Ha notato Raoul Pupo:
«In cima all’Adriatico, la politica del regime fascista si è distinta per la radicalità dei propositi, consistenti nella “bonifica nazionale” delle terre appena redente, cioè nella distruzione dell’identità nazionale slovena e croata. L’impegno in tal senso del fascismo, che ne ha menato gran vanto, è stato notevole e le popolazioni hanno per la prima volta sperimentato che cosa significhi la forza di uno Stato moderno le cui istituzioni vengono mobilitate su richiesta di una delle componenti nazionali in conflitto per distruggere l’altra» [40].
La seconda Guerra mondiale costituì una brutale accelerazione di questo processo. È sufficiente ricordare sinteticamente l'aggressione fascista alla Jugoslavia e il vero e proprio massacro, al limite del genocidio, che subirono le popolazioni slave.
Senza neppure una dichiarazione di guerra, nel 1941 l'Italia, insieme con i suoi alleati tedeschi, iniziò l'occupazione della Jugoslavia, spartita tra Germania, Bulgaria, Ungheria e Italia, alla quale toccarono Montenegro, parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia [41]. Il 3 maggio iniziò la fascistizzazione e la snazionalizzazione delle zone occupate, che ripercorreva lo schema già visto per i territori sotto giurisdizione italiana. A eseguire queste misure è chiamato il generale Grazioli. La stessa Lubiana, divenuta italiana, fu interamente circondata da filo spinato per la repressione antislava.
Nell'occupazione dei Balcani, dove la condotta militare fu estremamente brutale, vennero impiegati, in totale, circa 600.000 uomini [42].
Nel 1942 – 43 si organizzò la Resistenza: il Fronte di Liberazione slavo univa comunisti, cristiano-sociali e liberali. Per fronteggiare la Resistenza, gli occupanti promossero lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assunse il controllo politico della regione. Nella sua circolare 3C ordinava di uccidere gli ostaggi, incendiare i villaggi, deportare gli abitanti infedeli: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Il generale di corpo d'armata Mario Robotti, parte di quel cerchio magico di guerrieri dal volto umano, scriveva: «Si ammazza troppo poco!» Il generale d'armata Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, è anche lui di quella feroce partita: lamenta l'eccessiva mitezza verso i rivoltosi «selvaggi» e conclude così un suo proclama: «La favola del "bono italiano" deve cessare!» [43].
Ai proclami seguirono i fatti. Naturalmente è impossibile in questa sede esporre tutti i crimini di guerra dei quali gli eserciti occupanti si resero responsabili nei paesi balcanici. È però utile fornire un paio di esempi come indicativi del metodo utilizzato dagli invasori nazifascisti.
Tra il 21 e il 23 ottobre 1941, a Kragujevac, nel corso di un rastrellamento, furono massacrate settemila persone, tra cui intere classi di scolari, e oltre duemila operai nel distretto industriale di Kraljevo [44].
Alle ore 8 del 12 luglio, domenica, 250 militari appartenenti al XI Corpo d’Armata del gen. Robotti penetrarono nel paese di Podhum e vi bloccarono tutta la popolazione, all'epoca di circa mille abitanti: nel corso del successivo rastrellamento, casa per casa, vennero catturati tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 individui) di cui 108 (alcuni erano riusciti a scappare) furono subito condotti a una vicina cava e, in un avvallamento ai suoi piedi, vennero immediatamente uccisi con raffiche di mitragliatrici e i loro corpi gettati nella cava. Ne seguì la razzia e il saccheggio dell'intero villaggio [45].
Vennero istituiti decine di campi di concentramento per slavi, in Italia e in Jugoslavia, dove trovarono la morte migliaia di donne, uomini, vecchi e bambini, spesso evacuati dai villaggi dati alle fiamme, al fine di eliminare ogni sostegno popolare alla resistenza [46]. Centinaia di processi sommari, sfociati in condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. È molto difficile un censimento preciso: Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Melada, Mamula, Prevlaka, Zlarino, Janesovac, Sajmiste e nell’isola di Arbe, in Jugoslavia (ad Arbe la letalità fu superiore di quella del tristemente noto campo nazista di Dachau); Risiera di San Sabba a Trieste, Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Casoli, Agnone, Colfiorito di Foligno, Renicci di Anghiari, Fraschette di Alatri, in Italia, sono alcuni dei campi nei quali vennero rinchiusi complessivamente circa 500.000 individui, dei quali oltre 115.000 morirono per stenti, malattie, fucilazioni, freddo, sevizie. Ma occorre ricordare anche il campo di Jasenovac, nella Croazia di Ante Pavelic, infeudata al fascismo di Mussolini.
Quasi tutte le fonti concordano che le vittime jugoslave dell'occupazione italiana abbiano raggiunto la cifra di circa 300.000 [47].
Dopo l'8 settembre, scoppiarono insurrezioni contadine in Slovenia e Istria, a carattere sociale contro l'élite economica, in particolare per la riappropriazione dei campi concessi dal fascismo a nuovi proprietari italiani. Nel tipico stile delle jacqueries vennero incendiati i catasti e distrutti documenti che riconoscevano i privilegi dell'élite coloniale italiana sulla popolazione slava. Se per la classe dominante italiana, intrisa di razzismo antislavo, questi episodi hanno richiamato alla mente i peggiori incubi dell'incombenza della rivolta di una classe operaia e contadina a lungo tenuta soggiogata e per questo temuta, per la popolazione slava dell'Istria ha rappresentato la fine dell'oppressione e il risveglio di una coscienza nazionale soffocata da vent'anni di fascismo [48].
In quest'occasione qualche centinaio di persone, fascisti o collaborazionisti, vennero gettate nelle foibe, tra tedeschi, italiani, sloveni e altri [49]. Le cifre stimate variano dalle due alle quattrocento persone.
