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IL CRIMINE CHIAMATO AMIANTO
IL CRIMINE CHIAMATO AMIANTO
Si susseguono le morti da amianto all’OGR di Bologna. Un crimine contro la classe lavoratrice. Un crimine che accomuna tutte le branche del capitalismo, i suoi direttori e manager. Tanto nel settore privato come ha appurato la sentenza Eternit per la strage di Casale Monferrato, quanto nelle aziende controllate dallo Stato come le officine Grandi Riparazioni di Bologna di proprietà delle Ferrovie dello Stato.
In un caso e nell’altro lavoratori, lavoratrici, i loro familiari, abitanti limitrofi agli stabilimenti sono stati esposti alla polvere di amianto la cui estrema nocività per la salute umana è conosciuta fina dagli anni ’30 del secolo scorso.
In un caso e nell’altro assistiamo ad uno stillicidio di vittime riconducibile a questa esposizione secondo la legge, ma probabilmente i numeri reali sono molto più grandi visto che l’amianto o asbesto una volta immesso nel circolo sanguigno è un fattore cancerogeno per tutti gli organi del corpo umano.
Coloro che hanno diretto queste aziende e questi enti hanno commesso il delitto di omicidio colposo, ossia non avevano intenzione di provocare morte e nocumento ai propri dipendenti, ma hanno omesso le minime misure di sicurezza per evitare che ciò accadesse.
Il capitalismo però ne può cavarsela così facilmente. In questo caso parliamo non solo di colpa ma di intenzione. L’impresa capitalista, sia pubblica che privata, per motivi di bilancio tende continuamente a “contenere” la spesa per la tutela della sicurezza sul lavoro e contro la sua nocività, pur sapendo che ciò non può che provocare vittime di incidenti e malattie professionali tra le lavoratrici e i lavoratori. Ma questo prezzo in vite umane, che il capitale non ripaga in alcun modo, è messo in conto lungo la strada lastricata di morti e malati che porta al profitto.
L’enorme numero di vittime sul lavoro nel nostro paese è una denuncia inappellabile.
L’autunno caldo, nel 1969, che mise a repentaglio l’ordine borghese della società italiana con un’ondata pre-rivoluzionaria di mobilitazioni di massa, pose tra le proprie rivendicazioni la lotta contro la nocività del lavoro. Questo contribuì ad ottenere, come suo sottoprodotto, una migliore legislazione riguardo la sicurezza del lavoro, legislazione che poi, allo scemare della lotta di classe si è rivelata insufficiente come i terribili numeri dei giorni nostri stanno a dimostrare.
Finché permane la proprietà capitalistica, sia sotto la fattispecie dell’impresa privata, sia nella forma di proprietà dello Stato borghese, non ci può essere garanzia di sicurezza per i lavoratori. Solo il controllo operaio, operato dalle proprie organizzazioni di riferimento, può combattere questa tragedia.
Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime tutta la propria solidarietà e la propria vicinanza alle vittime dell’esposizione all’amianto.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZ. DI BOLOGNA
La questione del salario minimo
Come i partiti borghesi si contendono il consenso dei salariati in assenza di un'opposizione di classe e di massa
15 Agosto 2023
La questione sociale è al centro dell'agenda politica. Ma l'assenza di una iniziativa di massa, per responsabilità preminente della burocrazia CGIL, consente ai partiti borghesi, e persino al governo Meloni, di farne uno strumento di manovra sul terreno di pure campagne di opinione. Il tema del salario minimo è esemplare
Le opposizioni borghesi liberalprogressiste hanno promosso, com'è noto, la campagna per un salario minimo a 9 euro. Il loro scopo è evidente: cercano di far dimenticare le proprie politiche antioperaie nei lunghi anni delle proprie partecipazioni di governo e di recuperare consenso nel lavoro dipendente. È il senso del nuovo corso politico di Elly Schlein e della nuova stagione del M5S, in concorrenza spietata col PD, sotto la gestione di Conte.
La proposta di merito sul salario è minimale. I 9 euro sono al di sotto del salario minimo vigente in altri paesi imperialisti, non sono indicizzati al costo della vita, prevedono sussidi pubblici (a carico dei salariati) per i padroni che accampano difficoltà nel rispettare la soglia. Sono le ragioni per cui persino Calenda, già uomo di Monti, si intesta in prima persona l'iniziativa.
Una parte della stampa borghese plaude apertamente alla proposta nel nome del principio di mercato: i 9 euro garantirebbero i capitalisti “onesti” dalla concorrenza spuria di padroni pirata. Un'altra parte arriccia il naso, ma riconosce la nobiltà dell'intento. Il capitalismo liberalprogressista vuole mostrarsi attento alle ragioni della povertà, anche perché è preoccupato dal rischio di un'esplosione sociale. D'altro canto l'assenza di una iniziativa di massa del movimento operaio attorno a una propria piattaforma di lotta consente ai buoni sentimenti liberali uno spazio di recita senza pagare dazio. Lo spazio delle opposizioni borghesi è quello che regala loro Maurizio Landini. Il suo rifiuto per anni (oggi fortunatamente rivisto) della richiesta elementare del salario minimo nel nome della difesa della contrattazione ha lasciato la proposta ai liberali. La sua attuale accettazione da parte della CGIL avviene a rimorchio dei liberali. Una prova per paradosso di subalternità, persino nel momento di un passo avanti.
Il governo Meloni, dal canto suo, guardando i sondaggi non intende lasciare a PD e M5S la rappresentanza delle ragioni sociali. Dopo aver distrutto il reddito di cittadinanza per onorare le cambiali presso il proprio blocco padronale di riferimento (ristorazione, alberghiero, turismo), in funzione della compressione dei salari, Meloni vuole riequilibrare la propria immagine pubblica sul versante sociale. Prima con la tassa sugli extraprofitti bancari, ora con l'apertura alle opposizioni sul salario minimo. Da qui l'incontro con le opposizioni sul tema, e l'annuncio di una proposta a settembre, col coinvolgimento del CNEL di Brunetta.
Nel merito l'operazione è falsa. La memoria già depositata da CNEL in Parlamento a luglio vede la soluzione del lavoro povero nel rilancio della contrattazione decentrata, l'intervento sul welfare aziendale, la detassazione degli aumenti contrattuali, la decontribuzione per le imprese che adottano forme di partecipazione dei lavoratori agli utili (Il Sole 24 Ore, 13 agosto). Tutti classici ricorsi padronali per dividere i lavoratori, per di più a loro spese.
