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La politica estera dell'imperialismo italiano

 


La nomina di Marco Minniti a capo della fondazione del gruppo Leonardo

L'ex ministro Marco Minniti si dimette da deputato per presiedere una nuova fondazione della Leonardo (ex Finmeccanica), azienda leader nella produzione militare tricolore. Il suo nome, Med-Or, già ne prefigura il raggio d'azione: «il Mediterraneo allargato fin sotto il Sahara, il Medio e l'Estremo Oriente» (La Repubblica, 27 febbraio). Non è una notizia ordinaria. Si inquadra nella linea di politica estera che Mario Draghi ha indicato nel momento stesso della formazione del governo, quando ha definito proprio in quell'area la zona di interesse primario dell'Italia.


GLI IMPERIALISMI EUROPEI, TRA AUTONOMIA STRATEGICA E NATO

La polarizzazione dello scontro interimperialista fra USA e Cina su scala mondiale produce numerosi effetti. Gli USA cambiano il proprio baricentro strategico. Per concentrare risorse economiche, militari, diplomatiche lungo la rotta del Pacifico, sono costretti a ridurre la propria presenza attiva e diretta sul Mediterraneo e in Medio Oriente. Perciò stesso scatenano nuovi appetiti per la spartizione di quest'area del mondo tra vecchie e nuove potenze: la Turchia si allarga in Siria e in Libia nel nome del revanscismo ottomano; la Russia negozia con la Turchia i nuovi equilibri ed aree di influenza in Libia, in Siria, in Armenia e sul Caucaso.

Ma anche gli imperialismi europei vogliono dire la loro in materia, sgomitando gli uni con gli altri.
La NATO resta un riferimento comune degli imperialismi europei, nel solco dell'alleanza strategica con gli USA, oggi rilanciata dalla vittoria di Biden. Ma l'equilibrio interno dell'alleanza atlantica è oggetto di contenzioso. La Francia sottolinea l'esigenza di un'autonomia strategica dell'Unione Europea in rapporto alla NATO; significa che l'Unione Europea dovrebbe dotarsi della forza militare necessaria e sufficiente per gestire operazioni in proprio nel quadrante mediterraneo e mediorientale. Nei fatti Parigi punta a un'egemonia in Europa mettendo a valore la propria superiorità militare, ancor più evidente dopo l'uscita della Gran Bretagna dalla UE. Gli Stati est-europei si oppongono al disegno francese perché temono un disimpegno USA e NATO dalla frontiera antirussa. La Germania sta in mezzo a queste spinte opposte negoziando con gli uni e con gli altri, incerta se prendere in mano la leadership continentale anche in fatto di politica estera, o se valorizzare un asse con gli USA in funzione del contenimento antifrancese.


IL TRICOLORE SVENTOLA SUL PENNONE DEL GRUPPO LEONARDO

E l'Italia? L'imperialismo italiano è parte attiva del sommovimento in atto. Il suo obiettivo è evitare di restare schiacciata e guadagnare un posto a tavola nella spartizione delle zone di influenza.
La perdita di controllo sulla Libia è stato un colpo per l'Italia, ora cerca di riequilibrarlo col rilancio di relazioni privilegiate con l'Egitto in chiave antiturca, anche per evitare di consegnarlo alla concorrenza francese. Mentre cerca di presentarsi alla nuova amministrazione USA come alleato fiduciario, che si candida a occupare gli spazi liberati dal disimpegno USA per evitare che cadano sotto influenze ostili o competitive. La candidatura italiana alla guida della missione militare in Iraq, come la continuità della presenza italiana in Afghanistan, si pongono in questo quadro.

In questo spazio d'azione l'Italia coltiva gli interessi specifici delle proprie grandi aziende. Il gruppo Leonardo, assieme a Fincantieri e ad ENI, è un gioiello dell'imperialismo italiano. In ogni paese imperialista i grandi gruppi capitalisti hanno un ruolo da protagonisti nella definizione della politica estera. La nuova fondazione aziendale di Leonardo sarà «una seconda gamba della politica estera del sistema Italia», annuncia il quotidiano di FCA. Non sbaglia. La sua missione è quella di «favorire il dialogo costruttivo tra Paesi, culture e sistemi economici ed enfatizzare il ruolo dell'Italia a livello globale», a partire dallo «sviluppo di programmi strutturali nei settori dell'aerospazio, della difesa, della sicurezza». A questo fine si prevede che la fondazione abbia «capacità giuridica, economica e di contenuti culturali che non siano di facciata».
Se si prescinde dal riferimento ridicolo alla “cultura”, che serve solo a nobilitare l'immagine, il contenuto è esplicito: Leonardo cerca commesse per la propria produzione militare attivando un proprio strumento diplomatico, dotato di consistente budget finanziario, da affiancare al ministero degli Esteri e a quello della Difesa.

Marco Minniti è il capo naturale di una struttura di questo tipo. Nel ruolo di ex consigliere principe del presidente del Consiglio D'Alema tra il 1998 e il 2000, di viceministro degli Interni sotto il secondo governo Prodi tra il 2006 e il 2008, di ex ministro degli Interni sotto Renzi, Minniti è un quadro dirigente della borghesia italiana di indubbio livello. Ha dimostrato di avere tutto il cinismo necessario per gestire relazioni criminali coi peggiori regimi, e al tempo stesso la necessaria ipocrisia per coprirle col manto di parole auliche e accenti umanitari. Perché lasciare in disparte una professionalità così pregiata? Il gruppo Leonardo ha trovato un ottimo curatore dei propri affari, l'Italia un degno interprete della propria sovranità nazionale. Quando diciamo che “il nemico è in casa nostra” parliamo anche di questo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Cosa accade in Catalogna

 


Nel 2017, l’Assemblea della Generalitat catalana, il governo catalano, era stata sciolta causa “l’affronto referendario (dichiarazione di indipendenza)” dal Premier reazionario di Madrid, Mariano Rajoy. Finito, nel maggio 2018, il commissariamento della Catalogna voluto da Madrid, l’amministrazione catalana ha provato a dotarsi di un governo. Le elezioni avevano prodotto una maggioranza indipendentista anche se molto esigua in termini di numeri: 66 favorevoli, 65 contrari e l’astensione dei 4 deputati della CUP (Candidatura di Unità Popolare).


Il Presidente della Generalitat, proposto da Carles Puigdemont (presidente deposto in esilio), Quim Torra, ha avuto comunque breve vita politica. La Corte Suprema spagnola ha deciso, infatti, di condannarlo all’esclusione per un anno dalle cariche istituzionali accusandolo di “disobbedienza” per essersi rifiutato di oscurare, durante il periodo elettorale, alcuni striscioni di solidarietà per gli indipendentisti imprigionati.

L’assenza di una maggioranza stabile, sommata alla questione Torra, hanno indotto le istituzioni a convocare nuove elezioni per il 14 febbraio del 2021, ma un nuovo ostacolo si è presentato di fronte al popolo catalano. Infatti, il 15 gennaio, il governo spagnolo (col sostegno di gran parte dei partiti catalani) ha deciso di posticipare le elezioni al 30 maggio causa emergenza Covid. A distanza di circa due settimane, la Corte Superiore di Giustizia della Catalogna, ha rigettato la decisione di Madrid di spostare le elezioni facendo una vera e propria inversione ad “U”, confermando la data originaria del 14 febbraio e avviando così la campagna elettorale più “breve e intensa” della storia: poco meno di due settimane.


IL RISULTATO DEL VOTO

Un'astensione imponente è stata la reale vincitrice di queste elezioni. Solo il 53,56% dei catalani ha espresso il suo voto, circa 25 punti di percentuale in meno rispetto alle ultime elezioni. Sicuramente va evidenziato che la questione pandemica ha inciso negativamente in questo dato, disincentivando la popolazione ad esprimere il proprio giudizio politico sulla scheda elettorale, ma la paura del Covid non è sufficiente a spiegare una così bassa affluenza. Basta comparare il dato catalano con quello degli USA (affluenza da record, circa 150 milioni di votanti), ove la pandemia ha corso non meno velocemente che in Catalogna. La verità è che il disagio sociale indotto dall’emergenza Covid, unito all’incapacità da parte della povera gente di vedere una reale via d’uscita alla disoccupazione hanno prodotto questo distacco.

Un altro aspetto importante da sottolineare è il congelamento, la cristallizzazione della divisione in blocchi della società in una sorta di bipolarismo. Da un lato la destra ‘liberaleCiudadanos,V istituzionale’, con la formazione liberale Ciudadanos che sino alle precedenti elezioni era la spina nel fianco nel Partido Popular (il centro cattolico), adesso invece si è vista scalzare dall’estrema destra di Vox che cresce polarizzando l’attenzione sullo centralità dello stato (la nazione Spagna), avverso all’indipendentismo. Dall’altro lato invece il vento del separatismo continua a soffiare, sospinto dalla Junts di Carles Puigdemont, il leader “deposto”, ed Esquerra Republicana.

I “vincitori”, il partito che ha preso più voti, sono stati i socialisti di Salvador Illa, in passato ministro della salute durante la pandemia. È proprio nel distretto cittadino di Barcellona che il Partit dels Socialistes de Catalunya ha raccolto i maggiori consensi, raggiungendo il 23%, 33 seggi, 16 in più che nell’ultima legislatura, un buon successo ma non sufficiente per il partito di Illa per avere la maggioranza necessaria a governare.

Le formazioni separatiste radicate in particolar modo nelle province di Girona, Lérida e Tarragona hanno raccolto il 51% per la prima volta (raggiungendo una crescita in termini di seggi, 74 deputati). L'ERC ha ottenuto un ottimo risultato, il miglior da decenni, superando anche la JxCat e divenendo così la prima forza di indipendentista con 33 parlamentari. Nonostante la perdita della presidenza della Generalitat, Puigdemont resiste, la JxCat mantiene un alto consenso con 32 deputati, e solo per poco si è vista detronizzare dalla forza più grande dell’indipendentismo catalano. Sarebbero infatti bastati solo altri 76mila voti per impedirlo.

