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Zohran Mamdani vince le primarie democratiche a New York

 


Buona notizia per l'affluenza, nessuna soluzione per la città

28 Giugno 2025

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Il 24 giugno il socialdemocratico Zohran Mamdani ha vinto le primarie del Partito Democratico per la carica di sindaco di New York City, anche se le vittoria è per ora ufficiosa, dato che le primarie hanno utilizzato il sistema di voto alternativo (voto a scelta classificata, ranked choice) e i risultati finali non saranno pubblicati prima del primo luglio.

Mamdani ha ottenuto il 43,5% dei voti di prima scelta; Andrew Cuomo, il suo avversario espressione dell'establishment del Partito Democratico, ha ottenuto il 36,4%; e Brad Lander ha ottenuto l'11,3% . Poiché Mamdani e Lander prima del voto si sono dichiarati sostegno reciproco, i voti di seconda scelta dati a Lander sarebbero presumibilmente andati a Mamdani, garantendogli la maggioranza. Piuttosto che prolungare l'umiliazione, Cuomo ha ammesso la sconfitta.

Mamdani ha basato la sua campagna elettorale su un programma di riforme municipali, tra cui il congelamento degli affitti per 1 milione di appartamenti a canone calmierato, l'abolizione delle tariffe sugli autobus, l'assistenza all'infanzia gratuita (o sovvenzionata), la creazione di negozi di alimentari di proprietà comunale nei cosiddetti “deserti alimentari”, e l'aumento del salario minimo nella città di New York a 30 dollari l'ora. La sua elezione ha dimostrato un ampio sostegno a tali misure.

Mamdani ha trentatré anni, è un musulmano di origini indiane e proviene da una famiglia benestante. Ha un passato di attivismo studentesco e locale, e di solidarietà con la Palestina. È membro dei Democrati Socialists of America (DSA). Nella sua campagna elettorale non ha messo in evidenza il suo attivismo e la sua appartenenza ai DSA, ma non li ha rinnegati.

La campagna di Mamdani ha fatto uso abilmente dei social media e ha coinvolto migliaia di giovani volontari. Mamdani ha ottenuto buoni risultati tra gli elettori bianchi, latini, asiatici e giovani, mentre non ha avuto lo stesso successo tra gli elettori neri, ebrei e anziani.

Mamdani ha buone possibilità di diventare sindaco di New York, a novembre, ma la sua vittoria non è certa. Il New York Times e il Washington Post sono i principali mezzi di informazione liberal (progressisti, ndt) della classe dirigente statunitense. Il Washington Post è di proprietà di Jeff Bezos, che possiede anche Amazon ed era l'uomo più ricco del mondo fino a quando Elon Musk non lo ha scalzato. Bezos potrebbe riconquistare il titolo di più ricco, dato che le buffonate politiche di Musk stanno trascinando Tesla verso il basso, e i suoi razzi Starship continuano a esplodere. Ecco il punto di vista capitalista liberal del Washington Post sulle elezioni di Mamdani, citato per esteso perché molto rivelatore:

«La vittoria di Zohran Mamdani è un male per New York e per il Partito Democratico. [titolo]

[...] Ora, un uomo che crede che il capitalismo sia un “furto” è in lizza per guidare la città più grande del Paese e la capitale finanziaria del mondo. Le sue idee principali sono “negozi di alimentari di proprietà della città”, gratuità dei trasporti pubblici, congelamento degli affitti su 1 milione di appartamenti regolamentati e aumento del salario minimo a 30 dollari. Senza dubbio queste potrebbero sembrare idee allettanti ad alcuni elettori. Ma, come per molte proposte dell'estrema sinistra americana, queste scelte danneggerebbero proprio le persone che dovrebbero aiutare.

Un salario minimo elevato avrebbe un effetto negativo sull'occupazione dei lavoratori poco qualificati. Il congelamento degli affitti ridurrebbe l'offerta di alloggi e ne diminuirebbe la qualità. Il taglio delle tariffe degli autobus creerebbe un buco nei finanziamenti dei trasporti pubblici che, se non venisse in qualche modo colmato, comprometterebbe il servizio. Nel frattempo, il settore alimentare opera con margini ridotti, e il progetto di negozi gestiti dalla città porterebbe probabilmente a una riduzione delle scelte, a un servizio scadente e a carenze di prodotti, poiché i negozi privati chiuderebbero piuttosto che cercare di competere con quelli sovvenzionati dalla città.

Mamdani in precedenza aveva chiesto di tagliare i fondi alla polizia e di smantellarla. Anche se ha moderato le sue posizioni, continua a opporsi all'assunzione di nuovi agenti.

Almeno una cosa Mamdani la ammette: il candidato vuole tasse ancora più elevate in una città dove sono già molto pesanti. Vuole un'imposta patrimoniale annuale del 2% sull'1% più ricco dei newyorkesi, e aumentare l'aliquota dell'imposta sulle aziende dallo 7,25% all'11,5%. La Grande Mela già soffre di fuga di capitali. Gli hedge fund e altri soggetti finanziari si sono trasferiti in luoghi più favorevoli alle imprese, come la Florida. I piani fiscali di Mamdani stimolerebbero un esodo delle imprese e spingerebbero più persone ricche a lasciare la città, minando la base imponibile e rendendo più difficile mantenere i servizi esistenti
».

I ricchi finanziatori e i media di establishment faranno pressione sul Partito Democratico affinché saboti la campagna di Mamdani negandogli il proprio sostegno e i propri finanziamenti. Cuomo e l'attuale sindaco democratico Eric Adams, entrambi candidati come indipendenti alle elezioni di novembre, potrebbero stringere un accordo in base al quale uno dei due si ritirerebbe a favore dell'altro.

Se Mamdani vincerà, dovrà affrontare grandi ostacoli. Egli propone di finanziare le sue riforme con una patrimoniale e un aumento delle tasse sul reddito d'impresa. Ma il sindaco non ha alcun controllo su nessuna delle due cose, e il governatore dello stato di New York Kathy Hochul ha escluso qualsiasi aumento delle tasse. Senza finanziamenti, le riforme di Mamdani sarebbero sconfitte dalle forze del mercato, e lui non durerebbe a lungo in carica.

Se la massa dei lavoratori e degli oppressi si mobilitassero, Mamdani potrebbe superare la resistenza dei capitalisti. Ma non siamo ancora in quel mondo.

