9 Agosto 2015
La vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella
sinistra europea. L'intera impostazione di Syriza si era basata su un
presupposto falso e fallimentare in partenza: quello della logica del negoziato
e del compromesso fra debitore e creditore. Ma il capitalismo reale si è
vendicato brutalmente di ogni illusione. Ancora una volta, si riconferma la
necessità vitale di un programma e di una direzione rivoluzionari per la classe
operaia greca ed internazionale.
La
vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella sinistra europea. L'accordo tra
Tsipras e creditori contro la classe operaia e la popolazione povera della
Grecia ha spiazzato le correnti riformiste e centriste della sinistra. Le prime
(Sinistra Europea) avevano assunto Tsipras a propria bandiera di rilancio
attorno al mito sempreverde di un possibile compromesso progressivo keynesiano
tra capitale e lavoro. Le seconde (la maggioranza del NPA francese) avevano
definito Syriza come “un riformismo di tipo nuovo” capace di guidare una
“alternativa democratica all'austerità” senza rottura col capitalismo. Dopo il
trauma imprevisto, le une e le altre cercano una spiegazione consolatoria. I
dirigenti riformisti che avevano cercato in Syriza la propria salvezza, spiegano
la capitolazione di Syriza come il prodotto della “insufficienza” della
mobilitazione solidale in Europa: è il modo di assolvere Syriza e cercare di
salvare il proprio investimento politico, sperando che passi in fretta la
nottata. In campo centrista e in alcune aree movimentiste proliferano le
razionalizzazioni più disparate. Ultime, quelle (1) che rimuovono di fatto la
capitolazione di Syriza nel nome dell'immaturità delle masse per la rivoluzione
e della necessaria pazienza della storia. Proprio come alcuni ambienti centristi
giustificarono negli anni '30 la tragedia spagnola, assolvendo il ruolo delle
direzioni.
In
realtà scaricare sull'immaturità delle masse il tradimento delle loro direzioni
è il peggiore servizio che si possa rendere alle masse stesse, e proprio sul
terreno essenziale della maturazione della loro coscienza politica. Forse può
essere utile a chi cerca scusanti per continuare a rimuovere dal proprio campo
di lavoro la costruzione del partito rivoluzionario, nel proprio paese e su
scala internazionale. Ma per chi cerca seriamente la via della rivoluzione il
nodo della direzione politica è strategicamente il nodo
decisivo.
Per questo è utile ricostruire alcuni tratti della
parabola di Syriza, alla luce della sua natura riformista, ripercorrendo
l'esperienza del governo Tsipras. Fuori da ogni suo abbellimento, e contro ogni
falsa mitologia “giustificativa”.
LA
RICERCA DI UNA LEGITTIMAZIONE PREVENTIVA
Syriza (quale “coalizione della sinistra radicale”)
nacque formalmente nel 2004 attorno ad un programma classicamente riformista,
ereditato dalla tradizione del Partito Comunista “dell'interno” e di
Synaspismos. Un programma che contestava le politiche di austerità e rivendicava
una riforma sociale della Grecia dentro il quadro di una riforma democratica
dell'Unione Europea.
È
significativo che l'ascesa di Syriza verso il governo, sospinta dalle lotte di
massa, abbia coinciso con lo stemperamento progressivo di questo stesso
programma in direzione di una sua riformulazione sempre più
moderata.
Il
congresso fondativo di Syriza come partito nel 2013 abbandonava la parola
d'ordine “nessun sacrificio per l'euro, prima la società” - che aveva
rappresentato il cuore della campagna elettorale del 2012 - a favore di un
“piano di ricostruzione nazionale” greca rivolto “a tutte le classi vitali della
società”. Un ostentato ecumenismo interclassista che tuttavia preservava ancora
formalmente “la sospensione del pagamento del debito sino a quando il PIL del
paese non sarà ritornato a crescere” e la rivendicazione della
“nazionalizzazione delle banche”.
Tra il congresso del 2013 e la vittoria elettorale del
gennaio del 2015, la maggioranza dirigente del partito si dedicò ad una
ulteriore ripulitura del programma. La rivendicazione della nazionalizzazione
delle banche veniva abrogata. La “sospensione del pagamento del debito” si
trasformava nella richiesta della “negoziazione del debito”. Più in generale
Tsipras apriva una autentica campagna di propria legittimazione preventiva agli
occhi delle classi dominanti, in Grecia e in
Europa.
In
Grecia Tsipras si rivolse direttamente agli ambienti della borghesia,
sviluppando in forma concentrata la propria apertura interclassista. La
Confindustria greca (SEV) fu invitata a rompere i rapporti tradizionali coi
vecchi partiti dominanti e a scegliere la prospettiva di un governo Syriza per
meglio tutelare i propri interessi e potenzialità. La proposta rivolta agli
industriali era quella di liberarsi dei costi della corruzione e di scegliere la
via della modernizzazione capitalista, a partire dal rilancio delle
esportazioni, in particolare nel settore agroalimentare: «Magari pagherete
qualche imposta in più ma avrete la certezza di una amministrazione pubblica
efficiente ed affidabile. Non ci sarà bisogno di ricorrere al sostegno dei
politici per conquistare i mercati. Li conquisterete anche all'esterno, grazie
alla vostra credibilità e al vostro valore». Questa pubblica lode
alle potenzialità di successo del capitalismo greco sul mercato mondiale, dentro
la grande stagnazione, era ed è, per usare un eufemismo, alquanto dubbia. Tanto
più a fronte della catastrofica depressione dell'economia greca negli anni della
grande crisi (-25% del PIL) e dell'ulteriore arretramento strutturale in essa
del settore industriale, già debolissimo. Ma proprio per questo l'esaltazione
propagandistica da parte di Tsipras delle future sorti del capitalismo greco
acquisiva un significato tutto politico: il gruppo dirigente di Syriza si
candidava a governare a braccetto con la borghesia greca, non contro di
essa.
Non meno significativa, in questo contesto, l'apertura
ostentata di Tsipras alla Chiesa ortodossa, componente tradizionale del blocco
dominante in Grecia. Nell'agosto 2014 il segretario di Syriza si recava in
visita al Monte Athos, repubblica monastica in Macedonia, di antichissima
tradizione (già omaggiata peraltro nel 1995 dai dirigenti del KKE stalinista).