In questo contesto è, ahimè, da registrare la crescita di consenso dell’estrema destra di Vox, con 215.000 voti e 11 deputati. Questa vera e propria piaga reazionaria, molto pericolosa, è stata capace d’inserirsi nelle contraddizioni di una società lacerata da tempo, in una situazione sempre più complessa e dal futuro incerto e irto di difficoltà. L’estrema destra di Vox con la sua propaganda franchista, anti-catalana, razzista, machista e ultracattolica ha puntato il dito contro i migranti, le femministe e i musulmani artefici del “male della Catologna”.

Lo schema è sempre lo stesso come per tutte le destre, e Vox non è dissimile: populismo becero e intolleranza, questi sono gli ingredienti che hanno fatto gonfiare il suo consenso elettorale. La crescita del trogloditismo reazionario di Vox è anche il frutto dei fallimenti della sinistra sempre più incapace di dare una risposta di classe alla crisi pandemica, e sempre meno capace di dare una prospettiva di classe al popolo catalano.


LA CUP

La coalizione della CUP, blocco elettorale delle forze anticapitaliste e indipendentiste catalane, ha raggiunto un grande risultato, il 6,6% con 9 seggi. La CUP è dunque fondamentale per la formazione di un governo della sinistra indipendentista, i loro seggi porterebbero gli “indipendentisti” ad avere una maggioranza assoluta, necessaria per governare.

Le pressioni riformiste hanno già in parte caratterizzato la campagna elettorale della CUP che ha evidenziato palesi contraddizioni, una dicotomia sempre più ampia tra vertici e base. Da un lato abbiamo leader come Dolors Sabater che non sembrano disdegnare l’ingresso della CUP al governo, e dall’altro abbiamo le risoluzioni votate nei territori dai militanti che chiedono di non tradire le loro aspettative, e quindi di "non entrare in nessun governo, né dare un sostegno esterno” [1].

Una situazione per la CUP instabile come è instabile in questi giorni la situazione a Barcellona, una Barcellona avvitata nella protesta in nome della solidarietà a Pablo Hasel, rapper catalano. Qualche giorno fa, dopo essersi barricato nell'università di Lleida, Hasel è stato braccato e arrestato dalle forze dell'ordine con la doppia accusa di sostegno al terrorismo e di calunnia contro la monarchia. Dovrà scontare nove mesi in carcere. Ad Hasel, come PCL e come trotskisti, va tutta la nostra solidarietà, siamo sempre al fianco di chi dissente da sinistra contro il potere.

La CUP, dunque, si trova di fronte ad un scelta, un dilemma amletico: essere la ruota di scorta di un governo riformista o mettersi al servizio della classe operaia, rilanciando una proposta anticapitalista. Una scelta che solo un partito marxista rivoluzionario ben radicato può risolvere.



Nota:

1 - "La Cup-g no debe de entrar en el gobierno de la generalitat", UIT.

Eugenio Gemmo

I nodi al pettine della vaccinazione

 


La crisi sanitaria si aggrava

26 Febbraio 2021

La nuova ascesa del contagio, aggravata dalle varianti, si incrocia con la battuta d'arresto dei piani di vaccinazione. La risultante è un peggioramento netto dello scenario generale.

Sino a poche settimane fa i governi europei erano impegnati a spiegare il dovere di vaccinarsi a un'opinione pubblica in parte diffidente o scettica. Ora debbono confessare clamorosamente la penuria dei vaccini. Non è uno spiacevole disguido, ma il riflesso della logica capitalista. Dove entra il profitto tutto si complica maledettamente. Come sempre.

L'Unione Europea ha cercato di colmare il ritardo accumulato rispetto ai poli capitalisti concorrenti attraverso un negoziato sui vaccini coi diversi colossi farmaceutici. Pur di procurarsi sulla carta il maggior numero di vaccini possibile, per poterli sbandierare come proprio successo, ha concesso alle case farmaceutiche tutto quello che loro chiedevano. Non solo la segretezza dei contratti dal punto di vista economico e giuridico, già di per sé uno scandalo, ma la rinuncia ad ogni clausola di garanzia in caso di inadempimento o ritardo nelle forniture.
Due sono state le conseguenze. Da un lato, grazie alla segretezza dei prezzi d'acquisto pattuiti, le case farmaceutiche hanno potuto negoziare prezzi più alti con altri clienti, privilegiando la loro fornitura perché più vantaggiosa. È ad esempio il caso del rifornimento di Israele. Dall'altro, al riparo (persino) da ogni sanzione contrattuale, hanno potuto bluffare tranquillamente con la UE con promesse gratuite di forniture irrealistiche.

Il risultato è che i governi europei si trovano ora in braghe di tela. Gli USA hanno coperto con la vaccinazione il 16% della popolazione, grazie alla presenza delle americane Pfizer e Moderna. La Gran Bretagna ha coperto il 26% grazie alla presenza dell'anglo-svedese AstraZeneca. L'Unione Europea appena il 6,6%, l'Italia il 6%.

Il forte rallentamento delle vaccinazioni genera a sua volta effetti multipli.
In primo luogo fioriscono ovunque trattative sottobanco di entità substatali (regione Veneto in primis, ma anche Länder tedeschi o regioni spagnole) con ignoti intermediari che dichiarano grandi disponibilità di vaccini, non si capisce se contraffatti con grave danno per la salute o invece autentici, a riprova che i colossi farmaceutici giocano sporco e su più tavoli pur di massimizzare i profitti.
In secondo luogo si cerca di approntare improvvisate conversioni della propria industria nazionale in direzione della produzione di vaccini, in una sorta di sovranismo sanitario; ma ci si imbatte in uno spiacevole inconveniente, non solo e non tanto per i tempi tecnici della conversione (sei mesi) ma per la dubbia convenienza di mercato: perché i capitalisti del farmaco dovrebbero investire tutto sui vaccini, quando tra sei mesi rischiano di trovarsi un mercato già saturato dai colossi internazionali?
In terzo luogo si accredita improvvisamente la tesi per cui non è necessario doppiare la dose di vaccinazione, basta una dose sola. Come dire che nell'impossibilità di seguire tempestivamente le disposizioni scientifiche, si decide di ignorarle all'insegna dell'avventurismo sanitario.

Da qualunque parte si giri il problema, la sua natura è semplice: si chiama capitalismo.

Via i brevetti e la cosiddetta proprietà privata intellettuale!
Via il segreto industriale e commerciale su farmaci e vaccini!
Nazionalizzazione dell'industria farmaceutica senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori!
Solo drastiche misure anticapitaliste possono consentire una svolta vera nella lotta contro la pandemia.

Partito Comunista dei Lavoratori

Italia e Qatar, armi e schiavitù operaia. Le confessioni di Corriere e Sole 24 Ore

 


Ci sono giorni in cui la stampa borghese documenta involontariamente la natura del capitalismo. Nello specifico, del proprio capitalismo, quello da cui è finanziata e da cui dipende. Oggi è uno di questi giorni.



UNA CLASSE OPERAIA IN SCHIAVITÙ

Il Corriere della Sera del 24 febbraio nella sua pagina esteri titola: «Qatar, il censimento della vergogna: 6750 morti nei cantieri dei mondiali». L'articolo riprende la documentazione del britannico Guardian circa la condizione di centinaia di migliaia di lavoratori in Qatar, impiegati nel piano gigantesco di infrastrutture promosso dal regime in vista dei campionati mondiali di calcio (novembre-dicembre 2022). Si tratta nella grande maggioranza di operai immigrati di provenienza asiatica o africana, che cercano di fuggire dalla miseria dei propri paesi, raggranellare un gruzzolo e girarlo come rimessa a sostegno delle rispettive famiglie. India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, ma soprattutto le Filippine e il Kenya: sono questi i paesi che offrono braccia al Qatar. Più precisamente ai colossi mondiali delle costruzioni, in particolare europei e cinesi, intrecciati con la borghesia locale in una fitta rete di interessi. Il gruppo italiano Salini Impregilo è in prima fila nella costruzione dello stadio e della metropolitana di Doha. Renzi come Presidente del Consiglio, e poi il Ministro degli Esteri Di Maio, hanno trattato direttamente questo e altri affari con Sua Altezza lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, l'emiro onnipotente del Qatar.

Il trattamento riservato ai lavoratori è disumano: gli operai vengono letteralmente sequestrati; giunti in Qatar vengono privati del passaporto e dunque resi prigionieri; gli orari di lavoro raggiungono le 12 ore giornaliere, per salari di pura sussistenza. Manca naturalmente ogni normativa sindacale e di sicurezza. In queste condizioni sono morti in dieci anni seimilasettecentocinquanta lavoratori, per lo più rimasti sepolti sotto il crollo delle impalcature. Le loro famiglie hanno dovuto tribolare per ottenere il ritorno delle salme, e non sempre con successo.
Le abitazioni operaie sono baracche di lamiera e tuguri malsani dove si ammassano in un paio di stanze gli uni sugli altri decine di lavoratori. La sola periferia di Doha, capitale del Qatar, concentra la maggioranza di questi tuguri, spesso lontani dai luoghi di lavoro. L'assistenza sanitaria, inutile a dirsi, è praticamente assente.

Domanda: come è possibile che in queste condizioni la FIFA abbia potuto assegnare al Qatar nel 2010 i campionati mondiali del 2022? La risposta, scontata, è che il calcio in quanto sport ha ben poco a che fare col Qatar, mentre vi hanno molto a che fare le potenze imperialiste di diverso segno interessate al grande gioco del Medio Oriente.


L'ITALIA ARMA IL QATAR

Ora capita che proprio nello stesso giorno, 24 febbraio, il quotidiano di Confindustria titoli: «Qatar, secondo mercato per l'Italia». Si parla di esportazione delle armi. Armi tricolori, di cui l'Italia mena gran vanto.