Involontariamente, il carattere di classe dell'insurrezione del settembre 1943 è riconosciuto dagli stessi nazisti che, in un opuscolo di inizio 1944, denunciano il tentativo di liquidazione «dei possidenti, dei capitalisti, degli industriali, dei contadini benestanti, dei dirigenti dei partiti borghesi, delle Guardie Bianca e Azzurra, dei componenti delle S.S. e della Ghestapò, degli intellettuali, degli studenti, dei “politici da caffè”, dei sacerdoti nemici del proletariato e, in genere, di tutte le persone contrarie alla “lotta bolscevica di liberazione”» [50]
Nel frattempo, il 10 settembre 1943, due giorni dopo l'armistizio, venne istituita l' Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d'operazione dell'alto Adriatico, Ozak), per ordine di Hitler e il 29 settembre partì una vasta operazione antipartigiana tesa a riconquistare le zone insorte dell'Istria e la Slovenia. Si trattò, come ricorda il collettivo Nicoletta Bourbaki, «del più brutale atto di guerra che abbia interessato l’Istria in tutta l’età moderna» [51]. Le truppe di occupazione naziste erano affiancate dalla Milizia di difesa territoriale, combattenti volontari fascisti che operavano sotto comando tedesco. Oggetto della repressione non furono solo i combattenti, ma interi villaggi rastrellati e dati alle fiamme. Spesso la popolazione veniva radunata e, su delazione dei fascisti, si decideva chi passare per le armi. Alla fine dell'operazione i tedeschi rivendicarono circa 5000 “banditi” uccisi e 7000 prigionieri [52].
La seconda ondata di “infoibamenti” avvenne nel maggio del 1945, dopo la liberazione di Trieste e dell'intera Jugoslavia da parte dell'Esercito popolare di liberazione (Epl) di Tito. Ricordiamo che la Resistenza jugoslava è stata l'unica a liberare il paese dal nazifascismo senza aiuti esterni. Nei giorni confusi che seguirono la liberazione di Trieste si verificarono processi sommari, vendette personali, rastrellamenti “privati” che talvolta si conclusero con l'occultamento dei cadaveri nelle foibe del Carso.
Al di là dei numeri fantasiosi e delle interpretazioni soggettive del fenomeno [53], è molto difficile una contabilità precisa delle vittime: anche se è ormai quasi certo che gli scomparsi accertati nelle foibe nel 1943 furono alcune centinaia [54], più difficile è la contabilità dei morti del maggio – giugno 1945 per la mancanza di elenchi ufficiali e fonti certe; nella provincia di Trieste, ad esempio, i morti accertati furono 498 [55], altri 1500 furono i fiumani, gli istriani e i goriziani, nel complesso, scomparsi nello stesso periodo [56]. E tuttavia, anche questa cifra è incerta, in quanto nelle foibe non finirono solo fascisti e collaborazionisti, italiani e tedeschi, ma anche slavi e partigiani jugoslavi “infoibati” dalle truppe di occupazione, oltre a un numero indefinito di persone scomparse nel corso dei decenni precedenti la seconda Guerra mondiale. La cifra lievita, e di molto, se tra gli “infoibati” vengono contati tutti coloro, italiani e sloveni, che, in un modo nell'altro furono oggetto della repressione nella Jugoslavia del secondo dopoguerra. Come ha sottolineato Claudia Cernigoi, la più attenta e informata studiosa degli avvenimenti ai quali ci riferiamo
«Non ha senso parlare di un fenomeno delle foibe quando in realtà si tratta di una serie di fenomeni del tutto distinti tra loro e che hanno come elemento accomunante semplicemente il fatto che si sono svolti nel corso o in conseguenza della seconda guerra mondiale» [57]
Neppure le motivazioni, come si è visto, possono essere ricondotte a un'unica causa. Nelle insurrezioni del 1943 e nella lotta di liberazione jugoslava si unirono motivazioni di classe, istanze di liberazione nazionale e dalla barbarie nazifascista. Parlare di “pulizia etnica”, oltre ad essere storicamente inaccurato e senza nessun fondamento, costituisce una riabilitazione di ciò che è stato il vero tentativo di mettere in opera la “bonifica nazionale” dell'Istria e della Slovenia nel ventennio.
Tuttavia qui occorre una precisazione; a questi episodi l'Epl jugoslavo tentò di porre un freno e spesso condannò a pene severissime, talvolta alla pena capitale, chi si rendeva colpevole di questi crimini [58]. Per due fondamentali ragioni: da una parte l'Esercito popolare era parte integrante degli eserciti alleati e non l'unico presente a Trieste e, in secondo luogo, aveva tutto l'interesse a presentarsi come garante della sicurezza e della pace nella città di cui cercava l'annessione alla Jugoslavia [59]. La grande e media borghesia triestina e istriana, come si è visto in gran parte italiana, che negli anni del fascismo e dell'occupazione aveva sostenuto il regime, improvvisamente si scopre “antifascista” e chiede al governo Bonomi una maggiore presenza militare alleata a Trieste. Mentre la classe operaia e i contadini della Venezia Giulia considerarono l'esercito di Tito non solo lo strumento della sconfitta del nazifascismo, ma una speranza per la trasformazione socialista dei Balcani.
Perciò, che sia gli insorti istriani che i partigiani dell'Epl fossero ben lontani dall'idea di una “pulizia etnica” nei confronti degli “italiani in quanto tali”, come pretende la propaganda nazifascista è mostrato da alcuni episodi significativi: tra 20 e 30.000 militari italiani, ex truppe di occupazione, vennero accolti fraternamente tra le formazioni partigiane jugoslave [60]; i partigiani slavi salvarono anche tremila marinai italiani, destinati alla deportazione in Germania, dopo l'8 settembre [61]. Il rapporto dei partigiani slavi con gli italiani fu in genere di fraternizzazione militare, persino con quei militari che avevano partecipato alla repressione delle stesse popolazioni balcaniche, come mostrato da diverse testimonianze. Come osserva Pupo «è il disordine della storia nel momento della rivoluzione» [62].
La campagna antislava e anticomunista sulla questione delle “foibe” iniziò già nei primi giorni dopo la liberazione, con toni e argomenti ripresi dalla propaganda nazista del novembre 1943, di cui si è detto sopra. Nell'immediato dopoguerra fu la stampa neoirredentista e i neofascisti già volontari nell'esercito nazista, riciclati in “difensori dell'italianità” dell'intero Alto Adriatico, gli iniziatori della campagna sulle cosiddette “foibe”. Il più attivo è stato, fino in epoca recente, Luigi Papo de Montona (Paolo De Francesco), autore di un libro Foibe, del 1949, ex comandante della formazione del fascio, repubblichino e fiancheggiatore dei nazisti, dirigeva i servizi di informazione della Rsi nel litorale, ricercato dalle autorità jugoslave per crimini di guerra e mai estradato; padre Flaminio Rocchi, autore di un libro sull'esodo giuliano – dalmata, inventa relazioni inesistenti, si fa testimone di fatti ai quali non ha mai assistito e spesso smentito; Marco Pirina, figlio di un ufficiale della Guardia nazionale repubblicana, giustiziato dai partigiani nel 1944, ex dirigente del Fuan, transitato da tutti i partiti della destra parlamentare; Ugo Fabbri, l'(ex?) esponente di Forza Nuova Giorgio Rustia, Augusto Sinagra, Maria Pasquinelli, convinta fascista e collaboratrice della Germania nazista durante l'occupazione dell'Adriatisches Kustenland [63].