«Quando ti trovi di fronte a questi monasteri non
importa se sei credente o no. Entri comunque in comunicazione con la
divinità», dichiarava solennemente Tsipras alle telecamere.
Non si trattava solamente di una dichiarazione pubblica di (improbabile)
conversione religiosa a fini elettorali. Si trattava anche e soprattutto di un
messaggio politico a ben precisi interessi: significava dire che il governo
Syriza avrebbe rispettato lo storico privilegio delle esenzioni fiscali per le
attività produttive dentro il Monte Athos. Infatti, quando il famigerato governo
Samaras presentò, poche settimane dopo, la legge di conferma delle esenzioni del
clero, sia i deputati di Syriza che del KKE scelsero l'astensione. Cioè la
silenziosa condivisione. Tsipras si candidava dunque a governare a braccetto
della Chiesa ortodossa, non contro i suoi
privilegi.
Parallelamente, sul piano politico, la stessa
rivendicazione di un “governo di sinistra”, assunta al congresso del 2013,
sfumava progressivamente in direzione di una prospettiva di «ampia alleanza
democratica, radicale e progressista, di forze politiche e
sociali». In particolare Tsipras apriva al centro dello
schieramento politico: «Non dobbiamo lasciare al centro, che nel nostro
caso è l'area di centrosinistra, alcuno spazio per la sua ricostruzione. La
maniera migliore per cadere nella trappola del centrosinistra è assumere un
atteggiamento di chiusura: non volere nessuno, non dialogare con nessuno,
chiudere le proprie porte... Al contrario dobbiamo instaurare alleanze in ogni
direzione» (Tsipras al CC di Syriza del giugno 2014). Allearsi
in ogni direzione significò innanzitutto incorporare direttamente all'interno di
Syriza settori provenienti dal centro politico greco. L'”apertura delle porte”
fu praticata in particolare in direzione del personale dirigente centrale e
periferico del PASOK in disarmo, desideroso di ricollocazione. Era un ulteriore
segnale di accomodamento verso quegli interessi dominanti che con tali ambienti
avevano intrattenuto lunghe relazioni di familiarità. E non a caso incontrò
forti resistenze all'interno di Syriza.
Ma
la ricerca di legittimazione preventiva si estese al campo
internazionale.
Nell'anno che ha preceduto il proprio accesso al
governo, Tsipras ha realizzato su questo terreno una strategia di relazioni a
tutto campo. Molto spregiudicata.
L'imperialismo USA ha rappresentato un primo
interlocutore d'eccezione. Non appena la parabola elettorale ascendente candidò
Syriza ad una prospettiva di governo, la diplomazia USA pensò bene di tastare il
polso al nuovo partito. Non a caso l'incaricato d'affari statunitense presenziò
in prima fila al congresso di Syriza del 2013. Tsipras ripagò l'attenzione. Nel
gennaio del 2013 alla Columbia University, nel novembre del 2013 all'Università
di Austin in Texas, il segretario di Syriza scelse la linea del pubblico elogio
dell'amministrazione americana assumendola a modello di riferimento:
«Nel suo discorso di insediamento il Presidente
Obama ha posto al centro della sua politica il sostegno della classe media e dei
più svantaggiati. C'è un orientamento tutto sommato progressista, proprio mentre
dall'altra parte dell'Atlantico dominano posizioni conservatrici... Passeggiando
per strada qui non si riscontra quel senso di depressione che purtroppo vive
attualmente il mio paese». Salutare il salvataggio statale dei banchieri e dei
capitalisti americani come “progressista” non significava solo scavalcare a
destra gli ambienti più insoddisfatti del progressismo democratico americano, ma
anche cercare di cavalcare l'interesse USA ad una politica più espansiva nella
UE (in funzione delle esportazioni americane) nella prospettiva del proprio
negoziato con la UE. Di certo significava fugare ogni dubbio sullo “spirito di
responsabilità” di un eventuale governo Syriza: «C'è qualcuno qui che
teme la sinistra greca?... Gli allarmisti vi diranno che quando il nostro
partito assumerà responsabilità di governo straccerà l'accordo di credito con
l'Unione Europea e il FMI, farà uscire il paese dall'Eurozona, danneggerà i
legami con l'Occidente civile... Questo è allarmismo della peggior specie. Il
mio partito non vuole nulla di tutto ciò...». Come tutti gli
aspiranti di governo della sinistra europea nell'intero arco del dopoguerra,
anche Tsipras versava l'obolo rassicurante della propria fedeltà
all'imperialismo USA e alle sue alleanze internazionali. Non a caso l'obiettivo
dell'uscita della Grecia dalla Nato, ancora formalmente presente nel programma
di Syriza al congresso del 2013, fu prontamente cancellato. L'”Occidente civile”
poteva dormire sonni tranquilli.