Si apprende che nell'ultimo quinquennio il Qatar si sia affermato, subito dopo il Kuwait, come il principale destinatario di armi italiane, per oltre sette miliardi di commesse. Fincantieri ha ottenuto in semimonopolio la costruzione della Marina di guerra del Qatar. Il gruppo Leonardo lo rifornisce di elicotteri militari. Il gruppo MBDA si occupa della sua difesa costiera e del rifornimento di batterie di missili per le navi. Queste attrezzature, diciamo così, non riguardano direttamente i mondiali del pallone. Ma certo riguardano lo sviluppo della potenza qatarina e il suo peso specifico in Medio Oriente. La rotta di collisione tra Arabia Saudita e Iran, in lotta tra loro per l'egemonia regionale, chiede al Qatar di tenersi pronto ad ogni evenienza. Missili e navi da guerra servono esattamente a questo.

Domanda: perché il “democratico” imperialismo italiano arma fino ai denti un paese che schiavizza milioni di operai? Per la stessa ragione per cui arma l'Egitto di al-Sisi, che ha massacrato Regeni, vendendogli fregate militari. Per rafforzare una propria area di influenza in Medio Oriente e partecipare al banchetto della sua spartizione, evitando che qualche boccone di troppo finisca magari alla Francia.

Altro che difesa della sovranità italiana contro il commissariamento della UE, come dicono i sovranisti di sinistra in casa nostra. L'imperialismo italiano è già sovranamente impegnato a tutelare i propri interessi in casa d'altri. Ha subito la perdita di controllo sulla Libia a vantaggio di Erdogan e dell'imperialismo russo. Ora intende rifarsi. Se arma il Qatar è anche per questo.
Del resto: non è proprio il Corriere della Sera a insistere da un paio d'anni sul necessario recupero della presenza italiana nei teatri che contano, con lo sguardo rivolto alla concorrenza francese? È la linea editoriale di Banca San Paolo, grande azionista del Corriere, sicuramente sensibile ai “sovrani” interessi di ENI. Il «censimento della vergogna» con riferimento al Qatar va dunque fatto innanzitutto su Via Solferino.

Partito Comunista dei Lavoratori

L'uccisione dell'ambasciatore italiano e l'ipocrisia dell'imperialismo tricolore

 


L'uccisione in Congo dell'ambasciatore italiano e del carabiniere di scorta, per responsabilità ancora ignote, occupa in queste ore l'informazione pubblica. Molti sono i riferimenti alla storia professionale e di vita delle due vittime. Spicca su tutte la nota diffusa da Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina: «L’Ambasciatore d'Italia nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, e il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono rimasti vittime di una violenza che non riusciamo a capire e ad accettare. Un diplomatico e un carabiniere sono morti insieme, in un Paese lontano dove lavoravano al servizio dell’Italia.» (Corriere della Sera, 23 febbraio).


Domanda: qual è invece la violenza che il ministero degli Esteri riesce ad «accettare e capire» in Congo? I milioni di bambini di sette-otto anni che lavorano per 12 ore al giorno nelle miniere congolesi sotto il controllo delle multinazionali? Oppure le bambine di undici anni ammassate nei bordelli delle bidonville minerarie del Paese? Oppure il più alto tasso di stupri al mondo registrato proprio nella Repubblica “Democratica” del Congo? L'indignazione del Ministero degli Esteri scatta evidentemente a corrente alternata.


IL CRIMINE IN CONGO

La Stampa (FCA) parla oggi del Congo, in un suo commosso editoriale, come di un «paese sfortunato». Ipocrita! Si tratta di un paese saccheggiato proprio in ragione delle sue fortune. Il cobalto è la materia prima che sorregge l'intera produzione informatica. La rivoluzione annunciata dell'auto elettrica è affidata al cobalto. Il Congo concentra nella propria terra il 60% del cobalto prodotto nel mondo. È un tasso di concentrazione territoriale che non ha punti di paragone con nessuna altra materia prima sull'intero pianeta. Tutto questo spiega perché il Congo è terra di conquista e di spartizione tra tutte le potenze imperialiste. La Cina controlla da sola con proprie società il 50% del cobalto congolese. Il resto è spartito tra colossi USA ed europei. Apple, Daimer, Huawei, Lenovo, Microsoft, Sony, Vodafone, Volkswagen... tutte le grandi multinazionali del mondo intero attingono al pozzo del Congo. O dispongono direttamente di proprie miniere o si riforniscono da miniere artigianali messe su da signorotti locali che sfruttano manodopera schiavile.
Questo per parlare solo del cobalto. Ma il Congo ha anche invidiabili giacimenti di coltan, oro, diamanti, cassiterite, manganese, argento, zinco, uranio, petrolio. L'italianissima ENI, che è la principale azienda straniera in Africa, ha in Congo propri giacimenti.

Ognuna di queste materie prime trascina una guerra per l'accaparramento senza risparmio di colpi. Le centinaia di milizie private che infestano la Repubblica Democratica del Congo hanno qui la propria radice. Ogni padrone delle miniere si circonda di guardie private che tutelano la sua proprietà. La burocrazia supercorrotta dello Stato lascia fare; l'esercito regolare è connivente.

E l'ONU? L'ONU è presente da vent'anni nella Repubblica Democratica del Congo con ben 15000 soldati di 49 Paesi per “proteggere i civili e mantenere la pace”, come recita formalmente la sua missione. Ma la pace presidiata dalle Nazioni Unite è quella dello sfruttamento e delle guerre per il controllo dello sfruttamento. Per di più, lo stesso Corriere della Sera è costretto a dire a malincuore che la fama delle truppe ONU non è immacolata, perché corruzione e stupri compiuti da caschi blu hanno più volte macchiato la bandiera delle Nazioni Unite, anche in Congo. A proposito di influenze ambientali.


UNA STORIA TERRIBILE DI COLONIALISMO

Nulla di nuovo, in realtà. Il Congo è terra di saccheggio per mano dell'imperialismo da un secolo e mezzo. Dal 1885 al 1908 fu addirittura proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II, che gestì in prima persona lo schiavismo. Dal 1908 divenne colonia statale belga e lo rimase sino al 1960. Diverse generazioni di congolesi passarono sotto le forche caudine di una repressione sanguinosa, la pagina peggiore del colonialismo belga.

L'indipendenza strappata nel 1960 non mutò la condizione del Congo. Il primo presidente eletto Patrice Lumumba fu rovesciato e assassinato dopo meno di un anno da un colpo di stato diretto dalle gerarchie militari e sostenuto da Belgio ed USA. Iniziò allora il regime di Mobutu, il più longevo e spietato regime dittatoriale nell'Africa nera, che durò sino al 1997. Un regime che seppe a lungo equilibrarsi tra i buoni rapporti col blocco sovietico (in particolare col rumeno Ceausescu) e gli ottimi rapporti con l'imperialismo USA, presentandosi agli uni e agli altri come garante dei rispettivi interessi in Africa. Dopo il crollo dell'URSS, saltati i vecchi equilibri continentali, il Congo divenne teatro delle due cosiddette “guerre mondiali africane”, la prima nel 1996-1997, la seconda tra il 1998 e il 2003. Vi presero parte fino a sei stati limitrofi, vi morirono più di quattro milioni di persone. Il terribile conflitto etnico tra Hutu e Tutsi in Ruanda nel 1994, con responsabilità decisive dell'imperialismo francese, ha fornito carburante alle guerre africane per via diretta o indiretta. Anche il Congo ne ha subito gli effetti.


LA FUNZIONE DI UN'AMBASCIATA

Il Congo di oggi è il degno erede di questa storia terribile, la storia di un crimine che si chiama capitalismo. Questo è lo sfondo della stessa uccisione dell'ambasciatore italiano e della sua scorta.

Non sappiamo se gli aggressori sono criminali comuni dediti a rapimenti o se si tratta di milizie politicamente targate, e nel caso quale sia il loro marchio (se quello islamico integralista ugandese delle ADF o quello delle Forze democratiche di liberazione o quello dei cosiddetti Mai-Mai). Sappiamo che il personale diplomatico è esposto a rischi fisiologici per la natura stessa del suo ruolo. L'ex ministra Paola Severino, nel commentare l'accaduto, ha citato en passant la triplice funzione della diplomazia in questi paesi: diplomazia politica, diplomazia giuridica, diplomazia economica. Significa un lavoro di relazione con le strutture dello stato ospitante, ma anche con poteri territoriali, capi tribali, leader di zona.

«Attanasio il giorno prima era stato a Bukavu e aveva incontrato i maggiorenti e i leader della zona. [...] Anche a Ritshuru, dove era diretto, avrebbe dovuto vedere i capi locali e inaugurare alcune strutture donate dall'ONU. [...] Ma tra la popolazione qualcuno ce l'aveva con gli italiani. Molta gente qui è convinta che siano stati firmati dei contratti di estrazione petrolifera tra ENI e governo centrale di Kinshasa. E i notabili del posto, rimasti a bocca asciutta, hanno minacciato ritorsioni e vendette». Così scrive il Fatto Quotidiano (23 febbraio). Non sappiamo quali siano le fonti né se questa sia la pista giusta per individuare gli autori dell'accaduto, ma certo sappiamo che la funzione di un'ambasciata (e di un ambasciatore) è un po' più complicata dell'immagine da libro Cuore che ci confeziona la retorica tricolore di queste ore. E che l'imperialismo è anche questione di casa nostra.

Partito Comunista dei Lavoratori

VIDEO: Contro il governo Draghi! - Marco Ferrando (18 febbraio 2021) - Piazza S.Silvestro - Roma

 


Contro il governo Draghi, per il più ampio fronte unico delle lavoratrici e dei lavoratori!














Intervento del compagno Marco Ferrando, portavoce nazionale del PCL, alla manifestazione unitaria contro il governo Draghi, tenutasi a Roma il 18 febbraio 2021. L’unità nazionale attorno a Draghi richiede la costruzione del fronte unitario più ampio dell’opposizione di classe. I padroni e il governo hanno paura di una sola cosa: la lotta di classe. Al fronte unico di padroni e governo opponiamo il fronte unico delle lavoratrici e dei lavoratori! L'alternativa vera è tra capitale e lavoro. Lottare coerentemente contro il capitalismo e i suoi governi significa battersi per un'alternativa politica anticapitalista e rivoluzionaria. Significa ricondurre ogni lotta alla prospettiva generale di un governo delle lavoratrici e dei lavoratori, basato sulla loro forza e sulla loro organizzazione! Avanti!