Ma il senso politico dell'operazione va ben al di là del merito.
In primo luogo vuole esibire un volto dialogante del governo agli occhi di quei settori dell'establishment, in passato riferimento del centrosinistra, che ora hanno fatto un'apertura di credito a Meloni nel nome del superiore interesse nazionale (il gruppo Cairo e la cordata del Corriere della Sera, su cui non a caso Meloni ha scelto di motivare la propria apertura alle opposizioni con una lettera aperta).
In secondo luogo l'operazione mira a incunearsi nelle contraddizioni interne, reali o virtuali, delle opposizioni borghesi. Il CNEL è una sede istituzionale che formalmente coinvolge le parti sociali. La linea Brunetta si sposa guarda caso con le posizioni della CISL e di Italia Viva di Renzi, che hanno depositato proposte di legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili. Consolidare la sponda della CISL mira a creare problemi nel PD e a complicare lo spazio di smarcamento di CGIL e UIL.
In terzo luogo l'operazione ha una valenza propagandistica generale: mira a utilizzare la parzialità della proposta del salario minimo per contrapporre ad essa la questione generale del lavoro povero, cioè l'interesse più generale dei salariati. Del tipo: “i salari poveri non sono solo quelli sotto i nove euro, che sono minoranza, ma i salari medi dei lavoratori italiani: il governo vuole occuparsi di loro, a differenza delle opposizioni”. La volontà di confermare il taglio del cuneo fiscale nella prossima legge di bilancio copre questa manovra propagandista.
Naturalmente è facile denunciare l'ipocrisia di un governo che parla di salari poveri quando ha concorso a schiacciarli verso il basso sopprimendo il diritto alla sopravvivenza precaria per i senza lavoro, non ha messo un euro sul rinnovo dei contratti pubblici, ha mantenuto le accise sulla benzina dopo aver proclamato ai quattro aventi che l'avrebbe cancellata, dà sponda ai contratti pirata di UGL che sotto la direzione di Claudio Duringon, attuale sottosegretario al lavoro, è diventato braccio armato della Lega. Per non parlare dell'estensione del precariato e del rilancio dei voucher col decreto del primo maggio. Quanto al taglio del cuneo fiscale, è messo a carico dei salariati senza che i padroni e i loro profitti paghino un euro. Si potrebbe continuare a lungo. Ma il punto non sono le obiezioni necessarie e possibili. Il punto è la natura insidiosa dell'operazione del governo dal punto di vista propagandistico, in un quadro di assenza dell'opposizione di classe e di massa.
Rilanciare l'opposizione sociale di classe e di massa è allora la prima necessità. Il salario minimo per legge è una rivendicazione sacrosanta, che andrebbe semmai declinata nella richiesta di 12 euro l'ora (1500 euro mensili) e indicizzata all'inflazione.
Ma il punto centrale è ricondurla a una piattaforma generale di riferimento che parli all'insieme dei lavoratori salariati e sia in grado di mobilitarli. Non si tratta di giocare al “più uno” col PD e M5S in fatto di salario minimo (10 euro anziché 9), come ha fatto e fa Unione Popolare. Si tratta di unire le ragioni degli sfruttati attorno a una vertenza complessiva che li contrapponga al padronato e al governo. La rivendicazione di forti aumenti salariali di almeno 300 euro netti, e di una scala mobile dei salari, è il perno di una piattaforma generale di svolta. Assieme alla cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro (a proposito di lavoro povero), alla riduzione generale dell'orario di lavoro a 30 ore, a una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco per finanziare la ricostruzione della sanità pubblica e il riassetto idrogeologico del territorio.
I partiti borghesi si disputano il consenso passivo dei lavoratori parlando della loro povertà. È ora che i lavoratori e le lavoratrici intraprendano un percorso di lotta attorno a una propria piattaforma, in piena autonomia dai partiti borghesi. È il fronte della battaglia di autunno.
Partito Comunista dei Lavoratori
Giorgia Meloni e gli extraprofitti delle banche
11 Agosto 2023
Dopo aver privato centinaia di migliaia di famiglie del diritto alla sopravvivenza, cancellando il reddito di cittadinanza, il governo cerca di riequilibrare il proprio profilo d'immagine sul terreno sociale con la trovata della tassa sugli extraprofitti bancari. Lo scopo? L'equità sociale, dichiara Salvini, a vantaggio dei mutuatari e della riduzione delle tasse.
Una somma di balle e di inganni.
Intanto va detto subito che la tassa è irrisoria.
Nei soli primi sei mesi del 2023 i primi cinque gruppi bancari italiani (Intesa, Unicredit, Banco BPM, BPER e MPS) hanno realizzato quasi undici miliardi di profitti con un incremento del 65% sul 2022, e nel 2022 un incremento dei profitti del 60% sul 2021. Ciò che ora viene tassato non può superare lo 0,1% degli attivi. Meno di una spolveratina, che peraltro sarà ulteriormente alleggerita nel passaggio parlamentare previsto.
La cifra che si pensa di far su si abbassa infatti col passare dei giorni. In 48 ore è passata da tre miliardi a poco più di un miliardo. Se pensiamo che la tassazione prevista sugli extraprofitti delle aziende energetiche da parte di Draghi avrebbe dovuto fruttare dieci miliardi e ne sono arrivati meno di due, è lecito supporre che il ricavato dalle banche sarà davvero poco più che simbolico. Tanto più a fronte della continua crescita dei loro patrimoni azionari in Borsa, e soprattutto dei 300 (trecento!) miliardi di garanzie pubbliche – secondo le stime ufficiali della Banca d'Italia del 2022 – che i governi borghesi hanno girato alla banche dopo la crisi pandemica. Una montagna di soldi pubblici messi a copertura dei loro affari privati, e pagati dai salariati.
La finalità dichiarata del contributo richiesto (l'equità sociale) è una bufala. La tassa, oltre che irrisoria, è dichiaratamente una tantum. Come può finanziare misure strutturali? La soppressione del reddito di cittadinanza è strutturale, è per sempre. I mutui bancari hanno una lunga durata, e quelli variabili sono oggi del tutto insostenibili. E semmai c'è il fondato sospetto che le banche riverseranno sui propri clienti i costi del prelievo richiesto, non essendoci nulla che impedisca loro di farlo.