Ma
è soprattutto nella UE che la strategia della legittimazione preventiva si
dispiegò con grande intensità. Lungo tutto il 2014 il segretario di Syriza ha
sviluppato una fitta rete di relazioni politiche e diplomatiche con gli ambienti
dominanti della UE e con gli stessi ambienti confindustriali e finanziari,
finalizzate a rassicurare i suoi interlocutori circa le intenzioni e i programmi
del proprio futuro possibile governo. Tsipras si è presentato al convegno di
Cernobbio dei capitalisti e banchieri italiani. Si è presentato alla Borsa di
Londra, cuore della City. Ha chiesto udienza presso il gruppo parlamentare
liberaldemocratico europeo. Ha interloquito con l'intero stato maggiore della
socialdemocrazia continentale. Ha incontrato tutti i capi di governo degli Stati
creditori della Grecia, nessuno escluso. A tutti ha offerto rassicurazioni. A
tutti ha presentato la propria proposta centrale di compromesso col capitalismo
europeo: la proposta di ulteriore ristrutturazione del debito pubblico greco
combinata con la garanzia del pagamento del debito ai creditori. La motivazione
fu esplicitamente formulata proprio in Italia durante un'apposita conferenza
stampa a Roma: «solo riducendo il debito, i creditori saranno
sicuri che sul debito restante saranno ripagati». L'argomento non poteva
essere più chiaro. Syriza presentava la propria proposta come soluzione
vantaggiosa per il capitale finanziario: se il capitale finanziario europeo
vuole evitare di essere travolto dalla crisi greca allenti un po' la stretta del
cappio. Solo un debitore sopravvissuto sarà in grado di continuare a pagare i
propri strozzini. Parallelamente Tsipras lanciava la propria proposta di una
Conferenza europea sul debito pubblico per una soluzione continentale della
questione del debito. L'idea era quella di incunearsi nelle contraddizioni
interne al capitalismo europeo e internazionale per favorire un accordo
vantaggioso sul debito greco. Lo sguardo era rivolto in particolare ai governi
francese e italiano in funzione di un comune controbilanciamento dell'egemonia
tedesca. Non a caso Tsipras lodò pubblicamente il governo Hollande quando esso
decise di non rispettare nel 2014 il limite del 3% nel rapporto deficit/PIL,
così come lodò pubblicamente il governo Renzi, giudicando “interessanti” i suoi
interrogativi sul futuro della UE. I governi (antioperai) di due paesi
imperialisti (e creditori della Grecia) furono presentati ai lavoratori greci
come possibili alleati per una soluzione “onesta” sul debito. Del resto
«se fu condonato il 60% del debito tedesco nella
Conferenza storica di Londra del 1953, perché non si dovrebbe arrivare nel
comune interesse ad una ristrutturazione concordata del debito greco nel
2015?». Tsipras presentò questa idea non solo come
soluzione equa della crisi greca ma come leva di un cambiamento di fondo della
Unione Europea. In altri termini il segretario di Syriza pensava che il
“compromesso onorevole” sul debito greco sarebbe stato obbligato per i
creditori, quale condizione della stessa sopravvivenza dell'eurozona; e che a
sua volta quel compromesso sul debito avrebbe aperto la via alla ridefinizione
dei Trattati della UE. La via greca alla riforma sociale e democratica della UE
fu salutata da tutta la sinistra europea come la via maestra finalmente scoperta
del riformismo continentale. La candidatura di Tsipras a Presidente del
Parlamento europeo da parte di Sinistra Europea nelle elezioni del 2014 coronò
la nuova suggestione.
DAL PROGRAMMA DI SALONICCO ALLA PROVA DEL
GOVERNO
Intanto, sul versante greco, la preparazione della
scadenza decisiva delle elezioni politiche del gennaio 2015 fu accompagnata
dalla presentazione del nuovo programma elettorale di Syriza. La sua definizione
non si presentava facile. Da un lato esso doveva onorare o non contraddire le
rassicurazioni preventive di Tsipras alla borghesia greca ed internazionale
circa l'accettazione senza riserve del quadro capitalista e della UE. Dall'altro
lato doveva motivare il voto a sinistra come voto di svolta agli occhi di una
popolazione povera annientata dalle politiche criminali di austerità dei
famigerati memorandum imposti dai governi precedenti. La soluzione escogitata
per quadrare il cerchio fu quella di un programma minimo di riforme sociali e
interventi umanitari. Si trattava del cosiddetto programma di Salonicco,
presentato presso la Fiera Internazionale della città il 13 settembre 2014. Dare
corrente elettrica a 300.000 famiglie sotto la soglia della povertà e fornire
loro buoni pasto; dare una casa a 25.000 famiglie attraverso l'utilizzo di
immobili vuoti e abbandonati; ripristinare l'assistenza sanitaria gratuita per
tutti; abolire l'odiata tassa sugli immobili; ristrutturare i debiti interni
dovuti al fisco; elevare il livello minimo dell'esenzione fiscale; aumentare il
salario minimo da 430 euro a 750 euro; ripristinare la contrattazione collettiva
nel pubblico impiego. Si trattava di un programma sufficientemente minimo da non
interferire formalmente con la questione strategica dei rapporti di proprietà,
del rispetto del debito pubblico, della collocazione internazionale della
Grecia. Ma anche di un programma destinato ad apparire agli occhi dei lavoratori
e della grande massa impoverita come promessa di svolta della propria
condizione. Tsipras presentò quel programma come «l'insieme delle
misure che siamo certi di poter realizzare», «l'impegno solenne che
prendiamo di fronte al nostro popolo», la
«linea rossa invalicabile» del nuovo governo.
Nella sua visione si trattava di un programma realmente compatibile col
compromesso onorevole col capitale . Nella visione del popolo si trattava della
speranza finalmente offerta dopo una stagione di drammatiche
privazioni.
La
realtà spazzò via rapidamente l'illusione di
entrambi.
Le
elezioni politiche del 25 gennaio 2015 portarono Tsipras al governo. L'enorme
polarizzazione a sinistra, combinata col crollo dei vecchi partiti borghesi,
misurava la domanda di svolta. Il comizio notturno di Tsipras in una piazza
Syntagma strapiena e festante, salutava il trionfo con parole impegnative:
«Oggi è un giorno storico per il popolo greco. La
tirannia dei memorandum è finita. La Troika è fuori dalla Grecia. Da oggi il
popolo greco è libero di decidere del proprio destino. È una svolta per la
Grecia e per l'Europa». L'intera sinistra europea applaudì incantata la
solennità dell'annuncio, leggendovi l'occasione di un proprio riscatto
continentale.
Ma
la retorica della vittoria lasciò subito il posto a scelte politiche
imbarazzanti.
Il
26 gennaio Tsipras annunciava un governo di coalizione col partito di destra
xenofobo e omofobo Greci Indipendenti (ANEL). Poche settimane dopo proponeva e
designava come nuovo Presidente della Repubblica un dirigente Prokopis
Paulopoulos, della destra di Nuova Democrazia e già ministro degli interni. Si
trattava dello stesso ministro degli interni della repressione di piazza della
gioventù greca (2008), la stessa gioventù che aveva accompagnato Syriza al
governo. Queste scelte non erano affatto imposte dai numeri parlamentari.
Neppure l'alleanza di governo con la destra xenofoba. Sull'onda dello
straordinario successo Syriza avrebbe potuto mettere alle strette il KKE,
sfidandolo pubblicamente a un governo comune su un programma di rottura
anticapitalista. Avrebbe persino potuto formare un governo di minoranza in
Parlamento, mettendo il Parlamento e ogni deputato di fronte alle proprie
responsabilità agli occhi dei lavoratori e del popolo. Soprattutto, e in ogni
caso, avrebbe potuto organizzare nella società e nei luoghi di lavoro la grande
forza popolare che l'aveva condotto al potere, facendone la propria potente base
d'appoggio contro la resistenza della borghesia greca e l'apparato dello Stato.
