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La lezione storica di un fallimento riformista - articolo di Marco Ferrando

9 Agosto 2015

La vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella sinistra europea. L'intera impostazione di Syriza si era basata su un presupposto falso e fallimentare in partenza: quello della logica del negoziato e del compromesso fra debitore e creditore. Ma il capitalismo reale si è vendicato brutalmente di ogni illusione. Ancora una volta, si riconferma la necessità vitale di un programma e di una direzione rivoluzionari per la classe operaia greca ed internazionale.

La vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella sinistra europea. L'accordo tra Tsipras e creditori contro la classe operaia e la popolazione povera della Grecia ha spiazzato le correnti riformiste e centriste della sinistra. Le prime (Sinistra Europea) avevano assunto Tsipras a propria bandiera di rilancio attorno al mito sempreverde di un possibile compromesso progressivo keynesiano tra capitale e lavoro. Le seconde (la maggioranza del NPA francese) avevano definito Syriza come “un riformismo di tipo nuovo” capace di guidare una “alternativa democratica all'austerità” senza rottura col capitalismo. Dopo il trauma imprevisto, le une e le altre cercano una spiegazione consolatoria. I dirigenti riformisti che avevano cercato in Syriza la propria salvezza, spiegano la capitolazione di Syriza come il prodotto della “insufficienza” della mobilitazione solidale in Europa: è il modo di assolvere Syriza e cercare di salvare il proprio investimento politico, sperando che passi in fretta la nottata. In campo centrista e in alcune aree movimentiste proliferano le razionalizzazioni più disparate. Ultime, quelle (1) che rimuovono di fatto la capitolazione di Syriza nel nome dell'immaturità delle masse per la rivoluzione e della necessaria pazienza della storia. Proprio come alcuni ambienti centristi giustificarono negli anni '30 la tragedia spagnola, assolvendo il ruolo delle direzioni.



In realtà scaricare sull'immaturità delle masse il tradimento delle loro direzioni è il peggiore servizio che si possa rendere alle masse stesse, e proprio sul terreno essenziale della maturazione della loro coscienza politica. Forse può essere utile a chi cerca scusanti per continuare a rimuovere dal proprio campo di lavoro la costruzione del partito rivoluzionario, nel proprio paese e su scala internazionale. Ma per chi cerca seriamente la via della rivoluzione il nodo della direzione politica è strategicamente il nodo decisivo.



Per questo è utile ricostruire alcuni tratti della parabola di Syriza, alla luce della sua natura riformista, ripercorrendo l'esperienza del governo Tsipras. Fuori da ogni suo abbellimento, e contro ogni falsa mitologia “giustificativa”.






LA RICERCA DI UNA LEGITTIMAZIONE PREVENTIVA



Syriza (quale “coalizione della sinistra radicale”) nacque formalmente nel 2004 attorno ad un programma classicamente riformista, ereditato dalla tradizione del Partito Comunista “dell'interno” e di Synaspismos. Un programma che contestava le politiche di austerità e rivendicava una riforma sociale della Grecia dentro il quadro di una riforma democratica dell'Unione Europea.



È significativo che l'ascesa di Syriza verso il governo, sospinta dalle lotte di massa, abbia coinciso con lo stemperamento progressivo di questo stesso programma in direzione di una sua riformulazione sempre più moderata.



Il congresso fondativo di Syriza come partito nel 2013 abbandonava la parola d'ordine “nessun sacrificio per l'euro, prima la società” - che aveva rappresentato il cuore della campagna elettorale del 2012 - a favore di un “piano di ricostruzione nazionale” greca rivolto “a tutte le classi vitali della società”. Un ostentato ecumenismo interclassista che tuttavia preservava ancora formalmente “la sospensione del pagamento del debito sino a quando il PIL del paese non sarà ritornato a crescere” e la rivendicazione della “nazionalizzazione delle banche”.



Tra il congresso del 2013 e la vittoria elettorale del gennaio del 2015, la maggioranza dirigente del partito si dedicò ad una ulteriore ripulitura del programma. La rivendicazione della nazionalizzazione delle banche veniva abrogata. La “sospensione del pagamento del debito” si trasformava nella richiesta della “negoziazione del debito”. Più in generale Tsipras apriva una autentica campagna di propria legittimazione preventiva agli occhi delle classi dominanti, in Grecia e in Europa.



In Grecia Tsipras si rivolse direttamente agli ambienti della borghesia, sviluppando in forma concentrata la propria apertura interclassista. La Confindustria greca (SEV) fu invitata a rompere i rapporti tradizionali coi vecchi partiti dominanti e a scegliere la prospettiva di un governo Syriza per meglio tutelare i propri interessi e potenzialità. La proposta rivolta agli industriali era quella di liberarsi dei costi della corruzione e di scegliere la via della modernizzazione capitalista, a partire dal rilancio delle esportazioni, in particolare nel settore agroalimentare: «Magari pagherete qualche imposta in più ma avrete la certezza di una amministrazione pubblica efficiente ed affidabile. Non ci sarà bisogno di ricorrere al sostegno dei politici per conquistare i mercati. Li conquisterete anche all'esterno, grazie alla vostra credibilità e al vostro valore». Questa pubblica lode alle potenzialità di successo del capitalismo greco sul mercato mondiale, dentro la grande stagnazione, era ed è, per usare un eufemismo, alquanto dubbia. Tanto più a fronte della catastrofica depressione dell'economia greca negli anni della grande crisi (-25% del PIL) e dell'ulteriore arretramento strutturale in essa del settore industriale, già debolissimo. Ma proprio per questo l'esaltazione propagandistica da parte di Tsipras delle future sorti del capitalismo greco acquisiva un significato tutto politico: il gruppo dirigente di Syriza si candidava a governare a braccetto con la borghesia greca, non contro di essa.



Non meno significativa, in questo contesto, l'apertura ostentata di Tsipras alla Chiesa ortodossa, componente tradizionale del blocco dominante in Grecia. Nell'agosto 2014 il segretario di Syriza si recava in visita al Monte Athos, repubblica monastica in Macedonia, di antichissima tradizione (già omaggiata peraltro nel 1995 dai dirigenti del KKE stalinista). «Quando ti trovi di fronte a questi monasteri non importa se sei credente o no. Entri comunque in comunicazione con la divinità», dichiarava solennemente Tsipras alle telecamere. Non si trattava solamente di una dichiarazione pubblica di (improbabile) conversione religiosa a fini elettorali. Si trattava anche e soprattutto di un messaggio politico a ben precisi interessi: significava dire che il governo Syriza avrebbe rispettato lo storico privilegio delle esenzioni fiscali per le attività produttive dentro il Monte Athos. Infatti, quando il famigerato governo Samaras presentò, poche settimane dopo, la legge di conferma delle esenzioni del clero, sia i deputati di Syriza che del KKE scelsero l'astensione. Cioè la silenziosa condivisione. Tsipras si candidava dunque a governare a braccetto della Chiesa ortodossa, non contro i suoi privilegi.