Quanto alla riduzione delle tasse annunciata dalla legge delega, strutturale anch'essa, beneficia unicamente i padroni. Nuovo abbattimento della tassa sui profitti (IRES), ulteriore riduzione della progressività fiscale, concordato preventivo e condoni vari per miliardari e plurimilionari... di quale “equità sociale” va parlando Salvini? A pagare la riduzione delle tasse per i padroni sarà la nuova riduzione annunciata della spesa sanitaria e dell'istruzione.
E tuttavia l'operazione d'immagine del governo Meloni per quanto truffaldina può avere successo grazie alla politica delle opposizioni.
Le opposizioni liberali progressiste oscillano tra il presentare la misura del governo come propria vittoria (“hanno dovuto darci ragione” dicono Conte e Fratoianni) e la preoccupazione di tutelare le banche (“non si può disturbare il mercato e le attese degli investitori” dichiara Calenda). In entrambi i casi un regalo alla propaganda del governo, che con Fazzolari si affretta a dichiarare: «Noi siamo i soli che non tutelano le banche, abbiamo fatto ciò che altri prima di noi non hanno fatto».
Quanto alla CGIL, chiede al governo analoghe misure verso gli extraprofitti di aziende farmaceutiche e alimentari. Un rilancio platonico che ripropone la logica di pressione su Giorgia Meloni senza uno straccio di piattaforma di mobilitazione (reale). La stessa linea fallita dell'ultimo anno, e non solo.
Il risultato è che il governo continua a brillare della miseria altrui. Della assenza di un'opposizione vera che rivendichi una alternativa di società e si batta per conquistarla. Costruire questa opposizione è il fronte della battaglia d'autunno. L'unica via per contrastare la demagogia ingannevole di un governo a guida postfascista, e sviluppare la coscienza politica degli sfruttati.
Partito Comunista dei Lavoratori
No ai licenziamenti alla Bennet di Origgio!
10 Agosto 2023
Nelle scorse settimane, Essem e Michele, due lavoratori della Feynman, la cooperativa che gestisce la logistica alla Bennet di Origgio (Va), ed iscritti allo SLAI Cobas, sono stati licenziati per essere, a detta della società, “passati alla vie di fatto”, mentre si è trattato nei fatti di null'altro che una discussione animata tra due lavoratori, per giunta alla fine del turno. Un licenziamento che invece è stato definito politico-amministrativo dalle RSA SLAI Cobas dell'azienda, per cui hanno indetto lo stato di agitazione.
Nei fatti la società lamenta costantemente un esubero di personale, che a suo dire andrebbe ridimensionato alla ricerca di maggior produttività. Le solite logiche del padronato che provano a calpestare ogni diritto e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. Che ciò avvenga nel settore della logistica, uno di quelli nei quali il proletariato, soprattutto immigrato, ha dato grande prova di protagonismo, non è affatto un caso.
Come Partito Comunista dei Lavoratori auspichiamo la massima unità dei lavoratori della Feynman e della Bennet di Origgio e non solo in solidarietà con i due lavoratori licenziati, affinché nessun licenziamento costituisca il banco di prova per tagli e ristrutturazioni sempre più adoperate dal padronato, troppo spesso con l'avallo delle burocrazie confederali, perché solo con la lotta ed il suo allargamento i lavoratori possono difendere la loro dignità e costruire nuovi rapporti di forza.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione sindacale
Giù le mani dagli anarchici!
10 Agosto 2023
Preoccupanti sono i capi d'accusa che l'8 agosto hanno guidato il blitz poliziesco contro nove anarchici, quattro dei quali arrestati, a Genova, La Spezia, Massa, Carrara. Il reato è quello di “associazione con finalità di terrorismo dedita alla ideazione, predisposizione, stampa e diffusione di pubblicazione clandestina”. Del terrorismo in realtà non vi è alcuna traccia. Nessun atto materiale né progetto specifico.
La pubblicazione cosiddetta clandestina altro non è che la pubblicazione di “Senza Motivo”, quindicinale dell'area anarchica “insurrezionalista” che ha sospeso le pubblicazioni a luglio per carenza dichiarata di articoli e redattori. Una pubblicazione talmente clandestina che sul web sono ancora rintracciabili le indicazioni per procurarsi copia e abbonamenti. La vera accusa è quella di aver sostenuto pubblicamente le posizioni di Cospito e la campagna a sua difesa. Dunque un puro reato d'opinione.
Ma il retroterra politico dell'operazione è più minaccioso della sua inconsistenza giudiziaria. Tanto più a fronte di un governo reazionario.
Chiara Colosimo, nuova Presidente della Commissione antimafia in quota Fratelli d'Italia, ha sentito il bisogno di chiarire pubblicamente in un'intervista a Il Tirreno le motivazioni politiche del blitz intestandosi la sua ispirazione. «Sono particolarmente felice di come la Polizia di Stato abbia stroncato questa mattina a Carrara questi rigurgiti... Abbiamo passato un inverno in cui la grande pubblicità al caso Cospito ha riacceso alcuni focolai, ma il fatto di non aver ceduto al ricatto del 41 bis ci ha permesso di non lasciare troppo spazio agli anarchici... Hanno chiamato lo Stato “boia”. E questo è inaccettabile».
L'operazione repressiva non riguarda dunque fatti compiuti ma la caratterizzazione dello Stato. La difesa della sua sacralità.
Da marxisti rivoluzionari, com'è noto, non condividiamo il terrorismo, sia esso di matrice anarchica o di altra natura. Ma denunciamo la pretesa dello Stato borghese di criminalizzare e incarcerare chi pone in discussione l'ordine costituito impugnando il reato di associazione sovversiva.
L'operazione poliziesca di Carrara ha un carattere intimidatorio che va bel al di là della marginalità dei compagni colpiti. Tanto più con un governo a guida postfascista. Anche per questo diciamo: giù le mani dagli anarchici!