Partito Comunista dei Lavoratori


Ministero della transizione ecologica: il bazooka mascherato di verde del capitalismo italiano


 I primi a proporre l’idea di un "Ministero della transizione ecologica" arrivano dalle fronde riformiste. Tra i più entusiasti c’è Rossella Muroni ex presidente di lega Ambiente e deputata di Liberi e Uguali che ne parlava da giorni. Il primo febbraio sulla sua pagina facebook si esprime con queste parole: «In queste ore si sta svolgendo un confronto sui temi che devono essere al centro dell’azione del nuovo Governo. I 209 miliardi del Recovery Plan sono una grande occasione: basta litigi, usiamoli per cambiare totalmente il Paese e costruire il futuro, che mi auguro sia fortemente legato all’economia verde».

Ma già da anni si esprimeva per una soluzione di questo genere.

Friday For Future nei giorni ha scritto una lettera direttamente a Draghi: «… Lo scorso agosto, lei ha detto che “privare i giovani del futuro è la più grande forma di disuguaglianza”. Il suo governo agirà per non privarci del nostro futuro, e garantire giustizia climatica, per non far pagare questa crisi ai più fragili e a chi ha meno responsabilità? Non c’è più tempo per “fare il possibile”. Va fatto il necessario. “Whatever it takes”, a qualunque costo. La sentiremo citare di nuovo, tra un po’ di anni, nei video su YouTube o nei libri di storia, come “la frase che ha salvato il clima”? Ai posteri l’ardua sentenza. A questo Governo, però, la scelta di garantirci o negarci un futuro...».

Questa spinta, Draghi e il Presidente Mattarella, non l’hanno lasciata passare invano e l’hanno utilizzata per una fine mossa strategica: imbrigliare la dissidenza del Movimento 5 Stelle contro il futuro governo e muovere le file degli interessi del capitalismo italiano verso 70 miliardi di euro che costituiscono il 37 % del Recovery Fund dentro un piano europeo più vasto chiamato volgarmente Recovery Plan.

Dalle pagine della Commissione Europea all’interno del Recovery Plan si legge: «le transizioni climatiche e digitali eque, attraverso il Fondo per una transizione giusta e il programma Europa digitale». In queste scarne parole è racchiuso tutto il programma capitalistico falsamente tinto di verde del governo Draghi nel suo complesso.

Andiamo, però, con ordine. Draghi ha legato con un filo diretto alla sua supervisione diversi ministeri:

- Il ministero della Transizione ecologica diretto da Roberto Cingolani
- Innovazione tecnologica e la transizione digitale con ministro Vittorio Colao
- Sviluppo economico ministro Giancarlo Giorgetti e ovviamente il Ministero dell’Economia e Finanze diretto dal suo uomo di fiducia Daniele Franco.

Basterebbero le figure e i curricula di questi personaggi, per capire che le visioni “romantiche” di una difesa ambientalista e la trasformazione ecologica da parte del nuovo governo sono una cantonata pazzesca e uno schiaffo che arriva dalla semplice realtà dei fatti.

Chi è Roberto Cingolani? Fisico e Direttore scientifico dell’ITT, Istituto Italiano di Tecnologia dal 2005. Nel 2016 il finanziamento ricevuto dallo Stato, tramite il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dell’ITT è stato di circa 94 milioni di euro. I finanziamenti acquisiti direttamente dalla Fondazione ammontano a 213,6 milioni di euro. Nel 2019 diventa Chief Technology and Innovation Officer della società leader del settore difesa e aerospazio Leonardo di proprietà al 30,2 % del ministero di Economia e Finanza che nel 2019 aveva un portafoglio ordini di circa 36.500 milioni di euro, per un ricavo di circa 14.000 milioni di euro.

Un fisico esperto in tecnologie militari e armamenti ai vertici del gioiello imperialista italiano per eccellenza, cosa ha a che fare con la trasformazione ecologica? Infatti, dalla pagina web di Leonardo SpA, si legge testualmente: «Protagonisti nell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza. Proteggere i cittadini, i territori, le infrastrutture. Questo ci rende un protagonista globale nell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza...».

Eppure Cingolani è oggi il ministro della Transizione ecologica. Viene esaltato da Matteo Renzi che lo definisce uomo di eccezionali doti. Infatti è proprio Renzi che gli affida l’ITT anni prima, ed è ancora Renzi che caldeggia la nomina di Alessandro Profumo a capo di Finmeccanica/Leonardo (condannato in seguito per le vicende del Monte dei Paschi di Siena) e che a sua volta inserisce nel suo staff proprio Cingolani che diventa un protagonista della Leopolda nel 2018.

Alcuni aspetti inquietanti vedono la Leonardo SpA avere stretti legami con l’Arabia Saudita. Infatti proprio dalle pagine di Leonardo SpA si legge che la società “governativa italiana” ha perfino ottimi rapporti con il regime totalitario e disumano Saudita: «Forniamo soluzioni tecnologiche al Regno dell'Arabia Saudita, a partire dagli elicotteri VIP fino ai sistemi per la gestione del sistema bancario islamico». Armi e soldi sicuramente discussi tra Renzi e il principe saudita Mohammed bin Salman. Da notare come lo stesso Renzi sia “invidioso del costo del lavoro” in Arabia Saudita, vista da lui come nuova culla del “Rinascimento”.

Con Leonardo SpA conduce i suoi fili anche il ministero dell’Innovazione tecnologica e transizione digitale, Vittorio Colao, ex amministratore delegato di omnitel/vodafone. Colao viene nominato da Giuseppe Conte a capo della Task Force contro la crisi pandemica nel 2020. Tra i suoi 17 membri c’è l’immancabile Cingolani. Guarda caso però Vittorio Colao entra nel CdA di Finmeccanica nel 2000 insieme a Corrado Passera prima di trasformarsi in Leonardo SpA.

Giancarlo Giorgetti leghista legato agli interessi degli imprenditori del nord, ex missino doc e amico personale di Mario Draghi, è il nuovo ministro dello sviluppo economico. Nel Governo Conte I Lega-5 stelle gli viene affidata la delega alle politiche spaziali ed aerospaziali con la presidenza del Comitato interministeriale per le politiche relative allo spazio e alla ricerca aerospaziale. Anche lui stringe i legami con Leonardo SpA tanto che partecipa negli USA agli incontri preliminari per il progetto finalizzato alla realizzazione di una specie di spazioporto a Taranto-Grottaglie, al quale guarda Leonardo-Finmeccanica per testare i suoi prototipi. Invece della bonifica del polo di Taranto, si investono energie in faraonici progetti spaziali. Ma se questo non bastasse, tra gli alti vertici di Leonardo troviamo Francesco Giorgetti fratello di Giancarlo. Come minimo è un conflitto di interessi.

Il Ministero dell’Economia e Finanze diretto da Daniele Franco risulta essere il principale azionista governativo di Leonardo SpA da dove proviene il ministro Cingolani. Dalla pagina della Camera dei Deputati prendiamo l’ immagine dei loghi delle aziende con partecipazione statale quotate e non in borsa nel 2018 (la trovate anche alla fine dell'articolo, ndr).

Non c’è alcuna impresa che sia impegnata nel settore delle nuove tecnologie “green”. Viceversa sono molte quelle che si occupano del settore energetico, legate all’apparato militare industriale.

Risulta alquanto difficile immaginare che l’apparato economico dello Stato borghese indirizzi le scelte capitalistiche verso politiche con investimenti in un settore a suo dire “green”, nel quale ad oggi non esiste nulla. Viceversa, tutto il suo sforzo è proteso verso scelte di carattere imperialista. Draghi nel suo discorso di insediamento alle camere ha condensato il programma ambientalista del suo Governo in queste scarne parole: «Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane».

È difficile immaginare che l’equipe prescelta per la “transizione” ecologica del Paese si occupi della difesa dell’ambiente e dei territori, quando questi fini esperti e politici fino a ieri si sono occupati di armamenti, sfruttamenti energetici di territori neo colonizzati e di robotica per limitare la presenza dei lavoratori nei centri di produzione. Le strutture e le infrastrutture del capitalismo nazionale dovrebbero essere trasformate in un programma senza profitti. Questo è palesemente impossibile. Già ad ottobre sulle pagine web del MISE veniva descritto il progetto Italia 2030 insieme alla Luiss Business School (l’accademia del Capitalismo italiano) in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti, Enel, Eni, Generali, Intesa Sanpaolo, Italgas, Leonardo, Poste Italiane, Snam e Terna.

«Abbiamo promosso ‘Italia 2030’ per dare vita a un piano di azione congiunto in cui l’economia circolare fosse al centro delle strategie per il futuro del Paese, a partire proprio da conoscenze e competenze. Solo se continueremo ad avvicinare le opportunità dell’economia circolare a cittadini e aziende, le sue potenzialità diventeranno reali. È una necessità per il Paese, che non può permettersi di perdere il treno della sostenibilità, ed è resa ancora più impellente alla luce della direzione green del Recovery Fund», così aveva commentato per l’occasione Stefano Buffagni, Viceministro allo Sviluppo Economico. Uomo di rango del M5Stelle, sottosegretario alla presidenza del consiglio nel primo Governo Conte e vice ministro al MISE nel Conte II.

Le politiche ambientali di transizione ecologica di questo nuovo governo non esistono. L’Italia è l’anello debole dell’imperialismo europeo e deve stare al passo negli scontri degli interessi tra blocchi nel Mediterraneo e in Africa. Le fonti di energia fossile sono al centro di queste mire. In particolare il Gas Naturale e gli Hub di approvvigionamento e stoccaggio. Il nuovo ministro Cingolani lo diceva già nel 2018.

