Post in evidenza

ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

  Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...

Cerca nel blog per parole chiave

Né Russia né NATO. Contro tutti gli imperialismi

 


Per una difesa popolare dell’Ucraina dall’imperialismo russo. Per un’Ucraina socialista e indipendente, come voluta da Lenin (e maledetta da Putin)

esto del volantino del PCL sulla guerra in Ucraina. In fondo alla pagina il volantino allegato.


Lo scontro tra NATO e Russia in Ucraina vede contrapposti interessi imperialistici. L’attacco russo all’Ucraina è contro i diritti del popolo ucraino e contro gli interessi dei lavoratori russi.

L’attacco di Putin all’Ucraina esprime la politica di potenza di un imperialismo sorretto da oligarchi capitalisti arricchitisi sulle spoglie dell’URSS. Lo scopo è trarre vantaggio dal declino dell’imperialismo USA e dal suo scontro con l’imperialismo cinese per allargare la propria area d’influenza. Lo fa ovunque. Nel Mediterraneo affacciandosi in Libia, in Medio Oriente a sostegno di Assad, in Africa (Mali) con tanto di milizie ed affari. Lo fa in Centro Asia schiacciando nel sangue la ribellione degli operai kazaki. Lo fa in Europa a tutela del regime reazionario di Lukashenko, e ora con l’attacco all’Ucraina.

L’obiettivo l’ha dichiarato lo stesso Putin: ricostruire la “Grande Madre Russia”, contro il diritto di autodeterminazione dell’Ucraina “voluto da Lenin e dai bolscevichi”. È la linea grande russa dell’Impero zarista. Per questa stessa ragione da comunisti rivendichiamo il diritto di autodeterminazione dell’Ucraina contro l’imperialismo russo. Lo stesso che in Russia taglia le pensioni per finanziare il proprio militarismo.

Ma il diritto di autodeterminazione dell’Ucraina non può certo essere garantito dalla NATO e dagli imperialismi d’Occidente. Le loro parole su “democrazia e giustizia” fanno solo ribrezzo. Hanno foraggiato guerre coloniali. Sostengono i peggiori regimi del Medio Oriente, dall’Egitto all’Arabia Saudita, allo Stato d’Israele. Appoggiano i regimi reazionari dell’America Latina, a partire da quello brasiliano. E in Europa hanno passato gli ultimi 30 anni dopo il crollo dell’URSS ad espandere i confini della NATO, a gonfiare i bilanci militari, a tagliare le spese sociali. Oggi appoggiano il governo reazionario dell’Ucraina, spostano truppe, varano sanzioni contro la Russia, al solo scopo di difendere la propria zona d’influenza e la propria quota del bottino. Altro che difesa della “legalità internazionale”! L’unica legge che conoscono è quella della rapina. Non riconosciamo agli imperialismi d’occidente alcun “diritto”. Per questo siamo contrari ad ogni intervento militare o sanzione occidentale contro la Russia. Il nemico principale è in casa nostra.

Il diritto di indipendenza e autodifesa del popolo ucraino può essere affermato solo contro l’imperialismo russo, contro la NATO, in totale autonomia dal governo reazionario ucraino. La nostra difesa dell’Ucraina contro l’imperialismo russo muove da un’angolazione indipendente. Solo la classe lavoratrice ucraina può affermare i diritti della nazione ucraina. Solo un’Ucraina socialista può realizzare una vera indipendenza e assicurare il diritto di autodeterminazione delle stesse popolazioni del Donbass. Solo la prospettiva di una rivoluzione socialista internazionale può liberare l’umanità dalle guerre.

Partito Comunista dei Lavoratori

No alla guerra! Il nemico principale è nel nostro paese!

 


Dichiarazione del Comitato Centrale del Revolyutsionnaya Rabochaya Partiya

24 Febbraio 2022

Pubblichiamo qui la dichiarazione sulla guerra in Ucraina della principale organizzazione trotskista russa, il Revolyutsionnaya Rabochaya Partiya, RRP (Partito Operaio Rivoluzionario).


La Russia ha iniziato la guerra con l’Ucraina. Nascondendosi ipocritamente e falsamente dietro le sofferenze del popolo lavoratore delle Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk.

Il governo della Federazione Russa ha utilizzato la loro presunta protezione come occasione per realizzare un’aggressione imperialista. La difesa della popolazione pacifica del Donbass non implicava assolutamente l’inizio della guerra. Ma, non riuscendo a entrare nelle due repubbliche, le truppe russe hanno attraversato la linea di confine e sono entrate nel territorio dell’Ucraina. In questi minuti a Kiev, Kramatorsk, Odessa, Kharkov, Berdiansk, si odono esplosioni. Lì non stanno morendo «nazisti» e «banderisti». Lì stanno morendo pacifici abitanti dell’Ucraina, proletari dell’Ucraina.

Nessun ragionamento sul «contenimento della Nato», nessuna critica del regime politico ucraino e nessun’altra fesseria geopolitica può giustificare questa strage! Putin parla di «regime antipopolare», dice che l’esercito della Federazione Russa sta cercando di liberare l’Ucraina dai «nazisti». Ma il regime della Russia non è per niente migliore del regime in Ucraina. Solo il proletariato dell’Ucraina, e non certo l’imperialismo russo, ha il diritto di liberare l’Ucraina dalla dittatura ultra-neoliberista e nazionalista! In questa guerra non c’è niente di giusto. Ci sono solo gli interessi imperialistici della borghesia della Federazione Russa e lo sporco mercantilismo della borghesia degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. E nel nome di questi interessi completamente estranei alla classe operaia adesso scorre il sangue dei lavoratori dell’Ucraina e del Donbass, dei soldati della Russia, figli della classe operaia.