Partito Comunista dei Lavoratori
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Partito Comunista dei Lavoratori
Il golpe in Niger e il contenzioso imperialista nel Sahel
3 Agosto 2023
Il golpe militare in Niger fotografa una volta di più l'instabilità politica del Sahel. L'intero centro Africa è terra contesa tra vecchi e nuovi imperialismi. Una contesa che investe lo scenario mondiale, gli equilibri di potenza tra i blocchi rivali, tanto più dopo l'invasione russa dell'Ucraina.
L'Africa è il ventre molle dell'influenza imperialistica dell'Occidente. L'imperialismo francese in particolare ha visto la caduta libera del suo vecchio impero. I recenti golpe militari in Mali e Burkina Faso hanno accelerato questa caduta. L'attuale golpe in Niger è un ulteriore colpo di piccone a ciò che resta dell'eredità coloniale di Parigi. Ma è anche un colpo all'Unione Europea, che aveva scelto il Niger come avamposto in Africa lungo la linea di esternalizzazione delle frontiere contro i flussi migratori. Appena un mese fa Josep Borrell, quale Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, aveva visitato il Niger definendolo un partner solido e affidabile. Una previsione clamorosamente smentita.
Le crisi ripetute dei governi filoccidentali del Sahel hanno la loro radice nella disperata miseria sociale delle popolazioni, prodotta dal saccheggio imperialista, e oggi aggravata dai costi della guerra in Ucraina, a partire dalla scarsità di cibo e dall'impennata di prezzo dei cereali, cui si aggiungono i costi delle campagne destabilizzanti dello jihadismo, e dell'incremento corrispondente della presenza militare imperialista americana ed europea.
Di certo sessanta anni di indipendenza formale, e dei cosiddetti aiuti per lo sviluppo e la cooperazione, non hanno assicurato alcun beneficio percepibile alle popolazioni povere del Niger e del Sahel. Hanno solo lubrificato il loro sfruttamento. In particolare negli ultimi trent'anni, la presenza imperialista in Africa ha privatizzato ovunque tutto il privatizzabile a vantaggio delle rispettive aziende multinazionali. Anche i piccoli embrioni di welfare sono stati smantellati, a cominciare dai presidi sanitari e dall'istruzione. Un paese straricco di uranio come il Niger, con gigantesche riserve petrolifere, vede la maggioranza dei suoi abitanti priva di elettricità e sotto il livello minimo di sussistenza. È la misura della “democrazia” occidentale.
L'azione dell'imperialismo russo non è irrilevante nella capitalizzazione politica della situazione. La Russia di Putin ha offerto più volte una sponda alternativa di riferimento alle classi dirigenti corrotte e corruttibili del Sahel. Una sponda innanzitutto militare, spesso garantita dalla protezione banditesca delle milizie Wagner in cambio di concessioni minerarie. Ma anche una sponda economica in termini di rifornimenti alimentari: il blocco militare del grano ucraino sul Mar Nero viene rimpiazzato da donazioni cerealicole russe, quale strumento di pressione per un cambiamento di alleanze. Di certo i golpe recenti in Mali e Burkina Faso hanno avuto uno sbocco filorusso. La Repubblica Centrafricana è esposta a una dinamica analoga.
Il contenzioso apertosi sul Niger ha per ora una natura più incerta. Gli equilibri nigerini non sono ancora definiti. La Wagner ha prontamente offerto il proprio sostegno ai golpisti ma il governo di Mosca al momento si è smarcato. È possibile che pesino i contrasti interni all'apparato imperialista russo, clamorosamente esplosi con la marcia (fallita) di Prigozhin. Ma probabilmente non si tratta solo di questo. Putin sta giocando in Africa, anche in Sahel, una partita più vasta, per estendere influenza e relazioni. Non vuole comprometterla col sostegno affrettato a un golpe dall'esito incerto, malvisto da altri paesi corteggiati. Nel frattempo i governi filorussi del Mali e del Burkina Faso si sono schierati coi golpisti nigerini, garantendo loro aiuto militare, se necessario. Così Putin può giocare su più tavoli, può pesare sulla bilancia negoziale senza esporsi direttamente.
Parallelamente dodici governi filoccidentali dell'Africa Occidentale (CEDEAO) minacciano un intervento militare in Niger se non viene ripristinato il vecchio presidente destituito, Mohamed Bazoum. Con ciò da un lato cercano di tutelarsi da possibili rischi di contagio in casa propria, dall'altro si offrono come possibile fanteria agli imperialismi d'Occidente. Che oggi, a partire dalla Francia, avrebbero grandi difficoltà politiche e militari ad arrischiarsi direttamente in nuove avventure militari nel Sahel, dopo i rovesci subiti.
Quanto al nuovo governo golpista del Niger, non ha ancora scelto la propria collocazione perché sta trattando con diversi interlocutori, alla ricerca del miglior offerente, e deve ancora consolidarsi militarmente sul versante interno. Le manifestazioni antifrancesi, con sventolio delle bandiere russe, non configurano ancora una base d'appoggio sicura. Meglio, al momento, prendere tempo.
L'imperialismo cinese è un altro attore di primo piano della crisi africana. Un attore già egemone economicamente sul continente in termini di controllo di risorse strategiche, in particolare delle terre rare (litio, cobalto, nichel) che sorreggono la competizione mondiale nelle nuove tecnologie e nella cosiddetta transizione energetica.
Tra imperialismo russo e cinese, non senza contraddizioni, si realizza in Africa una sorta di divisione informale del lavoro. L'imperialismo russo offre prevalentemente protezione militare (ma non solo). L'imperialismo cinese compra a prezzi stracciati immense distese di terra africana da sussumere nel proprio sviluppo offrendo enormi investimenti infrastrutturali a debito. L'interesse comune sta nella capitalizzazione del declino imperialistico occidentale. Il costo lo pagano i proletari africani.
Anche all'interno del campo occidentale si giocano sull'Africa diverse partite. L'imperialismo italiano in particolare cerca un proprio spazio nella crisi dell'influenza francese. Il recente summit tra Italia, Arabia Saudita, Qatar e diversi governi africani ha visto non a caso la presenza statunitense, ma non quella francese e tedesca. L'Italia si offre come sponda affidabile all'imperialismo USA in funzione antirussa (e progressivamente anticinese) in cambio di un riconoscimento di ruolo per l'imperialismo italiano da parte americana. Il cosiddetto Mediterraneo allargato è creatura diplomatica italiana. Mira ad estendere ai confini del Niger l'area di interesse dell'Italia, anche a scapito della Francia. Serve non solo per bloccare le partenze dei migranti alla fonte ma anche per guadagnare posizioni chiave sul terreno economico ed energetico. L'ENI, guarda caso, è la principale azienda del continente africano in termini di volume di capitale e di affari.