La sua posizione era nettamente contraria perfino alle rinnovabili in chiave capitalistica: fotovoltaico, eolico, auto elettriche. Alla Leopolda di Renzi dichiarava con decisione sulla sostenibilità: «Nel lungo termine non ci sarà [...] Il costo energetico di tutte le cose che desideriamo avere è molto elevato. Da un lato pretendiamo molto dalla tecnologia come se fosse tutto gratuito, dall’altro non vogliamo oleodotti, gasdotti, nucleare...». Una posizione nettamente a favore delle fonti fossili.

Un futuro programma imperialista, quindi falsamente “ecologico”, teso alla riconquista di spazi e domini in nome del profitto e con i costi a carico dei lavoratori. Altro che Recovery Fund per l’ambiente. Una cascata di soldi per la modernizzazione dell’apparato militare industriale sotto la guida dei gioielli di stato Leonardo SpA, ENI, Saipem, multinazionali dell’energia e banche a dettarne le linee guida.

E triste prevedere che la situazione drammatica dei lavoratori di Arcelormittal, delle miriadi di Terre dei Fuochi sparse nel paese, nonché dei vari dissesti idrogeologici rimarranno tali nel tempo.

Solo la ripresa della lotta di classe contro questo governo come tutti i governi della borghesia, potrà abbattere ogni mistificazione e riportare al centro delle scelte la difesa dell’umanità. Ogni chimera riformista falsamente ambientalista e i compromessi ai danni dei più deboli devono essere spazzati via.

Solo un programma rivoluzionario di transizione anticapitalista verso il socialismo potrà raggiungere la salvezza del pianeta.

Ruggero Rognoni


18 febbraio, manifestazione a Roma contro il governo Draghi

 


L’importanza della più ampia unità d’azione. Senza sconti, senza settarismo

Giovedì 18 febbraio a Roma in Piazza San Silvestro si terrà una manifestazione unitaria dell’opposizione di classe contro il governo Draghi. È un piccolo fatto politico. Nelle stesse ore in cui Draghi incassa in Parlamento il voto di fiducia, la piazza di Roma annuncia una opposizione radicale al governo, dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici.

Era stata richiesta Piazza Montecitorio, ma la Questura l’ha vietata con motivazioni pretestuose. In realtà il Ministero degli Interni vuole evitare che la vetrina della celebrazione di Draghi possa essere rovinata da una contestazione plateale. Ma faremo il possibile perché l’opposizione si renda visibile.

L’iniziativa ha registrato l’adesione di un arco ampio di sinistre di opposizione, politiche, sindacali, di movimento. Soggetti diversi ovviamente, come in ogni esperienza unitaria: diversi per natura e funzioni; diversi per storia, orientamenti, prospettive. Saranno presenti innanzitutto il Patto d’azione anticapitalista - per il fronte unico di classe e il Coordinamento delle sinistre di opposizione, che al di là della diversità di percorsi e composizione, si sono collocati con chiarezza all’opposizione del governo Conte, rivendicano entrambi l’indipendenza di classe, sostengono rivendicazioni largamente sovrapponibili. Sarà presente Potere al Popolo, nella sua composita e irrisolta articolazione interna. Sarà presente Rifondazione Comunista, assai più incerto inizialmente verso il secondo governo Conte, e reduce dalla recente sottoscrizione di un (incredibile) appello dell’ANPI assieme a PD e M5S, “Per Salvare l’Italia”, e tuttavia oggi collocato chiaramente all’opposizione del governo Draghi. Sul piano sindacale, oltre a SICobas e forse CUB, ha dato l’adesione Riconquistiamo Tutto, l’opposizione interna alla CGIL. Di certo non vi saranno inquinamenti di carattere sovranista e rossobruno, che invece albergano in altre iniziative di valenza ambigua. Forza Nuova non troverà spunti per ammiccare alla nostra piazza, fosse pure strumentalmente, come invece ha potuto fare con altri.

Come PCL ci siamo fortemente spesi, coi nostri limiti, per la convergenza unitaria di giovedì. Naturalmente rivendichiamo la nostra piena autonomia politica, come la riconosciamo ad altri. E autonomia significa libertà di critica anche nei confronti dei soggetti con cui si condivide una convergenza di piazza. Ma salutiamo come assolutamente positiva questa convergenza. L’unità nazionale attorno a Draghi richiede la costruzione del fronte unitario più ampio dell’opposizione di classe. Se c’è una situazione in cui non ha alcun senso una logica di autosufficienza è proprio questa.

Marciare separatamente, colpire insieme: questa elementare politica di fronte unico crediamo debba valere ad ogni livello, anche al livello di un piccolo fronte d’azione dell’avanguardia. Tanto più davanti al governo Draghi. Tanto più in un quadro di arretramento profondo del movimento operaio, dei suoi livelli di mobilitazione, organizzazione, coscienza.

Le posizioni classiste e anticapitaliste non hanno nulla da temere da un allargamento del fronte unitario d’azione. Al contrario, potranno meglio sviluppare in quel contesto la propria battaglia di egemonia. Questa è la cultura leninista del nostro partito: unità d’azione e radicalità di proposta, senza sconti e senza settarismo.

È la posizione che porteremo in piazza a Roma e in ogni ambito dell’avanguardia.




Di seguito il comunicato di convocazione della manifestazione:


Nessuna fiducia al governo dei padroni e delle banche!

Tra mercoledì e giovedì il nuovo governo presieduto da Draghi riceverà la fiducia in Parlamento da tutte le principali forze politiche, con il sostegno aperto della totalità degli industriali, delle associazioni datoriali, dell’UE, di CGIL-CISL-UIL e con l’acclamazione trasversale di tutti gli organi di informazione.

Il nascente governo di unità nazionale ha già annunciato un’ampia ristrutturazione, a partire dalla spartizione delle centinaia di miliardi del Recovery Fund. Un passo ulteriore verso la direzione già segnata negli ultimi mesi di voler scaricare i costi di questa crisi sui lavoratori e sugli sfruttati autoctoni e immigrati.

I lavoratori, i disoccupati, i precari e la grande maggioranza degli studenti, stremati da un decennio di crisi economica e immiserimento, non possono riporre alcuna speranza in questo nuovo governo che, tramite la vuota retorica dell’unità nazionale, ha il compito di imporre ulteriori politiche antipopolari.

È necessario prepararsi ad una lotta serrata per la difesa del lavoro e della salute, a partire dalla battaglia contro lo sblocco dei licenziamenti, dei salari e dei diritti sociali.
Al netto dei cambi di governo bisogna dare seguito ai mesi di scioperi nazionali e di comparto, e che proseguiranno con il prossimo dell’8 marzo, e alle mobilitazioni nazionali per la patrimoniale sulle grandi ricchezze e contro la messa al macello della classe lavoratrice.

Giovedì dalle 14 saremo in Piazza San Silvestro per dire a chiare lettere che non rimarremo a guardare e risponderemo a questa offensiva con la mobilitazione sin dal primo giorno.

AL FRONTE UNICO DEI PADRONI È ORA DI CONTRAPPORRE IL FRONTE UNICO DEI LAVORATORI E DELLE CLASSI OPPRESSE: NON PAGHEREMO LA VOSTRA CRISI!

Partito Comunista dei Lavoratori

Il governo Draghi e il nuovo scenario politico

 


Analisi e incognite della situazione italiana

Il nuovo governo Draghi è la risultante di diversi fattori combinati. Se guardiamo la superficie della vicenda politica, è facile individuare in Matteo Renzi il fattore di innesco determinante. La finalità della sua operazione di messa in crisi del governo Conte non è stata affatto dettata dalla fame di poltrone, come voleva una lettura molto approssimativa della crisi, ma dalla volontà di spezzare l'asse tra M5S e PD, e costringere quest'ultimo nella camicia di forza di un'unità nazionale che ne accentuasse le contraddizioni interne a beneficio di Italia Viva. In questo senso il governo Draghi è indubbiamente una risulta dell'operazione di Renzi, al di là dei vantaggi politici che Italia Viva ne può trarre.
Tuttavia abbiamo visto all'opera fattori ben più profondi.


I FATTORI DI FONDO DELLA SOLUZIONE DRAGHI

In primo luogo la pressione del grande capitale e delle organizzazioni padronali, a partire da Confindustria e dalle sue associazioni del Nord.

La borghesia italiana ha conosciuto nell'ultimo decennio una disarticolazione dei suoi assetti interni e riferimenti politici. Ma la precipitazione della più grande crisi del dopoguerra ha fatto emergere la comune volontà di massimizzare in fretta la svolta (obbligata) delle politiche di bilancio della UE. Agli occhi della borghesia il Recovery Fund è l'occasione insperata e irripetibile di provare a rilanciare il capitalismo italiano su scala europea e internazionale, liberandolo dal fardello delle sue zavorre: scarsa concentrazione dei capitali, arretratezza tecnologica, carattere pletorico dell'amministrazione pubblica, lentezze della giustizia civile, peso esorbitante della spesa pensionistica, e persino, incredibile a dirsi, “eccesso di rigidità contrattuali”. È il quotidiano cahier de doléance di tutta la stampa padronale.
Da qui la critica confindustriale al governo Conte e alla sua maggioranza risicata, impegnata in una interminabile negoziazione interna di ogni passaggio decisionale. Da qui, soprattutto, la domanda di un governo dalle spalle larghe, più autorevole su scala mondiale, più permeabile alle pressioni dirette del padronato, e al tempo stesso più capace di imporre alla società italiana il programma di modernizzazione capitalista. Questa domanda di svolta, incluso il nome di Draghi, circolava almeno da un anno, sia pure sottotraccia, in tutti i circoli dominanti. La crisi politica determinata da Renzi le ha aperto il varco.