In assenza di una mobilitazione di massa, Mamdani rischia piuttosto di diventare un altro Brandon Johnson, l'attuale sindaco di Chicago. Le credenziali di Johnson tra la base e gli elettori erano persino migliori di quelle di Mamdani, dato che è stato insegnante nelle scuole pubbliche di Chicago per molti anni e membro del sindacato Chicago Teachers Union (CTU). Accettando i limiti imposti dalla sua carica di sindaco, Johnson non è riuscito a portare avanti le sue riforme progressiste, ha deluso la sua base e avrà difficoltà a vincere un secondo mandato nel 2027.

La vittoria di Mamdani ha entusiasmato gli attivisti di base, che vogliono credere nella possibilità di ottenere riforme attraverso le elezioni, e rivendicano la conquista del Partito Democratico come partito del popolo. Avevano quasi rinunciato al loro impegno dopo le delusioni delle amministrazioni di Barack Obama e Joe Biden, le candidature di Hillary Clinton e Kamala Harris, il dietrofront di Bernie Sanders e l'integrazione di Alexandria Ocasio-Cortez e della Squad (gruppo di deputati e deputate vicini/e politicamente a Ocasio-Cortez, ndt) nell'ordine congressuale.

Il titolo di un articolo del 25 giugno di Liza Featherstone sul sito Jacobin coglie il cambiamento: «In un momento politico cupo, Zohran Mamdani offre speranza».

La vittoria di Mamdani conferma ciò che stiamo vedendo nelle grandi manifestazioni contro Donald Trump. Un gran numero di lavoratori e giovani vogliono opporsi e resistere. I marxisti rivoluzionari ripettano questo impulso. Allo stesso tempo, dobbiamo spiegare con pazienza che il Partito Democratico è un partito neoliberista e guerrafondaio. I loro politici sono costretti a scegliere tra acconsentire a ciò che sanno essere sbagliato o essere buttati fuori dai loro incarichi.

I marxisti rivoluzionari non dovrebbero candidarsi nel Partito Democratico né sostenere i democratici. Di conseguenza, è improbabile che i candidati che invece sosteniamo possano vincere le elezioni al di sopra del livello dei consigli comunali. Ma per noi, con l'attuale livello della lotta di classe, le elezioni servono a diffondere le nostre idee, non a conquistare cariche pubbliche.

Man mano che i lavoratori e gli oppressi si mobiliteranno, la situazione cambierà. I lavoratori in movimento chiederanno una rappresentanza politica, un partito di massa della classe lavoratrice. Le elezioni continueranno a riguardare principalmente la propaganda, ma l'elezione di lavoratori e rivoluzionari consentirà una maggiore diffusione di tale propaganda.

Le lotte decisive emergeranno dall'organizzazione sul posto di lavoro, nella comunità locali e nell'esercito, con manifestazioni, scioperi, picchetti, occupazioni e autodifesa organizzata. Per vincere, i lavoratori avranno bisogno di un partito rivoluzionario di massa, non solo di un partito che partecipa alle elezioni. Un discorso che dobbiamo iniziare.

Peter Solenberger

La nostra solidarietà a Potere al Popolo


 Un'infame operazione di infiltrazione poliziesca in diverse città

Dichiariamo la nostra piena solidarietà a Potere al Popolo, oggetto di un'infame operazione di infiltrazione poliziesca in diverse città (Milano, Bologna, Roma, Napoli).

Cinque casi documentati di infiltrazione prolungata – di almeno otto mesi – non sono un episodio tra i tanti. Misurano il salto di livello dell'azione repressiva dello Stato borghese contro gli ambienti d'avanguardia che oggi si oppongono al governo Meloni e alle politiche dominanti. Il fatto che tre interrogazioni parlamentari al riguardo non abbiano ancora ricevuto risposta dimostra l'imbarazzo e l'ipocrisia del governo, e innanzitutto del ministero degli Interni.

La documentazione raccolta sull'infiltrazione poliziesca inchioda il governo alle sue responsabilità. In tutti i cinque casi il percorso preparatorio dell'infiltrazione poliziesca è stato il medesimo. Tutti agenti del 223esimo corso allievi agenti di polizia, tutti trasferiti dopo un periodo di prova alla Direzione centrale della polizia di prevenzione (antiterrorismo), e da qui impiegati nell'azione. È il profilo di un'operazione orchestrata di cui il ministero dell'Interno non può che essere il mandante, e in ogni caso il primo responsabile.

La vicenda colpisce Potere al Popolo, ma non riguarda solo Potere al Popolo. Emerge il vero significato del famigerato decreto sicurezza. Non solo un decreto contro gli spazi di lotta e le forme d'azione della lotta di classe, come di ogni forma di disobbedienza e insubordinazione al potere. Ma anche una misura di potenziamento dell'apparato repressivo dello Stato, della sua libertà d'azione, della sua impunità. La pubblica licenza di legge per l'infiltrazione poliziesca, e persino la copertura legale preventiva per l'azione criminosa degli agenti infiltrati, sono stati votati nero su bianco da tutta la maggioranza di governo, su proposta dell'esecutivo. I successivi progetti annunciati della Lega sullo scudo legale garantito per un agente che spara, o per la cancellazione di fatto del reato di tortura, vanno nella medesima direzione.

Anche lo spionaggio emerso di giornalisti e attivisti democratici, impegnati nella difesa dei migranti (Luca Casarini), attraverso l'uso del software Graphite della società israeliana Paragon, è indicativo del clima. L'autorizzazione offerta ai servizi segreti ad usare gli spyware di Paragon è stata data dal sottosegretariato agli Interni Alfredo Mantovano il 5 settembre 2024, come riporta, senza smentite, il Corriere della Sera (16 giugno 2025). Peraltro, il sistema Paragon della fidata Israele è in dotazione solo al governo. Meloni tace, ma i fatti parlano.

E tuttavia, per dirla tutta, l'azione di spionaggio non è nuova. Fu il primo governo di Giuseppe Conte, quello che oggi fa il pacifista, ad autorizzare i servizi segreti nell'azione di spionaggio di Casarini (settembre 2019). Il suo ministro degli interni era il forcaiolo Salvini. Conte ha ammesso il fatto, salvo precisare che non aveva autorizzato a spiare i giornalisti ma “solo” alcuni attivisti, per controllare la legalità del loro comportamento. Una confessione in piena regola. Che spiega non solo chi è Giuseppe Conte, ma anche cos'è lo Stato borghese nella sua vita ordinaria. Altro che “democrazia”! La Costituzione democratica è solo una foglia di fico, che maschera e copre il potere reale. Oggi un governo a guida postfascista presenta questo potere col suo vero volto, quello degli agenti di polizia. La cosiddetta “sicurezza” pubblica è solo la sicurezza delle classi dominanti e del loro Stato da ogni minaccia reale o presunta al loro reale potere.