Ogni proletario, ogni persona onesta deve oggi dire: no alla guerra!

Dobbiamo pretendere decisamente la fine della guerra, il ritiro delle truppe russe dal territorio dell’Ucraina, e l’immediata firma di un trattato di pace.

Il Partito Operaio Rivoluzionario chiama i comunisti della Russia, i lavoratori della Russia, al consolidamento e alla fondazione di un movimento unitario contro la guerra.

Invitiamo i lavoratori della Russia a scioperare contro la guerra!

Nessuna guerra che non sia una guerra di classe!

Il nemico principale è nel nostro paese!

Revolyutsionnaya Rabochaya Partiya

Sugli sviluppi del conflitto in Ucraina

 


Sì all’autodeterminazione del Donbass. Sì ad un’Ucraina socialista e indipendente, come creata dai “comunisti bolscevichi” di Lenin e Trotsky. No all’intervento delle truppe russe. No allo scontro interimperialistico. Sì alla rivoluzione socialista internazionale

Il PCL, di fronte allo scontro che si sta sviluppando in Ucraina, ribadisce le posizioni più volte affermate e ripetute nei giorni scorsi.


Lo scontro tra la Russia e la NATO sulla questione ucraina è fondamentalmente espressione di un conflitto interimperialistico tra le vecchie potenze capitalistiche, con gli USA alla testa, e il neoimperialismo in ascesa russo, alleato a quello cinese. In generale pertanto in questo scontro, seguendo la tradizione leninista, i comunisti non possono che assumere una posizione di disfattismo bilaterale.

Nel contempo, sempre riflettendo le tradizioni di quelli che giustamente Putin chiama (condannandoli) i «comunisti bolscevichi», noi rivendichiamo il diritto all’autodeterminazione del Donbass, fino alla separazione e all’eventuale unificazione con la Russia. Ma l’intervento delle truppe russe cambia il carattere della questione. Pertanto noi chiediamo con forza il ritiro immediato di tali truppe dal territorio del Donbass.

Inoltre respingiamo con forza le già riferite accuse di Putin ai bolscevichi dell’epoca di Lenin e Trotsky di aver creato con l’Ucraina una nazione fittizia. Da secoli infatti esisteva una lingua ucraina separata dal russo, e soprattutto un largo sentimento di identificazione nazionale autonoma da parte della maggioranza della composita popolazione del paese.

Nel contempo respingiamo con forza e ci impegniamo a combattere le provocazioni e le eventuali azioni concrete degli imperialismi occidentali e della NATO contro la Russia. Siamo contrari non solo ad interventi militari ma anche ad ogni tipo di sanzione. In questo quadro, per noi “il nemico principale rimane nel nostro paese”, cioè è quindi la NATO che noi dobbiamo combattere.

Nella lotta contro di essa e contro il governo atlantista Draghi quello che però ci contraddistingue è il non tenere una posizione semplicemente pacifista. Senza lo sviluppo di un processo di rivoluzione socialista internazionale, il capitalismo e i diversi imperialismi non solo impediranno soluzioni realmente democratiche ai problemi nazionali esistenti, ma spingeranno, a partire dagli interessi economici delle loro borghesie, a confronti militari e guerre devastanti per i popoli coinvolti e per l’umanità intera.

Come diceva il grande rivoluzionario tedesco Karl Liebknecht, nei primi anni del Novecento segretario dell’Internazionale Giovanile Socialista: «Se vuoi la pace, prepara la rivoluzione».


English translation

Partito Comunista dei Lavoratori

Referendum sulla cannabis: la democrazia borghese è una musica che suona solo per pochi

 


Lo Stato bigotto e oscurantista colpisce ancora.


La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sulla legalizzazione della coltivazione domestica della canapa; esultano i bigotti, i mafiosi, i fascisti, i bottegai-truffatori della canapa light e Muccioli. In compenso, passano i referendum sulla giustizia, argomento sul quale gli italiani sono notoriamente informati e competenti.

Col senno del poi c’era da aspettarselo, in quanto una legge demenziale che non distingue fra cocaina, eroina, sostanze sintetiche e canapa, si presta facilmente all’imbroglio. Infatti, i promotori non potevano fare a meno di riferirsi all’articolo della legge che vieta la coltivazione di qualsiasi sostanza stupefacente, comprendendo papavero da oppio e coca. Ed è qui che i giudici della Corte hanno trovato l’appiglio per la bocciatura del referendum. Secondo loro l’abolizione del divieto di coltivazione avrebbe riguardato anche le droghe pesanti, violando così i trattati internazionali. Cosa, questa, non vera, in quanto sarebbero rimasti comunque gli articoli che vietano la lavorazione e commercio di ogni tipo di sostanza psicoattiva. E siccome la canapa è la sola che può essere consumata allo stato originale, al contrario di coca e papavero da oppio, era implicito che l’abolizione del divieto si riferisse solo ad essa.

