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Dove va la Siria?

 


Il crollo di un regime dispotico, la natura del nuovo potere islamista, il futuro di una rivoluzione siriana

29 Dicembre 2024

La caduta del regime di Bashar al-Assad è stata una risultante indiretta dello scenario mondiale. Ma non di un misterioso complotto. I campisti cercano ancora una volta regie occulte, quando tutto è avvenuto alla luce del sole. Semplicemente la guerra d'invasione dell'Ucraina da parte di Putin ha privato il regime siriano dell'appoggio decisivo dell'imperialismo russo. Mentre la guerra dello stato sionista in territorio libanese ha impedito il soccorso ad Assad da parte delle forze di Hezbollah. La defezione obbligata dei suoi alleati tradizionali ha condannato a morte un regime tenuto in piedi esclusivamente dal loro sostegno.

La base materiale del regime era infatti estremamente ristretta. Il clan allargato della famiglia Assad concentrava nelle proprie mani, in forma diretta o indiretta, tutte le leve dell'economia e dell'apparato statale. La stessa apertura al capitale straniero e alle relazioni diplomatiche con gli imperialismi – avviate già a partire dagli anni '80, e poi dispiegate negli anni '90 e 2000 – si combinavano col controllo familiare delle grandi proprietà immobiliari, delle telecomunicazioni, del sistema bancario. Che a sua volta integrava nelle proprie strutture la fascia sociale superiore della comunità alauita (sciita), minoranza privilegiata della borghesia siriana. Parallelamente, l'enorme apparato repressivo del regime, nella sua articolazione capillare, faceva egualmente capo alla rete parentale di Assad e al suo esercizio di un terrore spietato.

La ribellione di massa del 2011, sulla scia delle rivoluzioni arabe in Tunisia ed Egitto, scosse fortemente il regime. Il successivo sviluppo della reazione panislamista, inizialmente favorita dallo stesso Assad in funzione controrivoluzionaria, da un lato ebbe ragione della rivoluzione siriana ma dall'altro impegnò il regime in una guerra civile logorante che ne indebolì ulteriormente la capacità di tenuta. Il peso specifico del sostegno russo e iraniano ad Assad crebbe nell'ultimo decennio in misura proporzionale all'indebolimento del regime. Il suo venir meno è stato pertanto fatale.


LA DINAMICA DEL CROLLO, LA NATURA DEI VINCITORI

La dinamica del crollo è stata rapidissima. Oltre ogni possibile previsione degli stessi protagonisti. In dieci giorni si è sfaldato come neve al sole un regime che durava da più di mezzo secolo.
A dissolversi innanzitutto è stato l'apparato militare. Dopo la caduta di Aleppo, e poi di Homs, è crollata ogni residua linea di difesa. La fuga di Assad in Russia si è combinata con la resa sul campo dei suoi uomini. Assad stesso, negli ultimi giorni, ha dato alle sue strutture di riferimento l'indicazione della desistenza. L'abbandono a terra delle divise da parte di migliaia di soldati e ufficiali ha immortalato l'evento. Le truppe islamiste di Al Jolani sono entrate a Damasco senza colpo ferire, dopo aver probabilmente negoziato dietro le quinte la rinuncia a ogni resistenza da parte delle residue forze assadiste, in cambio di una promessa magnanimità.

La natura politica dei vincitori è inequivoca e al tempo stesso composita.
La forza dominante, HTS, guidata da Al Jolani, è frutto dell'accorpamento di tredici frazioni della galassia islamista, dopo la sconfitta dell'ISIS, e la conversione “nazionalista” del principale troncone siriano di Al Qaeda. La sua matrice è indiscutibilmente reazionaria. Il suo governo della città di Idlib, dove HTS si era da tempo arroccata, ha seguito non a caso precetti islamisti più o meno rigorosi.
La seconda forza nel campo dei vincitori è rappresentata dall'Esercito Nazionale Siriano (nel quale dieci anni fa erano confluiti i resti dell'Esercito Libero Siriano, inizialmente composto da soldati e ufficiali che dopo il 2011 avevano rotto con Assad sposando la sollevazione popolare). Questa organizzazione può essere oggi considerata la più diretta agenzia della Turchia in Siria, pienamente subordinata ai suoi interessi e alla sua politica. Più in generale, la Turchia emerge come forza dominante della nuova Siria, rimpiazzando il vecchio asse russo-iraniano.

Chiarita la matrice reazionaria, quale sarà l'evoluzione dello scenario siriano? È difficile avanzare una previsione attendibile. Ma è importante decifrare le mosse dei protagonisti, e il loro significato. La linea generale di Al Jolani è oggi quella di chi lavora al proprio accreditamento politico e diplomatico a 360 gradi, in Siria e sul piano internazionale.


L'ECUMENISMO RECITATO DI AL JOLANI

Sicuramente sorpreso dalla rapidità della propria vittoria, timoroso di perdere il controllo della situazione, spaventato dalle dimensioni enormi della crisi siriana (amministrativa, economica, militare), Al Jolani cerca una base d'appoggio per il nuovo potere. In Siria il suo sforzo principale consiste nella ricostruzione dello Stato borghese, anche attraverso l'assimilazione di ampi settori del vecchio apparato. Da qui la promessa di una larga amnistia; della dissoluzione delle milizie islamiste in un nuovo esercito regolare; della rinuncia a “vendette” contro i vinti; di una apertura a tutte le confessioni religiose e gruppi etnici del paese; del rispetto dei diritti delle donne; di una nuova Costituzione (non meglio precisata) e di successive elezioni.

Sul piano dell'amministrazione corrente, Al Jolani sta cercando un punto di equilibrio tra le ambizioni della propria cerchia di provenienza Idlib e la conservazione della vecchia burocrazia statale, nazionale e locale. La composizione mista del governo provvisorio “di salvezza nazionale”, e il mandato trimestrale a questi assegnato, risponde esattamente a tale equilibrio.
Sul piano economico, la direzione di marcia di Al Jolani è quella della liberalizzazione del mercato interno, a partire dalla messa all'asta dei monopoli parastatali e delle immense proprietà del clan Assad: cercando di soddisfare gli appetiti di una borghesia siriana, in parte interna e in parte emigrata, interessata a capitalizzare la svolta inattesa nel proprio interesse di classe.

L'ecumenismo di Al Jolani non è meno ampio in politica estera. Tutt'altro. All'imperialismo russo, pesantemente sconfitto, cerca di risparmiare l'umiliazione, offrendo il rispetto delle sue basi militari sul Mediterraneo e in ogni caso la garanzia di una ritirata ordinata. Allo stato sionista concede la futura rinuncia della Siria a ogni politica antiisraeliana nel nome di una “equidistanza” tra interessi regionali contrapposti: un de profundis per palestinesi ed Hezbollah. Agli imperialismi d'Occidente si offre una totale normalizzazione delle relazioni in cambio dell'auspicato ritiro delle sanzioni.


IL PELLEGRINAGGIO A DAMASCO DELLE CANCELLERIE IMPERIALISTE.
LA NUOVA SPARTIZIONE DEL MEDIO ORIENTE


Il pellegrinaggio affannoso di tutte le cancellerie imperialiste a Damasco è sintomatico. Ogni paese imperialista mira a incassare un utile per i propri interessi, a dispetto dei propri rivali. La Francia fa leva sul proprio ruolo in Libano, anche in qualità di garante della tregua in atto, per irradiarsi nella vicina Siria. L'Italia, che aveva giocato d'anticipo sulla concorrenza aprendo in estate la propria ambasciata a Damasco (a sostegno di Assad), accampa i diritti di partner privilegiato della nuova Siria scavalcando la Francia. Gran Bretagna e Germania offrono a loro volta disponibilità creditizie al nuovo potere puntando a ipotecare a proprio vantaggio la ricostruzione della Siria. Tutti esibiscono garanzie future in cambio di concessioni immediate. Tutti non vedono l'ora di liberarsi dei profughi siriani rispedendoli nel loro paese, e intanto bloccando ogni nuova immigrazione dalla Siria.

La verità è che il crollo del regime di Assad riapre il grande gioco della spartizione del Medio Oriente e delle sue aree d'influenza. Un secolo fa furono gli accordi di Sykes Picot a spartire la regione tra imperialismo francese e britannico. Quali saranno oggi gli architetti dei nuovi equilibri? A differenza di un secolo fa, quando ancora l'imperialismo britannico poteva vantare la propria egemonia internazionale, l'imperialismo mondiale è oggi privo di un proprio baricentro. La contesa tra vecchie e nuove potenze imperialiste infuria su tutti gli scacchieri, ed è già entrata nella stessa partita siriana.

L'imperialismo russo ha subito un colpo molto pesante con la caduta del regime siriano. Dieci anni fa la vittoria militare della Russia in Siria a garanzia di Assad accrebbe a dismisura il suo prestigio in Medio Oriente, e non solo: la stessa penetrazione della Russia in Africa nel ruolo di protettore militare di nuovi regimi (Mali, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Niger, Ciad), ai danni prevalentemente dell'imperialismo francese, fu l'incasso della vittoria riportata in Siria. Per la stessa ragione, la caduta di Assad è oggi una disfatta russa ben al di là della Siria. E con essa, una nuova sconfitta del regime iraniano alleato, dopo lo smacco subito in Libano.

Tuttavia non è chiaro chi rimpiazzerà lo spazio vacante. Lo stato sionista mira a capitalizzare a proprio vantaggio la sconfitta dell'asse iraniano, a partire dall'occupazione sfrontata di territorio siriano nel Golan, nel silenzio della diplomazia mondiale: il disegno della Grande Israele non conosce confini. Ma il regime reazionario di Erdogan coltiva specularmente le stesse mire, disponendo oggi in Siria di leve invidiabili ad altri precluse: una diretta presenza militare nello schieramento vittorioso, e dunque il controllo politico indiretto sul nuovo governo siriano.
La contrapposizione diplomatica della Turchia a Israele sulla vicenda palestinese ha guadagnato a Erdogan nuove entrature nell'opinione pubblica delle masse arabe, e dunque uno spazio di manovra più ampio. La collocazione turca sulla linea di confine della NATO, e insieme le sue relazioni privilegiate con la Russia, consentono ad Erdogan di giocare su ogni tavolo in funzione del proprio disegno: un disegno neo-ottomano, che si irradia dal Nord Africa (Libia) alla penisola arabica sino al Sudan. Se un secolo fa la Siria nacque dalle spoglie dell'Impero ottomano, oggi l'ambizione neo-ottomana passa per il controllo turco della Siria. Una sorta di protettorato turco su Damasco.