In secondo luogo, e in connessione col primo fattore, ha operato una pressione delle cancellerie europee. Una precipitazione elettorale della crisi avrebbe messo a rischio l'intelaiatura del Recovery Fund, imperniato sul salvataggio del capitalismo italiano, esponendo l'intera UE ad un pericoloso effetto di rimbalzo. Tanto più nella sgradita previsione di una possibile, se non probabile, affermazione del fronte sovranista, con il conseguente controllo della destra sulla maggioranza assoluta del Parlamento e sulla stessa elezione del nuovo Presidente della Repubblica nel 2022.
La soluzione di unità nazionale era, nelle condizioni date, l'unica via per evitare questo approdo. La presenza del PD ai massimi vertici della UE, nella Commissione Europea (Gentiloni) e nel Parlamento Europeo (Sassoli), ha di certo favorito questa soluzione. Ma essa corrisponde pienamente all'interesse del capitale finanziario continentale. Merkel e Macron hanno tifato, nel proprio interesse, per la soluzione Draghi.

In terzo luogo, la pressione congiunta di padronato del Nord e cancellerie europee ha prodotto un effetto politico decisivo sulla Lega.
Come avevamo segnalato all'inizio della crisi di governo, l'immagine di una Lega salviniana irreversibilmente antieuropea e sovranista non rispecchiava la realtà di quel partito, ben più composita. Una parte decisiva della costituzione materiale della Lega affonda le proprie radici nelle amministrazioni di tutte le principali regioni del Nord, e in una piccola e media borghesia industriale legata alla filiera del mercato europeo, in particolare tedesco. Questa Lega ha incassato i vantaggi dello sfondamento populista del salvinismo, ma non si è mai identificata con questo. Il precipitare della crisi capitalista, combinata con le nuove disponibilità finanziarie della UE, ha spinto in avanti questo settore. Zaia e Giorgetti se ne sono fatti portavoce. La loro domanda governista non è solamente quella di controllare l'uso dei nuovi fondi, ma anche di legittimare la Lega come partito europeista in un quadro internazionale nuovo, segnato dal crollo del trumpismo, dalla svolta della UE, dall'impatto della pandemia sull'immaginario di ampi settori sociali. La svolta del “Capitano” si è posta in sintonia con questo nuovo scenario, per non rischiare di venirne travolto.


IL RUOLO CHIAVE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA

Il Quirinale è stato il dominus del governo Draghi.

Come in altri passaggi della vicenda italiana, la presidenza della Repubblica supplisce alla crisi dei partiti borghesi: è stato così con le presidenze Scalfaro e Ciampi nel passaggio tormentato degli anni '90 tra prima e seconda Repubblica, è stato così con la presidenza Napolitano nella crisi del 2011-2013. Oggi in forme diverse si è ripetuto lo stesso copione. Di fronte allo sfaldamento degli equilibri di alternanza, alla cronica instabilità della legislatura, ai rischi di disfacimento della principale forza parlamentare (M5S), solo l'iniziativa del Quirinale poteva predisporre una via d'uscita.

Sergio Mattarella ha deciso direttamente l'investitura di Draghi, ne ha definito il mandato, ha posto sotto la propria regia la stessa composizione ministeriale. Ciò che tradizionalmente passava attraverso un negoziato interpartitico è stato avocato a sé dalla presidenza della Repubblica. Alcuni costituzionalisti liberali hanno visto in questo l'applicazione salutare e rigorosa della Costituzione. In realtà la crisi politica ha fatto emergere i tratti presidenzialisti, solitamente in ombra, della Costituzione italiana. Era accaduto con Napolitano, si è ripetuto con Matterella.

La presidenza Draghi nasce per volontà della presidenza della Repubblica e col pieno appoggio del capitale finanziario. È davvero il governo dei due Presidenti. La sua forza non sta nella vastissima base parlamentare che lo sorregge; semmai questa, con le sue contraddizioni interne, rappresenta paradossalmente il lato debole dell'esecutivo. Sta invece nell'azione centripeta del grande capitale e della UE, il vero magnete peraltro dell'unità nazionale. Il Presidente Draghi personifica questo nuovo equilibrio, si eleva al di sopra delle contraddizioni politiche della sua maggioranza con l'intento di dominarle. La sua investitura è di fatto presidenziale, e solo di riflesso parlamentare. È, in nuce, una simulazione di bonapartismo.


DRAGHI E MONTI. ANALOGIA E DIFFERENZE

Le analogie con il governo Monti del 2011-2013 sono diverse: oggi come allora, abbiamo un governo di salute pubblica, di nomina presidenziale, espressione del capitale finanziario, con ampia base parlamentare. E tuttavia molte sono le differenze.

Innanzitutto, a differenza che nel governo Monti, i partiti borghesi sono direttamente coinvolti nell'esecutivo, per volontà di Draghi e Mattarella, convinti in tal modo di fortificarlo. Il gruppo dei ministri cosiddetti tecnici, provenienti dall'alta burocrazia di Stato (Daniele Franco) e/o dalla grande impresa (Colao), presidia il core business del nuovo esecutivo, a partire dal controllo dei fondi europei. I partiti borghesi, attentamente calibrati, amministrano invece l'ordinario. Una soluzione più simile a quella di Ciampi del 1993 che a quella di Monti, seppur in un quadro di unità nazionale di cui Ciampi non disponeva.

Inoltre il governo gode di un margine di manovra dal punto di vista finanziario molto più ampio che nel 2011-2012, grazie alla sospensione dei vecchi vincoli di bilancio imposta dalla profondità della crisi, e accettata dallo stesso governo tedesco. Ciò accresce a dismisura il debito pubblico, che sarà scaricato sui proletari, ma nell'immediato aiuta il nuovo esecutivo: gli offre un margine di grasso con cui oliare le relazioni sociali, o almeno provarci.

Infine il governo, anche in ragione di questo margine di manovra, sembra voler perseguire a differenza di Monti una politica di concertazione con le burocrazie sindacali e le organizzazioni padronali. Il ripiegamento del nuovo gruppo dirigente di Confindustria su una politica di “buone relazioni” con la CGIL, dopo le smargiassate iniziali (vedi il nuovo contratto dei metalmeccanici), sembra per ora offrire una sponda a questo corso governativo. Preoccupato di garantire la pace sociale, il governo Draghi farà il possibile per schivare le mine.

Ma chi prevede per il nuovo governo un cammino in discesa, o anche solo in pianura, ha una visione molto semplificata della situazione. Confonde il pallottoliere parlamentare con la vita reale, il profumo d'incenso della retorica con la cruda materialità dei problemi.


PANDEMIA, LICENZIAMENTI, PENSIONI: LE MINE VAGANTI SUL CAMMINO DI DRAGHI

Un primo terreno impervio riguarda la crisi sanitaria e la crisi sociale tra loro intrecciate.

L'evoluzione imprevedibile della pandemia, sotto la minaccia delle mutazioni del virus, si combina con le difficoltà strutturali (continentali ma tanto più nazionali) della vaccinazione di massa, la gestione delle chiusure, i contenziosi con le amministrazioni regionali, il nodo dei DPCM... Un Presidente gesuitico di poche parole dovrà sperimentarsi nella comunicazione pubblica, scendendo dall'eremo della sua santità. Non sarà facile.

A questo si sovrappone il passaggio cruciale dello sblocco dei licenziamenti. Confindustria chiede lo sblocco per le aziende non coperte da cassa Covid che hanno bisogno di ristrutturazioni. Le burocrazie sindacali, in particolare la CGIL, propongono un nuovo rinvio. Ma il padronato, che già teneva sotto pressione il governo Conte, vuole incassare il dividendo del nuovo governo Draghi, e non mollerà facilmente la presa. Bankitalia calcola ad oggi oltre mezzo milione di licenziamenti sospesi pronti a scattare, una valanga sociale di grande ampiezza. E non parliamo solo di piccole imprese, parliamo virtualmente anche del gruppo Stellantis, di AcelorMittal, di Alitalia, di una miriade di aziende di medie dimensioni interessate a riorganizzare produzione e servizi. Draghi cerca di allontanare da sé il calice amaro di questa stretta sociale. Ma sarà arduo evitarla.

La questione delle pensioni non è meno rilevante, seppure su tempi maggiormente diluiti. Quota 100 va a scadenza; non può essere rinnovata a fronte del gigantesco indebitamento pubblico e delle pressioni della UE che condiziona lo stesso Recovey Fund al controllo dei conti pubblici. Non a caso il governo spagnolo (PSOE-Podemos) è già impegnato sull'innalzamento dell'età pensionabile. L'esecutivo Draghi dovrà dunque mettere le mani sul sistema pensionistico nella prossima legge di stabilità, che inizia il suo corso in tarda primavera.

L'incrocio tra sblocco dei licenziamenti e riforma pensionistica può esporre il governo a un rischio di conflitto. La concertazione mira a disinnescarlo, ma al tempo stesso confessa la paura.


PROPORZIONALE O MAGGIORITARIO? LE INCOGNITE DEL SISTEMA POLITICO

Un secondo ordine di problemi è di natura più strettamente politica. La nuova unità nazionale è per definizione una situazione d'eccezione che prelude ad una riorganizzazione del sistema politico. I governi tecnici (Monti) o politico-tecnici (Draghi) sono normalmente incubatori di nuovi soggetti e/o di nuovi equilibri. Oggi è molto difficile prevedere lo sbocco politico dell'esperienza Draghi. L'unità nazionale prelude ad un ritorno a un sistema proporzionale, con la classica composizione di un'area di centro borghese quale punto di gravitazione, o prepara invece un ritorno al bipolarismo con schieramenti ristrutturati ma alternativi? Difficile rispondere ad oggi. Certo nel Parlamento attuale sembra difficile trovare una maggioranza di voto per la legge elettorale proporzionale, perché Forza Italia, PD e M5S non hanno la maggioranza dei seggi al Senato. Se resterà l'impianto maggioritario, comunque articolato, le crepe interne alla maggioranza di governo non tarderanno a manifestarsi, da un lato nel polo PD-M5S, dall'altro nel polo di centrodestra.
I tempi, del resto, non sono neutri. Sul finire della primavera vi sarà un'ampia competizione sul terreno amministrativo a carattere maggioritario che coinvolge le principali città italiane. L'effetto di polarizzazione sarà inevitabile e può riverberarsi a livello politico parlamentare. Inoltre incombe il passaggio tra meno di un anno delle elezioni del Presidente della Repubblica. Draghi appare ad oggi come il candidato naturale alla successione di Mattarella, con un sostegno amplissimo. Ma questo significherebbe elezioni politiche anticipate, una scadenza che se prendesse forma trascinerebbe inevitabilmente lungo l'arco dell'intero anno la competizione interna alla maggioranza Draghi.