In quanto alla violazione dei trattati internazionali, molti paesi hanno legalizzato la canapa senza per questo creare scompiglio nelle relazioni internazionali. Per cui è evidente che si è trattato di una bocciatura politica, per non mettere nei guai elettoralmente non tanto la destra proibizionista, ma la sinistra borghesuccia e vigliacca.
Non è un caso che il presidente della Corte Costituzionale sia Giuliano Amato; già deputato del PSI e senatore dell’Ulivo.
I conti tornano. La democrazia borghese è una musica che suona solo per pochi.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATOI

Conquistiamo il futuro, distruggiamo il capitalismo

 


Conquistiamo il futuro, distruggiamo il capitalismo

Pieno sostegno alla mobilitazione studentesca nazionale di venerdì 18 febbraio

Giuseppe e Lorenzo sono stati ammazzati. Come studenti, come lavoratori, come giovani. Giuseppe e Lorenzo sono stati ammazzati come ogni giorno vengono ammazzati lavoratori e lavoratrici nei posti di lavoro: dallo sfruttamento, dagli orari folli, dalla mancanza di condizioni di sicurezza, dalla mancanza di tutele e diritti.

Giuseppe e Lorenzo non sono morti per una tragica fatalità, ma dalla subordinazione della scuola alla logica dell’impresa, della dittatura del profitto, del capitalismo: una società fallita che non ha più nulla da dare alle giovani generazioni. Nemmeno un mondo in cui vivere. Una società che non si può riformare, ma solo distruggere.

I piagnistei di queste ore di istituzioni, ministri, media e partiti borghesi è l’ipocrisia al quadrato di un sistema criminale e fallito. I responsabili di oggi piangono per poter continuare a governare come prima domani.

La migliore risposta a ciò che è accaduto è invece la lotta che in tutta Italia si sta dispiegando. Una lotta che deve essere sostenuta da tutte le organizzazioni del movimento operaio. Studentesse e studenti in lotta nelle piazze, nelle scuole occupate, nelle mobilitazioni. Nonostante la vergognosa repressione poliziesca. Nonostante i tentativi di intimidazione del governo.

Questa lotta deve estendersi il più possibile, attraverso il coordinamento nazionale di tutte le esperienze di lotta, per un movimento studentesco di massa e democraticamente autogestito. Un movimento studentesco che sappia collegare la critica radicale ai PCTO (e non solo: tagli, scuole a pezzi, classi pollaio, etc.) alla critica generale della scuola sottomessa al capitalismo.

Conquistare il futuro significa farla finita col capitalismo. Farla finita con il capitalismo significa fare la rivoluzione. Fare la rivoluzione significa organizzarsi. Il PCL si batte per questa prospettiva: l’unica prospettiva di progresso per l’umanità intera.

Per Giuseppe e Lorenzo: conquistiamo il futuro, distruggiamo il capitalismo.

Partito Comunista dei Lavoratori

È uscito il nuovo numero di Unità di Classe

 


Scrivi a info@pclavoratori.it o in chat alla nostra pagina Facebook ufficiale per sapere come acquistarlo

17 Febbraio 2022

Aiutaci a propagandare le idee del marxismo rivoluzionario. Diffondi e sostieni Unità di Classe con un contributo libero. Puoi fare una sottoscrizione con PayPal, in modo rapido e sicuro, inviando il pagamento a: info@pclavoratori.it oppure seguendo le istruzioni a questo link

In questo numero:


Crisi borghese, risposta operaia. Editoriale - Marco Ferrando

Lorenzo Parelli, ucciso dal capitalismo - PCL Friuli-Venezia Giulia

No alla guerra in Ucraina!

La ribellione in Kazakistan - Vincenzo Cimmino

Sviluppi della vertenza Elica - Mauro Goldoni

Ambientalismo. Vedere oltre la montagna - Falaghiste

In ricordo di Paolo Pietrangeli - Salvo Lo Galbo


Partito Comunista dei Lavoratori

La lotta per l'eutanasia legale, lotta contro la burocrazia di Stato


 La Corte Costituzionale ha definito inammissibile il quesito referendario inerente l’“Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale - omicidio del consenziente” con le seguenti motivazioni: «a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». La burocrazia vale più dei nostri diritti.


La proposta referendaria, al di là degli aspetti burocratici, aveva ed ha il pregio di slegare la questione etica del diritto alla vita dalla logica sovrastrutturale cattolica. Il quesito dava la possibilità di somministrare farmaci che avrebbero accompagnato il paziente verso una morte non dolorosa, facendo leva sulle sue volontà. Al contrario della vulgata generale diffusa dalla reazione, che va dal centro alla destra, il referendum non aveva il compito di legalizzare il “suicido”, tutt’altro. Il quesito non intaccava minimante il diritto e il dovere alla cura. Insomma, il suicidio assistito si sorreggeva sia sul consenso del paziente, sia su una specifica richiesta fatta in totale libertà fuori da qualunque pressione, e anche dal quadro clinico che ne valutava la relativa l’applicazione. Senza parere medico sul decorso delle condizioni del paziente, l’applicazione del suicidio assistito non sarebbe stata possibile.

Legalizzare tale tipo di eutanasia non solo rappresenterebbe un passo in avanti verso il progresso, sciogliendo quei residui tossici lasciati dalle visioni grottesche della Chiesa, ma significherebbe anche andare incontro al più elementare bisogno di aiuto di malati incurabili, afflitti da dolori lancinanti, come accade, ad esempio, in altri paesi come l'Olanda e il Belgio, dove questa legge viene applicata a chi ha gravi affezioni come tumori in stadio molto avanzato o malattie neurodegenerative come la SLA.