Ma nulla era più lontano dalla logica di Syriza che un governo dei lavoratori
greci al servizio di una rivoluzione sociale.
Proprio le prime scelte compiute fotografavano infatti
la prospettiva opposta. L'alleanza con ANEL (già negoziata dietro le quinte
prima del voto e per questo immediatamente proclamata dopo il voto) non era
semplicemente un atto di contraddizione plateale con un programma semplicemente
democratico. Né solo l'annullamento di ogni confine o sembianza classista del
governo, a favore di “un governo della nazione” (ciò che consentiva ai peggiori
populismi reazionari di Europa di inquinare con la propria propaganda sovranista
la vittoria di sinistra del 25 gennaio). Quell'alleanza era anche e soprattutto
un atto di collaborazione con la borghesia greca. Fare ministro Kammenos, già
ministro della marina mercantile, significava non-belligeranza verso gli
armatori, la spina dorsale del capitalismo greco. Fare Kammenos ministro della
difesa significava promettere collaborazione alle gerarchie militari, di cui
ANEL è tradizionalmente protettore. Perciò stesso significava onorare l'impegno
di fedeltà alla Nato. Questa alleanza avrà un costo sociale nei mesi successivi:
50 milioni spesi per acquistare aerei Lockheed, 500 milioni spesi per
l'ammodernamento dell'Esercito, in piena crisi sociale e
umanitaria.
IL
PRIMO ACCORDO CON I CREDITORI. LA CADUTA DELLE
ILLUSIONI
Ma
è sul terreno centrale della politica economica e sociale che le promesse della
vittoria evaporarono ben presto, una dopo l'altra.
Tsipras e Varoufakis si sedettero al tavolo dei
creditori col bagaglio delle promesse elettorali e del “mandato popolare”.
L'idea era quella di un negoziato con i governi creditori per un accordo
politico: ristrutturazione del debito contro garanzia del suo pagamento. La
prima ristrutturazione del debito (2012) aveva avuto come interlocutori le
banche tedesche e francesi, grandi creditrici della Grecia. I famosi “aiuti”
alla Grecia erano finiti nei loro portafogli, in cambio di sacrifici umilianti.
Ma ora i principali creditori della Grecia erano gli Stati (Germania, Francia,
Italia) cui le rispettive banche avevano per tempo ceduto i propri titoli greci
(facendoci un ulteriore affare). Quindi i primi interlocutori del governo
Syriza/ANEL erano i governi dei principali paesi capitalisti del continente. Se
il negoziato è politico con interlocutori politici, lo spazio di accordo non è
forse più ampio? Che interesse politico avrebbero i governi creditori a rompere
con la Grecia e favorire un Grexit, col relativo rischio di una disgregazione
dell'eurozona? Gli USA e la stessa Cina non premono forse a favore di un
accordo? Del resto, i paesi debitori del Sud Europa, non avrebbero forse un
proprio interesse a controbilanciare al tavolo negoziale le rigidità della
Germania e del blocco nordico, a favore delle ragioni della Grecia? Così
ragionava e sperava il gruppo dirigente di Syriza, e tutta Sinistra Europea a
suo rimorchio. I misurati segnali diplomatici verso la Russia di Putin da parte
di Tsipras portavano indirettamente sul tavolo negoziale un argomento
geopolitico a favore dell'intesa europea. Nel frattempo il ministro delle
finanze Varoufakis condivideva l'auspicato negoziato politico con la spiegazione
tecnica di una possibile rifondazione dell'eurozona. La sua “Modesta proposta
per superare la crisi dell'euro” - elaborata assieme a Stuart Holland e James
Galbraith - propone che i debiti sovrani vengano garantiti sino al 60% del PIL
di ciascun paese attraverso una “riserva federale” europea, impiegando i fondi
così ottenuti per finanziare un programma di investimenti. Parallelamente, il
debito greco di 330 miliardi dovrebbe essere ridotto di 100 miliardi circa (dal
175% al 120% del PIL), diluendolo con titoli a lunghissima scadenza o
rimborsabili solo con una quota della “crescita”. Con l'innocenza cattedratica
di puntiglioso economista, Varoufakis presentò questa proposta ai vertici
negoziali, intrattenendo a lungo i suoi colleghi europei con eruditi (e
snervanti) argomenti...
Ma
il capitalismo reale si è vendicato brutalmente del capitalismo immaginario
coltivato dai riformisti. I calcoli politici e i ragionamenti intellettuali non
hanno trovato alcuno spazio al tavolo dei creditori . Al contrario, la realtà ne
ha rovesciato gli stessi presupposti. Da ogni
versante.
In
primo luogo, la natura politica del negoziato chiamava in causa interessi
contraddittori e compositi. Interessi economici: perché gli Stati creditori non
avevano alcun interesse ad una ristrutturazione del debito greco a detrimento
delle proprie casse, tanto più a fronte di opinioni pubbliche interclassiste
aizzate dalla demagogia reazionaria populista contro “i greci nullafacenti e
spendaccioni”. Interessi politici: perché gli Stati creditori non avevano alcun
interesse a favorire un successo di immagine di Syriza che potesse trascinare la
volata di Podemos in Spagna (segnata da un volume di debito pubblico enormemente
più elevato) e processi di polarizzazione politica a sinistra in altri paesi.
Certo esistevano ed esistono contraddizioni indubbie, politiche ed economiche,
tra i capitalismi creditori della Grecia. Ma l'ingenua illusione che la
composizione di quelle contraddizioni potesse tradursi in un favore alla Grecia
era priva di fondamento. La Germania, dominus europeo e principale creditore, ha
tenuto la barra dell'intransigenza negoziale, sino a legittimare alla fine la
possibilità di una Grexit. Ciò che per la prima volta ha spalancato la porta di
una possibile disgregazione della UE. La Francia, cofondatrice della UE, si è
spesa in senso opposto, appoggiata dall'Italia, sia a difesa dell'Unione, sia a
difesa del proprio spazio negoziale nell'Unione sul terreno delle proprie
politiche di bilancio. Ma il compromesso finale tra Germania, Francia, Italia -
i tre grandi paesi creditori - ha presentato il conto proprio alla Grecia.