L'operazione "falsificazionista" consiste nel trasformare i liberatori jugoslavi in aggressori dell'italianità dell'Istria e della Venezia Giulia, mediante la manipolazione delle cifre, in particolare degli “infoibati”, la martirizzazione delle vittime, la disumanizzazione razzista degli slavi, la spettacolarizzazione degli avvenimenti in modo da coprire con effetti speciali l'inconsistenza storiografica. Esponenti del neofascismo triestino, alcuni dei quali si erano macchiati direttamente dei crimini di guerra, i collaborazionisti delle stragi di Kragujevac e Pudhum, in questo modo cercano di riabilitarsi in quanto difensori dell'”italianità” della Venezia Giulia.
E ovviamente, tutti questi avvenimenti vengono espunti dal contesto della criminale e tragica occupazione italiana della Jugoslavia e delle vicende belliche, in modo da rendere volutamente un effetto estraniante e deformato, allo scopo di disorientare, come se la storia del confine orientale iniziasse nel 1943, con l'insurrezione degli slavocomunisti che, all'improvviso, hanno deciso di farla finita con la civiltà italiana. La reazione popolare all'oppressione nazifascista viene stravolta e ridotta a uno scontro interetnico tra la civiltà italiana, ovviamente superiore, e quella barbara degli slavi, connotati con termini razzisti.
Si costruiscono vere e proprie falsificazioni storiche, di cui la cosiddetta “foiba” (in realtà un pozzo minerario) di Basovizza [64] rappresenta forse l'esempio più evidente; si alimenta il mito dei “sopravvissuti” [65], si fa lievitare il numero delle vittime, spesso senza alcun senso del ridicolo, se non si trattasse di una tragedia, si fornisce una narrazione nazionalista che sfocia nel razzismo.
Il piranese Diego De Castro, che pure partecipò alle campagne propagandistiche sulle “foibe”, dovette riconoscere, in vari interventi, che le narrazioni dell'immediato dopoguerra sono state artatamente falsate a fini propagandistici, allo scopo di poter influire sugli alleati perché intervenissero in funzione antijugoslava nella Venezia Giulia e in Istria [66]. Un'operazione durata fino al 1954, con la definizione della questione di Trieste.
Nel periodo della guerra fredda la vicenda restò sottotraccia per vari motivi, sia per l'inconsistenza della letteratura prodotta dall'estrema destra giuliana, sia per la situazione politica interna all'Italia, sia per l'esistenza della nazione jugoslava che avrebbe potuto far valere le ragioni dello Stato balcanico di fronte al neoirredentismo dell'estrema destra triestina.
Eppure non mancarono studi seri sulla questione che, senza nascondere il problema delle “foibe”, affrontavano le vicende del confine orientale italiano collocandole nel loro contesto storico, come, per fare qualche esempio, il citato testo di Mario Pacor, Confine orientale, pubblicato nel 1964, o Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956 [67], del 1980.
Con la fine della Jugoslavia e il crollo degli equilibri politici in Italia, la questione è riemersa nel discorso pubblico, diventando uno dei cavalli di battaglia di una destra aggressiva e avida di imporre la propria egemonia culturale e politica mediante la ridefinizione dei miti fondanti della nazione.
Come scrive Marcello Veneziani, uno degli intellettuali più ascoltati della destra, e membro del comitato per la celebrazione del 4 novembre:
«La patria è e resta il nostro legame più intimo, più antico, più concreto, più alto. La patria è la nostra storia, la nostra lingua, la nostra civiltà, la terra dei nostri avi, dei nostri caduti, dei nostri cari» [68].
Si tratta di passare da una concezione storica della democrazia, che trova il patto fondativo nella Costituzione e garantisce le libertà individuali, a un mito metastorico della Patria, come comunità di “sangue e suolo”, sancita dal culto dei morti, forgiata dalla religione cattolica, garantita dall'appartenenza alla stirpe, la cui unità è cementata dal culto di un leader che esprime lo spirito del popolo [69]. Lo stesso Veneziani, in un opuscolo del 2002 indica nel mito prepolitico l'ubi consistam della cultura di destra [70]. Non è un caso che lo slogan della “nazione cattolica”, declinato in decine di varianti, sia diventato il mantra della destra da presentare ad ogni occasione con sfoggi di rosari, madonne, invocazioni di santi e proclami di appartenenza alla nazione e alla religione, ribadito in decine di convegni e seminari [71].
Le vicende che hanno interessato l'Alto Adriatico devono essere quindi semplificate e banalizzate, in modo da espellere dall'analisi qualsiasi elemento che contrasti con questo mito unificante, a un tempo consolatorio e aggressivo, della “storia patria”. Ne emerge uno schema di lettura secondo cui la “sacra italianità” di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, è stata violentemente recisa dalla furia barbara di slavi strumenti di una potenza straniera, infiammati da un'ideologia comunista naturalmente atea, dediti alla “pulizia etnica” e all'uccisione degli italiani in quanto tali. Non solo il regime fascista è assolto da ogni crimine commesso nei Balcani, ma coloro che hanno massacrato donne vecchi e bambini, rastrellato, dato alle fiamme interi villaggi, deportato la popolazione civile poi perita nei campi di concentramento, sono trasformati in vittime delle loro vittime: chi ha cercato di imporre la “bonifica etnica” è presentato oggi come vittima della “pulizia etnica” slava. Luigi Cajani ha osservato che questo è possibile solo data la diffusa inconsapevolezza delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia, riflesso di una più ampia rimozione delle atrocità del colonialismo italiano [72].
E se l'analisi storica non certifica questo racconto, vittimista quanto assolutorio, allora occorre che venga piegata a questa narrazione, ormai bipartisan, e diffusa ampiamente nei media e quindi divenuta dominante, tanto che negli ultimi anni è imposta come verità di Stato.