In questo nuovo scenario odierno, riportiamo la dichiarazione di Mina Welby: «Non me lo aspettavo. Dalla Corte Costituzionale mi è arrivata una stilettata al cuore. Sono senza parole e molto triste. Sto pensando a cosa poter fare, vorrei portare avanti l'eredità di mio marito perché era lui che voleva una buona legge sul fine vita» (1).
Da questa spinosa situazione non sappiamo se usciremo e quando, ma sappiamo quale strada si dovrebbe percorrere per farlo. La strada è quella del conflitto e della protesta. Nessuna legge può fare quello che il popolo esige, solo la forza dei lavoratori, degli sfruttati, può essere il vettore di questa conquista.



(1) https://it.wikipedia.org/wiki/Piergiorgio_Welby

Partito Comunista dei Lavoratori

Un altro studente ucciso dall'alternanza scuola-lavoro

 


Lottiamo contro la scuola al servizio del capitalismo e contro le leggi di precarizzazione. Per una mobilitazione studentesca nazionale

Giuseppe Lenoci aveva 16 anni, e come Lorenzo Parelli è morto da studente durante il percorso di alternanza scuola-lavoro.

Già le sentiamo e le vediamo: le lacrime da coccodrillo di tutta la stampa, istituzioni borghesi, e partiti padronali, gli appelli del Ministro Bianchi alla costruzione dei “tavoli tecnici per la maggiore sicurezza in formazione”, le mille parole di lutto per i prossimi tre giorni, le promesse che “mai più” si ripeterà un fatto tanto grave... L’ipocrisia elevata al quadrato di un sistema criminale e fallito, e che tuttavia è capace di strappare la vita a giovani, studenti e lavoratori. Ogni giorno.

Giuseppe e Lorenzo sono stati ammazzati, come vengono ammazzati ogni giorno lavoratrici e lavoratori nei posti di lavoro: dallo sfruttamento, dagli orari folli, dalla mancanza di condizioni di sicurezza, dalla mancanza di tutele e diritti. Giuseppe e Lorenzo non sono morti per una tragica fatalità, ma dalla subordinazione della scuola alla logica dell’impresa e del profitto. Una logica che va ribaltata, se non vogliamo più piangere i nostri morti.

Ma al di là della retorica nauseabonda e dei piagnistei di istituzioni, partiti borghesi e media, la migliore risposta a ciò che è accaduto la stanno già dando studentesse e studenti nelle piazze, nelle scuole, nelle mobilitazioni. Come è stato nelle scorse settimane, nonostante la vergognosa repressione della polizia, e come sarà il 18 febbraio con la manifestazione nazionale a Roma.

Occorre che le organizzazioni del movimento operaio scendano in piazza con gli studenti a sostegno delle loro richieste.

Via l'attuale alternanza scuola lavoro! Via le leggi di precarizzazione del lavoro, sostenute da tutti i governi, che hanno rovinato la vita di una generazione! Il capitalismo è sfruttamento e morte.

Solo un'alternativa anticapitalista, solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può liberare il futuro.

L'unità di lotta tra studenti e operai è la via per imporlo. Le mobilitazioni del 18 febbraio devono avviare una svolta.

Partito Comunista dei Lavoratori

Castillo in Perù, dalla favola alla realtà

 


Sei mesi fa il Perù celebrò giustamente la clamorosa sconfitta elettorale della dinastia reazionaria e corrotta dei Fujimori. Fu il portato di una importante mobilitazione popolare democratica e di una domanda di svolta sociale. A beneficiarne fu Pedro Castillo, ex dirigente sindacale degli insegnanti e delle loro proteste, eletto a sorpresa Presidente del Perù, contro le previsioni dell'establishment.


Ci permettemmo di osservare l'evidenza: se la sconfitta di Fujimori era estremamente positiva e andava salutata come una vittoria, non per questo andava beatificato Pedro Castillo. Figura eclettica, proveniente dall'ambiente maoista di Perù Libre, segnato da un coacervo di posizioni contraddittorie, in parte socialmente progressive, in parte ideologicamente reazionarie, soprattutto in fatto di diritti civili, in particolare delle donne. Un esponente originale del populismo latinoamericano, che ha costruito la propria riconoscibilità pubblica nella lotta contro i Fujimori e la corruzione dilagante, ma in alcun modo intenzionato a rompere con l'imperialismo e le classi dominanti peruviane. E neppure con le gerarchie della Chiesa.

Per questa facile previsione il PCL ha subito gli attacchi di tutta la sinistra “radicale” benpensante, che al solito ci ha accusato di pregiudizio ideologico, di categorie analitiche superate, di incapacità a comprendere la realtà, ecc. ecc. Ma proprio la realtà si è vendicata delle fiabe.

In sei mesi Pedro Castillo ha spostato progressivamente a destra la propria politica. Ha cambiato ben quattro premier, uno più a destra dell'altro. nel tentativo – vano – di trovare un accordo con la maggioranza reazionaria del Congresso, il parlamento peruviano. Negli ultimi giorni questa corsa a destra ha assunto aspetti grotteschi. Martedì 1 febbraio Castillo ha nominato a capo del governo Hector Valer, membro dell'Opus Dei, entrato in parlamento con un partito semifascista e poi passato sul carro di Castillo. Il mandato che Castillo ha dato a Valer è quello di costituire un governo di unità nazionale con tutti i partiti, inclusi quelli più apertamente reazionari. Un fatto traumatico per chi aveva votato Castillo nel nome della svolta a sinistra. Ma non è finita. Passati tre giorni, il nuovo presidente Valer è stato costretto a dimettersi perché accusato di violenze contro la moglie (deceduta) e contro la figlia. A imporre le sue dimissioni sono stati i suoi stessi ministri. Nel frattempo Castillo veniva fotografato in compagnia di Bolsonaro in atteggiamento complice e connivente, suscitando uno scandalo politico, mentre i sondaggi danno la destra peruviana in forte ascesa, oltre il 65% dei consensi. Assecondare la reazione significa, come sempre, spianarle la strada.