Parallelamente, sul piano politico, la stessa rivendicazione di un “governo di sinistra”, assunta al congresso del 2013, sfumava progressivamente in direzione di una prospettiva di «ampia alleanza democratica, radicale e progressista, di forze politiche e sociali». In particolare Tsipras apriva al centro dello schieramento politico: «Non dobbiamo lasciare al centro, che nel nostro caso è l'area di centrosinistra, alcuno spazio per la sua ricostruzione. La maniera migliore per cadere nella trappola del centrosinistra è assumere un atteggiamento di chiusura: non volere nessuno, non dialogare con nessuno, chiudere le proprie porte... Al contrario dobbiamo instaurare alleanze in ogni direzione» (Tsipras al CC di Syriza del giugno 2014). Allearsi in ogni direzione significò innanzitutto incorporare direttamente all'interno di Syriza settori provenienti dal centro politico greco. L'”apertura delle porte” fu praticata in particolare in direzione del personale dirigente centrale e periferico del PASOK in disarmo, desideroso di ricollocazione. Era un ulteriore segnale di accomodamento verso quegli interessi dominanti che con tali ambienti avevano intrattenuto lunghe relazioni di familiarità. E non a caso incontrò forti resistenze all'interno di Syriza.



Ma la ricerca di legittimazione preventiva si estese al campo internazionale.



Nell'anno che ha preceduto il proprio accesso al governo, Tsipras ha realizzato su questo terreno una strategia di relazioni a tutto campo. Molto spregiudicata.



L'imperialismo USA ha rappresentato un primo interlocutore d'eccezione. Non appena la parabola elettorale ascendente candidò Syriza ad una prospettiva di governo, la diplomazia USA pensò bene di tastare il polso al nuovo partito. Non a caso l'incaricato d'affari statunitense presenziò in prima fila al congresso di Syriza del 2013. Tsipras ripagò l'attenzione. Nel gennaio del 2013 alla Columbia University, nel novembre del 2013 all'Università di Austin in Texas, il segretario di Syriza scelse la linea del pubblico elogio dell'amministrazione americana assumendola a modello di riferimento: «Nel suo discorso di insediamento il Presidente Obama ha posto al centro della sua politica il sostegno della classe media e dei più svantaggiati. C'è un orientamento tutto sommato progressista, proprio mentre dall'altra parte dell'Atlantico dominano posizioni conservatrici... Passeggiando per strada qui non si riscontra quel senso di depressione che purtroppo vive attualmente il mio paese». Salutare il salvataggio statale dei banchieri e dei capitalisti americani come “progressista” non significava solo scavalcare a destra gli ambienti più insoddisfatti del progressismo democratico americano, ma anche cercare di cavalcare l'interesse USA ad una politica più espansiva nella UE (in funzione delle esportazioni americane) nella prospettiva del proprio negoziato con la UE. Di certo significava fugare ogni dubbio sullo “spirito di responsabilità” di un eventuale governo Syriza: «C'è qualcuno qui che teme la sinistra greca?... Gli allarmisti vi diranno che quando il nostro partito assumerà responsabilità di governo straccerà l'accordo di credito con l'Unione Europea e il FMI, farà uscire il paese dall'Eurozona, danneggerà i legami con l'Occidente civile... Questo è allarmismo della peggior specie. Il mio partito non vuole nulla di tutto ciò...». Come tutti gli aspiranti di governo della sinistra europea nell'intero arco del dopoguerra, anche Tsipras versava l'obolo rassicurante della propria fedeltà all'imperialismo USA e alle sue alleanze internazionali. Non a caso l'obiettivo dell'uscita della Grecia dalla Nato, ancora formalmente presente nel programma di Syriza al congresso del 2013, fu prontamente cancellato. L'”Occidente civile” poteva dormire sonni tranquilli.



Ma è soprattutto nella UE che la strategia della legittimazione preventiva si dispiegò con grande intensità. Lungo tutto il 2014 il segretario di Syriza ha sviluppato una fitta rete di relazioni politiche e diplomatiche con gli ambienti dominanti della UE e con gli stessi ambienti confindustriali e finanziari, finalizzate a rassicurare i suoi interlocutori circa le intenzioni e i programmi del proprio futuro possibile governo. Tsipras si è presentato al convegno di Cernobbio dei capitalisti e banchieri italiani. Si è presentato alla Borsa di Londra, cuore della City. Ha chiesto udienza presso il gruppo parlamentare liberaldemocratico europeo. Ha interloquito con l'intero stato maggiore della socialdemocrazia continentale. Ha incontrato tutti i capi di governo degli Stati creditori della Grecia, nessuno escluso. A tutti ha offerto rassicurazioni. A tutti ha presentato la propria proposta centrale di compromesso col capitalismo europeo: la proposta di ulteriore ristrutturazione del debito pubblico greco combinata con la garanzia del pagamento del debito ai creditori. La motivazione fu esplicitamente formulata proprio in Italia durante un'apposita conferenza stampa a Roma: «solo riducendo il debito, i creditori saranno sicuri che sul debito restante saranno ripagati». L'argomento non poteva essere più chiaro. Syriza presentava la propria proposta come soluzione vantaggiosa per il capitale finanziario: se il capitale finanziario europeo vuole evitare di essere travolto dalla crisi greca allenti un po' la stretta del cappio. Solo un debitore sopravvissuto sarà in grado di continuare a pagare i propri strozzini. Parallelamente Tsipras lanciava la propria proposta di una Conferenza europea sul debito pubblico per una soluzione continentale della questione del debito. L'idea era quella di incunearsi nelle contraddizioni interne al capitalismo europeo e internazionale per favorire un accordo vantaggioso sul debito greco. Lo sguardo era rivolto in particolare ai governi francese e italiano in funzione di un comune controbilanciamento dell'egemonia tedesca. Non a caso Tsipras lodò pubblicamente il governo Hollande quando esso decise di non rispettare nel 2014 il limite del 3% nel rapporto deficit/PIL, così come lodò pubblicamente il governo Renzi, giudicando “interessanti” i suoi interrogativi sul futuro della UE. I governi (antioperai) di due paesi imperialisti (e creditori della Grecia) furono presentati ai lavoratori greci come possibili alleati per una soluzione “onesta” sul debito. Del resto «se fu condonato il 60% del debito tedesco nella Conferenza storica di Londra del 1953, perché non si dovrebbe arrivare nel comune interesse ad una ristrutturazione concordata del debito greco nel 2015?». Tsipras presentò questa idea non solo come soluzione equa della crisi greca ma come leva di un cambiamento di fondo della Unione Europea. In altri termini il segretario di Syriza pensava che il “compromesso onorevole” sul debito greco sarebbe stato obbligato per i creditori, quale condizione della stessa sopravvivenza dell'eurozona; e che a sua volta quel compromesso sul debito avrebbe aperto la via alla ridefinizione dei Trattati della UE. La via greca alla riforma sociale e democratica della UE fu salutata da tutta la sinistra europea come la via maestra finalmente scoperta del riformismo continentale. La candidatura di Tsipras a Presidente del Parlamento europeo da parte di Sinistra Europea nelle elezioni del 2014 coronò la nuova suggestione.






