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L'uccisione dell'ambasciatore italiano e l'ipocrisia dell'imperialismo tricolore

 


L'uccisione in Congo dell'ambasciatore italiano e del carabiniere di scorta, per responsabilità ancora ignote, occupa in queste ore l'informazione pubblica. Molti sono i riferimenti alla storia professionale e di vita delle due vittime. Spicca su tutte la nota diffusa da Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina: «L’Ambasciatore d'Italia nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, e il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono rimasti vittime di una violenza che non riusciamo a capire e ad accettare. Un diplomatico e un carabiniere sono morti insieme, in un Paese lontano dove lavoravano al servizio dell’Italia.» (Corriere della Sera, 23 febbraio).


Domanda: qual è invece la violenza che il ministero degli Esteri riesce ad «accettare e capire» in Congo? I milioni di bambini di sette-otto anni che lavorano per 12 ore al giorno nelle miniere congolesi sotto il controllo delle multinazionali? Oppure le bambine di undici anni ammassate nei bordelli delle bidonville minerarie del Paese? Oppure il più alto tasso di stupri al mondo registrato proprio nella Repubblica “Democratica” del Congo? L'indignazione del Ministero degli Esteri scatta evidentemente a corrente alternata.


IL CRIMINE IN CONGO

La Stampa (FCA) parla oggi del Congo, in un suo commosso editoriale, come di un «paese sfortunato». Ipocrita! Si tratta di un paese saccheggiato proprio in ragione delle sue fortune. Il cobalto è la materia prima che sorregge l'intera produzione informatica. La rivoluzione annunciata dell'auto elettrica è affidata al cobalto. Il Congo concentra nella propria terra il 60% del cobalto prodotto nel mondo. È un tasso di concentrazione territoriale che non ha punti di paragone con nessuna altra materia prima sull'intero pianeta. Tutto questo spiega perché il Congo è terra di conquista e di spartizione tra tutte le potenze imperialiste. La Cina controlla da sola con proprie società il 50% del cobalto congolese. Il resto è spartito tra colossi USA ed europei. Apple, Daimer, Huawei, Lenovo, Microsoft, Sony, Vodafone, Volkswagen... tutte le grandi multinazionali del mondo intero attingono al pozzo del Congo. O dispongono direttamente di proprie miniere o si riforniscono da miniere artigianali messe su da signorotti locali che sfruttano manodopera schiavile.
Questo per parlare solo del cobalto. Ma il Congo ha anche invidiabili giacimenti di coltan, oro, diamanti, cassiterite, manganese, argento, zinco, uranio, petrolio. L'italianissima ENI, che è la principale azienda straniera in Africa, ha in Congo propri giacimenti.

Ognuna di queste materie prime trascina una guerra per l'accaparramento senza risparmio di colpi. Le centinaia di milizie private che infestano la Repubblica Democratica del Congo hanno qui la propria radice. Ogni padrone delle miniere si circonda di guardie private che tutelano la sua proprietà. La burocrazia supercorrotta dello Stato lascia fare; l'esercito regolare è connivente.

E l'ONU? L'ONU è presente da vent'anni nella Repubblica Democratica del Congo con ben 15000 soldati di 49 Paesi per “proteggere i civili e mantenere la pace”, come recita formalmente la sua missione. Ma la pace presidiata dalle Nazioni Unite è quella dello sfruttamento e delle guerre per il controllo dello sfruttamento. Per di più, lo stesso Corriere della Sera è costretto a dire a malincuore che la fama delle truppe ONU non è immacolata, perché corruzione e stupri compiuti da caschi blu hanno più volte macchiato la bandiera delle Nazioni Unite, anche in Congo. A proposito di influenze ambientali.


UNA STORIA TERRIBILE DI COLONIALISMO

Nulla di nuovo, in realtà. Il Congo è terra di saccheggio per mano dell'imperialismo da un secolo e mezzo. Dal 1885 al 1908 fu addirittura proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II, che gestì in prima persona lo schiavismo. Dal 1908 divenne colonia statale belga e lo rimase sino al 1960. Diverse generazioni di congolesi passarono sotto le forche caudine di una repressione sanguinosa, la pagina peggiore del colonialismo belga.

L'indipendenza strappata nel 1960 non mutò la condizione del Congo. Il primo presidente eletto Patrice Lumumba fu rovesciato e assassinato dopo meno di un anno da un colpo di stato diretto dalle gerarchie militari e sostenuto da Belgio ed USA. Iniziò allora il regime di Mobutu, il più longevo e spietato regime dittatoriale nell'Africa nera, che durò sino al 1997. Un regime che seppe a lungo equilibrarsi tra i buoni rapporti col blocco sovietico (in particolare col rumeno Ceausescu) e gli ottimi rapporti con l'imperialismo USA, presentandosi agli uni e agli altri come garante dei rispettivi interessi in Africa. Dopo il crollo dell'URSS, saltati i vecchi equilibri continentali, il Congo divenne teatro delle due cosiddette “guerre mondiali africane”, la prima nel 1996-1997, la seconda tra il 1998 e il 2003. Vi presero parte fino a sei stati limitrofi, vi morirono più di quattro milioni di persone. Il terribile conflitto etnico tra Hutu e Tutsi in Ruanda nel 1994, con responsabilità decisive dell'imperialismo francese, ha fornito carburante alle guerre africane per via diretta o indiretta. Anche il Congo ne ha subito gli effetti.


LA FUNZIONE DI UN'AMBASCIATA

Il Congo di oggi è il degno erede di questa storia terribile, la storia di un crimine che si chiama capitalismo. Questo è lo sfondo della stessa uccisione dell'ambasciatore italiano e della sua scorta.

Non sappiamo se gli aggressori sono criminali comuni dediti a rapimenti o se si tratta di milizie politicamente targate, e nel caso quale sia il loro marchio (se quello islamico integralista ugandese delle ADF o quello delle Forze democratiche di liberazione o quello dei cosiddetti Mai-Mai). Sappiamo che il personale diplomatico è esposto a rischi fisiologici per la natura stessa del suo ruolo. L'ex ministra Paola Severino, nel commentare l'accaduto, ha citato en passant la triplice funzione della diplomazia in questi paesi: diplomazia politica, diplomazia giuridica, diplomazia economica. Significa un lavoro di relazione con le strutture dello stato ospitante, ma anche con poteri territoriali, capi tribali, leader di zona.

«Attanasio il giorno prima era stato a Bukavu e aveva incontrato i maggiorenti e i leader della zona. [...] Anche a Ritshuru, dove era diretto, avrebbe dovuto vedere i capi locali e inaugurare alcune strutture donate dall'ONU. [...] Ma tra la popolazione qualcuno ce l'aveva con gli italiani. Molta gente qui è convinta che siano stati firmati dei contratti di estrazione petrolifera tra ENI e governo centrale di Kinshasa. E i notabili del posto, rimasti a bocca asciutta, hanno minacciato ritorsioni e vendette». Così scrive il Fatto Quotidiano (23 febbraio). Non sappiamo quali siano le fonti né se questa sia la pista giusta per individuare gli autori dell'accaduto, ma certo sappiamo che la funzione di un'ambasciata (e di un ambasciatore) è un po' più complicata dell'immagine da libro Cuore che ci confeziona la retorica tricolore di queste ore. E che l'imperialismo è anche questione di casa nostra.

Partito Comunista dei Lavoratori