L'Unione Europea degli Stati imperialisti strozzini è stata (al momento)
“salvata” grazie ad un cappio più stretto al collo del paese debitore. Già
saccheggiato e affamato. La Merkel ha portato al Bundestag il trofeo politico
dello strangolamento del governo greco, col plauso della SPD, a tutela del
“rigore”. Hollande e Renzi hanno vantato a proprio merito la permanenza della
Grecia nella UE grazie alla continuità garantita della stretta usuraia contro la
Grecia. Il ballo dell'ipocrisia dei vincitori ha chiarito una volta di più la
vera natura dell'Unione Europea. Incompatibile con ogni riforma
sociale.
Più in generale, l'intera impostazione di Syriza si
era basata su un presupposto falso: quello di un “equo negoziato” tra debitore e
creditore. La logica del negoziato con i creditori espone per definizione il
paese debitore al prezzo delle inevitabili contropartite. Tanto più in presenza
di rapporti di forza obiettivamente impari. Ogni ristrutturazione del debito (la
sua riduzione, o l'allungamento dei tempi di pagamento, o l'abbassamento degli
interessi) va “pagata” con garanzie ai creditori. E i creditori chiedono come
pegno ulteriori sacrifici del debitore. Maggiori sono le richieste di
ristrutturazione, maggiori sono i sacrifici richiesti al debitore. Questa è la
logica usuraia del capitalismo reale. Non ne esiste un'altra . Questa verità è
stata rivelata nel caso greco una volta di più dal ruolo svolto dal FMI al
tavolo negoziale. Il FMI ha ripetutamente insistito per una ristrutturazione del
debito greco, anche in contrasto col ministro Schäuble, in ragione della sua
obiettiva “insostenibilità”. Molte voci progressiste in Europa, e in Grecia lo
stesso Tsipras, hanno più volte lodato questa disponibilità del FMI
contrapponendo la sua “lungimiranza” alla rigidità “ottusa” dei creditori
europei. Con ciò trascuravano uno spiacevole dettaglio: lo stesso FMI che
proponeva la ristrutturazione del debito greco insisteva per combinarla con
contropartite più rigorose da imporre alla Grecia. Lo scopo del FMI non era la
beneficenza alla Grecia ma la certezza del pagamento del suo debito ai propri
azionisti finanziari. Lo scopo più prosaico della Lagarde era quello di essere
riconfermata alla presidenza del FMI dai suoi azionisti appositamente tutelati.
Non a caso fu proprio il FMI, a fine giugno 2015, a far saltare un primo accordo
ufficiosamente siglato tra Grecia e creditori europei, attraverso il rilancio di
ulteriori condizioni ultimative al governo ellenico. Aprendo la via ad una
conclusione negoziale ancor più vessatoria per il popolo greco. E senza
neppure... ristrutturazione del debito.
La
verità è che l'intero negoziato tra il primo governo Tsipras e i creditori si è
svolto sul terreno imposto dai creditori, non certo sul programma di Syriza. È
un aspetto cruciale. Coloro che anche a sinistra hanno storto il naso di fronte
all'esito del negoziato, magari imputando a Tsipras un eccesso finale di
arrendevolezza, non colgono che il piano stesso del negoziato era inclinato
verso quell'esito. Il famoso programma di Salonicco, quello “realistico”, quello
delle misure “certe e urgenti” a favore del popolo, quello delle “linea rossa
invalicabile” promessa a piazza Syntagma, è stata infatti la prima vittima
sacrificale del negoziato con i creditori. Non l'esito finale, ma la premessa
iniziale del negoziato. Il 20 febbraio, a meno di un mese dalla grande vittoria
del 25 gennaio, il primo accordo tra governo greco e creditori spazzava via in
un solo colpo l'intero programma delle riforme sociali promesse. L'accordo, che
estendeva di sei mesi l'assistenza finanziaria della Grecia da parte dei
creditori, sanciva nero su bianco la prima capitolazione di Tsipras. Il ministro
Varoufakis così formalizzava per parte greca i termini dell'accordo in una
lettera a Dijsselbloem: «Lo scopo della richiesta di proroga di sei mesi
della durata dell'accordo ha come obiettivo: a) accettare i termini finanziari e
amministrativi la cui attuazione, in collaborazione con le istituzioni,
stabilizzerà la posizione fiscale delle Grecia, permetterà di raggiungere
adeguati avanzi di bilancio primario, la stabilità del debito... b) garantire,
in collaborazione con i nostri partner europei e internazionali, che le nuove
misure siano integralmente coperte, mentre ci asterremo da azioni unilaterali
che potrebbero pregiudicare gli obiettivi di bilancio... c) consentire alla BCE
di reintrodurre l'esenzione in conformità ai suoi regolamenti... e) iniziare a
lavorare con i team tecnici circa un nuovo contratto per la ripresa e la
crescita tra Grecia, Europa, FMI... f) concordare circa la vigilanza di UE, BCE
e - con lo stesso spirito - del FMI per la durata dell'estensione
dell'accordo... g) discutere il modo di attuare la decisione dell'Eurogruppo del
novembre del 2012...». Il dato è inequivocabile: il 20 febbraio lo stesso
governo greco che aveva giurato “mai più la Troika” firmava la propria
subordinazione alla Troika . La rinuncia preventiva ad “azioni unilaterali” non
concordate annullava ogni spazio di manovra indipendente. L'obiettivo degli
“adeguati avanzi di bilancio primario” rispettava la continuità della logica
recessiva. Il richiamo alle “decisioni dell'Eurogruppo del 2012” riprendeva
persino formalmente la continuità del vecchio memorandum. Quello contro cui
Tsipras aveva vinto le elezioni. Non a caso il quotidiano di Confindustria in
Italia titolava “Per Syriza brusco risveglio dal sogno: il confronto tra le
promesse elettorali e l'accordo approvato è impietoso” (25 febbraio). Era la
verità. Scompariva l'aumento del salario minimo, lo stop alle privatizzazioni,
il ripristino della tredicesima sulle pensioni, l'aumento della soglia di
esenzione fiscale... Scompariva a maggior ragione ogni vagheggiamento di
Conferenze europee sul debito. Ricompariva invece in tutta la sua portata la
logica intatta dell'austerità. L'esatto contrario di quanto gli esimi economisti
Varoufakis e Galbraith avevano teorizzato. Dato questo piede di partenza, era
possibile pensare dopo sei mesi un altro sbocco?