Non sappiamo quali saranno ora i commenti della sinistra “radicale”, estasiata sei mesi fa da Castillo. Per quanto ci riguarda, troviamo nei fatti peruviani una conferma del marxismo. In America Latina, come i tutti i paesi dipendenti, le domande di vera svolta, anche solo democratica, non saranno soddisfatte da caudillos populisti e trasformisti, più o meno improvvisati. Possono essere soddisfatte solo dalla classe lavoratrice, alla testa delle masse oppresse e sfruttate. Posso essere soddisfatte solo da un movimento di classe e di massa che si ponga su un terreno di rivoluzione. In Perù come ovunque, la costruzione del partito rivoluzionario resta più che mai una necessità inderogabile. In alternativa solo film già visti, troppe volte, con finali pessimi.

Partito Comunista dei Lavoratori

Foibe: pulp history e verità di Stato

 


Seconda parte

Pubblichiamo la seconda e ultima parte (la prima la trovate qui) di un testo tratto da un lungo saggio sul falso storico. A fondo pagina trovate anche l'articolo integrale in versione pdf da scaricare.



Ha notato Raoul Pupo:

«In cima all’Adriatico, la politica del regime fascista si è distinta per la radicalità dei propositi, consistenti nella “bonifica nazionale” delle terre appena redente, cioè nella distruzione dell’identità nazionale slovena e croata. L’impegno in tal senso del fascismo, che ne ha menato gran vanto, è stato notevole e le popolazioni hanno per la prima volta sperimentato che cosa significhi la forza di uno Stato moderno le cui istituzioni vengono mobilitate su richiesta di una delle componenti nazionali in conflitto per distruggere l’altra» [40].

La seconda Guerra mondiale costituì una brutale accelerazione di questo processo. È sufficiente ricordare sinteticamente l'aggressione fascista alla Jugoslavia e il vero e proprio massacro, al limite del genocidio, che subirono le popolazioni slave.

Senza neppure una dichiarazione di guerra, nel 1941 l'Italia, insieme con i suoi alleati tedeschi, iniziò l'occupazione della Jugoslavia, spartita tra Germania, Bulgaria, Ungheria e Italia, alla quale toccarono Montenegro, parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia [41]. Il 3 maggio iniziò la fascistizzazione e la snazionalizzazione delle zone occupate, che ripercorreva lo schema già visto per i territori sotto giurisdizione italiana. A eseguire queste misure è chiamato il generale Grazioli. La stessa Lubiana, divenuta italiana, fu interamente circondata da filo spinato per la repressione antislava.
Nell'occupazione dei Balcani, dove la condotta militare fu estremamente brutale, vennero impiegati, in totale, circa 600.000 uomini [42].

Nel 1942 – 43 si organizzò la Resistenza: il Fronte di Liberazione slavo univa comunisti, cristiano-sociali e liberali. Per fronteggiare la Resistenza, gli occupanti promossero lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assunse il controllo politico della regione. Nella sua circolare 3C ordinava di uccidere gli ostaggi, incendiare i villaggi, deportare gli abitanti infedeli: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Il generale di corpo d'armata Mario Robotti, parte di quel cerchio magico di guerrieri dal volto umano, scriveva: «Si ammazza troppo poco!» Il generale d'armata Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, è anche lui di quella feroce partita: lamenta l'eccessiva mitezza verso i rivoltosi «selvaggi» e conclude così un suo proclama: «La favola del "bono italiano" deve cessare!» [43].

Ai proclami seguirono i fatti. Naturalmente è impossibile in questa sede esporre tutti i crimini di guerra dei quali gli eserciti occupanti si resero responsabili nei paesi balcanici. È però utile fornire un paio di esempi come indicativi del metodo utilizzato dagli invasori nazifascisti.

Tra il 21 e il 23 ottobre 1941, a Kragujevac, nel corso di un rastrellamento, furono massacrate settemila persone, tra cui intere classi di scolari, e oltre duemila operai nel distretto industriale di Kraljevo [44].

Alle ore 8 del 12 luglio, domenica, 250 militari appartenenti al XI Corpo d’Armata del gen. Robotti penetrarono nel paese di Podhum e vi bloccarono tutta la popolazione, all'epoca di circa mille abitanti: nel corso del successivo rastrellamento, casa per casa, vennero catturati tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 individui) di cui 108 (alcuni erano riusciti a scappare) furono subito condotti a una vicina cava e, in un avvallamento ai suoi piedi, vennero immediatamente uccisi con raffiche di mitragliatrici e i loro corpi gettati nella cava. Ne seguì la razzia e il saccheggio dell'intero villaggio [45].