DAL PROGRAMMA DI SALONICCO ALLA PROVA DEL GOVERNO



Intanto, sul versante greco, la preparazione della scadenza decisiva delle elezioni politiche del gennaio 2015 fu accompagnata dalla presentazione del nuovo programma elettorale di Syriza. La sua definizione non si presentava facile. Da un lato esso doveva onorare o non contraddire le rassicurazioni preventive di Tsipras alla borghesia greca ed internazionale circa l'accettazione senza riserve del quadro capitalista e della UE. Dall'altro lato doveva motivare il voto a sinistra come voto di svolta agli occhi di una popolazione povera annientata dalle politiche criminali di austerità dei famigerati memorandum imposti dai governi precedenti. La soluzione escogitata per quadrare il cerchio fu quella di un programma minimo di riforme sociali e interventi umanitari. Si trattava del cosiddetto programma di Salonicco, presentato presso la Fiera Internazionale della città il 13 settembre 2014. Dare corrente elettrica a 300.000 famiglie sotto la soglia della povertà e fornire loro buoni pasto; dare una casa a 25.000 famiglie attraverso l'utilizzo di immobili vuoti e abbandonati; ripristinare l'assistenza sanitaria gratuita per tutti; abolire l'odiata tassa sugli immobili; ristrutturare i debiti interni dovuti al fisco; elevare il livello minimo dell'esenzione fiscale; aumentare il salario minimo da 430 euro a 750 euro; ripristinare la contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Si trattava di un programma sufficientemente minimo da non interferire formalmente con la questione strategica dei rapporti di proprietà, del rispetto del debito pubblico, della collocazione internazionale della Grecia. Ma anche di un programma destinato ad apparire agli occhi dei lavoratori e della grande massa impoverita come promessa di svolta della propria condizione. Tsipras presentò quel programma come «l'insieme delle misure che siamo certi di poter realizzare», «l'impegno solenne che prendiamo di fronte al nostro popolo», la «linea rossa invalicabile» del nuovo governo. Nella sua visione si trattava di un programma realmente compatibile col compromesso onorevole col capitale . Nella visione del popolo si trattava della speranza finalmente offerta dopo una stagione di drammatiche privazioni.



La realtà spazzò via rapidamente l'illusione di entrambi.



Le elezioni politiche del 25 gennaio 2015 portarono Tsipras al governo. L'enorme polarizzazione a sinistra, combinata col crollo dei vecchi partiti borghesi, misurava la domanda di svolta. Il comizio notturno di Tsipras in una piazza Syntagma strapiena e festante, salutava il trionfo con parole impegnative: «Oggi è un giorno storico per il popolo greco. La tirannia dei memorandum è finita. La Troika è fuori dalla Grecia. Da oggi il popolo greco è libero di decidere del proprio destino. È una svolta per la Grecia e per l'Europa». L'intera sinistra europea applaudì incantata la solennità dell'annuncio, leggendovi l'occasione di un proprio riscatto continentale.



Ma la retorica della vittoria lasciò subito il posto a scelte politiche imbarazzanti.



Il 26 gennaio Tsipras annunciava un governo di coalizione col partito di destra xenofobo e omofobo Greci Indipendenti (ANEL). Poche settimane dopo proponeva e designava come nuovo Presidente della Repubblica un dirigente Prokopis Paulopoulos, della destra di Nuova Democrazia e già ministro degli interni. Si trattava dello stesso ministro degli interni della repressione di piazza della gioventù greca (2008), la stessa gioventù che aveva accompagnato Syriza al governo. Queste scelte non erano affatto imposte dai numeri parlamentari. Neppure l'alleanza di governo con la destra xenofoba. Sull'onda dello straordinario successo Syriza avrebbe potuto mettere alle strette il KKE, sfidandolo pubblicamente a un governo comune su un programma di rottura anticapitalista. Avrebbe persino potuto formare un governo di minoranza in Parlamento, mettendo il Parlamento e ogni deputato di fronte alle proprie responsabilità agli occhi dei lavoratori e del popolo. Soprattutto, e in ogni caso, avrebbe potuto organizzare nella società e nei luoghi di lavoro la grande forza popolare che l'aveva condotto al potere, facendone la propria potente base d'appoggio contro la resistenza della borghesia greca e l'apparato dello Stato. Ma nulla era più lontano dalla logica di Syriza che un governo dei lavoratori greci al servizio di una rivoluzione sociale.



Proprio le prime scelte compiute fotografavano infatti la prospettiva opposta. L'alleanza con ANEL (già negoziata dietro le quinte prima del voto e per questo immediatamente proclamata dopo il voto) non era semplicemente un atto di contraddizione plateale con un programma semplicemente democratico. Né solo l'annullamento di ogni confine o sembianza classista del governo, a favore di “un governo della nazione” (ciò che consentiva ai peggiori populismi reazionari di Europa di inquinare con la propria propaganda sovranista la vittoria di sinistra del 25 gennaio). Quell'alleanza era anche e soprattutto un atto di collaborazione con la borghesia greca. Fare ministro Kammenos, già ministro della marina mercantile, significava non-belligeranza verso gli armatori, la spina dorsale del capitalismo greco. Fare Kammenos ministro della difesa significava promettere collaborazione alle gerarchie militari, di cui ANEL è tradizionalmente protettore. Perciò stesso significava onorare l'impegno di fedeltà alla Nato. Questa alleanza avrà un costo sociale nei mesi successivi: 50 milioni spesi per acquistare aerei Lockheed, 500 milioni spesi per l'ammodernamento dell'Esercito, in piena crisi sociale e umanitaria.






IL PRIMO ACCORDO CON I CREDITORI. LA CADUTA DELLE ILLUSIONI



Ma è sul terreno centrale della politica economica e sociale che le promesse della vittoria evaporarono ben presto, una dopo l'altra.



Tsipras e Varoufakis si sedettero al tavolo dei creditori col bagaglio delle promesse elettorali e del “mandato popolare”. L'idea era quella di un negoziato con i governi creditori per un accordo politico: ristrutturazione del debito contro garanzia del suo pagamento. La prima ristrutturazione del debito (2012) aveva avuto come interlocutori le banche tedesche e francesi, grandi creditrici della Grecia. I famosi “aiuti” alla Grecia erano finiti nei loro portafogli, in cambio di sacrifici umilianti. Ma ora i principali creditori della Grecia erano gli Stati (Germania, Francia, Italia) cui le rispettive banche avevano per tempo ceduto i propri titoli greci (facendoci un ulteriore affare). Quindi i primi interlocutori del governo Syriza/ANEL erano i governi dei principali paesi capitalisti del continente. Se il negoziato è politico con interlocutori politici, lo spazio di accordo non è forse più ampio? Che interesse politico avrebbero i governi creditori a rompere con la Grecia e favorire un Grexit, col relativo rischio di una disgregazione dell'eurozona? Gli USA e la stessa Cina non premono forse a favore di un accordo? Del resto, i paesi debitori del Sud Europa, non avrebbero forse un proprio interesse a controbilanciare al tavolo negoziale le rigidità della Germania e del blocco nordico, a favore delle ragioni della Grecia? Così ragionava e sperava il gruppo dirigente di Syriza, e tutta Sinistra Europea a suo rimorchio. I misurati segnali diplomatici verso la Russia di Putin da parte di Tsipras portavano indirettamente sul tavolo negoziale un argomento geopolitico a favore dell'intesa europea. Nel frattempo il ministro delle finanze Varoufakis condivideva l'auspicato negoziato politico con la spiegazione tecnica di una possibile rifondazione dell'eurozona. La sua “Modesta proposta per superare la crisi dell'euro” - elaborata assieme a Stuart Holland e James Galbraith - propone che i debiti sovrani vengano garantiti sino al 60% del PIL di ciascun paese attraverso una “riserva federale” europea, impiegando i fondi così ottenuti per finanziare un programma di investimenti. Parallelamente, il debito greco di 330 miliardi dovrebbe essere ridotto di 100 miliardi circa (dal 175% al 120% del PIL), diluendolo con titoli a lunghissima scadenza o rimborsabili solo con una quota della “crescita”. Con l'innocenza cattedratica di puntiglioso economista, Varoufakis presentò questa proposta ai vertici negoziali, intrattenendo a lungo i suoi colleghi europei con eruditi (e snervanti) argomenti...