LE
LEGGI DEL CAPITALE
In
realtà, durante l'intero arco dei sei mesi successivi, il piano inclinato già
imboccato fu ulteriormente piegato dalla logica ferrea delle leggi materiali del
capitale. L'estenuante braccio di ferro tra Grecia e creditori circa
l'applicazione dell'accordo del 20 febbraio non è solo quello formale che si è
svolto nelle stanze di Bruxelles o di Strasburgo, tra creditori strozzini che
massimizzavano le proprie richieste e un governo greco che cercava di
minimizzare le implicazioni pratiche di ciò che aveva firmato per salvaguardare
la propria base di consenso (e l'unità di Syriza). È avvenuto ben altro. I
creditori e la borghesia greca hanno usato a proprio vantaggio tutte le leve di
pressione del capitalismo reale, che il governo Syriza aveva lasciato intatte
nelle loro mani. I capitalisti greci, a partire dagli armatori e dai grandi
costruttori, hanno praticato la fuga dalle banche al ritmo di 300 milioni al
giorno. Si trattava degli stessi armatori cui l'articolo 96 della Costituzione
greca garantisce l'esenzione fiscale sui profitti realizzati all'estero. Nel
solo mese successivo alla vittoria elettorale di Syriza i depositi delle banche
sono scesi di oltre il 10%, da 164 a 147 miliardi. Mentre nello stesso periodo
le prime quattro banche greche (National Bank of Greece, Piraeus, Alpha e
Eurobank) hanno lasciato sul terreno il 40% della loro capitalizzazione (11
miliardi). Non era che l'inizio. La crisi bancaria portava alle stelle il tasso
d'interesse sui titoli di stato della Grecia aggravando il dissesto finanziario
del paese. La nuova caduta recessiva dell'economia operava nella stessa
direzione. Le banche greche finivano sempre più sotto dipendenza della BCE e
della sua assistenza straordinaria (ELA). Ma la concessione dell'assistenza era
a sua volta vincolata alla tenuta patrimoniale delle banche assistite, chiamate
a mostrare la propria solvibilità, nel momento stesso in cui le loro azioni
crollavano in borsa per effetto della crisi. Il governo operava il sequestro
delle disponibilità finanziarie degli enti locali per tamponare il dissesto. Ma
senza esito. Mentre la continuità rispettosa del pagamento del debito ai
creditori strozzini, ad ogni scadenza comandata, contribuiva a svuotare le casse
dello Stato. C'era un solo modo di rompere l'assedio: adottare misure
anticapitaliste. Tanto drastiche quanto drastica era la situazione:
nazionalizzare le banche per bloccare la fuga dei capitalisti e garantire i
risparmi popolari; espropriare gli armatori e le loro fortune; cancellare il
debito pubblico verso la Troika; riversare sugli strozzini e sulla borghesia
greca i costi della crisi. Una politica rivoluzionaria avrebbe potuto
organizzare e mobilitare le grandi energie del popolo greco e favorire la
mobilitazione in Europa. “Fare come la Grecia” avrebbe potuto diventare la
bandiera di riferimento di milioni di sfruttati contro i propri capitalisti e i
propri banchieri in tutto il vecchio continente, rompendo immaginari populisti e
nazionalisti, e ricostruendo una frontiera internazionale classista. Ma
l'impostazione generale di Syriza si fondava sulla esclusione pregiudiziale di
questa politica anticapitalista. La bussola restava, contro ogni evidenza, il
“compromesso onorevole” col capitalismo greco e col capitalismo europeo. Nel
momento stesso in cui il capitalismo aggrediva il popolo greco e destabilizzava
lo stesso governo della Grecia.
LA
CAPITOLAZIONE DI TSIPRAS
Nei mesi di giugno e luglio 2015 la morsa dei
creditori si è stretta al collo di un paese assediato. Ma non arreso. Il
referendum del 6 luglio resta una pagina importante di resistenza popolare al
ricatto capitalista. Per Tsipras il ricorso referendario fu un atto contrattuale
di replica al siluramento all'ultimo secondo di un accordo già virtualmente
concluso a fine giugno con i creditori. E serviva a coprirsi a sinistra per
liberare la via al recupero sostanziale e conclusivo dell'accordo raggiunto. Ma
per i lavoratori, per i giovani, per la popolazione povera di Grecia, l'”Oxi” ai
creditori era innanzitutto la riconferma di una volontà di svolta, di rifiuto
della rapina e del ricatto. Il valore del 62% di No ai creditori, plebiscitario
nelle città e tra i giovani, era tanto più rilevante a fronte di quanto accaduto
nella settimana del referendum: il rifiuto della BCE di estendere l'assistenza
alle banche greche; la chiusura delle banche; le restrizioni indotte alla
riscossione di prelievi e pensioni; una campagna ossessiva di tutta la stampa
borghese in Grecia e in Europa a sostegno del Sì e di demonizzazione del No tesa
a produrre il panico e la resa. Il No era dunque un atto di ribellione di massa
a tutto questo. Era di fatto una nuova e ultima prova di appello a Syriza e a
Tsipras. La piazza Syntagma del 13 luglio, la piazza più affollata della storia
greca del dopoguerra, misurava la reale possibilità di trasformare l'entusiasmo
orgoglioso di un popolo in forza organizzata e leva di rottura anticapitalista.
La scelta di Tsipras fu opposta: la capitolazione ai creditori. Il licenziamento
di Varoufakis, la convocazione di una nuova maggioranza parlamentare di
emergenza con i vecchi screditati partiti del memorandum, la lacerazione
verticale dello stesso partito di Syriza, il varo di un nuovo governo amputato
dei ministri più scomodi, offerto come garanzia ai
creditori.
Di
certo i creditori non hanno premiato tanta disponibilità. Al contrario. Tsipras
aveva promesso “un accordo migliore” di quello respinto dal referendum. Invece
al tavolo cui ha scelto di sedere ha dovuto pagare un prezzo assai più salato. E
soprattutto l'ha pagato la popolazione povera di Grecia. Oggetto non solo di una
nuova aggressione sociale, ma di una punizione politica: la punizione della
ribellione del No, quale ammonimento preventivo ai lavoratori e ai popoli degli
altri paesi.