La presenza militare italiana in Africa, Niger incluso, serve a rafforzare il peso contrattuale dell'Italia nella spartizione delle zone di influenza. Anche per questo il golpe militare in Niger è visto con particolare apprensione. Con qualche risvolto contraddittorio: le truppe italiane stanziate in Niger si occupavano formalmente di addestrare i militari nigerini, gli stessi che hanno appoggiato la Guardia Presidenziale nell'esecuzione del golpe. Non esattamente un successo tricolore. Ma certo è la misura di un ruolo da giocare in partita. Il Ministro degli esteri Tajani si è affrettato a dichiarare che l'ambasciata italiana in Niger resta aperta anche per svolgere un'azione negoziale utile. Utile all'imperialismo italiano, non necessariamente alla concorrenza francese.
I proletari africani, la popolazione povera del continente, non hanno nulla da guadagnare da questa contesa imperialista sulla loro pelle. Tra i vecchi imperialismi e gli imperialismi nuovi non ci sono alleati possibili per le masse diseredate del continente. Né in Niger né altrove. Non si tratta di scegliere l'albero cui impiccarsi, ma di abbatterlo, liberando il continente da ogni retaggio coloniale o neocoloniale e realizzando una prospettiva socialista.
Il proletariato africano è in grande crescita, composto in larga misura da giovani e giovanissimi. Solo la sua forza può liberare l'Africa e ricostruirla su nuove basi sociali. Dare a questa classe la coscienza politica delle sue potenzialità è il compito dei marxisti rivoluzionari africani. Battersi per il ritiro di ogni missione imperialista dall'Africa, tricolore italiano incluso, è un dovere che spetta al movimento operaio internazionale.
Partito Comunista dei Lavoratori
Alluvione e futuro
DI PCL ROMAGNA · AGOSTO 2, 2023
Di Partigiano Stanziale
Chi non conosce l’origine del male è vittima per sempre
A quasi due mesi dall’alluvione in Romagna, il dibattito pubblico si concentra soprattutto nelle polemiche fra opposizioni e maggioranze, in Parlamento e nelle amministrazioni locali. La realtà, la sostanza degli eventi, sembra decadere nell’incomprensibile brusio, sempre più tenue, di particolari irrilevanti.
Così, le vittime dell’alluvione vengono istituzionalizzate, e passivizzate, nella speranza di ottenere qualcosa, prima o poi, per gentile concessione di un sistema il cui funzionamento appare loro incomprensibile. Sicché le giuste rivendicazioni di chi ha perso tutto, invece di confliggere con gli eventuali responsabili della catastrofe, verranno cooptate, e depotenziate, all’interno di un inesistente dialogo con le istituzioni, presunte democratiche. Per cui, concentrarsi sulle tante inefficienze dei soccorsi, sull’insufficienza dei fondi stanziati dal governo post-fascista (per il momento pochi miliardi fino al 2025), sull’assurdità della nomina di un commissario per la ricostruzione a scadenza elettorale (fino alle europee del prossimo anno) e sulle condizioni attuali in cui versano gli alluvionati, (drammatiche per i proletari, a corto di risparmi per sostituire i beni perduti), è giusto e doveroso, ma inutile, se nel frattempo non si cercano le cause della catastrofe.
Un modo di produzione inefficiente e distruttivo
Negli ultimi decenni, in regione è cresciuta in maniera esponenziale la cementificazione di vaste porzioni del territorio. Gli allevamenti intensivi di bovini, in pianura, hanno sostituito gli allevamenti bradi in collina e in montagna. Mentre quelli di polli e suini sono aumentati. L’agricoltura intensiva ha continuato a distruggere la biodiversità (la più varia d’Europa, in quanto sita al confine fra flora continentale e mediterranea). La fertilità della pianura alluvionale, inferiore soltanto al delta del Mekong, con le mono-colture intensive si è estremamente ridotta. Sulla costa si è continuato a costruire, fin sulle spiagge, una quantità infinita di appartamenti, alberghi, campeggi, ristoranti e altri edifici di ogni genere, per il –benessere? – di milioni di villeggianti del ceto medio più o meno benestante (con relativa crescita esponenziale del lavoro nero e dell’evasione fiscale). Infine, il crescente sviluppo industriale e dei trasporti non ha dato letteralmente respiro agli emiliani-romagnoli, con un inquinamento dell’aria secondo soltanto alla Lombardia. Il risultato è che in Emilia Romagna il 100% degli ecosistemi è a rischio.
Un caso esemplare
Come ha mostrato, pochi giorni fa, la trasmissione RAI Report, nel corso degli ultimi anni, in regione, sono stati eseguiti una quantità di interventi per la sicurezza dei centri abitati e del territorio contro il rischio idrogeologico. Nei fiumi sono state realizzate casse di espansione, ampliamenti e abbattimenti degli argini, e altri di vario genere, per aumentare la portata idraulica, per rallentare la velocità della corrente, per consentire alle piene di espandersi e così rifornire le falde sotterranee. Tuttavia, non tutti quelli necessari e urgenti sono stati realizzati, o nemmeno progettati.
Inoltre, la manutenzione degli alvei, dei fossi e dei canali è stata ridotta al minimo, sia in montagna, sia in pianura, come sul litorale adriatico. Di tutto questo Forlì, capitale spirituale della Romagna, funziona come esempio della demenzialità contraddittoria del vigente modello economico, inefficiente e distruttivo, che causa danni irreparabili all’ambiente naturale, alle cose e alle persone. Di come l’alluvione abbia messo a nudo la decadenza di una borghesia e di un ceto politico che assomiglia alla grottesca incoscienza della regina Antonietta di Francia. La quale, a un cortigiano che la informava che il popolo non aveva più il pane, rispondeva infastidita: “Che mangino brioche!”.