LA MINACCIA MORTALE CHE GRAVA SUI CURDI

Questo disegno strategico richiede l'annientamento del popolo curdo. Tutte le pedine delle scenario internazionale sembrano disporsi nuovamente contro l'amministrazione curda del Rojava.
L'imperialismo USA nel suo proprio interesse sostenne dal 2016 le milizie curde siriane nella guerra contro ISIS, anche per frenare l'influenza russo-iraniana in Siria. La splendida vittoria militare curda a Kobane dimostrò agli occhi del mondo il coraggio e le capacità delle milizie curde di YPG contro la barbarie panislamista. L'espansione territoriale dell'amministrazione curda nel Rojava fu un effetto di quella vittoria. Ma nel 2019 Trump tradì i curdi con un primo ritiro dei marines e l'offerta di un semaforo verde all'offensiva militare turca contro il Rojava (chiamata beffardamente “Ramo d'ulivo”). La direzione curda strinse allora un patto inedito con Assad, accettando l'ingresso di forze militari russe e siriane come forze di interposizione. Ora la caduta di Assad rimescola nuovamente tutte le carte.
Erdogan chiede perentoriamente al nuovo governo siriano di disarmare il Rojava. Al Jolani ha pubblicamente dichiarato che la nuova Siria non potrà consentire una autonoma amministrazione curda nel nord-est della Siria. Gli USA hanno sinora mediato fra le truppe dell'Esercito Nazionale Siriano (filoturco) e le milizie di YPG. Ma l'annunciata amministrazione Trump ha già dichiarato che gli USA non si faranno coinvolgere. In altri termini, lasceranno fare alla Turchia. La direzione curda scrive a Trump chiedendo rassicurazioni, ma è molto difficile che possa ottenerle.
Una volta di più si conferma una verità di fondo: i curdi, al pari dei palestinesi, hanno diritto alla propria autodeterminazione nazionale, ma nessuna autodeterminazione dei popoli oppressi del Medio Oriente è compatibile con la dominazione imperialista e sionista della regione.


LE PROSPETTIVE DI UNA RIVOLUZIONE SIRIANA

Come evolverà la crisi siriana sul versante della mobilitazione sociale? Lo scenario è aperto a ogni sbocco. A differenza di Ben Alì o Mubarak, Assad non è caduto per via di una sollevazione popolare, ma per effetto del disfacimento del regime. Chi parla dell'ingresso delle milizie islamiste a Damasco come vittoria della “rivoluzione siriana” confonde la sollevazione del 2011 con la realtà, ben diversa, dell'ultimo decennio. Ma al polo opposto, l'area campista parastalinista e/o rossobruna che ha sempre descritto il regime dispotico di Assad come progressivo, democratico, socialmente avanzato, antimperialista – e per questo protetto dal popolo – non può capire l'entusiasmo popolare per la sua caduta. Un entusiasmo liberatorio che ha invaso strade e piazze delle città siriane, un entusiasmo persino incredulo, e anche per questo gioioso. Potrà trasformarsi questo entusiasmo in un processo di radicalizzazione di massa? Al momento questo salto non si registra. Ma nulla può essere escluso per il futuro.

La Siria è un paese distrutto. Più del 90% della popolazione è sotto la soglia della povertà. L'88% delle infrastrutture è crollato. Metà della popolazione è sfollata o in esilio. La lira siriana è carta straccia, l'inflazione è fuori controllo. Tutte le esigenze sociali più elementari cozzano con i programmi liberisti del nuovo governo e con gli appetiti imperialisti. Tutte le domande democratiche di libertà e giustizia cozzano con la salvaguardia del vecchio apparato statale. E anche con la pretesa di una nuova Costituzione scritta dagli islamisti senza una democratica assemblea costituente.

Il nuovo governo sta cercando di pilotare una transizione dall'alto prima che possa esplodere una sollevazione dal basso. Ma il calendario politico siriano dei prossimi mesi offrirà molte occasioni all'irrompere dell'iniziativa di massa. Solo un'autorganizzazione democratica delle masse oppresse – dei lavoratori e lavoratrici, dei contadini, della maggioranza della popolazione povera – e un governo operaio e contadino su di questa basato, potrà realizzare una vera svolta. Come ha scritto Samar Yazbek, poetessa siriana in esilio, «Bashar Assad è caduto, ma la vera rivoluzione dei siriani deve ancora cominciare» (Le Monde, 24 dicembre).

Al tempo stesso, come ha dimostrato una volta di più, seppur a negativo, l'esperienza delle rivoluzioni arabe del 2010/2011, solo una direzione marxista rivoluzionaria potrà dare un futuro alla rivoluzione. In Siria e non solo. La costruzione di questa direzione è il compito del giorno dei rivoluzionari.

Marco Ferrando

Linguaggio inclusivo e marxisti esclusivi (I)

 


Ovvero disincrostare i residui idealisti, antistorici e piccolo-borghesi dalle organizzazioni rivoluzionarie

18 Dicembre 2024

Questo contributo non vuole passare in rassegna le teorie linguistiche che si contendono la supremazia a livello accademico (che comunque trovate brevemente tratteggiate nella nota in fondo al testo) ma si limita a una visione materialista dialettica del linguaggio. Perché noi non siamo studios* della lingua, bensì marxist*. Sappiamo benissimo – per parafrasare Marx – che il linguaggio dominante è il linguaggio della classe dominante

NB: il nostro sito non supporta la schwa, il testo che fa fede è pertanto quello in pdf da scaricare in basso, in fondo a questa pagina. Qui le schwa sono state sostituite con la @.


1. ANALISI MARXISTA DELLA REALTÀ O LINGUISTICA?

Il metodo dei marxisti rivoluzionari è il materialismo dialettico. Essere materialisti dialettici significa, in estrema sintesi, rapportarsi con la realtà in cui dobbiamo intervenire senza alcun idealismo o scivolamento metafisico, considerando i fenomeni del mondo inseriti in quell’antagonismo di classe che dobbiamo far pendere a nostro favore. La realtà è la materia grezza della nostra analisi, e se questo approccio viene meno, il nostro posizionamento risulterà errato.

K. Marx e F. Engels ne L’Ideologia tedesca (1846) enunciano il metodo del materialismo storico-dialettico:

«Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.» [1]

Il materialismo dialettico è scientifico, nel senso più immediato e volgare: dalla realtà non si scappa. Se a qualcun* il pi greco non piace, perché è una fila di numeri senza senso, tocca tenerselo comunque così. La lente materialista dialettica indaga tutto e tutto contestualizza, persino la scienza (che nei secoli si è evoluta passando dal misticismo al metodo scientifico, appunto).

Questo metodo va applicato a qualsiasi fenomeno umano, storico, sociale. Va applicato, dunque, anche al linguaggio, e anche al linguaggio inclusivo che è un fenomeno sociale, esiste, ed è uno (e non l’unico né il preponderante) dei fenomeni che si incontrano quando si fa intervento nei movimenti di massa e in vari contesti e raggruppamenti sul terreno della lotta all’oppressione di genere.

Il nostro partito lo ha adottato in varie forme da diversi anni, quasi una decina, come simbolo di inclusione e senza particolari patemi, perché ci preme il contenuto, non la forma, purché il nostro messaggio sia comprensibile e diretto a tutta la nostra classe di riferimento. Come noi lo hanno adottato sindacati combattivi, collettivi e varie organizzazioni di stampo classista.

Non ci sentiremmo in dovere di parlarne se la questione del linguaggio inclusivo non fosse diventata il cardine delle battaglie (fanaticamente pro o contro) di chi non si limita al piano linguistico. Questa polarizzazione vede da una parte schieramenti politici che usano la questione come cavallo di Troia per propagandare idee liquidazioniste o addirittura negazioniste dell’oppressione di genere, economiciste e/o reazionarie, fuori e dentro alle organizzazioni marxiste. Sul versante opposto, la borghesia lo usa come comoda foglia di fico per mostrare un’inclusione che nei fatti non esiste (e non può esistere, se non sul piano formale).


2. LINGUAGGIO E REALTÀ: UN RAPPORTO DIALETTICO E BIDIREZIONALE

Per noi non esiste alcun linguaggio “oggettivo” o immutabile. Questo era chiaro già a Marx, a Gramsci, a Trotsky, e ai linguisti sovietici pre e postrivoluzionari.
Il linguaggio è lo specchio della realtà, serve a definire i fenomeni, a descriverli e parlarne, a restituirli in forma scritta oppure orale.
Viceversa, anche i fenomeni della realtà influenzano il linguaggio. Anche prese di posizione politiche, sociali, culturali sono confluite nel linguaggio, a volte in modo più fluido e naturale, a volte addirittura per imposizione dittatoriale (il tramezzino di mussoliniana memoria al posto del sandwich della perfida Albione).

Nel famoso dibattito Manzoni-Ascoli sull’unificazione della lingua in Italia, Gramsci prende le parti di Ascoli, contro la rigida posizione manzoniana di diffusione del fiorentino.

«Per Manzoni il parlante 'usava e diffondeva' una lingua, non la 'produceva': da qui l'inevitabile presa di distanza di Gramsci che pensa la lingua in un rapporto di interscambio con la visione del mondo, cioè con una cultura.» [2]

Dal dizionario gramsciano, cercando le voci lingua e linguaggio:

«Il rapporto tra lingua e concezione del mondo è di effetto reciproco, dal momento che l'approfondimento della conoscenza attraverso nuove sfumature di significato implica l'«approfondimento della concezione del mondo»» (Q 5, 131, 664) [3]

Gramsci formulò un concetto estremamente avanzato, che oggi può essere utilizzato per spiegare l’ingresso nella lingua di alcuni termini [4]. Un esempio.

Nei giornali, quando si parla di femminicidi, ci tocca leggere ancora espressioni connotate dalla mentalità dominante, come “raptus” o “amore malato”. Se non avessimo la parola “femminicidio” non riusciremmo a descrivere efficacemente (in linguistica diremmo in modo “economico”) il fenomeno delle donne uccise da un uomo che se ne considera proprietario. Senza la parola per descrivere un fenomeno, si fa fatica a parlare di quel fenomeno, quindi la comunità di parlanti -prima o poi- trova/inventa una parola/una soluzione per parlarne in modo rapido. Nonostante l’uso ne abbia imposto il suo ingresso nella lingua, ci sono ancora resistenze nell’utilizzo di questo termine, che viene screditato o depotenziato dai negazionisti dell’oppressione di genere di ogni provenienza politica, col pretesto che si potrebbe parlare semplicemente di “omicidi”.

Quel neologismo è servito a definire un fenomeno, ma si è affermato di pari passo a una maggiore presa di coscienza di quel fenomeno. Difficilmente questa parola avrebbe potuto fare il suo ingresso nell’italiano degli anni Cinquanta. Eppure, i femminicidi c’erano, eccome. Ci sono tanti altri esempi: un altro, semplice, è la parola-prestito “apartheid”.

La bidirezionalità del linguaggio è oltretutto un assunto senza il quale non si spiega la crescita psichica e sociale dell’individuo. Lev Semënovich Vygotskij, intellettuale sovietico disprezzato dal regime stalinista poiché si confrontava con la comunità scientifica internazionale, ha letteralmente rivoluzionato il modo di comprendere lo sviluppo cognitivo e di conseguenza la pedagogia. Ancora oggi per quanto sia stato rimaneggiato dal pensiero borghese di marca occidentale, rimane un punto di riferimento solido. Il linguaggio, dunque, come funzione psichica fondamentale. Da sempre l’essere umano a contatto con gli altri apprende e dà un nome alle cose, ai fenomeni ecc e utilizza a sua volta la lingua per lo sviluppo del pensiero interno, in un costante rapporto dialettico.


3. UNA DIGRESSIONE SUL RAPPORTO FRA LINGUA E MARXISMO

L'italiano corrente è dunque il prodotto dell'egemonia culturale della borghesia italiana. Qualcun* potrebbe puntualizzare a questo punto che anche i proletari parlano italiano. Anche i proletari parlano italiano, certo, ma è l’italiano modellato, usato e plasmato dall’egemonia culturale, economica e sociale della classe dominante e che si apprende in famiglia, ma soprattutto a scuola. Non esistono due lingue italiane a seconda della classe di appartenenza, è la classe dominante che ci ha imposto il suo modo di parlare, con termini, locuzioni, caratteristiche morfologiche e grammaticali che sono tutte invariabilmente espressione della sua supremazia di classe (e di genere).