Se
l'accordo del 20 febbraio 2015 aveva sancito il ripristino della subordinazione
alla Troika, l'accordo di sei mesi dopo (13 luglio) recava il prezzo sociale di
quella subordinazione. Un prezzo terribile e umiliante. Innalzamento dell'età
pensionabile; taglio dell'85% dei sussidi alle pensioni minime; aumento dell'IVA
su beni alimentari e di prima necessità; allargamento delle privatizzazioni;
nuova demolizione della contrattazione collettiva; nuovo incremento dell'avanzo
primario nelle politiche di bilancio; infine il pignoramento dei beni pubblici
della Grecia quale garanzia di ultima istanza alla Troika, e sotto la vigilanza
della Troika. Il tutto in cambio della promessa di 85 miliardi di “aiuti” che
serviranno unicamente a due scopi: consentire alla Grecia di continuare a pagare
agli strozzini un debito pubblico ulteriormente accresciuto, dentro una rincorsa
senza fine; ricapitalizzare le banche greche, ossia riempire i buchi provocati
nei loro patrimoni e bilanci dalla fuga dei capitalisti greci (naturalmente coi
soldi presi dalle tasche dei lavoratori europei). Un accordo, dunque, contro i
lavoratori greci e contro i lavoratori europei.
Ma
anche un accordo politicamente disastroso su scala
continentale.
Le
borghesie di tutta Europa presentano la capitolazione di Tsipras come la prova
provata dell'impossibilità di ogni resistenza alle leggi superiori del mercato:
“se persino Tsipras si è arreso”, la resa non ha alternative. Parallelamente,
l'accordo tra Tsipras e creditori è cibo prezioso per la demagogia reazionaria
del populismo nazionalista: l'immagine della “Germania che umilia la Grecia”, e
della “sinistra greca che regala la Grecia alla Germania” indebolisce ogni
demarcazione classista a vantaggio della demarcazione sovranista. A beneficio di
Alba Dorata, di Le Pen, della Lega e del M5S, tutti saliti in groppa, in forme
diverse, alla capitolazione del governo greco: l'“alternativa vera siamo noi.
L'unica alternativa è la Nazione e la Sua Moneta”.
IL
BILANCIO STORICO DI UN FALLIMENTO RIFORMISTA
La
vicenda greca è tutt'altro che chiusa. La natura stessa di un accordo
economicamente insostenibile, assieme alle accresciute contraddizioni nella UE
che l'intera vicenda ha trascinato con sé, aprono prospettive di instabilità.
Nella stessa Grecia lo scenario politico è in movimento, a partire dalla vicenda
interna di Syriza, con la possibilità di nuove crisi politiche e cambi di
scenario. L'immagine pubblica di Tsipras sembra reggere, nonostante il trauma
dell'accordo, in assenza di alternative credibili. Ma alla sua sinistra possono
svilupparsi nuove ricomposizioni. E le stesse masse oggi provate da una
estenuante prova di forza e dagli effetti della delusione, potranno prendere
nuovamente parola, riaprendo dal basso nuove
prospettive.
E
tuttavia un ciclo si è chiuso. I primi sei mesi del governo Syriza configurano
un'esperienza compiuta, di inestimabile valore politico. Nell'Europa capitalista
non è disponibile uno spazio storico riformista. L'alternativa reale è tra
rivoluzione sociale o regressione storica. Il rifiuto di una prospettiva
rivoluzionaria trascina la capitolazione alle controriforme: questa è la lezione
di fondo dell'esperienza del primo governo Tsipras. La parabola di Syriza dal
2012 al 2015 (moderazione progressiva del programma riformista originario e
ricerca di legittimazione interna e internazionale presso le classi dominanti;
accesso al governo sulla base di un programma riformista minimo; primo accordo
coi creditori e conseguente accantonamento del programma riformista; secondo
accordo coi creditori sulla base di un programma di drastiche controriforme
sociali) è la metafora concentrata nel tempo di questa
verità.
Colpisce, a bilancio, l'insostenibile leggerezza del
programma riformista di Syriza e dei suoi riferimenti culturali e storici. Il
libro “La sfida di Atene” di Dimitri Deliolanes riporta le lodi di Tsipras
all'esperienza del primo governo della sinistra greca a guida PASOK, nel 1981,
attorno alla figura di Andreas Papandreu. Tsipras sembra assumere
quell'esperienza come riferimento esemplare per Syriza, in contrapposizione al
successivo tradimento del PASOK riformista da parte del liberista Simitis.
Ricorda la redistribuzione della ricchezza, l'estensione della previdenza
pubblica, l'ampliamento del sistema sanitario, l'allargamento delle libertà
democratiche. Avrebbe potuto ricordare anche alcune nazionalizzazioni
emblematiche come quella della Piraiki Patraiki, la più grande industria tessile
del Balcani. Ma il piccolo particolare è che quell'esperienza di riformismo
borghese maturò in un contesto storico assai diverso dall'attuale. Era un
contesto ancora segnato dalla presenza internazionale dell'Unione Sovietica. E
la prima preoccupazione dell'imperialismo americano e della borghesia greca era
evitare che la caduta del regime fascista dei colonnelli greci (1967/1973), e
poi del governo parlamentare della destra di Karamanlis, potesse aprire la via
di una dinamica rivoluzionaria anticapitalista. Il ruolo del PASOK fu
esattamente quello di incanalare in un alveo istituzionale controllato la
pressione di massa della classe operaia greca. Le riforme sociali erano figlie
di questa operazione. Inoltre, il contesto economico capitalistico era molto
diverso. Nonostante l'arresto del boom postbellico alla metà degli anni '70,
l'economia europea ancora beneficiava dell'effetto inerziale della stagione
precedente con relativi margini di grasso. Quelli che avevano alimentato la
crescita della Spagna capitalista del postfranchismo sotto la direzione di
Gonzales. Quelli che ancora beneficiavano la Grecia - entrata nel 1980 nella
Comunità Europea - con fondi cospicui riservati al welfare e all'agricoltura. È
possibile fondare su questo richiamo storico l'attualità di un programma
riformista oggi?
Ma
l'argomento che meglio esemplifica l'illusione riformista di Syriza sta
nell'assunzione della Conferenza europea di Londra del 1953, col relativo taglio
del debito tedesco, quale paradigma di riferimento per una analoga conferenza
europea sul debito greco e continentale.