Ma il capitalismo reale si è vendicato brutalmente del capitalismo immaginario coltivato dai riformisti. I calcoli politici e i ragionamenti intellettuali non hanno trovato alcuno spazio al tavolo dei creditori . Al contrario, la realtà ne ha rovesciato gli stessi presupposti. Da ogni versante.



In primo luogo, la natura politica del negoziato chiamava in causa interessi contraddittori e compositi. Interessi economici: perché gli Stati creditori non avevano alcun interesse ad una ristrutturazione del debito greco a detrimento delle proprie casse, tanto più a fronte di opinioni pubbliche interclassiste aizzate dalla demagogia reazionaria populista contro “i greci nullafacenti e spendaccioni”. Interessi politici: perché gli Stati creditori non avevano alcun interesse a favorire un successo di immagine di Syriza che potesse trascinare la volata di Podemos in Spagna (segnata da un volume di debito pubblico enormemente più elevato) e processi di polarizzazione politica a sinistra in altri paesi. Certo esistevano ed esistono contraddizioni indubbie, politiche ed economiche, tra i capitalismi creditori della Grecia. Ma l'ingenua illusione che la composizione di quelle contraddizioni potesse tradursi in un favore alla Grecia era priva di fondamento. La Germania, dominus europeo e principale creditore, ha tenuto la barra dell'intransigenza negoziale, sino a legittimare alla fine la possibilità di una Grexit. Ciò che per la prima volta ha spalancato la porta di una possibile disgregazione della UE. La Francia, cofondatrice della UE, si è spesa in senso opposto, appoggiata dall'Italia, sia a difesa dell'Unione, sia a difesa del proprio spazio negoziale nell'Unione sul terreno delle proprie politiche di bilancio. Ma il compromesso finale tra Germania, Francia, Italia - i tre grandi paesi creditori - ha presentato il conto proprio alla Grecia. L'Unione Europea degli Stati imperialisti strozzini è stata (al momento) “salvata” grazie ad un cappio più stretto al collo del paese debitore. Già saccheggiato e affamato. La Merkel ha portato al Bundestag il trofeo politico dello strangolamento del governo greco, col plauso della SPD, a tutela del “rigore”. Hollande e Renzi hanno vantato a proprio merito la permanenza della Grecia nella UE grazie alla continuità garantita della stretta usuraia contro la Grecia. Il ballo dell'ipocrisia dei vincitori ha chiarito una volta di più la vera natura dell'Unione Europea. Incompatibile con ogni riforma sociale.



Più in generale, l'intera impostazione di Syriza si era basata su un presupposto falso: quello di un “equo negoziato” tra debitore e creditore. La logica del negoziato con i creditori espone per definizione il paese debitore al prezzo delle inevitabili contropartite. Tanto più in presenza di rapporti di forza obiettivamente impari. Ogni ristrutturazione del debito (la sua riduzione, o l'allungamento dei tempi di pagamento, o l'abbassamento degli interessi) va “pagata” con garanzie ai creditori. E i creditori chiedono come pegno ulteriori sacrifici del debitore. Maggiori sono le richieste di ristrutturazione, maggiori sono i sacrifici richiesti al debitore. Questa è la logica usuraia del capitalismo reale. Non ne esiste un'altra . Questa verità è stata rivelata nel caso greco una volta di più dal ruolo svolto dal FMI al tavolo negoziale. Il FMI ha ripetutamente insistito per una ristrutturazione del debito greco, anche in contrasto col ministro Schäuble, in ragione della sua obiettiva “insostenibilità”. Molte voci progressiste in Europa, e in Grecia lo stesso Tsipras, hanno più volte lodato questa disponibilità del FMI contrapponendo la sua “lungimiranza” alla rigidità “ottusa” dei creditori europei. Con ciò trascuravano uno spiacevole dettaglio: lo stesso FMI che proponeva la ristrutturazione del debito greco insisteva per combinarla con contropartite più rigorose da imporre alla Grecia. Lo scopo del FMI non era la beneficenza alla Grecia ma la certezza del pagamento del suo debito ai propri azionisti finanziari. Lo scopo più prosaico della Lagarde era quello di essere riconfermata alla presidenza del FMI dai suoi azionisti appositamente tutelati. Non a caso fu proprio il FMI, a fine giugno 2015, a far saltare un primo accordo ufficiosamente siglato tra Grecia e creditori europei, attraverso il rilancio di ulteriori condizioni ultimative al governo ellenico. Aprendo la via ad una conclusione negoziale ancor più vessatoria per il popolo greco. E senza neppure... ristrutturazione del debito.