Per questa ragione la doverosa solidarietà a Potere al Popolo deve risolversi nella ripresa di una mobilitazione generale unitaria di tutte le organizzazioni del movimento operaio contro il governo Meloni e i nuovi poteri di polizia.

Partito Comunista dei Lavoratori

Argentina. Udienza pubblica al Congresso Nazionale. Per l'assoluzione di Alejandro Bodart

 


In vista di una nuova seduta del tribunale per l'appello presentato contro la sentenza che intende condannare Alejandro Bodart per aver espresso solidarietà alla causa palestinese e denunciato il genocidio in corso perpetrato dallo Stato di Israele, lunedì 23 si è tenuta un'udienza pubblica presso il Congresso Nazionale. Tra gli altri, hanno partecipato gli avvocati difensori di Bodart, María del Carmen Verdú e Ismael Jalil, insieme a deputati nazionali, organizzazioni per i diritti umani, organizzazioni sociali, politiche, ambientali, rappresentanti della comunità araba ed ebraica.


Durante l'udienza Bodart ha dichiarato: «Tre anni fa ho pubblicato sulle mie pagine social una denuncia contro lo Stato di Israele, accusandolo di razzismo e genocidio, ed ho espresso la mia solidarietà al popolo palestinese. Denunciare la barbarie ha portato a una denuncia da parte della DAIA [Delegazione delle Associazioni Israeliane in Argentina], che mi ha assurdamente accusato di antisemitismo. Accusa dalla quale sono stato assolto in due gradi di giudizio, considerando che le mie espressioni erano tutelate dal diritto alla libertà di espressione. Tuttavia, la giustizia argentina ha dato un'ulteriore dimostrazione di servilismo nei confronti del potere in carica. I giudici Ignacio Mahiques e Jorge Atilio Franza hanno tentato nuovamente di condannarmi, e nell'udienza di giovedì abbiamo presentato ricorso contro questa decisione antidemocratica. Il Tribunale Internazionale dell'Aia, la Corte Penale Internazionale, la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, innumerevoli organizzazioni per i diritti umani, settori democratici, persino Papa Francesco, hanno condannato tali crimini di Israele contro l'umanità. Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra ricercato, ma loro vogliono mettere a tacere me per aver detto la verità in solidarietà con il popolo palestinese. Non ci riusciranno, perché siamo in tanti a non tacere di fronte a questa barbarie».

Bodart ha aggiunto: «Trovo assolutamente ingiusto che si cerchi di condannarmi, in quello che vedo come un chiaro tentativo di mettere a tacere chi denuncia il genocidio contro il popolo palestinese. Sono convinto che mettere in discussione le politiche di uno Stato non debba essere confuso con un atto di discriminazione nei confronti della sua popolazione. Non rinuncerò mai al mio impegno per la causa palestinese. Insieme ai miei avvocati, María del Carmen Verdú e Ismael Jalil, ricorreremo contro questa sentenza in tutte le istanze necessarie, chiedendo la mia assoluzione totale. La difesa dei diritti umani e della libertà di espressione non può essere criminalizzata. Questo processo non riguarda solo me, ma costituisce un pericoloso precedente per tutte le persone che lottano per la giustizia e la verità».



26 giugno. Mobilitazione al tribunale. Assoluzione per Alejandro Bodart.

Giovedì 26 giugno, a partire dalle ore 10:00, si terrà una manifestazione di solidarietà con Alejandro Bodart, leader politico e segretario generale del Movimiento Socialista de los Trabajadores (MST) nel FIT-U e coordinatore della Lega Internazionale Socialista, perseguitato per aver denunciato il genocidio perpetrato dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese.

La mobilitazione partirà dall'incrocio tra Avenida Libertad e Avenida Marcelo Torcuato de Alvear a Buenos Aires, e arriverà fino alle porte della Sala III della Camera Penale, dove Bodart dovrà affrontare un nuovo processo. In vista di questo appuntamento giudiziario, lunedì si è tenuta un'importante udienza pubblica al Congresso, dove un ampio settore di organizzazioni e leader ha espresso il proprio sostegno ad Alejandro Bodart.

Questo caso rappresenta una grave violazione della libertà di espressione e un tentativo di mettere a tacere le voci che denunciano il massacro, l'infanticidio e l'apartheid che lo Stato sionista di Israele perpetra quotidianamente contro il popolo palestinese.

Bodart era già stato assolto, ma a seguito dell'appello della DAIA, una giustizia complice insiste nel mantenere aperto il processo giudiziario, e cerca di condannare Bodart. Questo giovedì le bandiere di sostegno al popolo palestinese torneranno a sventolare nuovamente, e grideremo a gran voce che denunciare un genocidio non è un reato, chiedendo l'assoluzione di Bodart.

Vi invitiamo a unirvi alla mobilitazione e ad affiancarvi a noi nella richiesta di assoluzione, per il diritto di parola ed espressione senza alcuna censura.

Periodismo de Izquierda - MST


L'attacco USA all'Iran, nuovo capitolo del banditismo imperialista

 


La politica di Trump nella complessità del Medio Oriente

23 Giugno 2025

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L'attacco dei bombardieri USA all'Iran è un ulteriore capitolo del banditismo imperialista della prima potenza mondiale. Un'ulteriore riprova del cordone ombelicale tra lo stato sionista e l'imperialismo USA, quale che sia il colore politico dell'amministrazione americana e del governo israeliano. Nulla di ciò che lo stato sionista ha fatto e fa sarebbe possibile senza il sostegno strutturale di lungo corso dell'imperialismo USA (e non solo). È una verità che non va mai dimenticata.