È
vero: la Germania ha conosciuto nel secolo scorso ripetute ristrutturazioni del
proprio debito. Ma solo in virtù dell'esistenza dell'Unione
Sovietica.
La
prima ristrutturazione del debito fu dopo la prima guerra mondiale. I Trattati
di Versailles del 1919 umiliarono la Germania imponendole gravosi pagamenti
delle riparazioni di guerra. Ma la paura del contagio della rivoluzione
bolscevica - innanzitutto in Germania - indusse le potenze vincitrici e
creditrici a ripetuti condoni. Prima col piano Dawes del 1924, poi con il piano
Young del 1929, si provvide a ristrutturare il debito delle riparazioni, che si
convenne sarebbero state pagate in 59 rate annuali, di cui l'ultima con scadenza
nel 1988. Il pagamento delle riparazioni fu ancora sospeso nel 1931, a ridosso
della grande crisi capitalistica mondiale che si abbatté sulla stessa Germania,
in attesa di un nuovo accordo. L'avvento di Hitler cambiò naturalmente il
quadro.
Un
nuovo accordo di ristrutturazione del debito tedesco subentrò successivamente
alla seconda guerra. La Germania era stata divisa dalle truppe di occupazione,
tra la parte occidentale e la parte orientale sotto controllo russo. La
Conferenza di Londra, con la riduzione del debito tedesco del 60%, intervenne in
questo contesto. Salvare la Germania capitalista non era solo una scelta
economica, ma anche e soprattutto una scelta politica: si trattava di investire
nella cortina di ferro antisovietica in funzione delle esigenze della guerra
fredda. Il gigantesco piano Marshall in Europa, l'investimento nel piano da
parte degli USA del 4% del PIL americano, era figlio di questa operazione
strategica. La potente espansione produttiva dell'Occidente capitalista del
dopoguerra forniva una sicura base materiale alla riduzione del debito tedesco.
Ma ancora una volta era la presenza dell'URSS, quale eredità seppur trasfigurata
della rivoluzione d'Ottobre, a determinare un intervento d'eccezione a favore
della Germania. Come è possibile trasferire questo esempio storico dentro un
quadro politico mondiale drasticamente mutato, e per di più sullo sfondo della
più grande crisi del capitalismo europeo?
Nulla chiarisce meglio l'abbaglio del riformismo di
Tsipras quanto gli esempi storici di cui si nutre. La nostalgia dei trent'anni
gloriosi che non torneranno più.
La
sconfitta di Tsipras è la sconfitta della sinistra europea. Essa si era affidata
alla locomotiva greca assumendola a proprio faro e guida. Ne aveva assunto la
cultura e i miti (la Conferenza europea sul debito), amplificandoli su scala
continentale. Attorno ad essa aveva provato a rilanciare le proprie fortune
politiche nel nome di un nuovo possibile compromesso riformatore tra capitale e
lavoro in Europa. Quell'investimento si è trasformato in un boomerang. Il fatto
che larga parte dei gruppi dirigenti delle sinistre riformiste nei diversi paesi
abbiano approvato o giustificato l'accordo tra Tsipras e creditori, affermando
che “al suo posto” avrebbero fatto altrettanto (da Iglesias di Podemos a Laurent
del PCF, da Garzon di Izquierda Unida a Vendola e Ferrero in Italia), misura
sicuramente la fedeltà al marchio del proprio investimento. Ma rappresenta anche
una confessione in piena regola della sottomissione del riformismo alla società
borghese. Quando il conflitto sociale precipita, quando lo scontro tra capitale
e lavoro annulla ogni margine di mediazione, rinvio, evasione letteraria, quando
insomma s'impone una drammatica scelta di campo, i gruppi dirigenti riformisti
scelgono il capitale contro il lavoro, in cambio, ove possibile, di incarichi
ministeriali. Anche al prezzo di sottoscrivere le misure di austerità,
antioperaie e antipopolari, che i loro programmi formalmente negano e
combattono. Da questo punto di vista la collocazione internazionale della
sinistra europea sulla vicenda greca è la riproduzione allargata delle proprie
esperienze di governo in patria. A partire, più che in ogni altro caso, dalla
sinistra riformista italiana.
L'AUTOEPITAFFIO DI
VAROUFAKIS
Yanis Varoufakis, quando era ancora ministro, scrisse
un pamphlet di involontario umorismo, raccontando le contraddizioni esistenziali
della propria esperienza ministeriale: «... Indirizzandoci a
platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi
speculativi, l'idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone
di destra con le quali condividiamo un semplice interesse:... porre fine al
circolo vizioso tra austerità e crisi... Probabilmente non farò a tempo a vedere
adottato un programma più radicale... Io so di correre il rischio di alleviare
la tristezza dell'abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel
corso della mia esistenza, indulgendo nel sentimento di essere diventato
gradevole agli occhi degli appartenenti ai circoli della buona società...
Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per
stabilizzare l'Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati... Se
dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale)...
dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il
mondo ma riuscirono a migliorare la propria situazione personale... Il trucco è
evitare il massimalismo rivoluzionario che alla fine aiuta i neoliberisti ad
aggirare ogni opposizione... ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione
del capitalismo come intrinsecamente malvagio, mentre cerchiamo di salvarlo, per
motivi strategici, da se stesso...».
Nessuna confessione poteva riassumere in termini più
efficaci la disperazione di un ministro riformista: la sua rassegnazione al
capitalismo “malvagio”, da “salvare” e “stabilizzare”, in cambio della pretesa
purezza della propria “visione” e coscienza individuale. Non sappiamo della
coscienza di Varoufakis. Sappiamo invece che la rivendicata salvazione del
capitalismo, contro la rivoluzione, condanna gli sfruttati a un futuro di
miseria. Senza neppure assicurare al ministro esuberante... la cooptazione
consolatoria nel potere. Varoufakis potrà vendicarsi del proprio fallimento con
qualche libro e qualche fortuna editoriale. La classe operaia greca ed europea
ha sicuramente bisogno di un altro programma e di un'altra direzione. Un
programma e una direzione rivoluzionari.
(1) http://jesopazzo.org/index.php/blog/128-cosa-ci-insegna-la-grecia