La verità è che l'intero negoziato tra il primo governo Tsipras e i creditori si è svolto sul terreno imposto dai creditori, non certo sul programma di Syriza. È un aspetto cruciale. Coloro che anche a sinistra hanno storto il naso di fronte all'esito del negoziato, magari imputando a Tsipras un eccesso finale di arrendevolezza, non colgono che il piano stesso del negoziato era inclinato verso quell'esito. Il famoso programma di Salonicco, quello “realistico”, quello delle misure “certe e urgenti” a favore del popolo, quello delle “linea rossa invalicabile” promessa a piazza Syntagma, è stata infatti la prima vittima sacrificale del negoziato con i creditori. Non l'esito finale, ma la premessa iniziale del negoziato. Il 20 febbraio, a meno di un mese dalla grande vittoria del 25 gennaio, il primo accordo tra governo greco e creditori spazzava via in un solo colpo l'intero programma delle riforme sociali promesse. L'accordo, che estendeva di sei mesi l'assistenza finanziaria della Grecia da parte dei creditori, sanciva nero su bianco la prima capitolazione di Tsipras. Il ministro Varoufakis così formalizzava per parte greca i termini dell'accordo in una lettera a Dijsselbloem: «Lo scopo della richiesta di proroga di sei mesi della durata dell'accordo ha come obiettivo: a) accettare i termini finanziari e amministrativi la cui attuazione, in collaborazione con le istituzioni, stabilizzerà la posizione fiscale delle Grecia, permetterà di raggiungere adeguati avanzi di bilancio primario, la stabilità del debito... b) garantire, in collaborazione con i nostri partner europei e internazionali, che le nuove misure siano integralmente coperte, mentre ci asterremo da azioni unilaterali che potrebbero pregiudicare gli obiettivi di bilancio... c) consentire alla BCE di reintrodurre l'esenzione in conformità ai suoi regolamenti... e) iniziare a lavorare con i team tecnici circa un nuovo contratto per la ripresa e la crescita tra Grecia, Europa, FMI... f) concordare circa la vigilanza di UE, BCE e - con lo stesso spirito - del FMI per la durata dell'estensione dell'accordo... g) discutere il modo di attuare la decisione dell'Eurogruppo del novembre del 2012...». Il dato è inequivocabile: il 20 febbraio lo stesso governo greco che aveva giurato “mai più la Troika” firmava la propria subordinazione alla Troika . La rinuncia preventiva ad “azioni unilaterali” non concordate annullava ogni spazio di manovra indipendente. L'obiettivo degli “adeguati avanzi di bilancio primario” rispettava la continuità della logica recessiva. Il richiamo alle “decisioni dell'Eurogruppo del 2012” riprendeva persino formalmente la continuità del vecchio memorandum. Quello contro cui Tsipras aveva vinto le elezioni. Non a caso il quotidiano di Confindustria in Italia titolava “Per Syriza brusco risveglio dal sogno: il confronto tra le promesse elettorali e l'accordo approvato è impietoso” (25 febbraio). Era la verità. Scompariva l'aumento del salario minimo, lo stop alle privatizzazioni, il ripristino della tredicesima sulle pensioni, l'aumento della soglia di esenzione fiscale... Scompariva a maggior ragione ogni vagheggiamento di Conferenze europee sul debito. Ricompariva invece in tutta la sua portata la logica intatta dell'austerità. L'esatto contrario di quanto gli esimi economisti Varoufakis e Galbraith avevano teorizzato. Dato questo piede di partenza, era possibile pensare dopo sei mesi un altro sbocco?






LE LEGGI DEL CAPITALE



In realtà, durante l'intero arco dei sei mesi successivi, il piano inclinato già imboccato fu ulteriormente piegato dalla logica ferrea delle leggi materiali del capitale. L'estenuante braccio di ferro tra Grecia e creditori circa l'applicazione dell'accordo del 20 febbraio non è solo quello formale che si è svolto nelle stanze di Bruxelles o di Strasburgo, tra creditori strozzini che massimizzavano le proprie richieste e un governo greco che cercava di minimizzare le implicazioni pratiche di ciò che aveva firmato per salvaguardare la propria base di consenso (e l'unità di Syriza). È avvenuto ben altro. I creditori e la borghesia greca hanno usato a proprio vantaggio tutte le leve di pressione del capitalismo reale, che il governo Syriza aveva lasciato intatte nelle loro mani. I capitalisti greci, a partire dagli armatori e dai grandi costruttori, hanno praticato la fuga dalle banche al ritmo di 300 milioni al giorno. Si trattava degli stessi armatori cui l'articolo 96 della Costituzione greca garantisce l'esenzione fiscale sui profitti realizzati all'estero. Nel solo mese successivo alla vittoria elettorale di Syriza i depositi delle banche sono scesi di oltre il 10%, da 164 a 147 miliardi. Mentre nello stesso periodo le prime quattro banche greche (National Bank of Greece, Piraeus, Alpha e Eurobank) hanno lasciato sul terreno il 40% della loro capitalizzazione (11 miliardi). Non era che l'inizio. La crisi bancaria portava alle stelle il tasso d'interesse sui titoli di stato della Grecia aggravando il dissesto finanziario del paese. La nuova caduta recessiva dell'economia operava nella stessa direzione. Le banche greche finivano sempre più sotto dipendenza della BCE e della sua assistenza straordinaria (ELA). Ma la concessione dell'assistenza era a sua volta vincolata alla tenuta patrimoniale delle banche assistite, chiamate a mostrare la propria solvibilità, nel momento stesso in cui le loro azioni crollavano in borsa per effetto della crisi. Il governo operava il sequestro delle disponibilità finanziarie degli enti locali per tamponare il dissesto. Ma senza esito. Mentre la continuità rispettosa del pagamento del debito ai creditori strozzini, ad ogni scadenza comandata, contribuiva a svuotare le casse dello Stato. C'era un solo modo di rompere l'assedio: adottare misure anticapitaliste. Tanto drastiche quanto drastica era la situazione: nazionalizzare le banche per bloccare la fuga dei capitalisti e garantire i risparmi popolari; espropriare gli armatori e le loro fortune; cancellare il debito pubblico verso la Troika; riversare sugli strozzini e sulla borghesia greca i costi della crisi. Una politica rivoluzionaria avrebbe potuto organizzare e mobilitare le grandi energie del popolo greco e favorire la mobilitazione in Europa. “Fare come la Grecia” avrebbe potuto diventare la bandiera di riferimento di milioni di sfruttati contro i propri capitalisti e i propri banchieri in tutto il vecchio continente, rompendo immaginari populisti e nazionalisti, e ricostruendo una frontiera internazionale classista. Ma l'impostazione generale di Syriza si fondava sulla esclusione pregiudiziale di questa politica anticapitalista. La bussola restava, contro ogni evidenza, il “compromesso onorevole” col capitalismo greco e col capitalismo europeo. Nel momento stesso in cui il capitalismo aggrediva il popolo greco e destabilizzava lo stesso governo della Grecia.






LA CAPITOLAZIONE DI TSIPRAS



Nei mesi di giugno e luglio 2015 la morsa dei creditori si è stretta al collo di un paese assediato. Ma non arreso. Il referendum del 6 luglio resta una pagina importante di resistenza popolare al ricatto capitalista. Per Tsipras il ricorso referendario fu un atto contrattuale di replica al siluramento all'ultimo secondo di un accordo già virtualmente concluso a fine giugno con i creditori. E serviva a coprirsi a sinistra per liberare la via al recupero sostanziale e conclusivo dell'accordo raggiunto. Ma per i lavoratori, per i giovani, per la popolazione povera di Grecia, l'”Oxi” ai creditori era innanzitutto la riconferma di una volontà di svolta, di rifiuto della rapina e del ricatto. Il valore del 62% di No ai creditori, plebiscitario nelle città e tra i giovani, era tanto più rilevante a fronte di quanto accaduto nella settimana del referendum: il rifiuto della BCE di estendere l'assistenza alle banche greche; la chiusura delle banche; le restrizioni indotte alla riscossione di prelievi e pensioni; una campagna ossessiva di tutta la stampa borghese in Grecia e in Europa a sostegno del Sì e di demonizzazione del No tesa a produrre il panico e la resa. Il No era dunque un atto di ribellione di massa a tutto questo. Era di fatto una nuova e ultima prova di appello a Syriza e a Tsipras. La piazza Syntagma del 13 luglio, la piazza più affollata della storia greca del dopoguerra, misurava la reale possibilità di trasformare l'entusiasmo orgoglioso di un popolo in forza organizzata e leva di rottura anticapitalista. La scelta di Tsipras fu opposta: la capitolazione ai creditori. Il licenziamento di Varoufakis, la convocazione di una nuova maggioranza parlamentare di emergenza con i vecchi screditati partiti del memorandum, la lacerazione verticale dello stesso partito di Syriza, il varo di un nuovo governo amputato dei ministri più scomodi, offerto come garanzia ai creditori.