Il fatto che la lingua usata dai parlanti sia la lingua della classe dominante è valido per tutte le lingue del mondo. All’influenza patriarcale forse sfuggono poche lingue di comunità isolate o tradizionali non patriarcali (come quella dei nativi americani, che ha una pluralità di generi), ossia lingue e culture residuali, destinate a essere spazzate via dal capitale o assimilate dall’imperialismo.

Per lungo tempo (fino all’altro giorno in verità) l’italiano è stato la lingua di preti, padroni e borghesi e il dialetto quella della classe lavoratrice. Il fiorentino è diventato lingua “nazionale” perché ha soppiantato tutti gli altri “dialetti” che animavano la penisola italica, e ciò è successo per ragioni storiche, politiche e sociali (spoiler: la differenza tra lingue e dialetti è solo ed esclusivamente di origine storico-sociale, nessun linguista sa distinguerli fuori da un contesto storico/geografico, infatti per i linguisti i dialetti sono lingue). Il siciliano o il sardo sono lontani dall’italiano quanto e forse più dello spagnolo. Ma uno è lingua nazionale gli altri no, a confermare che la lingua sta in rapporto storico-materialista con la dinamica di classe. L’italiano è stato anche strumento dolorosamente oppressivo, come si ricordano gli istriani. Non a caso la lingua è una delle caratteristiche di una “nazione” ed è propedeutica alla costruzione del suo “nazionalismo”.

Resta da capire come mai noi marxist*, internazionalist* per giunta, dovremmo difendere la purezza della lingua italiana come aspetto della cultura dominante e soprattutto contro chi.

La nostra lingua non aleggia nel vuoto cosmico delle idee, è espressione dell’egemonia di classe e del potere eterocispatriarcale. Non esiste una variante di italiano che sfugga a questo dato di fatto.

È sempre la posizione gramsciana, dal dizionario gramsciano:

La lingua non è mai un'entità né omogenea né tanto meno statica. Essa viene innovata in diversi modi, dalla conquista di una nazione da parte di un'altra (innovazione di massa), dalla scuola, dai mezzi di informazione, anche dalle riunioni pubbliche (comprese quelle religiose), nonché dai termini introdotti nel corso delle conversazioni «tra i vari strati della popolazione» (Q 29, 3, 2345).
In tal modo la lingua viene forgiata e plasmata, ma anche in base ai suoi studi universitari G. distingue nell'innovazione di una lingua tra un effetto “molecolare” e un altro “di massa”. In un paragrafo chiave per la sua impostazione della questione G. constata che i linguaggi «dei mestieri», cioè «delle società particolari», innovano «molecolarmente», mentre «una nuova classe che diventa dirigente innova come “massa”» (Q 6, 71, 739).
È sempre il rapporto tra classi e strati diversi della popolazione che entra nel discorso di G. sulla lingua: egli è un sociolinguista ante litteram, che anticipa di gran lunga gli interessi che cominciavano ad affermarsi solo negli anni Sessanta del Novecento. Ha una visione realista della lingua, esente da qualsiasi forma di populismo, dal momento che, analogamente a ciò che è stato notato sopra, il linguaggio di ogni persona contiene in sé gli «elementi di una concezione del mondo e di una cultura» da cui «si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo» (Q 11, 12, 1377).

Vogliamo fare una prova del nove un po’ rozza? Tra i “marxisti” c’è anche chi sosteneva l’opposto della posizione di Gramsci, affermando quanto segue:

«Per quanto riguarda il successivo sviluppo dalle lingue dei clan alle lingue tribali, dalle lingue tribali alle lingue delle nazionalità e dalle lingue delle nazionalità alle lingue nazionali, ovunque e in tutti gli stadi dello sviluppo, la lingua, come mezzo di comunicazione tra le persone di una società, era la lingua comune e unica di quella società, che serviva i suoi membri allo stesso modo, indipendentemente dal loro status sociale.»

Era la posizione di Stalin [5].

Insomma, chi ha un approccio dialettico alla lingua e chi no è abbastanza evidente. Ed è abbastanza evidente che da queste due visioni discendono due posizioni ben diverse anche sulla concezione politica del mondo. O forse sono proprio le due concezioni politiche del mondo, tra loro così diverse, a dare forma a due posizioni sulla lingua radicalmente opposte.

Le posizioni di Stalin sulla linguistica ricordano tanto quelle di qualche avversatore del linguaggio inclusivo e qualche sostenitore dell’italiano di matrice mussoliniana, un altro punto tra tanti in cui Stalin e Mussolini si sovrappongono.

È interessante citare qui velocemente la polemica di Stalin e Nikolaj Marr, un linguista e glottologo piuttosto sui generis e padre di teorie abbastanza bislacche (sulle lingue giafetiche con fonemi comuni come armeno, basco, etrusco). Tuttavia, Marr, prima della Rivoluzione bolscevica postula l’idea che i fenomeni linguistici siano legati al modo di produzione della società, insomma che la lingua sia un fenomeno sovrastrutturale. Studioso di lingue vive e dialetti non scritti nell’URSS, Marr auspica addirittura la creazione nel tempo di una lingua internazionalista universale. Sarà forse anche per questo che, con il testo citato sopra, Stalin lo liquida a favore di una purezza della lingua, tutta funzionale al suo nazionalismo panslavo.

Ancora una volta vediamo che la negazione del carattere sovrastrutturale e storico-dialettico della lingua serve a una precisa agenda politica.

Anche Lenin si scaglia contro il nazionalismo linguistico, con una posizione perfettamente materialista e marxista: promuoveva e avallava la tutela di ogni lingua minoritaria, pur accompagnata da una lingua russa che consentisse alla gente di spostarsi agevolmente nel vasto Stato dei Soviet. Tuttavia, era perfettamente consapevole che da ogni lingua bisognasse cogliere gli elementi progressivi, nell’ottica di un’unione internazionalista del proletariato.

«In ogni cultura nazionale vi sono, benché non sviluppati, gli elementi di una cultura democratica e socialista […] Nel formulare la parola d’ordine della «cultura internazionale della democrazia e del movimento operaio mondiale» noi prendiamo da ogni cultura nazionale soltanto i suoi elementi democratici e socialisti, e li prendiamo soltanto e assolutamente in antitesi alla cultura borghese, al nazionalismo borghese di ogni nazione […].» [6]

L’internazionalismo di Lenin, e dunque il nostro, rigetta ogni difesa di una lingua nazionale in funzione borghese, anzi ne auspica il superamento in un’unione internazionale: «Non ‘cultura nazionale’, è scritto sulla nostra bandiera, ma cultura internazionale, che fonde tutte le nazioni in una unità socialista superiore [... [7]


4. DI SCHWA, ASTERISCHI, CHIOCCIOLE E SIMILI: UN RIEPILOGO DELL'ATTUALITÀ (INTERNAZIONALE)

Veniamo alla tanto temuta schwa che deturpa la nostra bella lingua italica (del padrone e della nazione). Da oltre vent’anni tutte le lingue europee si pongono il problema della rappresentanza femminile/non binaria nella morfologia.
Per prima si è imposta l’esigenza di includere nel discorso tutte le donne sistematicamente escluse dai contesti di massa (avvocata, architetta, medica), poi la spinta per l’inclusione (linguistica – di quella parliamo, non di quella effettiva) si è allargata alle soggettività non binarie. La richiesta dell’uso di un linguaggio inclusivo, in Italia e in altri paesi, proviene dai movimenti per i diritti civili genericamente "progressisti" e “riformisti”.

È ovvio a tutt* che un cambiamento linguistico non si traduce in un effettivo cambiamento sociale, altrimenti Mussolini ci avrebbe reso tutt* fascisti a forza di aviorimesse, torpedoni, sciampagna, alcole e bevande arlecchine. Il punto non è se sia sbagliato o meno tentare di alterare la lingua per soddisfare un’esigenza sociale. Il punto è: da chi parte questa esigenza? Dalla classe degli oppressori o dalla classe oppressa? Ha un generico portato progressista o reazionario? Queste sono le domande che dovrebbe farsi un* marxist*.

La lingua anzi le lingue hanno tentato di rispondere a una pressione sociale per l’inclusività che arrivava da una parte della comunità de* parlanti. Lo hanno fatto da espressione delle società borghesi quali sono, ovviamente, cionondimeno la richiesta proveniva da settori della società storicamente oppressi (donne, persone LGBTQIAP+).
Anche qui, senza cadere nella didattica, per alcune lingue è morfologicamente più semplice trovare soluzioni inclusive perché il genere è decaduto da secoli in alcune espressioni morfologiche o non c’è mai stato (si veda il pronome personale inglese che non è marcato al plurale e da tempo viene usato anche al singolare in senso inclusivo, They= esse/essi, They = lui/lei/*). È quello che fanno i compagni e le compagne anglofoni dell’OTI, Opposizione Trotskista Internazionale.

In spagnolo, si è trovata la soluzione della “e” (todes, al posto di todos e todas) oppure si usa una “x”. La LIS, Lega internazionale socialista, usa entrambe le forme di linguaggio inclusivo contemporaneamente nei suoi testi.

In altre lingue si sono trovate soluzioni diverse che includono caratteri speciali o segni di punteggiatura; in tedesco per il plurale sovraesteso si usa l’asterisco (Kamarad*innen), che comprende maschile+femminile+non binario, oppure -orrore!- i due punti in mezzo alla parola, es. Kamarad:innen (come fanno alla sezione germanofona della Lega per la Quinta internazionale).
Interessante notare, en passant, come il tedesco abbia anche il neutro come genere (per un totale di tre: M, F, N), ma non si sia pensato di usarlo per definire le persone non binarie, nonostante sarebbe grammaticalmente comodo. Qualche strutturalista potrebbe pensare: “Bingo! I non binari possono declinarsi al neutro, la grammatica è già pronta”. Invece no, perché il neutro grammaticale non rappresenta una soluzione all’istanza politica di riconoscimento delle persone non binarie. Non è una questione di grammatica o morfologia, ma di visibilità e rappresentanza politica.

In Italia il dibattito sul linguaggio inclusivo è arrivato con notevole ritardo, come tutto il resto del dibattito sui diritti civili. Non è stato calato dall’alto, dal “potere”, è accaduto l’esatto opposto. Anzi, il potere sta cercando di usare il linguaggio inclusivo, appropriandosene come foglia di fico per nascondere la sua natura oppressiva, riducendo le istanze di una parte della società al puro livello formale, insomma facendo pinkwashing/queerwashing o come vogliate chiamare la sua ipocrisia. Non è una novità, lo fa da sempre e sta facendo la stessa cosa con la questione ambientale.

Essendo quello inclusivo un uso della lingua agito da una “minoranza” tendenzialmente oppressa (è abbastanza ovvio che la comunità LGBTQIAP+ sia composta in maggioranza dalla classe lavoratrice, che è più numerosa della borghesia) contro una maggioranza oppressiva (il potere capitalista e patriarcale), le proposte sono state tante, slegate tra loro, e confuse.