Una classe politica in carriera
Pochi giorni prima dell’alluvione, l’amministrazione comunale (Sindaco Zattini, Lega) lanciava l’idea di -Forlì, città turistica-. Una idea piuttosto balzana, dato che Forlì si è sempre caratterizzata per le attività manifatturiere e agricole. Forse intendeva ribattere alla concorrenza del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (PD); il quale, con il consueto linguaggio aziendalista, invitava i sindaci della regione a –fare squadra– al fine di mettere in rete –le proprie competenze e saperi-, per rilanciare l’economia. In entrambi i casi il riscaldamento climatico e rischi connessi non venivano presi in considerazione.
Un mese dopo la catastrofe, a dimostrazione che per i Sindaco era già passata la nottata, i media locali, cartacei e online, pubblicavano la notizia dell’inizio cantiere per completare la circonvallazione intorno alla città: “Fortemente voluti dal sindaco Zattini”. Il progetto prevede: due gallerie, svincoli, rotonde e vari altri lavori. Una spesa di dodici milioni di soldi pubblici; per la gioia dei costruttori e per incentivare la circolazione su gomma, responsabile di buona parte delle emissioni di anidrite carbonica nell’atmosfera e di conseguenza dei fenomeni atmosferici estremi. Mentre la cementificazione della città e zone limitrofe continua senza pause, anzi con rinnovato fervore distruttivo. Due mesi dopo la catastrofe, di nuovo il governatore Bonaccini, tanto per non essere da meno, convocava a convegno le associazioni dei costruttori; i quali (e in quanto tali), esprimevano la ferma volontà di continuare a costruire come prima e più di prima, per creare nuovi posti di lavoro e nuova ricchezza. Insomma, della serie: quando alla pubblicità ci credono anche quelli che la fanno.
Un’opera senza futuro
A proposito di circonvallazione (o asse di arroccamento), la prima parte di essa, realizzata circa vent’anni orsono, per qualche chilometro corre vicina al fiume Montone, sopra un terrapieno alto fino a otto metri. Praticamente, rinchiude in una specie di tinozza alcuni quartieri periferici della città. Allora, il 16 maggio verso mezzanotte, quando l’onda di piena ha superato gli argini, allagando questi quartieri, a un certo punto si è infranta contro un ostacolo insormontabile, ed è cresciuta rapidamente fino a raggiungere un metro e mezzo di altezza. Quindi, accelerando, si è infilata nei pochi sottopassi del terrapieno, passando oltre e allagando altre abitazioni, per poi spandersi nelle campagne retrostanti. E questo la dice lunga sul concetto capitalista di rapporto con l’ambiente naturale, secondo il quale il territorio viene considerato un semplice supporto, o basamento, per qualsivoglia (e ovunque convenga) attività redditizia.
Il ponte della ferrovia
Forlì si trova sopra la -sella- fra i fiumi Ronco e Montone. In realtà i fiumi sono tre, in quanto, poco prima della città, alle acque del Montone si aggiungono quelle di un altro fiume: il Rabbi. Escluso il centro storico, la città si trova in gran parte, più o meno, al livello del letto di secca dei fiumi e al di sotto del livello di piena; per cui a forte rischio idrogeologico. Dal 2014 al 2017, sono stati realizzati diversi interventi per la messa in sicurezza dei quartieri più esposti al rischio alluvione, sia nel Ronco che nel Montone.
Tuttavia, per il Montone, il progetto non prevedeva l’innalzamento del ponte della ferrovia Milano-Lecce, il quale lo scavalca a circa un chilometro a valle del centro storico e poco dopo i quartieri alluvionati. Trattasi di un vecchio manufatto in laterizio (a tre archi e due piloni piantati in mezzo al letto del fiume), ben fatto, ma molto basso (addirittura le rotaie sfiorano il colmo degli argini) e dalla struttura massiccia e ingombrante. Per cui, si può ipotizzare che la presenza di questo ostacolo abbia, perlomeno, aumentato la massa d’acqua che ha scavalcato gli argini quando è arrivata la piena. Ciò non significa che il ponte della ferrovia e la circonvallazione (in misura minore) siano stati la causa dell’alluvione; tuttavia senza di essi, probabilmente, l’area alluvionata sarebbe stata diversa: meno estesa?
Gli agenti del capitale
In generale, le cause dell’alluvione sono state parzialmente naturali. O meglio, dietro un evento di per sé naturale, in quanto causato da un fenomeno naturale (la pioggia), insistono responsabilità delle classi dirigenti, politiche e produttive: locali, regionali e di Governo.
Nello specifico: hanno ignorato gli allarmi degli scienziati, dei movimenti e dell’evidenza, sulla crescente probabilità di fenomeni atmosferici mai accaduti, sempre più estremi e pericolosi. Hanno incentivato un modo di produzione energivoro e inquinante, mettendo a rischio la sopravvivenza delle popolazioni, di loro stessi e delle generazioni future. Non si sono preoccupati di approntare piani di emergenza per le popolazioni colpite da eventuali catastrofi: allarme, soccorso, evacuazione, collocazione degli sfollati, vie di fuga, eccetera. Hanno tagliato i fondi destinati alla protezione civile e agli enti preposti alla salvaguardia dell’ambiente naturale e delle popolazioni soggette a rischio idrogeologico; vuoi per mancanza di risorse economiche, vuoi per disinteresse (che è la stessa cosa). Più precisamente, hanno ignorato le relazioni dei servizi tecnici delle autorità di bacino; nelle quali si indicavano le aree abitate a rischio alluvione e gli interventi necessari e urgenti. (Per approfondimenti invitiamo a fare una ricerca negli archivi dei servizi tecnici, genio civile, della Regione Emilia Romagna). Se in tutto questo vi siano responsabilità di rilevanza penale, di questo o di quel singolo amministratore, eventualmente sarà la magistratura a doverlo appurare; anche se in questi casi è la norma che tutto finisca nell’oblio e che le vittime rimangano senza giustizia. In ogni caso, rimane la colpa collettiva di una classe politica incapace di prendere atto della realtà.