Le motivazioni formali e pubbliche dell'aggressione sionista/americana contro l'Iran sono di per sé rivelatrici di un'arroganza e ipocrisia senza limiti. Una potenza imperialista che detiene più di cinquemila testate nucleari, e uno stato coloniale sionista che ne possiede circa duecento, pretendono insieme di vietare a uno stato sovrano del Medio Oriente di costruirne una. E paradossalmente lo possono bombardare anche per il fatto che non la possiede (a differenza della Corea del Nord, che guarda caso nessuno oggi si sogna di minacciare).
Il fatto che Israele, al contrario dell'Iran, non aderisca all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, e abbia gestito il proprio armamento nucleare nella massima segretezza e fuori da ogni controllo, rende la sua denuncia delle “violazioni iraniane” ancor più grottesca e provocatoria.
Il fatto che tutte le potenze imperialiste – non solo gli imperialismi occidentali ma persino Russia e Cina – dichiarino all'unisono che “l'Iran non può avere la bomba” misura la profondità della loro comune connivenza con lo stato sionista, al di là dei diversi posizionamenti diplomatici di fronte alla guerra.

Donald Trump ha voluto salire sul carro della guerra sionista contro l'Iran. Non è chiaro se e quando avrà intenzione di scendere. Di certo la sua scelta di guerra smentisce una volta di più le idiozie sparse a piene mani in questi mesi, soprattutto da parte cegli ambienti campisti, sulla vocazione “pacifista” della nuova amministrazione USA. La più grande potenza imperialista del pianeta non è e non può essere, per la sua stessa natura, una forza di pace. Tutta la storia dell'imperialismo USA lo dimostra. Inclusi i nuovi stanziamenti di bilancio di Donald Trump per l'industria militare americana.

Il vero problema strategico e di fondo dell'imperialismo USA è come gestire la propria politica di rapina, a fronte del proprio declino e dell'ascesa dell'imperialismo cinese. La linea con cui il secondo Trump sembra affrontare il problema è effettivamente nuova. È la proposta rivolta alla Russia e alla Cina di una spartizione negoziata del mondo sulla base di aree di influenza continentali: l'America agli americani (inclusa l'America Latina, il Centro America, il Canada e persino la Groenlandia); l'Ucraina alla Russia; l'Asia alla Cina (con disponibilità negoziali su Taiwan?).
La clamorosa apertura di Trump a Putin e a un suo possibile ruolo globale, l'evidente abbandono americano dell'Ucraina (dopo un accordo di rapina sulle sue risorse minerarie), la marginalizzazione umiliante degli imperialismi “alleati” europei su ogni scacchiere della politica mondiale, lo stesso relativo disimpegno USA dal Vecchio continente, sono un risvolto della nuova linea. Non una iniziativa di pace, ma di spartizione del bottino tra banditi imperialisti. Non sappiamo se avrà successo, ma sappiamo che questa è la sua natura.


LA DIFFICOLTÀ DELLA LINEA TRUMPIANA IN MEDIO ORIENTE

Il Medio Oriente è un punto di difficoltà della linea trumpiana. Ma è anche un campo obbligato di esercitazione e sperimentazione. La crisi dell'egemonia USA nella regione è il portato di una lunga catena di disastri e sconfitte, dall'Iraq all'Afghanistan. Nell'ultimo decennio era stato l'imperialismo russo il principale beneficiario della crisi USA, attraverso il consolidamento dell'asse con Assad, lo sbarco in Libia, il blocco con gli Emirati Arabi, l'alleanza col regime iraniano e la sua rete di appoggio (in Libano, Siria, Yemen). Ma negli ultimi due anni l'azione genocida del sionismo in Palestina ha nuovamente scompaginato il campo: col crollo di Assad, la sconfitta di Hezbollah, l'indebolimento complessivo dell'Iran e della sua rete di relazioni. La nuova guerra sionista contro l'Iran è quindi (anche) la risultante dei nuovi rapporti di forza nella regione, e al tempo stesso il coronamento dell'espansionismo israeliano (occupazione di Gaza, annessione della Cisgiordania, espulsione manu militari della popolazione palestinese, allargamento nel Golan siriano, subordinazione del Libano al nuovo ordine sionista). È il progetto della Grande Israele.

Ma fino a che punto la Grande Israele si concilia col disegno imperialistico globale di Trump? L'interrogativo è aperto. Trump punta ad allargare gli Accordi di Abramo all'Arabia Saudita come nuovo architrave di una stabilità medio orientale: ciò che gli coprirebbe le spalle nella regione consentendogli di dedicarsi alla partita strategica con la Cina sul Pacifico.
Ma il governo saudita può avventurarsi in un accodo storico con Israele nel momento stesso della carneficina di Gaza? Più in generale, possono farlo l'insieme delle monarchie del Golfo, sfidando l'odio della popolazione araba? Ai loro occhi, il ridimensionamento dello storico rivale iraniano è di per sé benvenuto, al di là delle dissociazioni formali dalla guerra. Ma lo è anche un espansionismo senza rete dello stato sionista nella regione?

Le oscillazioni di Donald Trump nella vicenda sono emblematiche. Prima un negoziato in proprio (persino) con Hamas, per liberare un prigioniero USA, poi con gli houthi, per mettere al sicuro le navi americane, poi con l'Iran, per accordarsi sul nucleare. Il tutto scavalcando Netanyahu, e persino ignorandolo durante il giro delle capitali arabe. In questo quadro, l'attacco militare di Netanyahu all'Iran ha tutta l'aria di essere stato mirato (anche) alla rottura del gioco negoziale di Trump: un modo per mettere gli USA di fronte al fatto compiuto e nella necessità di doversi allineare ad Israele.
Trump, “avvisato” ma non coinvolto, ha inizialmente abbozzato. Poi ha proposto alla Russia un ruolo di mediazione per disinnescare il conflitto nel nome della de-escalation, alludendo allo scambio tra una capitolazione iraniana sotto pressione di Putin e un ulteriore semaforo verde alla guerra di Putin in Ucraina. Poi ha lodato lo «spettacolare successo militare» israeliano. Infine ha scelto di condividere questo successo con i propri bombardieri. Fino a quando e per cosa? Per puntare ad un cambio di regime in Iran sotto la pressione della guerra, magari contando su possibili defezioni e ricollocazioni di una parte dei pasadaran? Oppure per provare a riprendere in mano il negoziato interrotto con l'Iran, dopo aver provato ad Israele la propria fedeltà in guerra, e dunque con la speranza (non si sa se fondata) di uno spazio di manovra maggiore? Di certo, lo spartito trumpiano dell'apertura globale all'imperialismo russo si concilia a fatica con la guerra all'Iran, che della Russia è alleato. L'incontro a Mosca del presidente iraniano con Putin è un messaggio per Trump.