In circoli, collettivi, movimenti di varia estrazione e natura per un periodo si è usata la chiocciola (@), poi la “u” (ciao a tuttu), poi l’asterisco (ciao a tutt*), di difficile articolazione fonetica, per approdare di recente alla schwa, ossia a un segno fonetico che si pronuncia più o meno a metà tra una “a” e una “e”.

Checché se ne dica, non l’ha inventata Vera Gheno. Il primo uso attestato è del 2015, da parte di Luca Boschetto, che non è un@ linguista, ma un@ semplice attivista (sì, si autodefinisce con la schwa, e noi l@ rispettiamo, si veda il PDF), che l’ha utilizzata in diversi contesti e circoli LGBTQIAP+. Probabilmente sarebbe rimasta abbastanza di nicchia se non l’avesse usata Mattia Feltri, nell’articolo “Allarmi siam fascist@”. Da lì, anche solo per reazione alla reazione, la schwa ha preso piede su altre forme di linguaggio inclusivo, ma non è l’unica.

Dunque, si tratta di esperimenti linguistici, più o meno diffusi, fatti da una minoranza di parlanti per definire se stess*. Si tratta di fenomeni in divenire, non siamo a bocce ferme (con qualsiasi lingua non lo si è mai… con nulla lo si è mai, in verità, e noi marxist* dovremmo saperlo).

L’uso della lingua, che è ciò che le dà forma, è politico. La decisione su come parliamo è politica. Sempre dal dizionario gramsciano:

La grammatica normativa scritta è quindi sempre una «scelta», un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale. Potrà discutersi sul modo migliore di presentare la «scelta» e l’«indirizzo» per farli accettare volentieri, cioè potrà discutersi dei mezzi piú opportuni per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia un fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi, cioè che si tratti di un atto politico. [8]

Un uso uguale e contrario della lingua, dagli oppressi in direzione degli oppressori, è un atto altrettanto politico. È espressione dell’esigenza di definire linguisticamente persone che possono avere sessi e generi diversi e persone non incasellate nel binarismo di genere, sia al singolare che al plurale.

La schwa è semplicemente uno tra i segni che al momento una parte delle persone LGBTQIAP+ usa per definire la propria identità. Ci piace, non ci piace? È ininfluente. Che venga attualmente utilizzato è un dato di fatto.

Su un piano prettamente morfologico è molto difficile capire se si affermerà la schwa o una soluzione particolare tra quelle in circolazione, o se ne verranno trovate altre, probabilmente in futuro vedremo delle evoluzioni. Tutto è possibile. Al momento ci sono alcune case editrici e alcune amministrazioni comunali che l’hanno adottata. Altre case editrici hanno adottato l’asterisco. Ma una cosa è certa: il successo o meno di una particolare soluzione linguistica inclusiva sarà dato dalla sua frequenza d’uso e dal fatto che servirà più o meno bene a esprimere l’esigenza che l’ha fatta nascere. È l’economia della lingua – che è dialettica – a funzionare così.

Sempre il dizionario gramsciano, alla voce Linguaggio:

Malgrado la sua natura spesso tecnica, il linguaggio cambia col tempo e i termini usati possono acquisire nuovi significati metaforici, differenti dal significato originario di una concezione che viene superata: il linguaggio perciò è un fenomeno vivo ma al tempo stesso un «museo di fossili della vita e delle civiltà passate» (Q 11, 28, 1438).
Il non riconoscimento di tale storicità del linguaggio induce nell'errore di provare a costruire un «esperanto o volapük della filosofia e della scienza», nel cui linguaggio una filosofia, ma per estensione anche le forme del pensiero, acriticamente considerano se stesse le uniche ad aver ragione e tutte le altre «un delirio» (Q 11, 45, 1466-7).

Per alcun* effettivamente le varie forme di linguaggio inclusivo sono un delirio, perché vogliono scientemente disconoscere il portato politico della scelta di includere le persone non binarie, che non devono “esistere” o essere visibili, nemmeno grammaticalmente. Negare a qualcuno l’uso del linguaggio inclusivo, così come adottarlo, è un atto politico, non grammaticale.

Sulle stesse posizioni di Gramsci, ancora più precise in termini linguistici moderni, è Vološinov:

«Nessun segno culturale, qualora sia compreso e dotato di senso, rimane isolato, ma rientra nell’unità della coscienza verbalmente formata. La coscienza è capace di trovarvi un qualche approccio verbale. Pertanto, intorno a ogni segno ideologico si formano come delle onde di echi e risonanze verbali che si propagano. Ogni rifrazione ideologica dell’essere in formazione, in qualsiasi materiale significante, è accompagnata dalla rifrazione ideologica nella parola come fenomeno concomitante obbligatorio. La parola è presente in ogni atto di comprensione e in ogni atto di intepretazione» [9].

Se verrà usato, un dato segno si affermerà; in caso contrario no. Questo è l’unico piano linguistico per considerare la questione. La “bellezza della lingua italica” e le citazioni dall’accademia della Crusca le lasciamo a linguisti e glottologi (di qualsiasi sponda “politica”).

Anche a “sinistra”, infatti, ci tocca leggere di posizioni abbastanza astoriche e soprattutto antimaterialiste con cui si afferma che la lingua non risentirebbe degli stereotipi di genere. Una posizione smentita dalla stessa etimologia delle nostre parole, come padre, padrone, padreterno, patrimonio... Insomma, per qualcun* la lingua sarebbe – non si capisce bene perché – l’unico fenomeno umano, sociale e culturale che sfugge alla dinamica dello scontro tra classi e all’egemonia della classe dominante.

Per qualcuno, qualcosa di così intimo e personale come l’identità di genere non esisterebbe, sarebbe un’adesione agli stereotipi borghesi, mentre la lingua – fenomeno collettivo – come per incanto non risentirebbe di tali stereotipi. “Tutto è stereotipo borghese, anche la vostra identità di genere!”, tuonano i riduzionisti. La lingua, invece, che attraversa la storia, gli strati sociali ed è un fenomeno sovrastrutturale magicamente risulterebbe indenne dall’egemonia di classe e sarebbe addirittura “neutrale”. Un vero paradosso e un’insanabile contraddizione per un* marxista.

In realtà, tali posizionamenti antimaterialisti sulla lingua non si scagliano solo contro l’uso di marcatori inclusivi come la schwa e l’asterisco, ma spesso attaccano anche l’introduzione dei nomi femminili delle professioni, medica o avvocata ad esempio.

Insomma, l’inclusione non va bene nemmeno quando si rispetta la morfologia e la grammatica. Perché? Perché il fine non è la difesa della grammatica o della lingua, ma come vedremo l’invisibilizzazione e la liquidazione delle donne e delle soggettività oppresse e della loro specifica oppressione di genere.



[1] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, capitolo I: Feuerbach. Antitesi fra concezione materialistica e concezione idealistica.
[2] Orlandi, Costanza. “LA RIFLESSIONE LINGUISTICA NEI ‘QUADERNI DEL CARCERE.’” Lares, vol. 73, no. 1, 2007, pp. 55–87. Si veda anche Piperno.
[3] http://dizionario.gramsciproject.org/index.html
[4] Si potrebbero annoverare tra gli esempi molti casi di allotropia. Si pensi alla parola “servigio”, allotropo dotto e arcaico, soppiantato da servizio, variante popolare che si è imposta grazie all’uso.
[5] Marxism and Problems of Linguistics, https://www.marxists.org/reference/archive/stalin/works/1950/jun/20.htm
[6] Lenin, V.I. (1955-1970), Opere Complete (45 voll.), Roma, Edizioni Rinascita-Editori Riuniti. (Vol.20, 16)
[7] Ibid. Vol.19, 510-511.
[8] Cfr. Gramsci, Quaderni dal carcere, Q. 29.
[9] M. Bachtin e V. N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, a cura di A. Ponzio, Piero Manni editore, Lecce, 1999, p. 128



Qui la seconda parte

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione Donne e altre oppressioni di genere

Linguaggio inclusivo e marxisti esclusivi (II)

 


Ovvero disincrostare i residui idealisti, antistorici e piccolo-borghesi dalle organizzazioni rivoluzionarie

18 Dicembre 2024

Di seguito pubblicata la seconda parte del testo, qui la prima parte

5. ABBANDONIAMO LA LINGUA E PARLIAMO DUNQUE DI CLASSE: I NOSTRI COMPITI


Nella società capitalista eterocispatriarcale e borghese ci sono sfruttati e sfruttatori. Una delle prerogative degli sfruttatori è quella di “dare i nomi alle cose”. È un fenomeno noto anche nella storia coloniale. L’uomo bianco (il padrone) arriva e dà i nomi alle cose, così come dava i cognomi alle mogli, ai figli e alle persone schiavizzate che possiede. Nella storia, di contro, anche le autodefinizioni delle minoranze oppresse hanno avuto importanti funzioni progressive (progressive, non rivoluzionarie, attenzione!).

Un percorso analogo alla comunità LGBTQIAP+ lo sta facendo la comunità nera, che ultimamente si è riappropriata della parola negro e negritudine (c’è un ampio dibattito nel mondo latinoamericano, brasiliano in particolare, su questo).

Questa è la realtà di quello che sta succedendo. Parte della presa di coscienza de* oppress* può passare anche dalle parole/dalle scelte linguistiche con cui tentano di difendersi e raggrupparsi. Di per sé questo fenomeno è rivoluzionario? Ovviamente no. Solo la lotta di classe ha in sé la potenzialità rivoluzionaria.

Si tratta però di un fenomeno sociale, da capire e da comprendere. Da analizzare. Ignorare la diffusione di queste forme linguistiche, tappandosi le orecchie è… antimaterialista. Perché l’esigenza di identificarsi/definirsi/autodeterminarsi da parte de* oppress* per noi marxist* è sacrosanta. La riconosciamo ai popoli, perché non riconoscerla agli individui?

La riconducibilità delle lotte de* oppress* speciali [10] nell’alveo della lotta di classe è da sempre un cardine del pensiero marxista. E per forza. Quale maggiore minaccia per la borghesia che le persone con oppressioni speciali si uniscano sotto la bandiera della lotta di classe, ognuna consapevole che la sua particolare oppressione può essere risolta solo dalla rivoluzione socialista?

Nella nostra tradizione inoltre, quella marxista rivoluzionaria, l’ABC appena sopra accennato viene ribadito in un testo fondamentale, il Programma di transizione (1938) di Lev Trotsky:

«Il compito strategico della quarta internazionale non consiste nel riformare il capitalismo, ma nel rovesciarlo. Il suo scopo politico è la conquista del potere da parte del proletariato al fine di espropriare la borghesia. Tuttavia, la realizzazione di questo compito strategico non è pensabile senza la massima attenzione a tutte le questioni di tattica anche le più minute e parziali. Tutti i settori del proletariato in ogni loro strato, categoria o raggruppamento devono essere trascinati nel movimento rivoluzionario. L'epoca attuale non esonera il partito rivoluzionario dall'intervento quotidiano, ma piuttosto fa sì che tale intervento proceda di pari passo in un legame indissolubile, con i compiti immediati della rivoluzione.»

Ignorare l’importanza delle lotte contro l’oppressione di genere per difendere un presunto italiano oggettivo e “neutrale” ci porta inevitabilmente a sbagliare, sia sul piano politico sia sul piano etico.
La riconoscibilità delle persone non binarie con tutto ciò che comporta sul piano materiale deve avere il suo spazio nel programma transitorio rivolto a quel settore oppresso del proletariato.