Il rapporto del governo con l'opinione pubblica è un'ulteriore variabile dipendente del quadro generale. Al piede di partenza Mario Draghi sembra godere di un affidamento vasto e fiducioso. Un credito iniziale, secondo i sondaggi, di oltre il 70% dei consensi ha pochi precedenti in tempi recenti. È il riflesso naturale della sofferenza per la pandemia, della crisi sociale, dell'enorme disorientamento politico, del ripiegamento dei livelli mobilitazione e di coscienza di ampi strati proletari, ciò che alimenta la ricerca del salvatore della patria, in questo caso tecnocrate competente. Tuttavia proprio l'altezza delle aspettative può favorire rapidi disincanti e cambi di clima. Accadde con Monti, può accadere con Draghi. Proprio la memoria dell'esperienza Monti convive sottotraccia con la speranza in Draghi, e alimenta una diffidenza inquieta. È un equilibrio contraddittorio e instabile, esposto a possibili svolte.

La svolta dell'unità nazionale produce sofferenza in blocchi sociali ed elettorali diversi. Le grandi narrazioni populiste che hanno coinvolto negli ultimi dieci anni ampi settori di piccola borghesia e la maggioranza dei salariati hanno subito un tracollo della propria credibilità. Le campagne sovraniste sono scosse alle fondamenta non solo dal cambio delle politiche di bilancio in Europa ma soprattutto dall'ingresso entusiasta della Lega nel governo Draghi. Parallelamente, la lunga narrazione anticasta del M5S, già svuotata nel corso della legislatura dalle diverse alleanze di governo, è oggi annientata dall'ingresso del M5S nel governo Draghi a fianco di Berlusconi e di Renzi. È un fatto politico enorme nella parabola di questo movimento politico, che ne istituzionalizza definitivamente l'approdo, ma che perciò stesso innesca frantumazioni parlamentari, scissioni tra i suoi attivisti, dispersione nella sua base sociale.

Complessivamente, l'immaginario di ampi settori di massa subisce una scossa traumatica. Non è possibile prevedere la ricaduta prevalente di questo processo sul versante sociale. Ma se il populismo reazionario, grillino o leghista, si è saldato per quasi un decennio con la dinamica di riflusso del movimento operaio, dirottando su uno sfogatoio passivo una gran mole di tensioni sociali, il venir meno di questo sfogatoio potrà avere effetti sulle prospettive della lotta di classe.


LA POLITICA DEI RIVOLUZIONARI NEL NUOVO SCENARIO

Il nuovo scenario politico richiede un rilancio della politica di fronte unico. Se la borghesia ha radunato attorno a sé i suoi partiti, il movimento operaio deve stringere le proprie file contro la borghesia e il suo governo. Contrapporre all'unità nazionale il fronte unico di classe è il primo tassello della nostra proposta e linea di intervento.

È tanto più importante oggi ragionare in una prospettiva di massa. Davanti ad uno schieramento politico così vasto, a un governo che gode di nuova forza per il sostegno unanime del padronato, è necessario lavorare a costruire una forza di massa uguale e contraria, l'unica capace di alzare un argine e strappare risultati.

Nello stesso bacino dell'avanguardia occorre prendere le misure del nuovo scenario. Tanto più oggi logiche di autocentratura ed autosufficienza sono prive di fondamento. Le esperienze controcorrente che si sono prodotte nell'ultimo anno (Coordinamento delle sinistre di opposizione e Patto d'azione anticapitalista - per un fronte unico di classe) assumono un valore ancora maggiore e al tempo stesso misurano il proprio limite. Occorre lavorare alla ricomposizione di queste esperienze in un unico fronte dell'avanguardia di classe, politica e sindacale, per agire insieme in una logica di massa. La proposta di stati generali delle sinistre di opposizione e di classe emersa dal Coordinamento delle sinistre di opposizione intende muoversi in questa direzione, così come le proposte unitarie che emergono nel dibattito del Patto d'azione e dell'Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi.

La preparazione comune di una manifestazione nazionale contro il governo Draghi di tutte le sinistre di classe, ovunque collocate, darebbe impulso a questo processo, a partire dal presidio unitario contro il governo giovedì prossimo a Montecitorio, in occasione dell'insediamento del governo alle Camere, un presidio unitario senza steccati che il PCL, con altri, ha fortemente voluto.

Parallelamente, dentro il percorso di fronte unico dell'avanguardia occorre porre l'esigenza di una proposta d'azione che sia all'altezza del livello di scontro che si prepara. Se lo sblocco dei licenziamenti sarà il primo banco di prova del conflitto sociale, occorre preparare il movimento operaio sul terreno delle indicazioni di lotta, delle forme di organizzazione, delle stesse rivendicazioni. Se nuove centinaia di casi Whirlpool si moltiplicheranno in tutta Italia, va data l'indicazione dell'occupazione delle aziende che licenziano, di un coordinamento nazionale delle occupazioni, dello sviluppo delle casse di resistenza. La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che licenziano può unificare il fronte di lotta evitando quella drammatica via crucis delle sconfitte in ordine sparso che la classe operaia ha vissuto nell'ultimo decennio per responsabilità delle sue direzioni.

Certo, sono oggi proposte controcorrente a livello di massa. Ma proprio per questo è importante che le avanguardie le assumano unitariamente, e unitariamente ne facciano strumento di azione per preparare il terreno. Con la propaganda e ovunque possibile con l'agitazione. Sono proposte che il Coordinamento delle sinistre di opposizione ha già assunto e che il PCL ha portato e porta nella discussione interna al Patto d'azione, combinando unità e radicalità.

Il rilancio di una prospettiva anticapitalista di governo dei lavoratori e delle lavoratrici è più che mai un asse centrale della propaganda rivoluzionaria. A un governo espressione del capitale finanziario, nella sua stessa composizione, va contrapposta la prospettiva di un governo del lavoro. La crisi verticale di tutte le mitologie populiste e interclassiste (no euro contro euro, sovranità nazionale contro UE, italiani contro migranti, popolo contro casta...), che purtroppo hanno attecchito in ampi di settori di salariati, può liberare spazio per l'unica alternativa vera: quella tra capitale e lavoro. La parola d'ordine del governo dei lavoratori ne è la naturale proiezione. È l'unica vera soluzione contro il mare di fandonie e di truffe che sono state seminate nella coscienza di massa. È la ragione stessa del PCL e della sua costruzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

VOLENTIERI DIFFONDIAMO: L’appello dell’ass. La Villetta per i migranti in Bosnia-Erzegovina

 Mauro Collina, presidente dell’associazione di solidarietà per Cuba “La Villetta”, lancia un accorato appello a tutte le associazioni e i cittadini del territorio bolognese affinché partecipino alla raccolta di beni di prima necessità promossa dall’associazione One Bridge Idomeni di Verona per le persone migranti bloccate in Bosnia-Erzegovina.

Il materiale da donare e  i punti di raccolta a Bologna:

Leggi la locandina>> | La raccolta si concluderà il 18 febbraio






Per donazioni in denaro

Associazione “La Villetta” | IBAN IT19F0326813000052345776490 | causale: aiuti umanitari Bosnia

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Il governo dei due Presidenti

 


Anatomia di un governo presidenziale

13 Febbraio 2021

La composizione ministeriale del governo conferma la sua natura antioperaia

È il governo di due Presidenti, a fronte di una crisi politica non componibile con soluzioni ordinarie, e di una crisi sanitaria e sociale di portata straordinaria.

Mario Draghi ha raccolto attorno a sé i ministeri economici chiave. Quelli che gestiscono il controllo dei conti, dei flussi di spesa, dei fondi europei. Ne fanno parte quadri dirigenti ultrasperimentati della borghesia italiana, un'alta burocrazia statale che è un tutt'uno con il ministero del Tesoro, con la Banca d'Italia, con la Ragioneria di Stato (Daniele Franco, Roberto Garofoli) e che ha collaborato con tutti i governi. Oppure quadri provenienti dall'alta finanza capitalista e dalle grandi imprese (Vittorio Colao). Questo è il nucleo centrale del governo, sotto diretta tutela di Draghi. Il governo dei migliori quadri del capitale.

Un secondo livello del governo è stato “garantito” dalla presidenza della Repubblica, o sulla base di una relazione fiduciaria e/o per un criterio di continuità. Si tratta anche qui di ministeri chiave dell'apparato statale borghese: Interni (Lamorgese), Esteri (Di Maio), Difesa (Guerini), Giustizia (Cantabria). Da segnalare, con la conferma di Di Maio agli Esteri, il riconoscimento della normalizzazione istituzionale del M5S e un suo indubbio incoraggiamento. Le minacce di impeachment contro Mattarella del Di Maio di due anni fa sono evidentemente per tutti un passato molto remoto, mentre la fede atlantista del giovanotto è ormai a prova di bomba.

Il terzo livello ministeriale, gestito insieme da Draghi e Mattarella, riguarda più direttamente il rapporto con la maggioranza parlamentare che sostiene il governo, e dunque coi partiti di diverso segno che la compongono. Qui si segnalano elementi diversi. Sul versante del centrodestra, la premiazione complessiva delle componenti più inclini alla collaborazione istituzionale, sia in Forza Italia (Brunetta, Carfagna, Gelmini) che nella Lega (Giorgetti, Garavaglia). Sul versante del centrosinistra, si è scelta l'esposizione sulla frontiera sociale: Orlando al Lavoro dovrà gestire lo snodo cruciale dello sblocco dei licenziamenti, Speranza continuerà a vedersela col disastro del sistema sanitario. Come in tanti governi di collaborazione di classe, la sinistra liberale o socialdemocratica ha la funzione di levare le castagne dal fuoco al padronato e di fare da ammortizzatore sociale.