Come lucidamente programmato da Marcello Veneziani:
«Dove invece la cultura della destra può animare un progetto pubblico e alimentare una cultura civica dell'agire pratico, è nei luoghi in cui si esprime e si forma la coscienza pubblica, in cui la comunità cresce e assume consapevolezza di sé. Il riferimento specifico è ai territori della scuola e dell'educazione, dei beni artistici, culturali e storici, della comunicazione e dei suoi orientamenti pubblici» [73]
Si progetta una scuola e in genere una comunicazione storica piegata alle esigenze ideologiche e politiche di una cultura di destra, quando non chiaramente neofascista.
È impossibile citare tutti i casi di tentativo di colonizzazione della scuola. Basti qualche esempio: nel 2004, l'Assessorato all'Istruzione della Provincia di Milano, in un opuscolo sul confine orientale diffuso gratuitamente alle scuole in migliaia di copie, significativamente titolato[74], nella cronologia omette completamente il ventennio dal 1920 al 1943, mentre nel periodo 1943/45 si concentra semplicemente sui «massacri contro le popolazioni italiane». Una tendenza che ha interessato diffusamente le amministrazioni di destra, ex Alleanza nazionale, leghiste o di coalizione, le quali non hanno lesinato sui fondi pubblici da destinare all'acquisto di opuscoli spesso pubblicati da case editrici neofasciste, di nessun valore scientifico, da destinare alla distribuzione gratuita nelle scuole. Un processo che ha subito un'accelerazione nell'ultimo decennio.
Nel 2010, il 23 febbraio, si teneva alla sede del Ministero dell'Istruzione a Roma, un convegno dal titolo Le vicende del confine orientale e il mondo della scuola, a cui seguì la pubblicazione degli atti [75]. La prima parte del volume è dedicata all'inquadramento storico delle vicende dell'Alto Adriatico: dopo il contributo di Raoul Pupo, che affronta il periodo Dal trattato di Campoformio alla grande guerra, si passa direttamente al 1943 e, infine, al dopoguerra, senza alcuna menzione del periodo che va dal 1920 al 1943. Dal 2010 ad oggi, le iniziative del Miur attorno al confine orientale sono state praticamente appaltate alle associazioni degli Esuli [76], fornendo delle “complesse” vicende del confine orientale una lettura estremamente riduttiva, secondo lo schema manicheo dell'italiano portatore di civiltà vittima del barbaro sanguinario slavocomunista in cerca di pulizia etnica.
Ultimo, in ordine di tempo, il Convegno, patrocinato dal Miur, tenutosi a Trieste nel novembre del 2019 e conclusosi con la proiezione del film Rosso Istria. Con Rosso Istria (Red Land) si è cercato di mettere in piedi la stessa operazione tentata un quindicennio prima con la fiction Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin. L'allora Ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, licenziò il film in tempi brevissimi per poter essere proiettato in occasione della celebrazione della prima “giornata del ricordo”, nel 2005. Si trattò, come lo definì la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» di un Massaker-Kitsch [77]: il protagonista, un truce slavocomunista di nome Novak, è impegnato a percorrere in lungo e in largo l'Istria per rapire il figlio che fugge protetto dalla madre, da un sacerdote cattolico e da un volontario della Rsi pacifista (naturalmente il bambino è figlio dello stupro di Novak) allo scopo di “eliminarlo”. Nel frattempo, a capo di una banda partigiana, giusto per non stare con le mani in mano, incendia qualche asilo e saccheggia qualche villaggio.
Vale la pena fare un passo indietro di sessant'anni e riportare ciò che scriveva il «Corriere della sera» del 19 gennaio 1944, preannunciando quello che a tutti gli effetti è il primo “giorno del ricordo”:
«Per disposizione del Duce il 30 gennaio le Federazioni fasciste repubblicane promuoveranno la celebrazione dei nostri Caduti in Istria e Dalmazia nella lotta contro il comunismo partigiano. … le bande bolsceviche si sono gettate con furia sulle popolazioni inermi trucidando e saccheggiando. … Quattrocentosettantun persone … pagarono con la vita, dopo inenarrabili torture, le colpe di essere semplicemente degli italiani. Ma l'elenco di questi martiri non è certo completo, poiché non ancora le “foibe” hanno finito di restituire le spoglie mutilate ed orribilmente sfregiate di molti patrioti … Donne e bimbi figurano tra i massacrati. La fede politica delle vittime importava fino a un certo punto ai feroci carnefici. Essi facevano obiettivo della più raffinata tortura o dell'omicidio chi portava nome italiano, o chi era italiano. … Dalle tragiche foibe si leva un monito: impugnare le armi per difendere la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, la stessa civiltà europea dagli orrori del bolscevismo che ora cerca di aprirsi un varco verso occidente con la complicità delle plutocrazie alleate contro il sacrosanto diritto delle genti povere propugnato dall’Italia e dalla Germania»
Come si vede, la trama del Cuore nel pozzo era già pronta. Lo stesso Leo Gullotta, che nel film interpreta il sacerdote Don Bruno, deve essersi accorto della strumentalizzazione della quale era stato vittima se ha abbandonato la sala dell'anteprima, proiettata in occasione del decennale della nascita di Alleanza nazionale, l'8 febbraio 2005.
Con Red Land [78] si è andato, se possibile, addirittura oltre. Il film, sulla vicenda dell'assassinio di Norma Cossetto, pieno di marchiani errori storiografici, gronda sangue ad ogni sequenza. Violenze, indiscutibilmente “titine” (anche se nel '43, epoca di ambientazione del film nessuno chiamava così gli insorti istriani), stupri, assassini ecc.; tutto l'orrido armamentario cui ci ha abituati la filmografia neofascista. Lo schema è quello del film western degli anni Quaranta e Cinquanta, da Ombre rosse a Sentieri selvaggi, quando i nativi (gli “indiani”) erano immancabilmente dipinti come primitivi selvaggi ostinatamente impenetrabili alla civiltà dell'uomo bianco. Stessa è la reazione di orrore per i selvaggi che si cerca nel pubblico.