6. COSA SONO QUESTE OPPRESSIONI SPECIALI PER UN* MARXISTA?

La risposta alle legittime aspirazioni de* oppress* è la lotta di classe (e quindi la costruzione del partito rivoluzionario), non limitarsi a rinominarsi all’interno del sistema. Ma chi ha mai parlato di limitarsi a una manifestazione linguistica di autodeterminazione? Nessun* di noi. Noi sfruttiamo ogni manifestazione di autodeterminazione de* oppress* per spingere le persone alla lotta di classe.

Questo per dimostrare che le rivendicazioni democratiche devono fondersi con le rivendicazioni del programma socialista. Non è forse con la presa del potere che le rivendicazioni democratiche possono trovare effettiva attuazione e non solo facendo pressioni sui governi borghesi? Quante rivendicazioni sono state accolte senza essere tradite puntualmente o modificate dai “comitati d’affari della borghesia” per la compatibilità col sistema capitalistico?

A ciò occorre poi aggiungere un rispetto umano di base per ogni modalità di autodeterminazione in materia di identità di genere, orientamento sessuale e via dicendo, che dovrebbe essere scontato, ma che ci tocca reiterare. Quindi l’uso di forme di linguaggio inclusivo da parte di qualcun* non impone nulla a chi non vuole usarle.

Chiaramente per chi nega l’esistenza dell’identità di genere, con una visione transescludente e transfobica, il problema del linguaggio inclusivo non si pone
.


7. PERCHÉ NOI MARXIST* DOVREMMO ESSERE INCLUSIVI?

La lotta di classe è la strada maestra per spazzare via ogni tipo di oppressione; tuttavia, avrà successo solo se noi includiamo al nostro interno e conquistiamo alla lotta coloro che subiscono anche una oppressione speciale, specifica, senza liquidare le loro istanze. Autodefinirsi marxist* non azzera automaticamente tutte le specificità dell’oppressione che pesa sulle spalle di etnie marginalizzate, persone LGBTQIAP+, donne, persone con disabilità, ecc. Pare persino banale scriverlo: ma in aggiunta all’oppressione di classe ci sono persone che subiscono anche oppressioni diverse e specifiche. Si tratta di oppressioni che i rivoluzionari marxisti riconoscono da sempre, come l’oppressione di genere, trattata ampiamente e specificamente da Marx, Bebel, Engels, Lenin, Armand, Kollontaj, Zetkin e Trotsky. Non stiamo in questa sede a richiamarci alla specificità dell’oppressione di genere, a Bebel, Engels e compagnia. Ci pare che alcuni capisaldi in un partito rivoluzionario debbano essere assodati. Chi nega l’oppressione di genere può tranquillamente accomodarsi in un altro partito, ne troverà tanti anche di “comunisti”.

Tali oppressioni hanno luogo anche dentro la nostra classe. Gratta un comunista e troverai un filisteo, tuonava Lenin. La donna è il proletario del proletario, sottolinea giustamente Engels. Nella famiglia la donna sta all'uomo come l'operaio al padrone nella società, ci ricorda Bebel.

Sappiamo tutt* – si spera – che la lotta di classe è anche lotta alle oppressioni speciali e che la lotta alle oppressioni speciali non è interclassista, se riconduce alla lotta di classe, ma è un dovere rivoluzionario. Descrivere e affrontare le specificità delle varie oppressioni (genere, provenienza, stato di salute ecc. che vanno a sommarsi all’oppressione di classe) non è “femminismo borghese”, ma è analisi marxista dello stato di cose presente, finalizzata al rovesciamento rivoluzionario della società.

Perché riconoscere l’oppressione supplementare che subiscono alcun* nella classe oppressa sarebbe borghese? Perché sarebbe borghese riconoscere, capire e analizzare le cause e i modi in cui queste oppressioni supplementari agiscono sulla classe proletaria? Per noi sarebbe una grossolana semplificazione non farlo. Come convincere queste persone a impegnarsi con noi, con loro stess* nel partito rivoluzionario, se le loro specificità, istanze e modalità di autodeterminazione non vengono neppure riconosciute né ascoltate, anzi ridicolizzate e liquidate?

“Facciamo la rivoluzione, che poi anche tutte le altre oppressioni scompariranno automaticamente insieme a quella di classe”, “Prima abbattiamo la società poi penseremo alle questioni di genere”. No. Il Partito bolscevico – fortunatamente – non l’ha mai pensata così.

Proprio perché c’è già il femminismo borghese che tradisce le istanze de* oppress*, noi non possiamo farlo. Proprio perché c’è già il femminismo borghese che convoglia le istanze de* oppress* in binari morti, che non impensieriscono gli oppressori, che noi non possiamo esimerci dal conoscere questi fenomeni, intercettare queste istanze e indirizzarle verso un rovesciamento rivoluzionario della società.

Questo fa il marxismo. Questo è il nostro compito. Non rimpiangere i bei tempi andati sotto il giogo della borghesia.


8. UN SEGNO FA DAVVERO TANTA PAURA? QUANTO POCO RIVOLUZIONARI SONO QUESTI RIVOLUZIONARI

Nell’incontrare resistenze all’uso della schwa da parte di alcuni ambienti di avanguardia reputiamo che sia singolare che dei marxisti rivoluzionari si ergano a difensori della grammatica prima che a difensori de* propr* compagn*.

Ma davvero qualcuno che dovrebbe essere pronto a rovesciare per intero la società, qualcuno che deve smantellare il modo di produzione, la famiglia, l’amore borghese, il matrimonio, il modo in cui si crescono i figli ha paura di altr* che – sommessamente – per definire la propria identità usano un segno in modo creativo? Perché l’astio furibondo riservato alla questione del linguaggio inclusivo non si spiega se non con il terrore di veder crollare categorie ataviche, incrostazioni patriarcali, che di marxista non hanno nulla, e hanno tutto dell’idealismo piccolo-borghese.

Invece di guardare alla luna abbaiano al dito, invece che andare alla sostanza si fermano alla forma. Perché? Fa un po’ sorridere sostituire uno strutturalismo con un altro, per chi si professa marxista. Quando va bene è per un’incrostazione idealistica. Altre volte, grattando tali posizioni, si scopre la transesclusione e la transfobia.

Insomma, quando il marxista indica l’oppressione di genere, l’idealista guarda la schwa.

In poche parole, non sorprende neanche oggi che all’interno delle cosiddette avanguardie operaie o marxiste si trovino incrostazioni o atteggiamenti misogini, omofobi o transfobici. Siamo anche noi cresciut* e inserit* nella società patriarcale e capitalista, non siamo avuls* dal nostro contesto sociale. L’importante è non cedere ad essi e non condonarli. Negare a una parte de* propr* compagn*e della propria classe di riferimento di identificarsi mediante ciò che ritiene più opportuno è oppressione.

Ogni negazione dell’autodeterminazione di qualsiasi proletari* colloca chi la compie al di fuori di qualsiasi organizzazione coerentemente marxista rivoluzionaria, che è un luogo dove tutta la classe lavoratrice deve poter sentirsi al sicuro, comprese donne e persone LGBTQIAP+, di qualsiasi orientamento sessuale e provenienza geografica e stato di salute. Persino coloro che usano schwa, asterischi, puntini, vocali, consonanti o qualsiasi cosa serva loro per autodeterminarsi.


9. CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME, DICEVA TROTSKY

«Fuoriuscendo dallo sconvolgimento rivoluzionario, la nostra lingua verrà rafforzata, ringiovanita con un’accresciuta flessibilità e finezza. Il nostro linguaggio giornalistico prerivoluzionario, ovviamente burocraticamente ossificato e liberale, è già considerevolmente arricchito da nuove forme descrittive, da nuove espressioni più precise e dinamiche.»

Trotsky, La lotta per un linguaggio colto

Riusciamo ad immaginarci la lingua italiana dopo una rivoluzione riuscita? Non è un compito facile. Sarà prodotta dalla nuova società, nata dalla rivoluzione e la nuova società ne verrà influenzata, in un rapporto dialettico. Ci saranno parole nuove per definire realtà nuove, che il padrone non ci ha mai consentito di realizzare.

Le forme di linguaggio inclusivo non sono il prodotto di uno sconvolgimento rivoluzionario né lo strumento per innescarlo, bensì il segnale di un’esigenza di un settore oppresso della società. Un’esigenza che la borghesia non ha esitato a fare propria in modo ipocrita, per coprire le disuguaglianze sociali che non vuole e non può colmare. Tutto ciò non è un buon motivo per buttare il bambino con l’acqua sporca e disconoscere anche noi tale esigenza, facendo di fatto il gioco dell’oppressore.

Queste forme hanno un potenziale progressivo? Possono servirci a dialogare e a intercettare qualcun* di quest* oppress* e conquistarl* alla causa rivoluzionaria? Possono servire semplicemente a rispettare chi le usa per sé? (E scusate se parliamo ancora di rispetto, che tra compagni dovrebbe essere assodato e così non è).

A ognuno le sue risposte. Il Partito bolscevico da anni - oltre cento- è inclusivo: accoglie proletari ma anche proletarie e proletari@, che vivono ovviamente l’oppressione di classe, unita o meno ad altre oppressioni… Se così non fosse non potrebbe essere un partito rivoluzionario.

Di sicuro non sarà facendo il cane da guardia alla lingua del padrone che creeremo una società nuova. È una posizione liquidazionista e settaria e fa il gioco della borghesia.

Abbiamo superato la questione del linguaggio inclusivo già anni fa e senza particolari patemi, perché in verità non c’è bisogno di dibattere se accettare o meno l’autodeterminazione di una parte di compagn*. È ovvia e assodata. Tanti temi possono essere oggetto di dibattito: quale tattica o strategia sia la migliore per intervenire in questo o quel movimento, quali debbano essere le posizioni su questa o quella particolare questione (anche linguistica).

Quello che non può essere messo in discussione è la natura inclusiva di un partito coerentemente rivoluzionario, che deve essere casa di compagni, compagne, compagnu, compagn@, compagn3 e via dicendo che condividono come fine il rovesciamento di patriarcato e capitalismo.

Come non può essere messa in discussione la specificità dell’oppressione che colpisce donne e persone LGBTQIAP+ proletarie.

C’è già un partito “comunista” che esclude minoranze, persone LGBTQIAP+, che ha il mito del proletario, rigorosamente maschio e muscoloso, che fa la rivoluzione con la mascella quadrata al vento e che ama tanto la propria nazione e la propria lingua.

Con noi non ha nulla a che fare.



UNA BREVE NOTA LINGUISTICA

In sintesi, nella linguistica (che è una disciplina accademica, ma difficilmente si potrebbe parlarne in termini di scienza esatta, se non con un carattere descrittivo nei suoi approcci più sperimentali) si sono scontrate diverse ipotesi. Saussure riteneva che non vi fosse pensiero possibile senza un linguaggio a dargli forma, e che quindi il linguaggio influenzasse il modo di pensare di un individuo. In effetti è dimostrato che i concetti non si sovrappongono da lingua a lingua e il modo a cui li pensiamo è effettivamente diverso (è il grande problema della traduzione). Noi abbiamo i termini “mano” e “braccio”, mentre in russo esiste un unico termine “ruka”. Ma anche in tedesco ad esempio esiste il concetto di Oberschenkel (tradotto con coscia) e Unterschenkel (che non ha una traduzione diretta, ma è la parte che va dal ginocchio alla caviglia). Solo per restare nelle cose semplici, come le parti del corpo. Figuriamoci quando ci addentriamo nella Weltanschauung di diverse culture.