La distruzione chiamata ricchezza
Lo sviluppo economico in Emilia Romagna, particolarmente in Romagna, dopo il 1989 (Caduta del muro di Berlino) praticamente non ha avuto più freni. Le burocrazie sindacali e politiche del PCI aderirono, con l’entusiasmo del neofita ignorante, al modello fordista di crescita quantitativa senza qualità, sottoponendo il territorio alla più bieca speculazione edilizia (urbanistica clientelare contrattata). Non che in precedenza avessero fatto di meglio, tuttavia il modello stalinista in versione togliattiana (espulsione dei ceti popolari dai centri storici e costruzione di quartieri dormitorio nelle periferie) prevedeva un minimo di programmazione e controllo politico (piani regolatori) Questo modello, non certo diverso dalle regioni governate fin dal dopoguerra dalla Democrazia Cristiana, in Romagna è stato meno evidente per l’assenza di grandi città, con la popolazione diluita in centri piccoli o medio piccoli, ma è stato altrettanto e forse più devastante, per l’antropizzazione inflitta all’intero territorio. Esclusa la montagna, abbandonata a sé stessa in quanto poco interessante per gli investimenti. Non è un caso che i paesi di collina e montagna si siano spopolati progressivamente negli ultimi decenni.
Negazionisti contro transizionisti
Nei prossimi anni la questione ambientale diventerà sempre di più importante per vincere le elezioni, specialmente nei paesi occidentali. Le prime avvisaglie si avvertono già negli USA, in vista delle prossime elezioni presidenziali. Da una parte i padroni delle industrie energivore, degli allevamenti e delle monocolture intensive, rappresentati dalle destre negazioniste. Le quali sostengono che il riscaldamento climatico fa parte dei cicli naturali e che prima o poi finirà (o addirittura non lo prendono in considerazione). Dall’altra, la borghesia transizionista, che sta investendo enormi capitali nelle energie rinnovabili e per impossessarsi delle risorse naturali: acqua, suoli fertili e materie prime tecnologiche. Significativo che pochi giorni fa, nel Parlamento Europeo, la norma sul Natur Restoration Law, (per il ripristino degli habitat, parte del più ampio disegno del Green Deal) sia stata approvata con una risicata maggioranza di voti. Ne consegue che nei singoli stati non se ne farà niente o quasi: l’esultanza di Greta Thunberg e solidali è del tutto inappropriata.
La contronatura del capitale
È ormai evidente che i negazionisti non capiscono niente di ecologia e nemmeno sono interessati a capire. Il loro è un mondo estraneo a qualsiasi forma vita che non sia la loro. Al contrario, i transizionisti ne capiscono un po’, ma non possono investire le grandi quantità di capitali che sarebbero necessarie per la messa in sicurezza/adattamento dei territori sempre più a rischio nei prossimi anni. Il limite è che gli investimenti autenticamente ecologici non rendono profitto a breve termine. Si tratta della così detta finanziarizzazione dell’economia. Nella quale, i tempi di riproduzione del capitale al di sopra del tasso medio di profitto, sono estremamente ridotti, per effetto della rivoluzione informatica e telematica. Ma questo non è un’anomalia, sta nella storia dell’economia mercantile: ogni nuova scoperta, potenzialmente progressiva, viene distorta e messa al suo servizio. Anche il capitalismo più progressista, neo-keynesiano, non può abiurare sé stesso.
E le classi lavoratrici?
In questo lotta divaricante fra classi dirigenti e dominanti, da che parte starà la maggioranza delle classi lavoratrici? Negli ultimi decenni, i lavoratori si sono spostati in massa verso destra, reagendo, più o meno consapevolmente, al tradimento delle burocrazie politiche e sindacali dei partiti di sinistra. Nelle ultime tornate elettorali hanno votato per le destre o per il populismo grillino, in molti si sono astenuti. Ma se la direzione dovesse cambiare; nel senso che, da ora in avanti, gli eventi climatici estremi saranno un elemento formante dei conflitti sociali? In questo caso, la questione ambientale interagirà con la questione salariale, con i diritti sociali e civili e nella geopolitica come mai nella storia dei conflitti all’interno della nostra specie. E questo potrebbe essere propedeutico per il ritorno di grandi masse proletarie verso la lotta; e non sarà certo il salario minimo, penosa bandierina del neo PD sinistrorso a cambiare le cose, ad acquietare il conflitto fra capitale e ambiente-lavoro nel prossimo periodo storico. Ma questo è il problema dei problemi; perché solo i lavoratori avrebbero la forza di imporre lo stato di emergenza ambientale nazionale, e trovare le risorse per una vera transizione ecologica. Primi provvedimenti: una tassa patrimoniale fortemente progressiva, blocco immediato della cementificazione, nazionalizzazione (senza risarcimento alla proprietà) delle industrie energivore/inquinanti e messa in sicurezza/bonifica del territorio. Se invece rimarranno ancora passivi continuerà la catastrofe.
Conclusioni provvisorie
In Romagna come nel resto del paese, il dibattito sulla questione ecologica è estremamente arretrato. Rimane concentrato nei particolari, mentre le ragioni, le responsabilità e le colpe rimangono tabù. Ogni tentativo di alzare il livello si scontra contro il muro del presente, senza futuro e visione di insieme. Le scoperte scientifiche sul funzionamento della natura, vengono tacciate di ideologia. Assistiamo al rovesciamento di senso fra natura e cultura, là dove il naturale (la biosfera) diventa un’entità culturale e (quindi opinabile); mentre la cultura dominante (l’economia di mercato) viene considerata naturale e quindi immutabile, nella sacralità della proprietà privata. Nel frattempo, in Romagna, i corsi d’acqua (escluso piccoli interventi di riparazione degli argini) sono rimasti tali e quali a prima dell’alluvione. La materialità dell’urgenza non viene presa in considerazione, per la semplice ragione che è troppo grossa per essere compresa e affrontata. Una spada di Damocle rimane sospesa sul capo dei residenti delle zone a rischio, in Romagna e nel resto del paese. Se dovessero ripetersi le precipitazioni del mese di maggio, ed è probabile che prima o poi avverranno di nuovo, la pianura tornerà sott’acqua e la montagna franerà ancora, ma non sembra interessare a nessuno. Inizia un capitolo feroce della storia dei sapiens.
Continua la lotta all'Esselunga di Biandrate
Sono anni che la situazione per centinaia di lavoratori del deposito Esselunga di Biandrate è all’insegna dell’incertezza, in quanto l’azienda ha sempre preferito appaltare il lavoro nei suoi magazzini a cooperative che molto spesso lo hanno dato in subappalto ad altre cooperative.
Nel caso di Biandrate, la cooperativa che si è aggiudicata gli appalti è la Brivio&Viganò, che per anni ha a sua volta subappaltato il lavoro ad una serie di cooperative.