Se sul piano estetico si tratta di pessimi b-movie, Il cuore nel pozzo e Red Land agiscono entrambi sul piano prepolitico e metastorico, delle emozioni e dei sentimenti, agitando il terrore ancestrale dell'altro, che si infila nelle “nostre” case a stuprare le “nostre” donne e rapire i “nostri” bambini. La foiba non è più la cavità carsica, ma il luogo nascosto della nostra rabbia e delle nostre paure [79]; una sepoltura senza celebrazione funeraria che non permette neppure l'elaborazione del lutto, così che i morti e i vivi condividano un'unica “patria”, che per questo sarà eterna. Si tratta della riproposizione della lugubre retorica fascista del martirologio patriottico.
Ai film si affianca il fumetto su Norma, Foiba rossa [80], edito dalla casa editrice neofascista Ferrogallico, disegnato da Beniamino Delvecchio e sceneggiato da Emanuele Merlino (figlio del noto neofascista Mario Merlino), che ripete schemi già descritti per le fiction di cui abbiamo detto.
Liberamente ispirato al libro di Frediano Sessi, Foibe rosse, in realtà il fumetto costituisce una drammatizzazione arbitraria degli avvenimenti. Lo stesso Frediano Sessi ammette, nella ricostruzione delle vicende che condussero alla morte della ragazza, di non avere elementi certi per la ricostruzione completa della storia:
«Quello che si sa di Norma Cossetto e del suo dramma, a tutt’oggi, sta racchiuso in poco più di due pagine. Qualcuno parla in proposito di falso storico e di mito, qualcun altro all’opposto di verità taciuta. Questa ricostruzione sceglie di privilegiare quel che resta della memoria del dolore, e di dare voce a una morte che in ogni caso, quale ne sia l’interpretazione che si vuole autentica, fu atroce e ingiustificata» [81].
Nel descrivere la vicenda di Norma, di famiglia di stretta osservanza fascista e figlia del podestà di Visinada, Giuseppe, aggregato al 134° battaglione camicie nere, probabilmente ucciso in combattimento nelle operazioni di repressione del movimento partigiano slavo cui si è accennato prima, Frediano Sessi, forse ispirato dalla “storiografia” di Pansa, ricorre spesso ai “si dice” e la sua versione è contestata da altre ricostruzioni che, sul piano storiografico, risultano più accurate [82]. Qui non è il luogo, ovviamente, per dirimere la questione, della quale occorre dire che non conosciamo abbastanza.
In questa sede occorre tuttavia ricordare che Norma Cossetto venne uccisa nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943, in una zona che, proprio il 5, cadeva sotto controllo nazista, che nella foiba di villa Surani dalla quale fu estratto il suo povero corpo, insieme con altri venticinque, vennero trovati 17 berretti con la stella rossa, probabilmente appartenenti a partigiani gettati dai nazisti nella voragine, e che la sorella di Norma, Licia, venne arrestata dai partigiani qualche giorno dopo e rilasciata poco dopo, e non è chiaro il motivo della diversa sorte che questi terribili “titini” avrebbero riservato alla sorella. Questi sono fatti accertati [83]. Quindi le circostanze nelle quali è stata uccisa Norma Cossetto vengono ricostruite in maniera completamente arbitraria e viene accolta una versione solo per scopi ideologici.
Sia il Cuore nel pozzo che Red Land riprendono i temi della kampfpropaganda, orchestrata da Karl Lapper nell'Alto Adriatico sotto occupazione nazista, secondo cui le “foibe” costituivano un massacro etnico organizzato e pianificato dall'alto dalle orde barbare dello slavobolscevismo. Le ragioni della propaganda nazista erano essenzialmente due: da una parte obliterare le ragioni storico sociali della rivolta istriana addebitandola alla particolare crudeltà della “razza slava”, dall'altra giustificare la spietata repressione e il massacro della popolazione civile da parte dell'occupante nazista.
Parte della propaganda era la riesumazione dei cadaveri, operati dai Vigili del fuoco, alla quale veniva invitata o costretta, a seconda dei casi, ad assistere la popolazione civile, sotto lo stretto controllo delle Camicie nere e di militi tedeschi. Lo scopo era dare vita alla trasmissione orale dei particolari più raccapriccianti e macabri dei ritrovamenti, in modo da scavare un solco tra la popolazione locale e il movimento partigiano. Ed è in questo contesto che maturano i racconti e le dicerie sulla fine di Norma Cossetto, con particolari sullo stupro e sevizie sul corpo, che il rapporto del comandante dei Vigili del fuoco che ne ha operato il recupero della salma, il maresciallo Arnaldo Harzarich esclude [84]. Ma è lo stesso Frediano Sessi ad ammettere la ricostruzione romanzata della vicenda:
«In questa ricostruzione, realtà storica e immaginazione convergono nel tentativo di restituire corposità ai fatti e ai pensieri. Un metodo che si giustifica, almeno in parte, con la scarsa documentazione disponibile a fronte della ricchezza di particolari, spesso coincidenti, emersi dai racconti dei testimoni. Un azzardo storico? In fondo, tutte le storie fanno i conti con la finzione perché arrivano a noi solo attraverso il linguaggio e la scrittura. Una vita quando si avvera sulla pagina non è altro che una trama di parole. Tutto, proprio tutto è parola» [85].
Anche qui si tratta del tipico metodo di fabbricazione di una postverità che, senza prove e documentazione certe, dà voce a testimonianze selettive allo scopo di costruire una storia mitica soffermandosi su aspetti drammatici e macabri riempiendo il vuoto delle fonti con le congetture dell'autore.
Naturalmente, non si tratta di sottoporre ad analisi storiografica la subcultura neofascista che produce b-movie e fumetti splatter. Giova invece osservare che, questa subcultura, generosamente finanziata mediante l'acquisto di migliaia di copie di Foiba rossa da distribuire alle scuole e la diffusione di Red Land con il patrocinio del Miur rende la scuola da agenzia democratica di formazione della coscienza storica e di studio critico del passato, dispositivo totalitario di diffusione di un'ideologia neoirredentista. Invece di essere problematizzate, le vicende delle terre dell'Alto Adriatico sono oggetto di una reductio ad unum. Finora, in generale, la manualistica non è stata disposta ad accettare tale lettura banalizzante, preferendo un approccio più equilibrato, in particolare inquadrando gli avvenimenti del 1943 – 45 nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell'occupazione nazifascista della Jugoslavia, con tutte le tragiche conseguenze di cui si è detto.
Nel frattempo si continuano a dare riconoscimenti agli ex combattenti di Salò, e perfino ai torturatori e criminali di guerra.