Le scoperte legate alle lingue degli indiani d’America e ad altre lingue non eurocentriche hanno dato vita a quella corrente della linguistica denominata “relativismo linguistico”, la famosa ipotesi Sapir-Whorf, che tutti conoscono per via dell’esempio della varietà di nomi della neve per gli eschimesi (una popolarizzazione mediatica poi molto ridimensionata). In base a questo approccio, il nostro sistema cognitivo sarebbe legato alla lingua che parliamo. Realmente dimostrato è invece l’esempio della lingua nootka, una lingua nativa del continente nordamericano, che ha 14 nomi per il salmone di diverse età e caratteristiche, se esce o meno con la pinna dall’acqua, ecc. Tuttavia alcune delle esagerazioni relativistiche più spinte sono state abbastanza criticate, perché sarebbe proprio la cultura (per i marxisti si legga la cultura dominante) e anche le condizioni oggettive a plasmare questo determinismo linguistico. È ovvio che a un egiziano 14 nomi per il salmone non servono. La partita non è chiusa, naturalmente. Alcuni esperimenti dimostrano effettivamente una relazione tra il linguaggio e le funzioni cognitive dell’individuo. I russi ad esempio hanno due parole diverse per blu chiaro e blu scuro (goluboj e sinji) e alcuni test dimostrerebbero che sono più veloci della media a riconoscere le sfumature di questi colori. Seguiremo gli sviluppi degli studi in materia.

Noi marxist* però non operiamo su un piano accademico o filosofico, ma su quello del materialismo dialettico, che valuta un fenomeno inserendolo nella dinamica storica dello scontro tra classi.



[10] Prima che gli antifemministi si avvitino in sterili dibattiti, non è un neologismo, è la linea del nostro partito e della nostra Internazionale: https://ito-oti.org/rwl_specially_oppressed/

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione Donne e altre oppressioni di genere

Sulla via di Damasco

 


L'ipocrisia dell'imperialismo italiano. E non solo

17 Dicembre 2024

Cosa rivelano le relazioni "segrete" dell'intelligence italiana con i servizi di Assad e il doppiogiochismo di governo e diplomazia

La caduta del regime dispotico di Assad e l'avvento al potere di un blocco politico islamista sostenuto dal regime reazionario di Erdogan hanno aperto la competizione tra gli stati imperialisti per guadagnare o preservare proprie entrature in Siria. Zone di influenza, equilibri militari, ricostruzione economica della Siria, tutto diventa terreno di sgomitamento tra interessi rivali per occupare il vuoto prodottosi.
L'imperialismo russo, grande protettore di Assad e ora dunque grande sconfitto, cerca di preservare le proprie basi militari costiere, Tartus e Lakatia, ma è costretto a una probabile ritirata, trasferendo forze e uomini nella vicina Libia. Sono invece gli imperialismi d'Occidente a farsi avanti. “Garantire e controllare una transizione democratica in Siria nell'interesse dell'integrità e della sovranità del Paese” recita la loro immancabile retorica di accompagnamento. Una ipocrisia rivoltante quando si vede che lo stato sionista non solo continua a massacrare i palestinesi con armi e copertura degli imperialismi “democratici” ma anche a bombardare impunemente la Siria e occupare parte del suo territorio nel sostanziale silenzio della diplomazia mondiale (imperialismo russo incluso); mentre Erdogan nel nord-est siriano stringe d'assedio i curdi, sperando in un via libera di Trump al loro massacro.

Ma c'è di più. Qualcosa che riguarda il nostro imperialismo tricolore. Dagli armadi spalancati del vecchio regime esce infatti la documentazione delle relazioni tra i servizi segreti italiani e i servizi di Assad, quelli che si occupavano ordinariamente di incarcerazioni, torture, assassini, fosse comuni. Tali relazioni sono continuate, a quanto pare, sino alla vigilia del crollo del regime. The Independent Arabia, versione digitale del britannico Indipendent, riporta infatti la testimonianza della telefonata del capo dell'agenzia italiana di intelligence per l'estero (AISE), Giovanni Caravelli, al suo omologo siriano Hassan Luqa due giorni prima del tracollo di Assad: «Ho ricevuto una telefonata dal generale Giovanni Caravelli, capo dei servizi segreti italiani, su sua richiesta, in cui ha sottolineato il sostegno del suo Paese alla Siria in questo momento difficile», riporta Hassan Luqa. In altri termini, il sostegno dell'Italia al boia Assad, sino vigilia della sua fuga.

Inverosimile? Niente affatto. L'imperialismo italiano nell'agosto scorso aveva riaperto l'ambasciata italiana a Damasco, unico tra gli imperialismi d'Occidente, in segno di normalizzazione delle relazioni col regime. «La Siria da tempo sembra essere stata relegata ai margini dell'agenda internazionale, e questo sarebbe un errore strategico» dichiarava pubblicamernte in quella occasione Antonio Tajani, ministro degli esteri del governo Meloni.
La verità è che l'Italia puntava a una propria entratura in Siria, a dispetto della concorrenza, nel mentre continuava formalmente a sostenere le sanzioni economiche contro la Siria degli imperialismi alleati. Normale doppiogiochismo tra banditi. Cosa c'è di più naturale in un contesto simile del messaggio di sostegno italiano ad Assad, seppur ormai fuori tempo massimo?

La Farnesina, non a caso, non ha commentato l'imbarazzante notizia, per il semplice fatto che non poteva smentirla. L'ha fatto invece la stampa borghese di casa nostra, in particolare quella che fa capo alla cosiddetta opposizione liberale, la stampa del gruppo GEDI (Elkann). Se non che, a fare scandalo ai suoi occhi non è il sostegno italiano a un massacratore, ma il fatto che a dare la notizia sia stata la stampa britannica. Cioè la stampa di un imperialismo concorrente. «Chi ha interesse in questo momento a far sì che l'Italia venga guardata con sospetto dai nuovi leader della Siria post-Assad? Non dimentichiamo quali sono i dossier più importanti delle relazioni bilaterali Italia-Siria: da un lato la gestione del flusso di profughi, dall'altra la ricostruzione del Paese, in cui aziende e compagnie italiane potrebbero essere coinvolte, visto che già da qualche mese, con la riapertura dell'ambasciata, avevano avuto modo di cominciare a tastare il terreno. Evidentemente non sono le sole, ed è questo che ieri ci hanno voluto ricordare». (La Stampa, 16 dicembre).

Chiaro, no? Il fatto che il governo Meloni avesse aperto al criminale Assad per tastare il terreno a vantaggio di aziende e compagnie italiane è ordinaria diplomazia, e anzi merita il plauso dei liberali. Ciò che invece indigna La Stampa è che imperialismi “democratici” alleati documentino questa verità al solo fine (indubbio) di compromettere agli occhi del nuovo governo siriano gli interessi e affari dei capitalisti italiani in Siria.
Questo è l'ambiente putrido della cosiddetta democrazia mondiale. Solo una rivoluzione può liberare il mondo da questa fogna.

Partito Comunista dei Lavoratori

Atto Internazionalista: Raggruppamento dei rivoluzionari contro l’ascesa dell’ultra-destra

 


ACTO INTERNACIONALISTA: REAGRUPAMIENTO DE LOS REVOLUCIONARIOS CONTRA EL ASCENSO DE LA ULTRADERECHA

Iniziativa pubblica alla presenza di oltre 700 compagne e compagni organizzato dalla Lega Internazionale Socialista.
Di seguito potete vedere il video dell'iniziativa.
Al minuto 59:55 l'intervento del compagno Franco Grisolia della Segreteria che ha portato il saluti dell'Opposizione Trotskista Internazionale di cui il Partito Comunista dei Lavoratori fa parte.



La paralisi apoplettica del sistema politico francese e i compiti dei marxisti rivoluzionari

 


6 Dicembre 2024

Il 4 dicembre il governo Barnier è caduto sfiduciato da 331 deputati dell’Assemblea Nazionale.
Ciò è stato possibile per la convergenza dei deputati del Rassemblement National di Marine Le Pen e del Nouveau Front Populaire con a capo Jean-Luc Mélenchon sulla mozione di censura, dopo che Barnier, in un clima di impopolarità crescente, aveva cercato di imporre il bilancio detto di sicurezza sociale.

Nonostante le profferte e le aperture importanti del governo Barnier nei confronti di RN, ad esempio con una violenta stretta sull’immigrazione, Marine Le Pen ha deciso di appoggiare la mozione di censura. Ciò è stato dovuto probabilmente al crollo di popolarità del governo voluto dal presidente Macron, e di Macron stesso, oltre che probabilmente dalla volontà della stessa Le Pen di anticipare le elezioni presidenziali, dal momento che sulla sua testa pende la minaccia di una causa di ineleggibilità per aver orchestrato l’appropriazione indebita di fondi dei suoi rappresentanti eletti al Parlamento Europeo per finanziare il suo partito.

Ma al di là dei fatti contingenti, la motivazione principale della caduta del governo dopo solo tre mesi dal suo insediamento deve essere ricercata nella configurazione politica che si è venuta a determinare dopo le elezioni del 7 luglio.
Macron aveva sciolto l’Assemblea Nazionale e indetto nuove elezioni dopo le elezioni europee di giugno, allorché il trionfo del Rassemblement National di Le Pen aveva terremotato lo scenario politico. Le elezioni del 7 luglio hanno visto a sorpresa la vittoria relativa delle liste di sinistra raccolte nel Nouveau Front Populaire, ma di fatto hanno prodotto una configurazione parlamentare tripartita senza possibilità di una maggioranza da parte di ciascun raggruppamento.
Su questa scorta, Macron ha imposto il governo Barnier con un programma di austerità e di tagli allo stato sociale dovuti al gravissimo deficit di bilancio dello stato e alle difficolta dell’economia francese. Un programma capitalista, di aggressione alle condizioni di vita dei lavoratori, in un quadro che vede aperte innumerevoli vertenze sindacali come Auchan, Michelin, Vencorex, MA France, Valeo, Arcelor, Arkema, Stellantis con la seria prospettiva della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Mentre il centro macroniano subisce una sconfitta elettorale, perdendo la maggioranza relativa, la destra lepeniana, pur non riuscendo a bissare l’exploit elle elezioni europee accresce i propri consensi.
La destra infatti riesce a capitalizzare i sentimenti xenofobi purtroppo molto diffusi a livello popolare, anche contro le seconde e terze generazioni di immigrati delle banlieue, nonché la paura per un attacco alle proprie condizioni di vita, paura a cui dare risposta con il ripiegamento nazionalista che il becero sovranismo di Le Pen vuole solleticare.
Insomma, la crescita elettorale del Rassemblement National rappresenta lo spettro di una deriva a destra dell’impasse politico francese.

