, domani, potrebbero cambiare orientamento.
In più un astensionismo straripante, soprattutto nel Sud, che si configura come una profonda incognita per il futuro.

A ciò si aggiungono le dinamiche internazionali, che vedono non solo un orizzonte mondiale per gli scontri tra imperialismi nuovi (Russia e Cina) e vecchi (USA, UE, Giappone) ma la stessa Unione Europea lacerata da conflitti non irrilevanti, con lo scontro tra Italia e Francia su Africa e migranti.

Meloni cerca di ricomporre attorno a sé un blocco sicuro conciliando le istanze decisioniste della grande borghesia, con il presidenzialismo, e la pancia dalle voglie materiali di piccola e media borghesia con autonomia differenziata, cuneo fiscale, flat tax e quant’altro.

La "sinistra", che già ha aperto la strada delle controriforme (si veda il ruolo di PD e 5 Stelle sulla riforma dell’articolo 5 della Costituzione, sulle leggi elettorali e altro), declina l’invito al dialogo ma non ha una credibile proposta alternativa.

In realtà le involuzioni antidemocratiche in atto testimoniano una crisi profonda dell’ordine borghese. Solo la scesa in campo del proletariato su una linea di mobilitazione propria di un programma transitorio verso il socialismo e il governo dei lavoratori può fermare la marcia verso il baratro. Il PCL ribadisce l’invito lanciato il 25 aprile a tutta la sinistra reale a un momento di riflessione comune su questi temi.

Pino Siclari

La colpa delle alluvioni in Romagna

 


Nell’esprimere piena solidarietà alle popolazioni romagnole alluvionate, siamo sicuri che la colpa non sia del nemico di turno; in questo caso le nutrie, che avrebbero scavato gallerie negli argini, come la peggiore disinformazione vorrebbe far credere, ma del cambiamento climatico e di una scriteriata gestione dell’ambiente naturale antropizzato. Vero che le nutrie, importate a suo tempo dai pellicciai e poi dagli stessi liberate quando le pellicce -non tiravano più-, scavano gallerie come i conigli selvatici, ma non vi sono prove che siano responsabili degli smottamenti. Inoltre, sui quindici casi di alluvione, più o meno grave, uno soltanto è stato causato dallo smottamento dell’argine, tutti gli altri da tracimazione al di sopra di esso.

Insomma, se piovono in venti quattr’ore 10/15 centimetri di acqua, c’è poco da fare: il rischio rimane e, vista la totale incapacità della classe politica di risolvere o perlomeno attenuare il pericolo, purtroppo c’è da aspettarsi in futuro altri disastri e sempre più spesso. Nella società mercantile industriale, lo sviluppo della scienza, della tecnologia e della tecnica si converte costantemente, per via dell’accumulazione del capitale, in uno sviluppo di forze distruttive che degradano le fonti stesse della ricchezza, la natura e gli esseri viventi.

Partito Comunista dei Lavoratori
Emilia Romagna

Il decreto del primo maggio

 


Misure padronali e balbettio sindacale

Il "decreto del primo maggio" sottolinea una volta di più lo scarto tra la determinazione del governo e il balbettio delle burocrazie sindacali.

Il governo ha esteso innanzitutto l'uso dei contratti a termine, la forma più classica di lavoro precario, esattamente come chiede Confindustria. Il Sole 24 Ore non a caso esulta.
In secondo luogo ha smantellato, come annunciato, il vecchio reddito di cittadinanza, sostituendolo con una misura che limita pesantemente la platea interessata, l'importo erogato, la durata dell'importo. Con ciò ha accolto la richiesta pressante del padronato, che vuole eliminare ogni possibile intralcio, per quanto debole, ai salari da fame, e capitalizzare a proprio vantaggio quote ancor più ampie di spesa pubblica.
In terzo luogo ha realizzato il famoso taglio del cuneo fiscale, cioè il taglio dei contributi previdenziali, presentandolo come grande sostegno ai salari. Una truffa bella e buona, per la ragione più semplice: i contributi sono messo a carico del debito pubblico (scostamento di bilancio) e della fiscalità generale, cioè sostanzialmente a carico dei salariati “beneficiari”. In compenso si chiede ai “beneficiari” di non rivendicare aumenti salariali, per i quali infatti non è previsto un euro in relazione al rinnovo dei contratti pubblici. È la ragione per cui Confindustria plaude al taglio del cuneo fiscale, e anzi lo chiede ancor più consistente. Si tratta di una misura di protezione dei profitti, gli stessi profitti in forte crescita che stanno trainando l'aumento dei prezzi e falcidiando i salari.

Vi sarebbero dunque tutte le condizioni di una forte mobilitazione. Tanto più contro un governo a guida postfascista che non ha regalato alle burocrazie neppure la finzione di una trattativa, limitandosi alla pura comunicazione delle decisioni prese.
Ma i burocrati sindacali non vanno al di là di garbatissime parole di insoddisfazione per il trattamento subito, unite alla solita preghiera a futura memoria di un proprio riconoscimento di ruolo, mentre nel merito coprono l'operazione sul cuneo fiscale che li vede allineati a Confindustria, contro ogni vero aumento dei salari a carico dei profitti. Uno scenario di pace sociale che il quadro di mobilitazioni in Europa per forti aumenti salariali – come in Gran Bretagna e persino in Germania – rende ancor impressionante.

Non solo. Questa scandalosa passività delle burocrazie sindacali di casa nostra rischia di regalare al governo Meloni uno spazio d'immagine agli occhi di molti lavoratori. “I sindacati chiacchierano, noi aumentiamo le buste paga di chi lavora, scegliete voi con chi stare”, ha dichiarato la capa del governo a reti unificate. Una manovra propagandistica tanto più insidiosa perché combinandosi col taglio del reddito di cittadinanza mira a contrapporre i salariati ai disoccupati, quindi a dividere ancor di più il blocco delle classi subalterne.

Lo ribadiamo. La lotta per una vertenza unificante del mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati, contro il padronato e il suo governo reazionario, è inseparabile dalla battaglia per un'altra direzione del movimento operaio e sindacale.

Partito Comunista dei Lavoratori