La legge istitutiva del “giorno del ricordo” prevede anche che ai superstiti e ai congiunti “fino al sesto grado” degli scomparsi in vario modo (nelle foibe, vittime di attentati, massacri, annegamento, ecc.) dal 1943 al 1947 venga consegnata una medaglietta e un diploma con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”.
Secondo la legge istituiva, dal riconoscimento sono esclusi i caduti in combattimento e coloro che «facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia» [86]. E visto che nel periodo 1943 – 1947 l'Italia era alleata dell'Unione sovietica, degli Stati uniti e dell'Inghilterra, e che i battaglioni di Ss italiane, come i membri della Milizia di difesa territoriale fascista, combattevano volontariamente sotto il comando nazista in una zona di fatto annessa al Terzo Reich, contro cui l'Italia era in guerra, sembrerebbe evidente che i loro congiunti “fino al sesto grado” non possano aspirare a questo riconoscimento. Tuttavia, come spesso accade quando si parla di fascismo in Italia, ciò che appare evidente scompare nel fumo della mistificazione.
Un articolo del «Corriere della sera» del 2015, rilevava che, tra i gli oltre trecento “premiati” dalla Repubblica, si trovavano anche cinque criminali di guerra:
«Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto» [87]
A scorrere inoltre l'elenco completo dei beneficiari del provvedimento, che il ricercatore triestino Sandi Volk aggiorna annualmente, 381 in totale nel periodo che va dal 2006 al 2019, ultima data disponibile, ci si accorge che nella stragrande maggioranza, oltre il 95%, sono ex appartenenti alla Rsi [88] e trovano il loro riconoscimento negli albi ufficiali dei caduti e dispersi degli istituti storici repubblichini.
Se praticamente tutti i premiati della Repubblica appartenevano alle formazioni armate di Salò, cade anche la menzogna che l'Esercito di liberazione e i partigiani jugoslavi infoibassero gli italiani “solo in quanto italiani” e non in quanto fascisti o collaborazionisti.
Nonostante sia smentita dalle vicende storiche, dalle ricerche, e dalle testimonianze e non ci sia nessuna prova a sostegno, quella della “pulizia etnica” è diventata verità ufficiale ripetuta a più riprese persino dalle alte cariche dello Stato.
Benché brevemente, è interessante notare come il significato di questo concetto sia mutato nel corso degli anni nei discorsi dei Presidenti. Nel 2006 il presidente Ciampi, in occasione della ricorrenza, si esprimeva come di seguito:
«L’odio e la pulizia etnica sono stati l’abominevole corollario dell’Europa tragica del Novecento, squassata da una lotta senza quartiere fra nazionalismi esasperati» [89].
Una frase che, posta su un monumento di Monfalcone, venne violentemente contestata [90] dalle Associazioni degli esuli giuliano – dalmati, tanto da venire oscurata. Così che, l'anno successivo, Giorgio Napolitano, il primo ex comunista (stalinista, ndr) ad occupare la più alta carica dello Stato, correggeva il tiro, attribuendo questa sete di vendetta esclusivamente agli Slavi, provocando anche la protesta ufficiale della diplomazia slovena:
«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» [91]
Nella ricorrenza del 2020, il Capo dello Stato non solo ha ripreso il concetto di “pulizia etnica” antiitaliana, ma è andato oltre, stigmatizzando le «sacche di negazionismo militante» e indicando la strada per la censura ai danni della ricerca indipendente [92]. Nel frattempo, una proposta di legge di Fratelli d'Italia, vorrebbe consegnare in via esclusiva alle associazioni degli esuli la facoltà di concedere spazi pubblici, le quali, inoltre, dovrebbero essere «le sole coinvolte nell’elaborazione dei piani di formazione ed insegnamento nelle scuole, per garantire una testimonianza autentica di quegli accadimenti per troppo tempo occultati» [93].
A queste parole, che invitano alla censura e al controllo di Stato sulla ricerca storica, tanto da mettere in pericolo uno dei principi della Costituzione, che garantisce la libertà d'insegnamento e di ricerca, seguono gli attacchi politici e non solo. Se le amministrazioni di destra negano gli spazi pubblici agli storici che dissentono dal discorso martirologico sulle foibe, gruppi esplicitamente neofascisti si sentono legittimati a intervenire con la violenza per impedire gli interventi di ricercatori che non si adeguano alla vulgata neoirredentista, come è successo a Torino in occasione dell'intervento di Eric Gobetti a un convegno universitario il 6 febbraio.
Come denuncia l'Istituto Nazionale Ferruccio Parri:
«È in corso una indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo. Queste persone attaccano qualsiasi interpretazione che non accetti una vulgata che si rifiuta di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione portata avanti durante il ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per spiegare quanto successo dopo la caduta del fascismo e durante la costruzione dello stato comunista jugoslavo. Si vuole imporre una versione ufficiale della tragedia delle foibe e di quella successiva dell’esodo dei giuliano fiumano dalmati sotto forma di genocidio degli italiani e con impropri e assurdi confronti con la Shoah. Chiunque operi la necessaria contestualizzaione di quanto successo sa che gli italiani furono perseguitati o in quanto ex fascisti, o perché identificati con le classi egemoni, o in quanto si opponevano alla costruzione dello Stato comunista, e non in quanto italiani» [94]
Quanto il discorso neoirredentista sulle “foibe” sia strumentale alla contingenza politica è dimostrato da quanto segue: il sito specializzato pagellapolitica ha esaminato gli interventi dei maggiori esponenti politici italiani in occasione delle due giornate del 27 gennaio (giorno della memoria delle vittime della Shoah) e del 10 febbraio 2020, osservando che «oltre l'80 per cento dei contenuti social è dedicato alle foibe». In particolare, Matteo Salvini su 42 post in totale, ha dedicato 39 alle “foibe” e 3 alla Shoah; Giorgia Meloni rispettivamente 16 e 3; Silvio Berlusconi un solo post per le “foibe” e nulla sulla Shoah; Luigi Di Maio uno e uno; l'unico a dedicare più post alla Shoah (sette a quattro) è stato Nicola Zingaretti. I post di Salvini e Meloni seguono tutti lo stesso cliché, quello della “pulizia etnica” e l'attacco alla storiografia “negazionista” [95].