LA DIFESA DELL'IRAN DA ISRAELE E USA.
CON UN PROGRAMMA DI RIVOLUZIONE


I prossimi giorni chiariranno. Resta il fatto fondamentale: tutte le trame di guerra e di “pace” in Medio Oriente tra i diversi briganti imperialisti e lo stato sionista avvengono sulla pelle dei popoli oppressi della regione. Innanzitutto della popolazione palestinese, ma più in generale di tutta la popolazione araba e persiana.

Lo stato sionista ha avuto l'impudicizia di appellarsi alla ribellione anti-Khamenei nel momento stesso in cui bombarda le città iraniane. Ma “donna, vita, libertà” non sarà mai un canto di guerra d'Israele, perchè è il grido della rivoluzione iraniana. Sono i lavoratori, le lavoratrici, la popolazione povera dell'Iran che hanno tutto il diritto di presentare il conto al regime odioso che li opprime. Non i bombardieri sionisti. Non lo stato coloniale genocida che da due anni sta massacrando il popolo di Palestina davanti agli occhi del mondo.

Difendere incondizionatamente l'Iran e la sua sovranità dall'attacco del mostro sionista/americano, e al tempo stesso battersi per la prospettiva di un governo operaio e contadino in Iran, non sono affatto parole d'ordine inconciliabili, né disegnano scansioni temporali. Sono due tasselli paralleli e complementari del posizionamento marxista rivoluzionario. Lo stesso posizionamento che tenemmo di fronte alla guerra imperialista contro l'Iraq del boia Saddam Hussein nel 2003, o alla guerra dell'imperialismo britannico contro l'Argentina del generale Galtieri nel lontano 1982.

Contro l'imperialismo e il sionismo, sempre e incondizionatamente. Con un programma di rivoluzione socialista: l'unico che può dare agli oppressi una pace vera e giusta.

Marco Ferrando

L'Iran è solo contro l'aggressione sionista, coperta da tutti gli imperialismi d'Occidente

 


Mentre Russia e Cina negano ogni aiuto reale all'Iran

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La guerra dello stato sionista contro l'Iran ha il diretto sostegno, e/o la copertura politica, di tutti i vecchi imperialismi di America ed Europa. Senza che i nuovi imperialismi (Russia e Cina), rivali dei primi, muovano un dito per difendere l'Iran. È un fatto. Denso di significato politico, per chiunque voglia guardare in faccia la realtà.

Innanzitutto: la guerra sionista in poche ore ha fatto tabula rasa delle ipocrite recite umanitarie degli imperialismi europei dopo 70000 mila palestinesi ammazzati. Tutti i governi del vecchio continente si sono schierati come un sol uomo a sostegno del “diritto di Israele all'autodifesa” contro l'Iran. Nessuna sorpresa. È il replay su scala diversa del post-7 ottobre, e più in generale della rappresentazione capovolta della storia di Israele e del Medio Oriente. Quella storia che dipinge lo stato sionista come baluardo democratico assediato dagli arabi e dai persiani. Il fatto paradossale che l'unico stato del Medio Oriente dotato di (duecento) testate nucleari pretenda di vietare ad un altro stato della regione di costruirne una è rimosso nella sua enormità, come ogni evidenza di verità. Mentre il diritto dell'Iran alla propria autodifesa contro l'aggressione sionista – un diritto elementare di sovranità – viene denunciato come... escalation.
L'abbiamo detto e lo ripetiamo: il regime teocratico reazionario di Teheran è nemico dei lavoratori e delle masse oppresse dell'Iran. Ma sono queste, e solo queste, che hanno diritto di rovesciarlo, per una propria alternativa di società. Non certo il regime sanguinario di Netanyahu per il proprio controllo dispotico del Medio Oriente.

I fatti dimostrano che il terrorismo di Israele ha in ogni caso e ovunque il passaporto della “legalità”, a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria, ed ora in Iran: è il passaporto di uno stato coloniale col timbro certificato dell'imperialismo. Lo stesso imperialismo, prima britannico, poi americano, che benedisse ab origine la colonizzazione sionista della Palestina (nel 1948 con il voto e le armi di Stalin). Tutta la storia di Israele è in fondo la replica della sua genesi.

Ciò che invece non dovrebbe essere scontato, stando alla logica della sinistra campista, è il comportamento della Russia e della Cina.
Russia e Cina, com'è noto, hanno relazioni dirette con l'Iran. La Russia ha formalmente stipulato un partneriato strategico con Teheran (politico, diplomatico, economico, militare). La Cina è il principale cliente del petrolio iraniano. L'Iran è parte, del resto, della famosa area dei BRICS a guida russo-cinese, da più versanti esaltata come contraltare democratico e progressivo alla NATO.
Bene. Cosa stanno facendo Russia e Cina per aiutare l'Iran, nel momento dell'aggressione sionista? Niente di niente. Non parliamo, ovviamente, di un ingresso in guerra, che sarebbe catastrofico. Parliamo semplicemente di un aiuto militare, che è cosa qualitativamente diversa. L'Iran avrebbe ad esempio un disperato bisogno di aiuto nella difesa aerea, per proteggere città, infrastrutture, aziende. E avrebbe tutto il diritto ad usare ogni aiuto degli imperialismi alleati per difendersi dall'aggressione sionista. Così come l'Ucraina ha diritto a usare gli aiuti degli imperialismi NATO per difendersi dall'invasione dell'imperialismo russo. Invece, niente.

La Cina, che sta trattando con gli USA sui dazi, si è limitata ad una platonica “preoccupazione”. Putin ha telefonato a Trump, sostenitore decisivo della macchina da guerra israeliana – nel momento stesso in cui Trump esaltava il successo militare di Israele – per offrire un aiuto diplomatico... agli USA per una imprecisata mediazione.
Immaginiamo il messaggio: “Caro Trump, se hai bisogno di un aiuto per ottenere la capitolazione dell'Iran sono disponibile... Basta che tu in cambio ci lasci proseguire, come già stai facendo, la nostra guerra d'invasione in Ucraina, nel nome della sua futura spartizione tra noi”.
La verità è che l'imperialismo russo, come l'imperialismo cinese, non ha alcuna intenzione di rovinare le proprie relazioni negoziali con gli USA, e neppure con Israele, per difendere un proprio alleato. Neppure quando questi è sotto le bombe sostenute dagli imperialismi rivali.