Le elezioni di luglio vedono però anche e soprattutto l’affermazione delle sinistre dell’NFP, con un risultato sorprendente dopo quelli deludenti conseguiti dalle liste di sinistra alle lezioni europee.
Il NFP è costituito dalle principali forze della sinistra francese: La France Insumise (LFI), il Partito Socialista (PS), Il Partito Comunista Francese (PCF) e gli ecologisti. Come si vede, un accordo tra la sinistra riformista (LFI e PCF) e la sinistra borghese (PS ed ecologisti).
Il suo successo elettorale ha diverse spiegazioni. Nella contingenza dell’appuntamento elettorale è molto probabile che l’unitarietà della lista abbia incontrato il favore dell’elettorato di sinistra, che ha visto nel NFP un argine possibile all’apparente crescita irresistibile di RN. Da questo punto di vista è stato forte il richiamo a una mobilitazione antifascista e antiautoritaria. Insieme a questo, però, l’elettorato di sinistra ha cercato di dare un segnale di svolta anche sul piano sociale ed economico.
In definitiva, anche se in maniera distorta, NFP raccoglie il vento delle manifestazioni di massa del 2023 contro la legge per l’allungamento dell’età pensionabile imposta da Macron. Un movimento di massa, quello per la difesa delle pensioni, che pur sconfitto, nello scontro diretto con la presidenza della repubblica, aveva squarciato il velo della dittatura borghese nascosta dietro le paludate istituzioni democratico-borghesi e seppur confusamente era alla ricerca di un’alternativa.

È del tutto improbabile che NFP possa dare soddisfazione a queste aspirazioni. In queste ore, in cui il Presidente della repubblica cerca di formare un nuovo governo, parte delle forze che lo compongono, come il PS, è tentato per senso repubblicano, e in un farsesco regime di “reciproche concessioni”, di addivenire a un accordo con Macron, sacrificando anche l’opposizione alla legge sulle pensioni.

Il governo borghese che sortirà da queste trattative da basso impero non potrà che umiliare le aspirazioni del popolo della sinistra francese e tornare a imporre un programma di austerità lacrime e sangue per la classe operaia e le classi popolari.
Ciò favorirà la destra lepeniana, che opporrà al governo dei tagli la retorica della difesa dei veri francesi e capitalizzerà la divisione di NFP e la capitolazione della sinistra borghese.

Tuttavia, questo non è un esito scontato. Se lo scontro si risolve completamente nella bolla elettorale del sistema politico borghese, la sua soluzione non potrà che essere un governo sempre più spietatamente borghese ed autoritario. Ma se questa bolla venisse rotta potrebbe aprirsi uno scenario completamente diverso.
Se il popolo della sinistra francese fosse chiamato alla mobilitazione contro i tagli alla spesa sociale, i la controriforma delle pensioni, i licenziamenti, contro l’autoritarismo ed il razzismo, perché a pagare sia il grande padronato e non la classe operaia e le classi popolari, si potrebbe aprire un varco verso un’alternativa di società.

La sinistra trotskista, NPA-R, Lutte Ouvrière e Revolution Permanente, chiama allo sciopero, alla mobilitazione di classe per piegare governo e padronato e ottenere le dimissioni di Macron. È giusto. Lo sciopero dimostrerebbe la forza di milioni di salariati, e sarebbe capace di costringere le direzioni dei sindacati all’unità e a una coerente lotta contro governo e padronato senza capitolazioni, come invece è purtroppo avvenuto nel 2023, con il risultato del drammatico riflusso di quel grande movimento popolare.
Di più, potrebbe produrre quelle forme di autorganizzazione della classe lavoratrice che sarebbero altrettanti strumenti di autogoverno, di formazione della classe al compito di dirigere tutta la società.
Purtroppo, però, anche da parte della sinistra trotskista è proprio la prospettiva della presa del potere da parte delle organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori che non viene avanzata, venendo meno, così, al compito fondamentale che si impone oggi al movimento operaio in una Francia il cui sistema politico è incorso in una paralisi apoplettica che non sembra avere possibilità reali di soluzione a lungo termine.

Questo compito, il compito dei marxisti rivoluzionari, è l’indicazione di una prospettiva di rivolgimento politico. Basta con il governo dei padroni mascherato da governo democratico di “interesse generale”. Il movimento operaio deve rivendicare non un governo di sinistra, che finisca per fare le stesse cose di qualsiasi governo borghese, ma un governo di tipo nuovo: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori basato sulle proprie organizzazioni di massa!

Partito Comunista dei Lavoratori

Industria delle armi e imperialismo italiano

 


5 Dicembre 2024

English version

La vittoria di Trump negli USA è un ulteriore fattore di traino della corsa alle armi in Europa. La corsa è partita da almeno un decennio in tutti gli stati imperialisti del vecchio continente. L'invasione russa dell'Ucraina ha accelerato il suo passo. Ora il passo diventa affannoso.

Già prima delle elezioni americane, e del loro esito prevedibile, il rapporto Draghi aveva sottolineato l'esigenza di una “difesa comune europea” attraverso due vie tra loro combinate: il reperimento delle enormi risorse necessarie con un nuovo indebitamento straordinario continentale (un incremento di 800 miliardi annui, il 5% del PIL dell'Unione Europea), e la progressiva unificazione a livello europeo del complesso industriale-militare. Ma entrambe le vie appaiono ostruite. Da un lato, l'imperialismo tedesco, in profonda crisi, non vuole accollarsi i costi di un nuovo debito europeo. Dall'altro, i diversi monopoli delle industrie militari nazionali sgomitano gli uni contro gli altri per accaparrarsi le accresciute commesse e guadagnare spazi di mercato.

Anche le cooperazioni aziendali transnazionali, che pur si moltiplicano, seguono questa rotta.
La concorrenza nella produzione degli aerei di combattimento è emblematica. Gran Bretagna, Germania, Spagna, Italia cooperano nella produzione di Eurofighter, la Francia punta sul proprio Rafale, la Svezia produce il Gripen. Il futuro cacciabombardiere di sesta generazione (Tempest) vede la collaborazione di aziende britanniche, italiane, giapponesi, con la benedizione dei rispettivi governi, ma la Francia gli contrappone un proprio progetto (Future Combat Air System), non volendo collaborare con l'industria militare britannica. Così l'industria militare americana mantiene saldo il proprio primato, e incassa buona parte delle stesse commesse militari europee, con la relativa protesta della Francia.
La spesa militare europea (313 miliardi di dollari nel 2023) è complessivamente il triplo di quella della Russia (che pur è cresciuta nel solo 2023 del 24%), ma resta segnata da una forte frammentazione.

L'imperialismo italiano si muove in questo quadro d'insieme.

La spesa militare italiana è in crescita da dieci anni (+ 61%). E non ha atteso, come molti pensano, la guerra d'Ucraina. Nel 2020, in piena tempesta Covid, il governo presieduto da Giuseppe Conte (quello che oggi fa il “pacifista”) aumentò la spesa militare in un solo anno del 9,6%, dopo aver concordato in sede NATO il famoso impegno per la prospettiva del 2% del PIL. La profonda crisi recessiva a ridosso della pandemia rallentò parzialmente la corsa. Ma l'attuale governo Meloni-Crosetto si impegna a recuperare i “ritardi”, portando la spesa militare al tetto record di 32 miliardi di euro, e le sole spese in nuovi armamenti ad oltre 13 miliardi annui (40 miliardi nel triennio). Ciò che si è tolto a reddito di cittadinanza, sanità, scuola, servizi lo si investe (anche) nel militarismo. Colpisce il raffronto con la spesa prevista per il dissesto idrogeologico: 1,8 miliardi.

Le aziende militari tricolori si muovono nel solco di questa dinamica.
L'azienda Leonardo (ex Finmeccanica), fiore all'occhiello del militarismo patrio, è in piena espansione di utili e di affari. Attualmente è la seconda azienda militare in Europa alle spalle della britannica BAE Systems, con un fatturato che supera gli 11 miliardi. Ma le sue mire vanno oltre. Leonardo punta ad allargare la produzione di elicotteri militari (con cui già equipaggia lo stato sionista) attraverso la collaborazione con Airbus; prova a scalare posizioni nell'economia dello spazio, facendo leva sulla forte partecipazione azionaria (33%) a Thales Alenia Space. Soprattutto, investe sulla produzione di un nuovo carro armato pesante europeo, detto Main Ground Combat System. Decisiva al riguardo la joint venture con la tedesca Rheinmetall, con sede operativa presso la OTO Melara di La Spezia. Mentre un'altra azienda tedesca, Krauss-Maffei Wegmann (gruppo KNDS) che produce il già noto Leopard, gli contende il mercato.

Parallelamente corre Fincantieri. Il suo balzo in Borsa nell'ultimo anno è del 34%. Ha oggi in portafoglio ordini per 41,1 miliardi. Il suo principale obiettivo di investimento è rappresentato dai sommergibili: un mercato mondiale che vale oltre i 400 miliardi.
Le dinamiche di guerra sospingono il grande affare. Come afferma il Corriere della Sera (11 novembre), «i sommergibili sono tra i mezzi più temuti: possono servire per mappare in segreto le infrastrutture critiche dei Paesi nemici oppure, nello scenario peggiore, per sabotare o attaccare le navi commerciali e militari».
I fondali marini peraltro sono più che mai territorio strategico, ospitano oltre 1,4 milioni di km di cavi sottomarini, sui quali scorrono quotidianamente dati e transazioni finanziarie. Nel solo Mediterraneo oltre 320 mila km di gasdotti e oleodotti.
Nella sua storia, Fincantieri ha prodotto più di 180 sommergibili, ed oggi è in prima fila per onorare la nuova domanda tricolore. Sia attraverso la produzione di droni subacquei, con e senza pilota, «mezzi economici e tremendamente efficaci... per la difesa e, nel caso, anche per l'attacco» (Corriere); sia attraverso la progettazione di nuovi sottomarini nucleari commissionati a Fincantieri dal ministero della Difesa, con tanto di coinvolgimento dell'Università di Genova. È il Piano nazionale per la ricerca militare 2023: si chiama "Minerva – Marinizzazione di impianto nucleare per l'energia di bordo di vascelli armati”.
La grande ambizione di Fincantieri è mettere le mani sulla tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, e sui cantieri navali di Kiel, specializzati nella costruzione di navi e sottomarini miliatari. Magari attraverso una joint venture paritetica che consentirebbe un salto enorme di capacità produttiva e peso globale.

La crescita dell'industria militare italiana si combina col ruolo dell'imperialismo patrio su scala internazionale. Sale, non a caso, la spesa programmata per le missioni militari in cui l'Italia è coinvolta, spesso con un ruolo rilevante.

È il caso del ruolo dell'Italia in Medio Oriente. Innanzitutto nel Mar Rosso, in una missione militare votata in parlamento da un ampio fronte di unità nazionale – da Fratelli d'Italia al M5S, passando per il PD – apertamente schierata contro gli houti, a difesa delle navi dirette verso i porti della Palestina occupata. Cioè a difesa di Israele.
Ma anche in Libano, dove l'Italia ha un ruolo centrale nella cosiddetta “missione di pace” UNIFIL (1200 uomini). Una missione intrapresa nel 1978, e poi molto rafforzata nel 2006 col concorso decisivo del governo di Romano Prodi (cui partecipava Rifondazione Comunista). Una missione nata originariamente con lo scopo (fallito) di favorire il disarmo di Hezbollah da parte del governo libanese al fine di compensare e riscattare la sconfitta dell'invasione israeliana del Libano di allora; ed oggi impegnata a rinegoziare con le autorità libanesi il disarmo di Hezbollah sotto la frusta della nuova guerra d'invasione sionista, sullo sfondo del massacro dei palestinesi.