L'indifferenza della destra estrema al dramma dei sei milioni di ebrei e delle altre vittime della violenza nazista e l'utilizzo strumentale delle tragedie del Novecento, non potrebbe essere espressa in maniera più lampante.
Come ha osservato Stuart Woolf, intervistato da Simonetta Fiori:
«Un uso pubblico della storia caratterizzato da «rozzezza», «superficialità» e «spregiudicatezza» non riscontrabili da altre parti. Severo dunque il giudizio sul neorevisionismo che assolve Mussolini o annacqua le differenze tra resistenti e repubblichini. Ma la sua «risonanza nel grande pubblico» non è fattore irrilevante; al contrario, è la spia di un qualcosa che già esisteva nel senso comune degli italiani, «un pensiero a lungo tenuto privato e comunque ignorato da politici e storici». è anche questa, secondo Woolf, «una conseguenza inavvertita della narrazione egemonica dell'antifascismo», ingenuamente fondata su una netta distinzione tra regime fascista e popolo italiano» [96]
Mentre per la destra politica le “foibe” sono parte dell'eterna campagna elettorale per attaccare e delegittimare l'avversario, con gli strumenti della censura, delle intimidazioni, fino all'aggressione fisica, non si nota finora una reazione da parte del mondo della scuola e dell'Università all'altezza della pesante e grossolana aggressione alla libertà di ricerca e di insegnamento, che proviene anche dalle alte cariche dello Stato.
NOTE
40 - Raoul Pupo, Trieste '45, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 9; v. anche Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 122 – 133.
41 - Sul biennio di occupazione della Slovenia, v. anche Karlo Ruzicic-Kessler, Il fronte interno. L'occoupazione italiana della Slovenia 1941 – 1943, in Percorsi srorici. Rivista di storia contemporanea, n. 3, 2015.
42 - Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935 – 1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, p. 360.
43 - https://www.corriere.it/cultura/12_luglio_17/stajano-vendetta-fascista-testa-per-dente_4a076aec-d008-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml?refresh_ce-cp (visitato il 29 maggio 2020); su questi episodi cfr. anche la bibliografia in nota 178.
44 - Mario Pacor, Confine orientale..., cit. p. 162.
45 - Giacomo Scotti, Quando gli italiani fucilarono tutti gli abitanti di Podhum, in «Patria indipendente», 19 febbraio 2012, p. 27 – 34.
46 - Cfr. Alessandra Kersevan, Lager italiani... cit., per i campi fascisti v. anche Gino Marchitelli, Campi fascisti. Una vergogna italiana, Jaca Book, 2020; Carlo Spartaco Capogreco, I campi del Duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2019; per i campi di internamento in epoca fascista, ci si può anche riferire al sito: campifascisti.it (visitato il 28 maggio 2020), v. anche https://www.lincontro.news/crimini-fascisti-in-jugoslavia-la-strage-di-podhum/ (visitato il 29 maggio 2020).
47 - https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 26 maggio 2020); si tratta della traduzione di Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, pubblicato in Christof Dipper, Lutz Klinkhammer e Alexander Nützenadel (a cura), Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, pp. 57 – 74 . Sulla guerra di Mussolini nei Balcani, ormai esiste una storiografia consolidata e omogenea nelle vicende e nei risultati acquisiti. Senza alcuna pretesa di completezza, si citano Giorgio Rochat, Le guerre italiane..., cit.; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani, cit., Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani. 1940 – 1943, Mondadori, Milano, 2006; Pietro Brignoli, Santa messa per i miei fucilati, Longanesi & Co., Milano 1973; Costantino Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona 2005; Tone Ferenc «Si ammazza troppo poco». Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella Provincia di Lubiana. 1941-1943, Inštitut za novejšo zgodovino – Društvo piscev zgodovine NOB, Ljubljana, 1999; Gobetti Eric, L’occupazione “allegra”. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007; Id. Gobetti, Eric, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) Laterza, Bari – Roma, 2013; Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia, Red Star Press, 2017; Id. “Bono taliano”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori” Odradek, Roma, 2017.
48 - Raoul Pupo, Trieste '45, cit. p. 11.
49 - Un opuscolo nazista, diffuso a partire dal 1943, Ecco il conto!, parla di “oltre cento vittime” estratte dalle cavità carsiche nel periodo dell'insurrezione del 1943, fonti successive, sempre di ispirazione neofascista, parlano di 349 “infoibati”, idem, p. 64.
50 - Le macabre foibe istriane, citato in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, cit. p. 61.
51 - https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/ (visitato il 7 giugno 2020).
52 - Ibidem.
53 - L'esempio più indicativo di una storiografia sciatta sulla questione è rappresentata dal testo di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, che a pagina 2 includono tra gli “infoibati” alcune migliaia di vittime della repressione jugoslava contro gli occupanti nazifascisti e gli oppositori politici, in una voluta operazione di disinformazione, mentre a pagina 30, citando l'ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, riportano in 4122 le vittime “comprendendo anche persone scomparse per cause belliche” . Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori Editore, Milano.
54 - La cifra di meno di circa 400 vittime durante l'insurrezione del 1943 è generalmente accettata dagli storici, anche se Pupo e Spazzali fissano tra le 500 e le 700 le vittime delle insurrezioni istriane del 1943, idem; Per ciò che riguarda le vittime del 1945, lo stesso Spazzali, in altra pubblicazione, scrive: «Il numero di coloro che vennero effettivamente eliminati subito e gettati nelle foibe nel 1945 (morti o vivi che fossero), è relativamente basso, probabilmente inferiore al migliaio», in Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola (Studi e documenti degli annali della Pubblica istruzione) Le Monnier – Firenze 2010, p. 45; mentre Claudia Cernigoi, Operazione foibe …, p. 270 ss., mediante un minuzioso lavoro di controllo delle fonti è risalita a circa 500 scomparsi da Trieste nel periodo dal 1 maggio al 12 giugno 1945; un dato che corrisponde, del resto, a quanto scriveva «Trieste sera» il 4 febbraio 1948 e ad altre fonti coeve, tutte riportate dal testo di Cernigoi. Mario Pacor, che riporta dati della Croce rossa italiana, v. p. 331; v. anche Cernigoi, Il pozzo artificiale. La questione foibe tra ricerca e uso pubblico, in «Zapruder» n. 15, cit. p. 45 – 57; Jože Pirjevec, Foibe, cit. parla di circa 2500 vittime nel 1945.