Per le potenze imperialiste vecchie e nuove, il mondo è solo un tavolo da gioco. Per loro, i diritti dei popoli sono solo merce di scambio. Non esistono imperialismi “amici”. I popoli oppressi, a partire dal popolo di Palestina, non hanno da attendersi nulla da quel versante. Solo una mobilitazione rivoluzionaria dei popoli oppressi può liberare il Medio Oriente dal sionismo e dall'imperialismo. Solo una rivoluzione socialista internazionale può liberare il mondo dai banditi che lo dominano.

Partito Comunista dei Lavoratori

Una prima lettura del risultato referendario


 Il risultato referendario, pur nella sua parzialità, è una cartina di tornasole dello scenario italiano. Di valenza politica e sindacale. Su questo esprimiamo una primissima valutazione di carattere generale, che segnala gli aspetti contraddittori del risultato ma soprattutto pone l'esigenza di una svolta generale di linea politica e sindacale del movimento operaio italiano. Lo facciamo con tanta più determinazione avendo partecipato, con una nostra autonoma impostazione, alla campagna referendaria per i cinque "sì".



LE CONTRADDIZIONI DI UN RISULTATO

1) Dodici milioni di voti a sostegno del "sì" sui temi del lavoro non sono in sé un dato irrilevante. Né lo è il 30% di partecipazione complessiva al voto. Tanto più considerando il fatto che il calcolo percentuale è fatto comprendendo tra gli aventi diritto gli italiani all'estero, spesso ignari dell'esistenza stessa del referendum. Una autentica truffa dal punto di vista democratico, taciuta e rimossa paradossalmente dagli stessi promotori del referendum, e non solo. Inoltre l'esclusione dalla partita referendaria, per decisione della Consulta, dell'Autonomia differenziata ha sicuramente ridimensionato l'afflusso al voto, com'era prevedibile, in particolare nel Sud (ma non solo). Così a loro volta i primi dati di domenica sull'affluenza hanno contribuito a ridurre ulteriormente la partecipazione.

2) Il voto raccoglie il grosso dell'elettorato di sinistra e di centrosinistra, senza scalfire la massa abnorme dell'astensione (secondo i sondaggi, il 58% dei lavoratori salariati alle ultime elezioni europee), e senza incidere sul blocco sociale ed elettorale della destra (tra cui un 39% di voto operaio sull'elettorato attivo per Fratelli d'Italia, sempre secondo i sondaggi). Nel complesso, i blocchi elettorali e i relativi rapporti di forza appaiono sostanzialmente intatti. Dopo due anni e mezzo di governo Meloni, la destra tiene la propria base sociale. Ma la pretesa della destra di intestarsi l'astensione come proprio consenso politico è abusivo. La destra tiene ma non è maggioranza nella società italiana. Se ha il 59% dei parlamentari a fronte del 44% dei voti (elezioni politiche del 2022) è grazie ad una legge elettorale varata dal PD, il "Rosatellum". Ciò che nessuno ricorda.

3) La distribuzione geografica e territoriale del voto ricalca l'articolazione interna dei due principali blocchi elettorali. I fenomeni di passivizzazione conoscono un'espressione particolarmente concentrata nel Meridione, nei piccoli centri, nella provincia profonda. Che sono anche, in linea generale, il principale bacino della destra. Mentre le grandi città nel loro complesso rivelano una maggiore sensibilità sociale e democratica. Significa che la città non egemonizza la provincia, e che quest'ultima continua a fare da zavorra.

4) Mentre il voto sui quesiti del lavoro raccoglie al proprio interno oltre un 80% di consenso al "sì" (attorno ai 12 milioni di voti), il 35% per il "no" sul quesito della cittadinanza (quasi 5 milioni di voti) riflette la perdurante influenza di posizioni e pregiudizi reazionari sul tema dell'immigrazione all'interno della stessa base elettorale del centrosinistra. Un fatto eloquente. Un riflesso della presa della destra sul senso comune di ampi settori popolari. Ma anche delle politiche del centrosinistra.


UN BILANCIO DI VERITÀ. L'ESIGENZA CENTRALE DI UNA SVOLTA

Questi primi elementi di osservazione richiamano l'esigenza di un bilancio, e soprattutto di un cambio radicale di prospettiva.

La gestione della campagna referendaria da parte dei suoi promotori è stata un riflesso della loro natura. Il PD liberalprogressista ha dovuto contorcersi per motivare la richiesta di abrogazione di misure come il Jobs act, che aveva votato e varato. Il M5S contiano ha pensato bene di dissociarsi sul quesito relativo alla cittadinanza, avendo coltivato nel tempo politiche anti-immigrazione (la denuncia dei «taxi del mare»). Senza potersi ancorare per loro natura a contenuti di classe, PD e M5S hanno condotto essenzialmente una campagna referendaria “contro la destra”, incapace di incunearsi nel suo blocco sociale.
La burocrazia CGIL, con Maurizio Landini, ha fatto in un certo senso l'opposto: si è richiamato giustamente alla centralità dei contenuti sociali dei quesiti ma dicendo che non erano contro il governo e la destra, con l'idea che spoliticizzare la campagna potesse allargare la sua presa.
Il risultato smentisce il combinato disposto di entrambe le impostazionien; mentre le contraddizioni passate e presenti del campo referendario hanno fornito armi preziose alla speculazione delle destre («il referendum è una lotta interna alla sinistra pagata dagli italiani»). La loro volontà di intestarsi politicamente l'astensione, per quanto abusiva, è stata parte di questa operazione.

Detto questo, il risultato non riflette tanto la gestione della campagna referendaria quanto i processi di più lungo corso. Processi inseparabili dalla linea generale delle direzioni del movimento operaio e sindacale.
La passivizzazione della maggioranza dei salariati, combinata con l'influenza delle destre nelle loro file, è il prodotto di una lunga stagione di subalternità e di compromissione, per responsabilità della sinistra politica sindacale. È il deposito di mezzo secolo. Non puoi pensare di dissolverlo e neppure di scuoterlo con una pura iniziativa di carattere referendario nei fatti concepita come surrogato della mobilitazione.
La stessa storia delle campagne referendarie dimostra che i risultati vincenti sono sempre stati un sottoprodotto, diretto o indiretto, di grandi mobilitazioni. Così fu per il divorzio (1974) e l'aborto (1981), così fu in un contesto diverso per la stessa vittoria referendaria sull'acqua pubblica nel 2011, sullo sfondo di un'ampia mobilitazione contro il governo Berlusconi. I referendum dell'8 e 9 giugno, invece, nonostante il loro carattere progressivo, avevano al piede la zavorra di una prolungata passività dell'azione sindacale, più che decennale, sul terreno della lotta di classe: nessuna piattaforma generale riconoscibile, nessuna unificazione di lotta delle centinaia di vertenze delle aziende in crisi, nessuna unificazione sul terreno delle vertenze contrattuali di categoria, nessuna azione di sciopero vero mirata ad incidere realmente sui rapporti di forza. Il fatto che la destra e/o i fautori del "no" abbiano contrapposto ai referendum il tema del salario («il problema oggi non è il Jobs act ma il fatto che i lavoratori non arrivano a fine mese...») non misura solamente la loro sconfinata ipocrisia, ma anche la mancanza di una battaglia salariale unificante, e di una piattaforma generale che la comprenda.