Vennero istituiti decine di campi di concentramento per slavi, in Italia e in Jugoslavia, dove trovarono la morte migliaia di donne, uomini, vecchi e bambini, spesso evacuati dai villaggi dati alle fiamme, al fine di eliminare ogni sostegno popolare alla resistenza [46]. Centinaia di processi sommari, sfociati in condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. È molto difficile un censimento preciso: Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Melada, Mamula, Prevlaka, Zlarino, Janesovac, Sajmiste e nell’isola di Arbe, in Jugoslavia (ad Arbe la letalità fu superiore di quella del tristemente noto campo nazista di Dachau); Risiera di San Sabba a Trieste, Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Casoli, Agnone, Colfiorito di Foligno, Renicci di Anghiari, Fraschette di Alatri, in Italia, sono alcuni dei campi nei quali vennero rinchiusi complessivamente circa 500.000 individui, dei quali oltre 115.000 morirono per stenti, malattie, fucilazioni, freddo, sevizie. Ma occorre ricordare anche il campo di Jasenovac, nella Croazia di Ante Pavelic, infeudata al fascismo di Mussolini.

Quasi tutte le fonti concordano che le vittime jugoslave dell'occupazione italiana abbiano raggiunto la cifra di circa 300.000 [47].

Dopo l'8 settembre, scoppiarono insurrezioni contadine in Slovenia e Istria, a carattere sociale contro l'élite economica, in particolare per la riappropriazione dei campi concessi dal fascismo a nuovi proprietari italiani. Nel tipico stile delle jacqueries vennero incendiati i catasti e distrutti documenti che riconoscevano i privilegi dell'élite coloniale italiana sulla popolazione slava. Se per la classe dominante italiana, intrisa di razzismo antislavo, questi episodi hanno richiamato alla mente i peggiori incubi dell'incombenza della rivolta di una classe operaia e contadina a lungo tenuta soggiogata e per questo temuta, per la popolazione slava dell'Istria ha rappresentato la fine dell'oppressione e il risveglio di una coscienza nazionale soffocata da vent'anni di fascismo [48].

In quest'occasione qualche centinaio di persone, fascisti o collaborazionisti, vennero gettate nelle foibe, tra tedeschi, italiani, sloveni e altri [49]. Le cifre stimate variano dalle due alle quattrocento persone.

Involontariamente, il carattere di classe dell'insurrezione del settembre 1943 è riconosciuto dagli stessi nazisti che, in un opuscolo di inizio 1944, denunciano il tentativo di liquidazione «dei possidenti, dei capitalisti, degli industriali, dei contadini benestanti, dei dirigenti dei partiti borghesi, delle Guardie Bianca e Azzurra, dei componenti delle S.S. e della Ghestapò, degli intellettuali, degli studenti, dei “politici da caffè”, dei sacerdoti nemici del proletariato e, in genere, di tutte le persone contrarie alla “lotta bolscevica di liberazione”» [50]

Nel frattempo, il 10 settembre 1943, due giorni dopo l'armistizio, venne istituita l' Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d'operazione dell'alto Adriatico, Ozak), per ordine di Hitler e il 29 settembre partì una vasta operazione antipartigiana tesa a riconquistare le zone insorte dell'Istria e la Slovenia. Si trattò, come ricorda il collettivo Nicoletta Bourbaki, «del più brutale atto di guerra che abbia interessato l’Istria in tutta l’età moderna» [51]. Le truppe di occupazione naziste erano affiancate dalla Milizia di difesa territoriale, combattenti volontari fascisti che operavano sotto comando tedesco. Oggetto della repressione non furono solo i combattenti, ma interi villaggi rastrellati e dati alle fiamme. Spesso la popolazione veniva radunata e, su delazione dei fascisti, si decideva chi passare per le armi. Alla fine dell'operazione i tedeschi rivendicarono circa 5000 “banditi” uccisi e 7000 prigionieri [52].

La seconda ondata di “infoibamenti” avvenne nel maggio del 1945, dopo la liberazione di Trieste e dell'intera Jugoslavia da parte dell'Esercito popolare di liberazione (Epl) di Tito. Ricordiamo che la Resistenza jugoslava è stata l'unica a liberare il paese dal nazifascismo senza aiuti esterni. Nei giorni confusi che seguirono la liberazione di Trieste si verificarono processi sommari, vendette personali, rastrellamenti “privati” che talvolta si conclusero con l'occultamento dei cadaveri nelle foibe del Carso.

Al di là dei numeri fantasiosi e delle interpretazioni soggettive del fenomeno [53], è molto difficile una contabilità precisa delle vittime: anche se è ormai quasi certo che gli scomparsi accertati nelle foibe nel 1943 furono alcune centinaia [54], più difficile è la contabilità dei morti del maggio – giugno 1945 per la mancanza di elenchi ufficiali e fonti certe; nella provincia di Trieste, ad esempio, i morti accertati furono 498 [55], altri 1500 furono i fiumani, gli istriani e i goriziani, nel complesso, scomparsi nello stesso periodo [56]. E tuttavia, anche questa cifra è incerta, in quanto nelle foibe non finirono solo fascisti e collaborazionisti, italiani e tedeschi, ma anche slavi e partigiani jugoslavi “infoibati” dalle truppe di occupazione, oltre a un numero indefinito di persone scomparse nel corso dei decenni precedenti la seconda Guerra mondiale. La cifra lievita, e di molto, se tra gli “infoibati” vengono contati tutti coloro, italiani e sloveni, che, in un modo nell'altro furono oggetto della repressione nella Jugoslavia del secondo dopoguerra. Come ha sottolineato Claudia Cernigoi, la più attenta e informata studiosa degli avvenimenti ai quali ci riferiamo

«Non ha senso parlare di un fenomeno delle foibe quando in realtà si tratta di una serie di fenomeni del tutto distinti tra loro e che hanno come elemento accomunante semplicemente il fatto che si sono svolti nel corso o in conseguenza della seconda guerra mondiale» [57]

Neppure le motivazioni, come si è visto, possono essere ricondotte a un'unica causa. Nelle insurrezioni del 1943 e nella lotta di liberazione jugoslava si unirono motivazioni di classe, istanze di liberazione nazionale e dalla barbarie nazifascista. Parlare di “pulizia etnica”, oltre ad essere storicamente inaccurato e senza nessun fondamento, costituisce una riabilitazione di ciò che è stato il vero tentativo di mettere in opera la “bonifica nazionale” dell'Istria e della Slovenia nel ventennio.