55 - Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”...., cit. a p. 271 – 285: pubblica l'elenco degli scomparsi da Trieste.
56 - Mario Pacor, Confine orientale …, p. 331.
57 - Claudia Cernigoi, Foibe. La verità contro il revisionismo storico, in Aa. Vv., Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu, Udine, 2008 p. 82.
58 - Come la banda Steffé e altri, v. Mario Pacor, Confine orientale …, cit. p. 332.
59 - Mario Pacor, Idem, p. 330 – 331
60 - Eric Gobetti, La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943 – 1945), Salerno Editrice, Roma, 2019; si vedano anche i due corposi volumi, di Luciano Viazzi, La resistenza dei militari italiani all'estero. Montenegro, Sangiaccato, Bocche di Cattaro e Luciano Viazzi e Leo Taddia, La resistenza dei militari italiani all'estero. La divisione «Garibaldi» in Montenegro, Sangiaccato, Bosnia – Erzegovina, ambedue edite dalla «Rivista Militare», Ministero della Difesa, Roma, 1994, per complessive 1660 pagine.
61 - V. intervista a Giacomo Scotti, in https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o4333
62 - Raoul Pupo, Trieste '45, cit. p. 202.
63 - Cfr. Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79 ss, e Jože Pirjevec, Foibe, cit. p. 63 per i dettagli.
64 - Per cui si rimanda a Jože Pirjevec, Foibe, cit. p. 132; Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79. Cernigoi riporta in appendice anche copia della documentazione delle varie esplorazioni della “foiba”, alla quale senz'altro si rimanda.
65 - Per i quali si rimanda a Pol Vice, La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei “sopravvissuti”, KappaVu, Udine, 2008, con ampia documentazione riprodotta.
66 - Jože Pirjevec, Foibe... cit., p. 118 e 133; sull'inconsistenza della ricostruzione postfascista del dopoguerra, v. anche Gorazd Bajc, Gli angloamericani e le “foibe”, in Id. p. 299 – 318
67 - Cristiana Columni e al.: Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956, Istituro regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia – Giulia, Trieste, 1980; si considerino anche Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle provincie orientali, Del Bianco, Udine, 1961; Teodoro Sala, La crisi finale nel litorale adriatico: 1944-1945, Del Bianco, Udine, 1962; Ennio Maserati, L’occupazione jugoslava di Trieste: maggio-giugno 1945, Del Bianco, Udine, 1963; Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943: ricerche storiche, Laterza, Bari, 1966.
68 - http://www.marcelloveneziani.com/articoli/accogliete-la-patria-nella-costituzione/ (visitato il 30 maggio 2020).
69 - Ernesto Bignami, Cos'è il fascismo … cit. p. 42; uno dei bersagli polemici dell'opuscolo di Bignami è la difesa dei diritti individuali, diffusa in epoca illuminista.
70 - Marcello Veneziani, La cultura della destra, Laterza, Bari – Roma, 2002, p. 102.
71 - Come il convegno di Verona, al quale si è fatto riferimento nel paragrafo precedente.
72 - Luigi Cajani, La storia del confine …, cit. p. 578.
73 - Marcello Veneziani, La cultura della destra, cit. p. 102.
74 - Direzione centrale Istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano, Là dove nacque l'Italia, De Agostini, Novara, 2004, p. 122.
75 - Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura) Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, Le Monnier, Firenze, 2010.
76 - Sul sito http://www.scuolaeconfineorientale.it/enti.php (visitato il 9 giugno 2020) si trova l'elenco delle iniziative congiunte delle Associazioni di esuli e del Miur.
77 - Federico Tenca Montini, Confini stridenti. Nazionalismo antislavo e giorno del ricordo, in «Zapruder» n. 36, gennaio – aprile 2015, p. 126; v. anche Gino Candreva, La verità nel pozzo, in Pol Vice, La foiba dei miracoli, cit. p. 241 ss.
78 - Per un'analisi approfondita del film v. https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-1-red-land/#sovranismo%20e%20 https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/ (visitato il 1 giugno 2020); anche Enrico Miletto in http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/rosso-istria-un-mese-dopo-3646/ (visitato il 1 giugno 2020).
79 - Per questi aspetti di analisi si rimanda a Luisa Accati e Renate Cogoy (a cura), Il perturbante nella storia. Le foibe. Uno studio di psicopatologia della ricezione storica, QuiEdit, Verona, 2010.
80 - Per una disanima del fumetto v. http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/considerazioni-su-un-fumetto-sulle-foibe-6132/.
81 - Frediano Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto, uccisa in Istria nel '43, Marsilio, Venezia, 2007 (epub ).
82 - Claudia Cernigoi.Operazione foibe …, cit. p. 146 – 147; Jože Pierjevec, Foibe. .., cit. p. 54 – 55; sulla vicenda di Norma Cossetto, ricostruita attraverso uno scrupoloso confronto delle fonti disponbili, v. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/CasoNormaCossetto.pdf (visitato il 7 giugno 2020).
83 - Ibidem.
84 - Claudia Cernigoi, Operazione foibe .., cit. p. 146.
85 - Frediano Sessi, Foibe rosse … cit., capitolo Lampi di verità sulla vita di Norma? (epub).
86 - Sandi Volk, Cosa ricorda la repubblica? In Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie .. , cit. p. 143.
87 - Alessandro Fulloni, Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo, «Corriere della sera», 23 marzo 2015.
88 - Qui l'elenco completo, con i riscontri: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2019/11/premiati-2019-381.pdf (visitato il 7 giugno 2020).
89 - Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico … , cit. p. 194.
90 - Idem, p. 160.
91 - Anche per un'analisi più approfondita del discorso di Napolitano, v. idem p. 141 ss. In appendice, i discorsi dei Presidenti della Repubblica, dal 2006 al 2012.
92 - https://www.quirinale.it/elementi/44205 (visitato il 2 giugno 2020).
93 - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-questione-foibe-e-la-storia-governativa/ (visitato il 2 giugno 2020).
94 - L'intero comunicato, con le opinioni, può essere letto in http://www.reteparri.it/ (visitato il 2 giugno 2020).
95 - https://pagellapolitica.it/blog/show/607/sui-social-i-politici-parlano-delle-foibe-molto-pi%C3%B9-che-della-shoah.
96 - Simonetta Fiori, La storia non siamo noi , «Repubblica», 18 ottobre 2005.