Tutto ciò ha conseguenze anche sul piano democratico. È vero, la CGIL si è pronunciata contro l'infame decreto sicurezza anche con manifestazioni e presidi. Ma senza legare la sacrosanta battaglia democratica alle ragioni di uno scontro sociale vero, nelle sue ragioni di classe riconoscibili e nelle sue forme d'azione, la stessa battaglia democratica non riesce ad incidere sul senso comune di massa. Il fatto che oggi i sondaggi ci dicano che il decreto sicurezza ha un consenso del 70% (!) nonostante il suo contenuto arcireazionario lo dimostra in modo drammatico.
Così la stessa ricomposizione di un blocco sociale alternativo, che recuperi le grandi masse del Mezzogiorno, è impensabile senza una piattaforma sociale unificante che connetta la classe operaia con la più larga massa della popolazione povera: il fatto che i sindacati abbiano subito senza una reale azione di lotta la cancellazione del reddito di cittadinanza (al di là della rituale critica nei talk show) è corresponsabile della passivizzazione nel Sud.
Lo stesso vale, infine, sul tema cruciale dell'immigrazione: senza un approccio di classe alla questione, che parta dall'organizzazione diretta dei salariati immigrati, e che comprenda i diritti dei migranti dentro una piattaforma di lotta unificante, il richiamo democratico resta più debole della semplificazione reazionaria, anche all'interno della classe lavoratrice («arrivano in massa, ci tolgono il lavoro, ci comprimono i salari...»).


“RIPARTIRE”: IN CHE MODO E PER ANDARE DOVE?

Landini ora dice che occorre ripartire dai milioni di "sì". Ma in che modo, e per andare dove? L'idea di recuperare l'esperienza della cosiddetta “coalizione sociale” di sette anni fa, cioè una rete di rapporti di vertice con diverse associazioni laiche e cattoliche progressiste, può forse servire alla burocrazia CGIL e al suo peso negoziale nel rapporto col centrosinistra, ma non serve al movimento operaio e sindacale. Ciò che serve è l'apertura di una vertenza generale vera, che rompa gli argini della pace sociale, e punti ad unificare realmente sul terreno della lotta i 18 milioni di salariati, e attorno a essi un più vasto blocco sociale alternativo. Senza lavorare a questa svolta generale non si sviluppa la coscienza della classe, non si scuote l'indifferenza, la passività, la demoralizzazione. Tanto meno si disgrega il blocco sociale della destra.

Solo una rivolta sociale vera, non solo declamata, può aprire dal basso una pagina nuova, ed anche strappare risultati parziali. È con questa linea di intervento che il PCL ha partecipato alla campagna dei cinque "sì", fuori da ogni illusione istituzionale. È con questa proposta che daremo battaglia nei sindacati di classe, tra i lavoratori e le lavoratrici, nella giovane generazione proletaria.

Ma battersi per questa svolta significa battersi per un'altra direzione del movimento operaio sul piano sia sindacale che politico. Milioni di lavoratori e lavoratrici sono senza una propria rappresentanza politica autonoma. Il rifiuto di Landini di rompere coi partiti borghesi di centrosinistra e di costruire un autonomo partito del lavoro concorre a questa privazione di rappresentanza. Occorre battersi per svilupparla.

Va costruito un partito indipendente della classe lavoratrice tanto radicale quanto sanno essere i partiti padronali a difesa della loro classe. Un partito che riconduca ogni battaglia immediata alla prospettiva di un'alternativa di società, nella quale a comandare siano i lavoratori e non i capitalisti. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, unica vera alternativa.

Il PCL si batte ogni giorno per la costruzione di questo partito, assieme ai marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

La nostra critica alla piattaforma del 7 giugno

 


Per una liberazione della Palestina dal sionismo e dall'imperialismo! Tutti a Roma il 21 giugno!

Il PCL partecipa e aderisce alla manifestazione nazionale per Gaza del 21 giugno. Non partecipiamo alla manifestazione del 7, le cui parole d'ordine non condividiamo. Tantomeno condividiamo le posizioni delle forze politiche promotrici (PD, M5S, Sinistra Italiana, Verdi), rispetto alle quali siamo sempre stati in opposizione. Ciononostante, interverremo con un nostro volantino per criticare la piattaforma della manifestazione e allo stesso tempo per interloquire con chi sente di doversi doverosamente mobilitare contro il genocidio sionista, anche in questa occasione.


Il massacro della popolazione palestinese da parte dello stato d'Israele solleva ovunque una vasta indignazione. Per questo la manifestazione di oggi vede la presenza di tante persone giustamente sdegnate contro il terrorista criminale Netanyahu e contro Meloni. È un sentimento che facciamo nostro. Ma la piattaforma su cui il centrosinistra l'ha convocata non risponde affatto ad una esigenza di chiarezza. Al contrario. Tace ad esempio sul sostegno che tutti i governi imperialisti al mondo, per due anni, hanno assicurato ad Israele e alle sue politiche genocide, inclusi i governi di centrosinistra; come tace sul voto a favore nel Parlamento italiano alla missione militare in Golfo Persico, contro gli houthi e al fianco di Israele, che ha visto convergere Schlein e Conte con Meloni, Salvini, Tajani. Altro che opposizione al governo!
Ma non solo.

1) La piattaforma del 7 giugno ignora la resistenza palestinese contro le truppe d'occupazione. Come se la resistenza non esistesse. Come se la resistenza a una forza militare occupante non fosse il diritto di ogni popolo oppresso. Si recita il solito bilanciamento tra la richiesta del cessate il fuoco da un lato e la liberazione degli ostaggi dall'altro, con un esercizio salomonico ipocrita: come se fosse possibile equiparare una azione di resistenza e un esercito occupante. Ciò che avalla ancora una volta l'idea per cui “tutto è iniziato il 7 ottobre” capovolgendo la verità. No, l'aggressione sionista deve finire subito e incondizionatamente, perché è parte di una oppressione coloniale, che ha cento anni di storia alle proprie spalle. Punto.