Di certo i creditori non hanno premiato tanta disponibilità. Al contrario. Tsipras aveva promesso “un accordo migliore” di quello respinto dal referendum. Invece al tavolo cui ha scelto di sedere ha dovuto pagare un prezzo assai più salato. E soprattutto l'ha pagato la popolazione povera di Grecia. Oggetto non solo di una nuova aggressione sociale, ma di una punizione politica: la punizione della ribellione del No, quale ammonimento preventivo ai lavoratori e ai popoli degli altri paesi.



Se l'accordo del 20 febbraio 2015 aveva sancito il ripristino della subordinazione alla Troika, l'accordo di sei mesi dopo (13 luglio) recava il prezzo sociale di quella subordinazione. Un prezzo terribile e umiliante. Innalzamento dell'età pensionabile; taglio dell'85% dei sussidi alle pensioni minime; aumento dell'IVA su beni alimentari e di prima necessità; allargamento delle privatizzazioni; nuova demolizione della contrattazione collettiva; nuovo incremento dell'avanzo primario nelle politiche di bilancio; infine il pignoramento dei beni pubblici della Grecia quale garanzia di ultima istanza alla Troika, e sotto la vigilanza della Troika. Il tutto in cambio della promessa di 85 miliardi di “aiuti” che serviranno unicamente a due scopi: consentire alla Grecia di continuare a pagare agli strozzini un debito pubblico ulteriormente accresciuto, dentro una rincorsa senza fine; ricapitalizzare le banche greche, ossia riempire i buchi provocati nei loro patrimoni e bilanci dalla fuga dei capitalisti greci (naturalmente coi soldi presi dalle tasche dei lavoratori europei). Un accordo, dunque, contro i lavoratori greci e contro i lavoratori europei.



Ma anche un accordo politicamente disastroso su scala continentale.



Le borghesie di tutta Europa presentano la capitolazione di Tsipras come la prova provata dell'impossibilità di ogni resistenza alle leggi superiori del mercato: “se persino Tsipras si è arreso”, la resa non ha alternative. Parallelamente, l'accordo tra Tsipras e creditori è cibo prezioso per la demagogia reazionaria del populismo nazionalista: l'immagine della “Germania che umilia la Grecia”, e della “sinistra greca che regala la Grecia alla Germania” indebolisce ogni demarcazione classista a vantaggio della demarcazione sovranista. A beneficio di Alba Dorata, di Le Pen, della Lega e del M5S, tutti saliti in groppa, in forme diverse, alla capitolazione del governo greco: l'“alternativa vera siamo noi. L'unica alternativa è la Nazione e la Sua Moneta”.






IL BILANCIO STORICO DI UN FALLIMENTO RIFORMISTA



La vicenda greca è tutt'altro che chiusa. La natura stessa di un accordo economicamente insostenibile, assieme alle accresciute contraddizioni nella UE che l'intera vicenda ha trascinato con sé, aprono prospettive di instabilità. Nella stessa Grecia lo scenario politico è in movimento, a partire dalla vicenda interna di Syriza, con la possibilità di nuove crisi politiche e cambi di scenario. L'immagine pubblica di Tsipras sembra reggere, nonostante il trauma dell'accordo, in assenza di alternative credibili. Ma alla sua sinistra possono svilupparsi nuove ricomposizioni. E le stesse masse oggi provate da una estenuante prova di forza e dagli effetti della delusione, potranno prendere nuovamente parola, riaprendo dal basso nuove prospettive.



E tuttavia un ciclo si è chiuso. I primi sei mesi del governo Syriza configurano un'esperienza compiuta, di inestimabile valore politico. Nell'Europa capitalista non è disponibile uno spazio storico riformista. L'alternativa reale è tra rivoluzione sociale o regressione storica. Il rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria trascina la capitolazione alle controriforme: questa è la lezione di fondo dell'esperienza del primo governo Tsipras. La parabola di Syriza dal 2012 al 2015 (moderazione progressiva del programma riformista originario e ricerca di legittimazione interna e internazionale presso le classi dominanti; accesso al governo sulla base di un programma riformista minimo; primo accordo coi creditori e conseguente accantonamento del programma riformista; secondo accordo coi creditori sulla base di un programma di drastiche controriforme sociali) è la metafora concentrata nel tempo di questa verità.



Colpisce, a bilancio, l'insostenibile leggerezza del programma riformista di Syriza e dei suoi riferimenti culturali e storici. Il libro “La sfida di Atene” di Dimitri Deliolanes riporta le lodi di Tsipras all'esperienza del primo governo della sinistra greca a guida PASOK, nel 1981, attorno alla figura di Andreas Papandreu. Tsipras sembra assumere quell'esperienza come riferimento esemplare per Syriza, in contrapposizione al successivo tradimento del PASOK riformista da parte del liberista Simitis. Ricorda la redistribuzione della ricchezza, l'estensione della previdenza pubblica, l'ampliamento del sistema sanitario, l'allargamento delle libertà democratiche. Avrebbe potuto ricordare anche alcune nazionalizzazioni emblematiche come quella della Piraiki Patraiki, la più grande industria tessile del Balcani. Ma il piccolo particolare è che quell'esperienza di riformismo borghese maturò in un contesto storico assai diverso dall'attuale. Era un contesto ancora segnato dalla presenza internazionale dell'Unione Sovietica. E la prima preoccupazione dell'imperialismo americano e della borghesia greca era evitare che la caduta del regime fascista dei colonnelli greci (1967/1973), e poi del governo parlamentare della destra di Karamanlis, potesse aprire la via di una dinamica rivoluzionaria anticapitalista. Il ruolo del PASOK fu esattamente quello di incanalare in un alveo istituzionale controllato la pressione di massa della classe operaia greca. Le riforme sociali erano figlie di questa operazione. Inoltre, il contesto economico capitalistico era molto diverso. Nonostante l'arresto del boom postbellico alla metà degli anni '70, l'economia europea ancora beneficiava dell'effetto inerziale della stagione precedente con relativi margini di grasso. Quelli che avevano alimentato la crescita della Spagna capitalista del postfranchismo sotto la direzione di Gonzales. Quelli che ancora beneficiavano la Grecia - entrata nel 1980 nella Comunità Europea - con fondi cospicui riservati al welfare e all'agricoltura. È possibile fondare su questo richiamo storico l'attualità di un programma riformista oggi?



Ma l'argomento che meglio esemplifica l'illusione riformista di Syriza sta nell'assunzione della Conferenza europea di Londra del 1953, col relativo taglio del debito tedesco, quale paradigma di riferimento per una analoga conferenza europea sul debito greco e continentale.



È vero: la Germania ha conosciuto nel secolo scorso ripetute ristrutturazioni del proprio debito. Ma solo in virtù dell'esistenza dell'Unione Sovietica.