Di certo il nuovo governo “per salvare l'Italia” raccoglie tutti i vecchi arnesi delle peggiori politiche borghesi degli ultimi vent'anni. Quelli che hanno condiviso e gestito – tutti senza eccezione – i 37 miliardi di tagli alla sanità pubblica, la precarizzazione del lavoro, la distruzione dei diritti. Quelli che hanno varato le peggiori politiche antisindacali nella pubblica amministrazione all'insegna delle campagne contro «i fannulloni», come Brunetta. Quelli che hanno massacrato la scuola pubblica, a partire dagli otto miliardi di tagli della famigerata Gelmini.
L'unità nazionale riassume decenni di politiche comuni. Appare come soluzione di eccezione, ma è solo la rivelazione della normalità.

Maurizio Landini saluta il nuovo governo come una grande occasione per l'Italia, offrendosi come ciambellano. Lo fece anche con Renzi al suo esordio, poi sappiamo come è andata. Di certo la composizione del governo conferma una volta di più tutte le ragioni di un'opposizione di classe, unitaria e di massa, all'unità nazionale dei partiti borghesi. Contro il governo Draghi-Mattarella e chi lo sostiene.

Partito Comunista dei Lavoratori

Metalmeccanici, 124 euro di aumento in quattro anni e mezzo

 


Note sul rinnovo del contratto nazionale

È questa la cifra firmata al quinto livello. Cioè circa 115 al quarto livello e 112 al terzo. Cifra che dovrà essere sottoposta al voto dei lavoratori e delle lavoratrici, e approvata o bocciata in assemblea da un referendum senza condizioni minime di democrazia: parlerà solo chi è favorevole, mentre chi è contro dovrà arrangiarsi. La cifra è tutta sui minimi, non vale solo per i metalmeccanici di FCA-Stellantis, ormai abbandonati a sé stessi come se non ci fossero più.

25 euro arriveranno a giugno 2021. Altre 25 euro a giugno 2022. Poi 27 a giugno 2023. Infine 35 euro a giugno 2024. Più 12 euro già presi a giugno 2019 per la vacanza contrattuale, ufficialmente infatti il contratto dura tre anni e mezzo, dal 2021 al giugno 2024. I buoni spesa (flexible benefits) vengono portati a 200 euro (50 in più rispetto alla media dei 150 del contratto scorso).

Più abbozzata che pienamente riuscita la controriforma al ribasso dell’inquadramento professionale. Viene eliminata la prima categoria (per 7000 metalmeccanici su un milione e mezzo), mentre le altre vengono rinominate e divise per settori “A, B, C, D” (quindi un terzo livello diventa C1, un quarto C2, eccetera). Al posto di vecchie declaratorie molto fumose e indefinite, vengono messe nuove declaratorie altrettanto fumose ma apparentemente più moderne e scientifiche. L’introduzione di parametri più stringenti, come la conoscenza della lingua straniera all’ex quinto livello (quello del vero e proprio salto professionale, ora ribattezzato C3) sono i presupposti per rendere sempre più difficile e sempre meno legato all’esperienza il passaggio di livello. Il fatto però che le lettere e i sottogruppi ricordino la classificazione proposta dal CCSL di Marchionne mostra bene dove voglia andare a parare Federmeccanica. Oggi si è accontentata di delinearne i primi contorni, domani sconteremo sempre più sulla nostra pelle il disegno.

La vera differenza tra il vecchio e il nuovo inquadramento sta nel fatto che il primo fu ottenuto con le lotte del 1973, quello di oggi stoppandole. Il primo era voluto dagli operai, quello di oggi dalla controparte. Basterebbe questo per comprendere quanto sia insidioso. Solo la finta ingenuità dei burocrati sindacali può credere di aver migliorato un inquadramento professionale senza lotte e a tavolino.

Cassata la richiesta di 700 euro di elemento perequativo, che viene portato a 500, 15 euro in più. Nulla sulla stabilizzazione dei precari. Anche sugli appalti appare alquanto aleatoria la modifica ottenuta. Si chiedeva in caso di cambio di appalto la garanzia del posto di lavoro, si ottiene una scappatoia con cui le nuove imprese in appalto potranno sempre dire di fare un altro servizio, e fare come vogliono.

Il resto è alquanto decorativo, dall’abbassamento del numero di dipendenti per la possibilità delle RSU di coordinarsi tra stabilimenti, al tanto strombazzato contrasto alla violenza contro le donne, che altro non è che il raddoppio da 3 a 6 dei mesi retribuiti previsti dal Jobs Act per le donne che si assentano per motivi legati alla violenza di genere. È sicuramente una cosa buona, come la possibilità di chiedere il trasferimento in altra sede, ma non compensa minimamente tutte le altre perdite del contratto, che hanno già colpito con il precedente rinnovo e colpiranno anche le lavoratrici e le loro condizioni di vita.

Infine fa un ulteriore passo in avanti lo stuolo di enti bilaterali, che già era la vera cifra, in mancanza di quella salariale, del vecchio contratto. Viene aumentata la quota di Cometa (la previdenza complementare) per i nuovi iscritti con meno di 35 anni; si invitano ad iscriversi anche i pensionati alla truffa di Metasalute, che cura in pieno il portafogli degli assicuratori e poco e niente la salute degli iscritti; viene potenziata la commissione su salute e sicurezza, che potrà aumentare le statistiche sulle chiacchiere in attesa di stanziamenti non previsti per metterle in pratica; viene promossa l’alternanza scuola-lavoro, per inserire quanti più apprendisti a basso costo al posto di lavoratori ben inquadrati. Non poteva mancare la commissione paritetica per monitorare il nuovo inquadramento professionale. Viene infine avviata la sperimentazione di un improbabile modello partecipativo: un volontario delle RSU potrà essere inserito in un team e partecipare alla spartizione degli utili degli azionisti senza ricevere un obolo né per lui né per la partecipazione di chi rappresenta.

FIM-FIOM-UILM avevano chiesto circa 150 euro per tre anni. In proporzione, 124 euro in 4 anni e mezzo equivalgono a 82,6 in tre (al quinto livello, cioè 73/75 al terzo o al quarto). Ampiamente sotto la sufficienza in media, e gravemente insufficiente rispetto alla scadenza prevista dalla piattaforma: al termine del 2022, infatti, i metalmeccanici avranno in tasca solo 62 euro dei 150 richiesti.

Certo, rispetto al contratto scorso, pressoché nullo in materia di aumenti, questo rinnovo può apparire buono. I metalmeccanici, che per quattro anni sono stati il fanalino di coda rispetto agli altri settori, oggi ritornano nel gruppo di testa con un aumento appena un po’ al di sotto del contratto degli alimentaristi, che al momento è il migliore dei rinnovi.

Proprio per questo i vertici sindacali, sempre remissivi, hanno brindato a champagne. Per Re David, segretaria generale della FIOM, è addirittura un “risultato straordinario”. È così soddisfatta che non si chiede per quale motivo non si sia visto un solo padrone in lacrime.

La scusa per firmare ancora in deficit, infatti, questa volta è il Covid. Ma il Covid, in realtà, ha spinto leggermente al rialzo la trattativa. Evidentemente, in vista dello sblocco dei licenziamenti previsto per la fine di marzo e già annunciato da Draghi, Federmeccanica non vuole avere troppe grane nel settore più importante, quello dei metalmeccanici. Per questo non ha fatto troppe storie per aggiungere 10-15 euro di briciole ai 100-110 che si preannunciavano nei corridoi dei nostri sindacati (peraltro ottenendo in cambio il nuovo inquadramento professionale e smorzandole, riducendo a 200 euro l’offerta di welfare in buoni spesa che a novembre era di 250. Quei 10-15 euro in più sono quindi tutt’altro che regalate).

La verità è che se la preoccupazione per marzo ha spinto Federmeccanica a offrire qualche spicciolo in più pur di chiudere la trattativa in tempo, il compito nostro è opposto: tenerla aperta. Perché se la preoccupazione per marzo unita a uno sciopero finto e "telefonato" di quattro ore a novembre (con l’esclusione oltretutto di FCA, segno evidente che per FCA si è ormai accettato sottobanco il suo modello contrattuale) hanno prodotto 124 euro in quattro anni e mezzo, una mobilitazione vera, con scioperi veri, imprevisti e di otto ore, porterebbe non diciamo tanto, ma almeno a 130-140 euro in tre anni. In linea con la richiesta della piattaforma.

La burocrazia sindacale punterà sulla rassegnazione, forte di un realismo – è proprio il caso di dire – da quattro soldi, che possono apparire un’enormità rispetto al fiasco totale di cinque anni fa. Noi dobbiamo organizzare il dissenso per bocciare l’accordo nel referendum, denunciando innanzitutto la truffa del medesimo. La lotta parte in salita, perché l'area di l’opposizione CGIL "Riconquistiamo Tutto" arriva a questo ennesimo accordo al ribasso dopo una serie interminabile di astensioni, che hanno accompagnato nei fatti la linea della FIOM, senza denunciare mai i segnali, evidenti anche stavolta, di resa e capitolazione. Il voto contrario al Comitato Centrale FIOM e l’attuale campagna per il no sono i punti da cui ripartire. Il Partito Comunista dei Lavoratori si impegnerà a fondo nella battaglia per il no.

Lo farà non solo con "Riconquistiamo Tutto", ma anche con tutto quell’arcipelago di delegati sparsi nella galassia del sindacalismo di base e oggi raggruppati in parte nell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici combattivi. È con loro che dobbiamo provare a organizzare il dissenso al nuovo contratto dei metalmeccanici. Con loro e con l'area “Giornate di marzo”, l’altro pezzo di opposizione in CGIL che nel Comitato Centrale FIOM ha bocciato l’accordo. Nessun altro l’ha fatto. Solo i cinque più uno delle due opposizioni, in mezzo a ottantadue favorevoli e ai più rivoluzionari di tutti, i “leninisti” di Lotta Comunista, che da veri landiniani si sono astenuti in tre.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione sindacale