In seguito però ad un decreto di sequestro da parte della Guardia di Finanza all’Esselunga, decreto arrivato anche e soprattutto grazie alle lotte che negli ultimi anni hanno visto protagonisti i lavoratori del deposito, la società ha dovuto imporre alla Brivio&Viganò la fine del sistema del subappalto. La società ha però creato una società parallela, la Brivio&Viganò Services, riproponendo nei fatti lo stesso meccanismo precedente.
Si apre però adesso un grande punto interrogativo per centinaia di lavoratori, in stragrande maggioranza immigrati che si sono trovati dinanzi all’imposizione di firmare un contratto con la Brivio&Viganò Services senza alcuna informativa sulle nuove condizioni contrattuali. Anche per un accordo firmato quasi in segreto da Cgil, Cisl e Uil, nonostante ai cancelli proprio in quei giorni si stessero riunendo decine e decine di lavoratori organizzati dallo Slai Cobas, per pretendere chiarezza riguardo al loro futuro.
Bisogna precisare che né lo Slai Cobas né altre realtà del sindacalismo di base presenti (Si Cobas, Ul Cobas) hanno ricevuto alcuna informativa o invito a partecipare alla contrattazione.
Anche per questo motivo lo Slai Cobas ha richiesto un intervento da parte del locale Ispettorato del Lavoro, rivendicando nel contempo la partecipazione e il coinvolgimento dei lavoratori nella discussione e approvazione del nuovo contratto.
Lo Slai Cobas pone come rivendicazioni la settimana lavorativa di 5 giorni, il ticket mensa da 8€, la malattia pagata al 100% e il mantenimento dell'articolo 18. E in ultimo, per evitare di incappare continuamente nel sistema di appalti e subappalti, manifesti o mascherati, l'assunzione di tutti i lavoratori da parte di quell'Esselunga per la quale nei fatti lavorano.
Come Partito Comunista dei Lavoratori continueremo ad essere al fianco dello Slai Cobas e dei lavoratori di Biandrate per la massima unità di lotta delle realtà del sindacalismo di base presenti, contro ogni manovra o trattativa segreta alle loro spalle, perché solo con la lotta i lavoratori possono presentare il conto al padronato e alle burocrazie confederali che troppo spesso li hanno traditi.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione Sindacale
Per una immediata mobilitazione davanti alle prefetture
31 Luglio 2023
Come Apple o Amazon cancellano posti di lavoro con un sms, così il governo Meloni cancella con un sms, via INPS, il reddito di sopravvivenza di 169000 disoccupati e indigenti. Che diverranno più di 600000 a regime. Una misura tanto più odiosa e provocatoria se combinata con nuovi regali agli evasori fiscali, l'estensione della precarizzazione del lavoro, il rifiuto di ogni forma di salario minimo, e la corsa incontrollata dei prezzi alimentari.
La cosiddetta destra sociale si rivela per quello che è: una carta di ricambio delle politiche capitaliste, al servizio degli interessi d'impresa e di un incremento dei tassi di sfruttamento.
Il fatto che la cancellazione del reddito sia comunicata ad agosto non è casuale, come ha candidamente ammesso un esponente del governo (Lupi): a settembre avremmo rischiato maggiori turbolenze sociali, ha dichiarato. Come dire che un furto ad agosto si spera resti impunito.
Le opposizioni borghesi liberali gridano ora allo scandalo, come la burocrazia sindacale. Ma la cancellazione del reddito di cittadinanza è annunciata da un anno, gli sms di oggi sono solo la traduzione esecutiva della misura presa. Durante l'intero anno il governo ha potuto godere della più grande pace sociale d'Europa. PD e M5S sono unicamente occupati a sgomitare tra loro per strapparsi voti alle prossime elezioni europee. Il loro messaggio è rivolto alla borghesia: la destra rischia una bomba sociale, vi conviene cambiare cavallo. Mentre la burocrazia sindacale, Landini in primis, ha mulinato solo una valanga di chiacchiere e qualche parata simbolica d'apparato senza nessuna reale iniziativa di lotta. Se oggi Meloni può permettersi gli sms cancella-reddito è anche grazie alla latitanza dell'opposizione.
È ora di voltare pagina. Bisogna organizzare innanzitutto una risposta radicale alla cancellazione del reddito. Non domani, ma ora. Organizzare e mobilitare i soggetti colpiti è la prima necessità, con l'assedio delle prefetture di tutta Italia, a partire dal Meridione. La misura va semplicemente revocata, non rinviata, come propone il M5S. Si può imporre la revoca solo ponendo un tema di ordine pubblico, solo mostrando con la mobilitazione l'ingovernabilità della misura presa.
Tutti i sindacati di classe debbono unire la propria azione su questo terreno. La CGIL ha la responsabilità di dimostrare coi fatti la propria forza di massa per contrastare realmente il governo, che è cosa diversa dal rilasciare interviste.
Ma soprattutto va preparata una grande mobilitazione in autunno, che unisca la classe operaia, i precari, i disoccupati. Landini ha annunciato una manifestazione in ottobre e, pare, uno sciopero generale a novembre. Altri sindacati di classe, in concorrenza tra loro e con la CGIL, hanno preannunciato altre date di “propri” scioperi. Rischia di riproporsi il balletto ordinario della frammentazione delle forze, tra chi cerca di salvarsi l'anima con uno sciopero simbolico una tantum senza continuità e prospettiva (la burocrazia CGIL) e chi custodisce la propria rendita di posizione a sinistra della CGIL con qualche sciopero di calendario disertato dalla massa dei lavoratori.
Così non va. È necessario e urgente un grande fronte unico di lotta di tutte le organizzazioni del movimento operaio, grandi e piccole. È necessaria un'assemblea nazionale intercategoriale di delegati che vari una piattaforma di lotta unificante, per una grande vertenza generale contro governo e padronato. È necessaria una lotta vera, tanto radicale quanto lo sono governo e padroni. Lo sciopero generale dev'essere realmente tale, deve combinarsi con una svolta complessiva delle forme di lotta, deve darsi una continuità d'azione. Che è la condizione decisiva per strappare risultati, e ribaltare lo scenario politico.
Il Partito Comunista dei Lavoratori è impegnato in ogni sindacato di classe nell'avanzare questa proposta di svolta.