Tuttavia qui occorre una precisazione; a questi episodi l'Epl jugoslavo tentò di porre un freno e spesso condannò a pene severissime, talvolta alla pena capitale, chi si rendeva colpevole di questi crimini [58]. Per due fondamentali ragioni: da una parte l'Esercito popolare era parte integrante degli eserciti alleati e non l'unico presente a Trieste e, in secondo luogo, aveva tutto l'interesse a presentarsi come garante della sicurezza e della pace nella città di cui cercava l'annessione alla Jugoslavia [59]. La grande e media borghesia triestina e istriana, come si è visto in gran parte italiana, che negli anni del fascismo e dell'occupazione aveva sostenuto il regime, improvvisamente si scopre “antifascista” e chiede al governo Bonomi una maggiore presenza militare alleata a Trieste. Mentre la classe operaia e i contadini della Venezia Giulia considerarono l'esercito di Tito non solo lo strumento della sconfitta del nazifascismo, ma una speranza per la trasformazione socialista dei Balcani.

Perciò, che sia gli insorti istriani che i partigiani dell'Epl fossero ben lontani dall'idea di una “pulizia etnica” nei confronti degli “italiani in quanto tali”, come pretende la propaganda nazifascista è mostrato da alcuni episodi significativi: tra 20 e 30.000 militari italiani, ex truppe di occupazione, vennero accolti fraternamente tra le formazioni partigiane jugoslave [60]; i partigiani slavi salvarono anche tremila marinai italiani, destinati alla deportazione in Germania, dopo l'8 settembre [61]. Il rapporto dei partigiani slavi con gli italiani fu in genere di fraternizzazione militare, persino con quei militari che avevano partecipato alla repressione delle stesse popolazioni balcaniche, come mostrato da diverse testimonianze. Come osserva Pupo «è il disordine della storia nel momento della rivoluzione» [62].

La campagna antislava e anticomunista sulla questione delle “foibe” iniziò già nei primi giorni dopo la liberazione, con toni e argomenti ripresi dalla propaganda nazista del novembre 1943, di cui si è detto sopra. Nell'immediato dopoguerra fu la stampa neoirredentista e i neofascisti già volontari nell'esercito nazista, riciclati in “difensori dell'italianità” dell'intero Alto Adriatico, gli iniziatori della campagna sulle cosiddette “foibe”. Il più attivo è stato, fino in epoca recente, Luigi Papo de Montona (Paolo De Francesco), autore di un libro Foibe, del 1949, ex comandante della formazione del fascio, repubblichino e fiancheggiatore dei nazisti, dirigeva i servizi di informazione della Rsi nel litorale, ricercato dalle autorità jugoslave per crimini di guerra e mai estradato; padre Flaminio Rocchi, autore di un libro sull'esodo giuliano – dalmata, inventa relazioni inesistenti, si fa testimone di fatti ai quali non ha mai assistito e spesso smentito; Marco Pirina, figlio di un ufficiale della Guardia nazionale repubblicana, giustiziato dai partigiani nel 1944, ex dirigente del Fuan, transitato da tutti i partiti della destra parlamentare; Ugo Fabbri, l'(ex?) esponente di Forza Nuova Giorgio Rustia, Augusto Sinagra, Maria Pasquinelli, convinta fascista e collaboratrice della Germania nazista durante l'occupazione dell'Adriatisches Kustenland [63].

L'operazione "falsificazionista" consiste nel trasformare i liberatori jugoslavi in aggressori dell'italianità dell'Istria e della Venezia Giulia, mediante la manipolazione delle cifre, in particolare degli “infoibati”, la martirizzazione delle vittime, la disumanizzazione razzista degli slavi, la spettacolarizzazione degli avvenimenti in modo da coprire con effetti speciali l'inconsistenza storiografica. Esponenti del neofascismo triestino, alcuni dei quali si erano macchiati direttamente dei crimini di guerra, i collaborazionisti delle stragi di Kragujevac e Pudhum, in questo modo cercano di riabilitarsi in quanto difensori dell'”italianità” della Venezia Giulia.

E ovviamente, tutti questi avvenimenti vengono espunti dal contesto della criminale e tragica occupazione italiana della Jugoslavia e delle vicende belliche, in modo da rendere volutamente un effetto estraniante e deformato, allo scopo di disorientare, come se la storia del confine orientale iniziasse nel 1943, con l'insurrezione degli slavocomunisti che, all'improvviso, hanno deciso di farla finita con la civiltà italiana. La reazione popolare all'oppressione nazifascista viene stravolta e ridotta a uno scontro interetnico tra la civiltà italiana, ovviamente superiore, e quella barbara degli slavi, connotati con termini razzisti.