Tanto più oggi l'”applicazione” della famosa risoluzione ONU 1701, quale soluzione di “pace”, significa infatti esattamente questo: aiutare la ricostruzione di una forza militare libanese che possa completare, il più possibile “pacificamente”, il lavoro sporco dello stato sionista, con la benedizione degli altri attori regionali e degli alleati imperialisti. Meloni e Crosetto chiamano “pace” un Libano ripulito dalla resistenza filopalestinese. A tal fine chiedono agli imperialismi alleati di concordare nuove regole d'ingaggio per la missione UNIFIL. Nel mentre, candidano i Carabinieri al ruolo di addestratori di una futura polizia militare per l'ordine pubblico in Palestina, ruolo peraltro già svolto al servizio della polizia di ANP in Cisgiordania.

Ma l'impegno dell'imperialismo italiano si proietta su scala globale, ben al di là del Medio Oriente. «Manovre nel Mar Cinese del Sud, la prima volta delle navi italiane»: così il quotidiano liberalprogressista La Repubblica (13 settembre) saluta enfaticamente il ruolo della portaerei Cavour nelle operazioni militari sul Pacifico.
Per la “prima volta” una portaerei italiana guida un gruppo navale composto da navi americane, francesi, spagnole, tedesche, australiane, giapponesi. «Il gruppo è salpato da Taranto a inizio giugno, ha attraversato il canale di Suez e nel Mar Rosso sono iniziate le attività di addestramento con la portaerei USA Roosevelt, e poi proseguite in Australia partecipando all'esercitazione Pitch Black che ha visto trasferire nelle basi dell'Oceania jet da combattimento delle ultime generazioni...» (La Repubblica). L'addestramento passa per due simulazioni di combattimento: la prima ha visto impegnati i modernissimi caccia F-35B e i più stagionati Harriera nel respingimento virtuale di «squadriglie nemiche»; la seconda ha visto l'azione coordinata di navi, aerei, elicotteri per «dare la caccia a una minaccia negli abissi».
Il ministro Crosetto ha motivato le operazioni, e la relativa partecipazione italiana, con queste parole: “Stiamo stringendo legami più profondi con paesi amici, perché vogliamo mantenere la libertà di navigazione e la sicurezza marittima in questa regione al fine di promuove il commercio e proteggere le catene di approvvigionamento”. Cosa non si fa per la “libertà”...

Il Pacifico si configura sempre più, in prospettiva, come il principale teatro della collisione tra imperialismo USA e imperialismo cinese. Un imperialismo in declino ma ancora dominante e un imperialismo in ascesa con ambizioni crescenti. È la rotta potenziale di una futura grande guerra per la spartizione del mondo. L'estensione della NATO sul Pacifico, con l'arruolamento di Giappone, Corea del Sud, Australia è parte della preparazione alla guerra. Come lo è, sul versante opposto, la stretta cinese su Taiwan. L'imperialismo italiano non è spettatore ma partecipe della grande alleanza a guida USA. E non vuole restare in seconda fila. Come non lo vogliono Leonardo e Fincantieri. L'imperialismo di casa nostra è innanzitutto l'imperialismo tricolore.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ferrero va alla guerra contro Acerbo

 

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9 Novembre 2024

Rifondazione va a congresso. Le confessioni di un ex ministro con la faccia di bronzo

È guerra dentro il Partito della Rifondazione Comunista. Paolo Ferrero, già “líder máximo” del partito e ancora fondamentale figura pubblica, con il sostegno di circa il 45% dei dirigenti del PRC è partito lancia in resta per disarcionare l’attuale segretario Maurizio Acerbo, che gode direttamente del sostegno di solo il 35% dei dirigenti, ma è appoggiato dal gruppo “partitista” di Pegolo e Tecce (20%). Per cui il prossimo drammatico congresso di Rifondazione vedrà due documenti contrapposti.
Oltre alle questioni personali, ci sono certamente degli elementi politici. Nella sostanza, Acerbo e i suoi alleati sperano di creare le condizioni per partecipare un domani al “campo largo” con il PD della Schlein. Ferrero, invece, vorrebbe cercare di creare una coalizione riformista di sinistra stabile con Potere al Popolo (salvo eccezioni in caso di convenienza: in Sardegna i ferreriani si sono presentati in una coalizione totalmente borghese).
Detto così, si potrebbe pensare che Ferrero sia a sinistra dei suoi avversari. In un certo senso questo è vero, ma se a una minestra di acqua e sabbia si aggiunge un po’ di sale non cambia molto. Tra l’altro Ferrero, anche per raccogliere gli elementi più stalinisti del partito e per favorire le prospettive, non facili, di rapporto con Potere al Popolo, è ormai arrivato su posizioni campiste, esaltando i BRICS e la loro politica, cioè scegliendo uno dei due campi imperialisti oggi presenti nella sfida mondiale, con posizioni catastrofiste-campiste.

Se questo è il quadro generale, c’è un particolare da aggiungere. Le due frazioni in lotta hanno depositato i documenti congressuali. Qui sotto riportiamo l’inizio del capitolo sul bilancio della storia del PRC (documento Ferrero). Qui si sviluppa una polemica contro Acerbo dichiarando che è totalmente falso dire che la crisi di Rifondazione nasce dal congresso di Chianciano (2008, dove la corrente di Ferrero sconfisse quella di Vendola), ma (citiamo):

«L’estromissione di Rifondazione dal Parlamento e la sua crisi non nascono dal congresso di Chianciano ma prima, ed erano palesemente maturate nella fase in cui apparivamo fortissimi, stavamo in maggioranza con Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli ed eravamo tutti i giorni in televisione. Far partire la sconfitta del progetto di Rifondazione da Chianciano determina un unico risultato: costruire una narrazione in cui qualunque ammorbidimento e compromesso nel rapporto con il PD rappresenterebbe un fatto positivo e di buon senso realista rispetto ad una linea “troppo rigida”. La realtà ci dice che la crisi di Rifondazione Comunista è nata quando era nella maggioranza che sosteneva il governo Prodi. Quella collocazione ne ha corroso pesantemente la credibilità, il valore simbolico e i rapporti di massa costruiti dopo le giornate di Genova, nella costruzione del movimento altermondialista e nell’attività di opposizione al governo Berlusconi. A meno che non si voglia usare Rifondazione Comunista per giocare al gioco dell’oca, noi riteniamo sia necessario prendere atto che è la collocazione in maggioranza con il centro sinistra che aperto la nostra crisi come, del resto, la partecipazione alla maggioranza del primo governo Prodi aveva prodotto un nulla di fatto sul piano dei risultati concreti e una pesante scissione del Partito».

Benissimo! Solo c’è un piccolo particolare. Quando Rifondazione stava in maggioranza con Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli, Paolo Ferrero era principale sostenitore con Fausto Bertinotti dell’alleanza appunto con i Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli. E quando finalmente i nostri eroi riformisti riuscirono a realizzare i loro sogni, entrando nel governo Prodi nel 2006, Ferrero divenne ministro di quel governo (l’unico ministro del PRC).

In quelle situazioni in cui il PRC era nella maggioranza (1997-98), Ferrero ha sostenuto, tra altre decine di gravi schifezze, la riduzione dell’aliquota massima e contemporaneamente l’aumento di quella minima delle tasse (primo governo della Repubblica a fare una tale operazione); la flessibilità lavorativa selvaggia (pacchetto Treu); l’abolizione dell’equo canone sugli affitti, e non si oppose al blocco navale contro i migranti con la strage degli albanesi della Pasqua 1997 nel canale d’Otranto.
Poi, nel 2006-2007, in seno al governo, Ferrero ha votato tra l’altro, senza alcuna obiezione o riserva: riduzione delle tasse per i capitalisti (quattro miliardi l’anno solo per banche e assicurazioni); aumento delle spese militari (17% in un solo anno); finanziamento alla missione militare imperialista in Afghanistan, oltre ad appoggiare (fuori dal Consiglio dei ministri) l’unico caso ufficiale di costruzione di un muro contro gli immigrati (dall’amico sindaco di Padova).

Addirittura, quando un ormai dimenticato Franco Giordano, un ingenuo dirigente del partito messo a fare il segretario come “uomo di paglia” per il duo Bertinotti-Ferrero, alla fine del 2007, rendendosi conto dei problemi di caduta di immagine del partito, avanzò timidamente l’idea del passaggio del PRC dalla presenza nel governo all’appoggio esterno, non solo Bertinotti, ma anche Ferrero gli chiesero se fosse impazzito.

Pochi mesi dopo Clemente Mastella (e non Bertinotti, come spesso si dice) ritirò il suo partito dal governo e lo fece cadere, ponendo fine all’esperienza governativa di Rifondazione.

Questa la vera storia del ruolo da ministro borghese che il nostro “prode” ha avuto in quegli anni, e che ha portato al disastro il PRC e – quello che più conta – l’insieme dell'avanguardia politica di sinistra in Italia.

Naturalmente Ferrero si guarda bene dal dire che c’era chi, piccolo ma non insignificante, nell’ambito del partito combatté le posizioni che oggi lui rivede, molto parzialmente e totalmente in maniera falsa e strumentale. Eravamo noi, che dicevamo che questa politica era peggio che riformista, filopadronale e anche (visto il voto per il finanziamento della guerra in Afghanistan) pro imperialista. Eravamo noi di Progetto Comunista, di cui il PCL è il continuatore diretto. Avevamo ragione quando dicevamo che quella politica era in primo luogo di tradimento della classe operaia, ma che avrebbe anche portato un partito nato, come dichiarato, “cuore dell'opposizione” al disastro (mentre qualcun altro si metteva un po’ in mezzo, parlando appoggi esterni, critiche, ma senza mai negare il progetto di sostenere il governo dei capitalisti).

Ricordare che una proposta politica contraria alla sua collaborazione di classe, una proposta veramente comunista esisteva nel PRC e fu costretta a uscire per non morire riformista, non poteva essere possibile per un voltagabbana per cui i principi politici valgono evidentemente meno delle scarpe che indossa.
Certo è difficile per noi militanti di un vero partito rivoluzionario capire come ancora tanti compagni e compagne sinceramente di sinistra e che si sentono comunisti, la maggioranza dei quali ha vissuto queste esperienze, possano restare in un partito come il PRC con appunto la sua storia e la sua reale politica di subordinazione alla borghesia. Ma questo, purtroppo, non è una novità, anzi è una costante della tragica storia del movimento operaio. Come diceva Trotsky, il pensiero umano tende ad essere conservatore, e nella sua specificità questo vale anche per l’avanguardia del proletariato.

Certo se tutti e tutte coloro che avrebbero dovuto rompere logicamente col PRC insieme a noi nel 2006 e poi negli anni seguenti lo avessero fatto, oggi il nostro certo combattivo e coerente, ma piccolo PCL sarebbe un partito ancora minoritario nella classe, ma con iscritti e attorno, una gran parte della sua avanguardia in lotta contro il capitalismo e tutti gli imperialisti, insieme a decine di migliaia di altri militanti marxisti rivoluzionari del mondo. Decine di migliaia di militanti e iscritti si sono dispersi, ma non è mai troppo tardi. Perché essere più onestamente riformisti, come Acerbo e Galieni e Pegolo e Tecce, se è moralmente meglio, politicamente non lo è per nulla.
Venga finalmente, di fronte a tutto questo, la comprensione per ogni comunista che il suo posto è fuori da Rifondazione e insieme a noi del Partito Comunista dei Lavoratori.

Franco Grisolia