La prima ristrutturazione del debito fu dopo la prima guerra mondiale. I Trattati di Versailles del 1919 umiliarono la Germania imponendole gravosi pagamenti delle riparazioni di guerra. Ma la paura del contagio della rivoluzione bolscevica - innanzitutto in Germania - indusse le potenze vincitrici e creditrici a ripetuti condoni. Prima col piano Dawes del 1924, poi con il piano Young del 1929, si provvide a ristrutturare il debito delle riparazioni, che si convenne sarebbero state pagate in 59 rate annuali, di cui l'ultima con scadenza nel 1988. Il pagamento delle riparazioni fu ancora sospeso nel 1931, a ridosso della grande crisi capitalistica mondiale che si abbatté sulla stessa Germania, in attesa di un nuovo accordo. L'avvento di Hitler cambiò naturalmente il quadro.



Un nuovo accordo di ristrutturazione del debito tedesco subentrò successivamente alla seconda guerra. La Germania era stata divisa dalle truppe di occupazione, tra la parte occidentale e la parte orientale sotto controllo russo. La Conferenza di Londra, con la riduzione del debito tedesco del 60%, intervenne in questo contesto. Salvare la Germania capitalista non era solo una scelta economica, ma anche e soprattutto una scelta politica: si trattava di investire nella cortina di ferro antisovietica in funzione delle esigenze della guerra fredda. Il gigantesco piano Marshall in Europa, l'investimento nel piano da parte degli USA del 4% del PIL americano, era figlio di questa operazione strategica. La potente espansione produttiva dell'Occidente capitalista del dopoguerra forniva una sicura base materiale alla riduzione del debito tedesco. Ma ancora una volta era la presenza dell'URSS, quale eredità seppur trasfigurata della rivoluzione d'Ottobre, a determinare un intervento d'eccezione a favore della Germania. Come è possibile trasferire questo esempio storico dentro un quadro politico mondiale drasticamente mutato, e per di più sullo sfondo della più grande crisi del capitalismo europeo?



Nulla chiarisce meglio l'abbaglio del riformismo di Tsipras quanto gli esempi storici di cui si nutre. La nostalgia dei trent'anni gloriosi che non torneranno più.



La sconfitta di Tsipras è la sconfitta della sinistra europea. Essa si era affidata alla locomotiva greca assumendola a proprio faro e guida. Ne aveva assunto la cultura e i miti (la Conferenza europea sul debito), amplificandoli su scala continentale. Attorno ad essa aveva provato a rilanciare le proprie fortune politiche nel nome di un nuovo possibile compromesso riformatore tra capitale e lavoro in Europa. Quell'investimento si è trasformato in un boomerang. Il fatto che larga parte dei gruppi dirigenti delle sinistre riformiste nei diversi paesi abbiano approvato o giustificato l'accordo tra Tsipras e creditori, affermando che “al suo posto” avrebbero fatto altrettanto (da Iglesias di Podemos a Laurent del PCF, da Garzon di Izquierda Unida a Vendola e Ferrero in Italia), misura sicuramente la fedeltà al marchio del proprio investimento. Ma rappresenta anche una confessione in piena regola della sottomissione del riformismo alla società borghese. Quando il conflitto sociale precipita, quando lo scontro tra capitale e lavoro annulla ogni margine di mediazione, rinvio, evasione letteraria, quando insomma s'impone una drammatica scelta di campo, i gruppi dirigenti riformisti scelgono il capitale contro il lavoro, in cambio, ove possibile, di incarichi ministeriali. Anche al prezzo di sottoscrivere le misure di austerità, antioperaie e antipopolari, che i loro programmi formalmente negano e combattono. Da questo punto di vista la collocazione internazionale della sinistra europea sulla vicenda greca è la riproduzione allargata delle proprie esperienze di governo in patria. A partire, più che in ogni altro caso, dalla sinistra riformista italiana.






L'AUTOEPITAFFIO DI VAROUFAKIS



Yanis Varoufakis, quando era ancora ministro, scrisse un pamphlet di involontario umorismo, raccontando le contraddizioni esistenziali della propria esperienza ministeriale: «... Indirizzandoci a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi speculativi, l'idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice interesse:... porre fine al circolo vizioso tra austerità e crisi... Probabilmente non farò a tempo a vedere adottato un programma più radicale... Io so di correre il rischio di alleviare la tristezza dell'abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso della mia esistenza, indulgendo nel sentimento di essere diventato gradevole agli occhi degli appartenenti ai circoli della buona società... Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per stabilizzare l'Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati... Se dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale)... dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a migliorare la propria situazione personale... Il trucco è evitare il massimalismo rivoluzionario che alla fine aiuta i neoliberisti ad aggirare ogni opposizione... ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio, mentre cerchiamo di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso...».



Nessuna confessione poteva riassumere in termini più efficaci la disperazione di un ministro riformista: la sua rassegnazione al capitalismo “malvagio”, da “salvare” e “stabilizzare”, in cambio della pretesa purezza della propria “visione” e coscienza individuale. Non sappiamo della coscienza di Varoufakis. Sappiamo invece che la rivendicata salvazione del capitalismo, contro la rivoluzione, condanna gli sfruttati a un futuro di miseria. Senza neppure assicurare al ministro esuberante... la cooptazione consolatoria nel potere. Varoufakis potrà vendicarsi del proprio fallimento con qualche libro e qualche fortuna editoriale. La classe operaia greca ed europea ha sicuramente bisogno di un altro programma e di un'altra direzione. Un programma e una direzione rivoluzionari.






(1) http://jesopazzo.org/index.php/blog/128-cosa-ci-insegna-la-grecia



Marco Ferrando

Lettera aperta per la Quarta Internazionale

Proponiamo la prima traduzione in assoluto pubblicata in italiano, a 80 anni esatti dalla prima pubblicazione, della Lettera aperta per la Quarta Internazionale, uno dei testi preparatori più importanti della fondazione della Quarta Internazionale (nel 1938). Il brano, che trovate come allegato in fondo alla pagina, è accompagnato, come nella pubblicazione originale, dalla Dichiarazione dei quattro, un precedente appello che già costituiva una convergenza dei rivoluzionari in opposizione alla degenerazione burocratica della Terza Internazionale.