2) La piattaforma del 7 giugno si guarda dal rivendicare la rottura unilaterale dell'Italia con Israele, limitandosi a sollecitare la sospensione (perché non la fine?) dell'accordo di associazione UE-Israele. Ma sappiamo che in UE vige il criterio dell'unanimità, per cui il “sollecito” è lettera morta. Ci si deve battere invece innanzitutto in Italia, come in ogni altro paese, per la rottura di ogni relazione diplomatica, commerciale, militare con lo stato sionista. Una rottura immediata e incondizionata. I portuali del Marocco hanno bloccato con la propria azione diretta i traffici mercantili con Israele. Crediamo che il movimento operaio italiano dovrebbe riprendere questo esempio. Si scioperò a suo tempo per il Vietnam, perchè non scioperare per Gaza? Bisogna fare di Gaza e Cisgiordania il Vietnam di Israele!

3) La piattaforma del 7 giugno tace sulla complicità diretta dell'industria militare italiana con l'apparato militare israeliano. Si può chiedere platonicamente di sospendere (perché non cancellare?) la compravendita di armi con Israele senza chiamare con nome e cognome le responsabilità dei grandi gruppi capitalistici di casa nostra? Leonardo fornisce ad Israele gli elicotteri militari con cui mitragliare la resistenza palestinese in Cisgiordania. Perché non dirlo? Forse perché nella Fondazione Leonardo siedono ex ministri del PD con tanto di immacolato riconoscimento pubblico? Forse perché il PD si è opposto alle manifestazioni universitarie che chiedono la fine delle complicità con la macchina da guerra di Israele nel campo della ricerca? La verità è che – al pari degli altri – tutti i governi di centrosinistra per trent'anni hanno tutelato e incrementato le relazioni col sionismo. Anche quelli sostenuti dalla sinistra cosiddetta radicale, come nel caso dei due governi Prodi. Quanto a Conte, si può solo ricordare che i due governi da lui diretti non solo confermarono l'accordo militare e industriale con Israele del governo Renzi (2015) ma aumentarono le esportazioni di armi verso Israele. Altro che “pacifismo”!

4) Ma soprattutto la piattaforma del 7 giugno rimuove la questione decisiva: la prospettiva di soluzione della questione palestinese. Si chiede di riconoscere lo stato di Palestina come stato democratico e sovrano. Di grazia, dove dovrebbe sorgere concretamente questo stato? Senza una indicazione chiara su questo aspetto centrale, si resta nel regno dell'ipocrisia. Guardiamo in faccia la realtà. Gaza è occupata militarmente, coi suoi due milioni di abitanti bombardati e affamati. La Cisgiordania, coi suoi quattro milioni di palestinesi, è da tempo occupata da oltre 700000 coloni sionisti, armati sino ai denti, che ogni giorno uccidono e stuprano. Due milioni di palestinesi sono segregati in Israele, subendo discriminazione e ricatto. Altri sei milioni di palestinesi sono dispersi nei campi profughi della nazione araba, spesso tenuti dai diversi governi in una condizione umiliante.

Domanda: questo grande popolo di Palestina ha diritto oppure no a ritornare nella terra da cui fu cacciato per mano del terrorismo sionista, con la benedizione degli imperialismi (e le armi di Stalin)? Si può rispondere in modo diverso a questo interrogativo. Ma non si può rimuoverlo. La nostra risposta è sì: il popolo palestinese ha diritto a tornare nella propria terra, perché ha diritto come ogni popolo oppresso alla propria autodeterminazione nazionale.

Ma proprio questo inviolabile diritto al ritorno chiama in causa le basi giuridiche, confessionali, militari dello stato d'Israele. Uno stato coloniale, nato da un progetto coloniale, il progetto del sionismo. Un progetto reazionario respinto per lungo tempo dalla stessa maggioranza dell'ebraismo, e tuttora contestato dalla sua parte migliore nel mondo. Altro che equiparazione tra antisionismo ed antisemitismo! In tutto il mondo non c'è stata una sola mobilitazione di massa pro Palestina che abbia avuto contenuti antisemiti. Il fatto che Israele evochi questo rischio per coprire la propria azione genocida misura solamente il suo cinismo.

La verità è che senza mettere in discussione lo stato coloniale sionista non c'è possibile soluzione della questione palestinese. I famosi accordi di Oslo nel nome di “due popoli, due stati” sono stati una truffa, che ha peggiorato la condizione palestinese. Significa, questo, buttare al mare gli ebrei? Niente affatto. Significa rivendicare una Palestina unita e libera dal fiume al mare con i diritti nazionali della minoranza ebraica. Una soluzione difficile, ma l'unica soluzione reale. L'alternativa è la tragica continuità del presente.

Questo progetto di liberazione pone l'esigenza di una direzione alternativa del popolo palestinese e della sua eroica resistenza. Non la direzione della ANP, che agli stessi occhi dei palestinesi è da tempo compromessa con le forze di occupazione. Non la direzione di Hamas, che sembra interessata unicamente al progetto di un proprio regime islamista, di taglio iraniano. Ma una direzione nuova che riconduca la lotta di liberazione della Palestina a una prospettiva anticoloniale e antimperialista. Una prospettiva inevitabilmente connessa alla liberazione rivoluzionaria dell'intera nazione araba. È la prospettiva di una Palestina laica e socialista in una federazione socialista del Medio Oriente.

La Lega Internazionale Socialista (LIS) è impegnata in tutto il mondo nel sostegno incondizionato al popolo palestinese e alla sua resistenza. La sezione libanese della LIS è stata ed è in prima fila nella lotta per la liberazione della Palestina. Ciò in piena coerenza con il movimento trotskista delle origini: l'unica corrente del movimento operaio internazionale che contestò alla radice il progetto coloniale del sionismo, e la nascita dello stato coloniale di Israele.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, sezione italiana della LIS, porterà le sue posizioni nella manifestazione nazionale convocata a Roma il 21 giugno. Come abbiamo fatto in tutte le manifestazioni pro Palestina promosse dalle organizzazioni palestinesi in questi due anni... senza aspettare settantamila morti.

Partito Comunista dei Lavoratori