Introduzione a cura del PCL

Viviamo in un'epoca di crisi sistematica del capitalismo mondiale, segnata dal crescere di una nuova immane bolla finanziaria, da tracolli borsistici (vedi Cina), da crisi del debito con ricadute devastanti (imposizione del terzo memorandum in Grecia col consenso di Tsipras), da uno stato di guerra permanente con svariati focolai che si accendono e si spengono in tutto il globo a seconda dell'evolversi dello scontro tra imperialismi. L'epoca del “trentennio d'oro” riformista del boom postbellico è archiviata per sempre, insieme all'illusione che il socialismo potesse compiersi e mantenersi in un paese solo, l'URSS, accerchiato da un mondo capitalista. Un'epoca di crisi non solo economica, appunto, ma sociale, politica, culturale, dove in particolare il patrimonio storico del movimento operaio è stato abbandonato sotto i colpi della reazione capitalista alle lotte operaie del secolo scorso in tutti i paesi capitalistici avanzati e non solo. Con il conseguente riaffermarsi di blocchi sociali e politici che rievocano e si ispirano in modo più o meno preciso all'ondata nazionalista degli imperialismi europei sfociata nella Prima Guerra mondiale, e a quel fascismo giocato come carta vincente dalla borghesia europea per stroncare il movimento operaio in un'epoca di fermento rivoluzionario.
Nel complesso della resistibile ascesa del fascismo, il caso della Germania fu eclatante: a seguito di una ascesa elettorale negli anni immediatamente precedenti, il partito nazista conquistò il 43,9% dei voti nelle elezioni generali, alleandosi poi con il Centro Cattolico e con il Partito Popolare Tedesco-Nazionale per avere la maggioranza parlamentare necessaria a bandire per legge i partiti socialdemocratico (SPD) e comunista (KPD), e per ottenere per il solo Hitler i pieni poteri legislativi. L'appoggio di gran parte della borghesia tedesca e il rifiuto di socialdemocratici e comunisti di dare il via a un fronte antifascista delle forze operaie permise a Hitler di prendere il potere con una resistenza pressoché inesistente. Invece di opporsi alla minaccia di una distruzione totale del movimento operaio, il KPD in particolare, seguendo la linea formalmente ultrasinistra del “socialfascismo”, vide di buon occhio l'ascesa di Hitler a danno dell'SPD, aspettando che i nazisti si “bruciassero” nella gestione della disastrata Germania post-crisi del'29: sarebbe poi arrivato il turno dei comunisti al governo. I fatti, evidentemente, hanno dato completamente torto alla linea imposta da Stalin e Togliatti ai partiti della Terza Internazionale, poi ulteriormente sbandata con la linea dei fronti popolari con la borghesia “democratica” - anziché tra partiti operai! - contro il fascismo, ormai saldamente al potere e spodestato dalle “democrazie” unite nella misura in cui non si accontentò di un equilibrio tra imperialismi, ma tentò di accaparrarsi anche la “fetta di torta” degli altri imperialismi europei e di quello statunitense, contestualmente al tentativo di abbattere lo Stato operaio sovietico.
Di fronte alla resa politica su tutta linea dei principali partiti operai mondiali, Lev Trotsky, tra i fondatori e i massimi dirigenti della Terza Internazionale e del partito bolscevico russo dal 1917, organizzò e animo il tentativo di costruzione di una nuova Internazionale, la Quarta, che salvasse il patrimonio politico del marxismo dalla degenerazione irrecuperabile delle Internazionali egemoni nel movimento operaio.
La nostra epoca mostra sempre maggiori affinità con quella a cui abbiamo accennato e a cui appartiene il documento di cui offriamo la prima pubblicazione in assoluto in lingua italiana, a ottant'anni esatti dalla sua prima pubblicazione. Si tratta della Lettera aperta per la Quarta Internazionale, uno dei testi centrali nella preparazione, appunto, della nuova Internazionale, che voleva recuperare il filo spezzato del marxismo sia sul piano teorico sia su quello della costruzione del partito mondiale della rivoluzione socialista. Un marxismo abbandonato clamorosamente dalla Seconda Internazionale con il tradimento dei lavoratori a favore delle rispettive borghesie nazionali con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, e dalla Terza Internazionale con la stroncatura del partito bolscevico in Russia e dell'Internazionale stessa, attraverso la distruzione del centralismo democratico a favore del dominio incontrastato di una ristretta casta burocratica guidata da Josif Stalin e capace di orrori politici come quelli che abbiamo ricordato.
Il contributo fondamentale dato dallo stalinismo nella lotta alla Quarta Internazionale e nello sterminio fisico di coloro che l'avevano fondata nel 1938, Trotsky compreso, inferse un colpo gravissimo alla nuova Internazionale, la cui dirigenza internazionale fu incapace, negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, di continuare un'azione conseguente alla sua originaria linea marxista rivoluzionaria, provocando la sua stessa dispersione in varie frazioni, le quali a loro volta hanno spesso abbandonato sia nella sostanza sia nella forma il riferimento alla Quarta Internazionale di Trotsky.
La rifondazione della Quarta Internazionale, come partito mondiale dei lavoratori basato sul patrimonio politico rivoluzionario del marxismo, è l'indirizzo politico del Partito Comunista dei Lavoratori, fuori da confusioni e opportunismi politici che oggi come ieri caratterizzano ogni forma di riformismo e centrismo nel campo della sinistra di classe. La Lettera che qui vi proponiamo è la migliore risposta ai variegati appelli alla “unità della sinistra” (o “dei comunisti”) che evitano la questione del programma e del partito, nonostante le innumerevoli recenti prove storiche del fallimento politico di chi rimuove la prospettiva di un partito rivoluzionario mondiale; il migliore stimolo a evitare formule politiche scollegate dalla realtà storica e a (ri)scoprire e recuperare la migliore eredità politica del movimento operaio mondiale.

Gli stragisti hanno vinto

2 agosto: strage di Bologna

Sono passati 35 anni dalla strage del 2 agosto e, mentre dal punto di vista giudiziario sono stati condannati i fascisti dei Nar come esecutori materiali e il capo della P2 Gelli come depistatore, nulla ufficialmente si sa sui mandanti e sulle vere ragioni politiche della strage.

La cosiddetta desecretazione di vari documenti voluta da Renzi è stata uno scherzo, rendendo noti documenti che erano già a conoscenza dei magistrati e degli storici.
Gli stessi superstiti e i familiari delle vittime vengono sbeffeggiati dal governo e dal suo capo Renzi che si rifiuta di approvare gli indennizzi, malgrado il presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage, Paolo Bolognesi, sia oggi deputato alla Camera e fedele sostenitore del governo renziano.
Ci domandiamo come faccia Bolognesi, che per tanti anni ha denunciato le “mancanze” dei vari governi e il ruolo golpista della P2 e dell’estrema destra, a stare nella stessa maggioranza del pregiudicato Berlusconi (col governo Letta) già tessera P2 n.1816, oppure col piduista, oggi NCD, Cicchitto – tessera P2 n. 2232. Senza parlare che entrambi i governi a guida Pd – ieri Letta e Renzi oggi – sostenuti da Bolognesi hanno visto o vedono l’appoggio di vari ex fascisti: ad es. Gasparri (ex Msi) fino al 2014 o Vincenzo Piso ex fascista di Terza Posizione e oggi deputato dell’NCD.
Se e’ lontana la verità giudiziaria sulle stragi e sulla c.d. strategia della tensione, quella storica e politica è invece chiarissima: decine e decine di morti ammazzati dal terrorismo fascista ben coperto e ben aiutato da apparati dello Stato e dal leale alleato Usa. Fascisti, servizi segreti Usa ed italiani, vari apparati repressivi legali o illegali, hanno massacrato cittadini e lavoratori per i loro sporchi fini, prima per sconfiggere l’avanzata del movimento operaio, poi per azioni sullo scacchiere internazionale. 
Se i mandanti politici delle stragi hanno vinto nei decenni passati tutte le loro battaglie; se in piena continuità con la peggiore politica democristiana Renzi e soci attaccano i diritti dei lavoratori conquistati con lotte e sacrifici e smontano gli elementi formalmente democratici della costituzione repubblicana; opporsi a questa grande offensiva reazionaria e contro riformatrice è possibile e necessario.

PCL - sezione di Bologna