Si costruiscono vere e proprie falsificazioni storiche, di cui la cosiddetta “foiba” (in realtà un pozzo minerario) di Basovizza [64] rappresenta forse l'esempio più evidente; si alimenta il mito dei “sopravvissuti” [65], si fa lievitare il numero delle vittime, spesso senza alcun senso del ridicolo, se non si trattasse di una tragedia, si fornisce una narrazione nazionalista che sfocia nel razzismo.

Il piranese Diego De Castro, che pure partecipò alle campagne propagandistiche sulle “foibe”, dovette riconoscere, in vari interventi, che le narrazioni dell'immediato dopoguerra sono state artatamente falsate a fini propagandistici, allo scopo di poter influire sugli alleati perché intervenissero in funzione antijugoslava nella Venezia Giulia e in Istria [66]. Un'operazione durata fino al 1954, con la definizione della questione di Trieste.

Nel periodo della guerra fredda la vicenda restò sottotraccia per vari motivi, sia per l'inconsistenza della letteratura prodotta dall'estrema destra giuliana, sia per la situazione politica interna all'Italia, sia per l'esistenza della nazione jugoslava che avrebbe potuto far valere le ragioni dello Stato balcanico di fronte al neoirredentismo dell'estrema destra triestina.

Eppure non mancarono studi seri sulla questione che, senza nascondere il problema delle “foibe”, affrontavano le vicende del confine orientale italiano collocandole nel loro contesto storico, come, per fare qualche esempio, il citato testo di Mario Pacor, Confine orientale, pubblicato nel 1964, o Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956 [67], del 1980.

Con la fine della Jugoslavia e il crollo degli equilibri politici in Italia, la questione è riemersa nel discorso pubblico, diventando uno dei cavalli di battaglia di una destra aggressiva e avida di imporre la propria egemonia culturale e politica mediante la ridefinizione dei miti fondanti della nazione.

Come scrive Marcello Veneziani, uno degli intellettuali più ascoltati della destra, e membro del comitato per la celebrazione del 4 novembre:

«La patria è e resta il nostro legame più intimo, più antico, più concreto, più alto. La patria è la nostra storia, la nostra lingua, la nostra civiltà, la terra dei nostri avi, dei nostri caduti, dei nostri cari» [68].

Si tratta di passare da una concezione storica della democrazia, che trova il patto fondativo nella Costituzione e garantisce le libertà individuali, a un mito metastorico della Patria, come comunità di “sangue e suolo”, sancita dal culto dei morti, forgiata dalla religione cattolica, garantita dall'appartenenza alla stirpe, la cui unità è cementata dal culto di un leader che esprime lo spirito del popolo [69]. Lo stesso Veneziani, in un opuscolo del 2002 indica nel mito prepolitico l'ubi consistam della cultura di destra [70]. Non è un caso che lo slogan della “nazione cattolica”, declinato in decine di varianti, sia diventato il mantra della destra da presentare ad ogni occasione con sfoggi di rosari, madonne, invocazioni di santi e proclami di appartenenza alla nazione e alla religione, ribadito in decine di convegni e seminari [71].

Le vicende che hanno interessato l'Alto Adriatico devono essere quindi semplificate e banalizzate, in modo da espellere dall'analisi qualsiasi elemento che contrasti con questo mito unificante, a un tempo consolatorio e aggressivo, della “storia patria”. Ne emerge uno schema di lettura secondo cui la “sacra italianità” di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, è stata violentemente recisa dalla furia barbara di slavi strumenti di una potenza straniera, infiammati da un'ideologia comunista naturalmente atea, dediti alla “pulizia etnica” e all'uccisione degli italiani in quanto tali. Non solo il regime fascista è assolto da ogni crimine commesso nei Balcani, ma coloro che hanno massacrato donne vecchi e bambini, rastrellato, dato alle fiamme interi villaggi, deportato la popolazione civile poi perita nei campi di concentramento, sono trasformati in vittime delle loro vittime: chi ha cercato di imporre la “bonifica etnica” è presentato oggi come vittima della “pulizia etnica” slava. Luigi Cajani ha osservato che questo è possibile solo data la diffusa inconsapevolezza delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia, riflesso di una più ampia rimozione delle atrocità del colonialismo italiano [72].

E se l'analisi storica non certifica questo racconto, vittimista quanto assolutorio, allora occorre che venga piegata a questa narrazione, ormai bipartisan, e diffusa ampiamente nei media e quindi divenuta dominante, tanto che negli ultimi anni è imposta come verità di Stato.

Come lucidamente programmato da Marcello Veneziani:

«Dove invece la cultura della destra può animare un progetto pubblico e alimentare una cultura civica dell'agire pratico, è nei luoghi in cui si esprime e si forma la coscienza pubblica, in cui la comunità cresce e assume consapevolezza di sé. Il riferimento specifico è ai territori della scuola e dell'educazione, dei beni artistici, culturali e storici, della comunicazione e dei suoi orientamenti pubblici» [73]

Si progetta una scuola e in genere una comunicazione storica piegata alle esigenze ideologiche e politiche di una cultura di destra, quando non chiaramente neofascista.

È impossibile citare tutti i casi di tentativo di colonizzazione della scuola. Basti qualche esempio: nel 2004, l'Assessorato all'Istruzione della Provincia di Milano, in un opuscolo sul confine orientale diffuso gratuitamente alle scuole in migliaia di copie, significativamente titolato[74], nella cronologia omette completamente il ventennio dal 1920 al 1943, mentre nel periodo 1943/45 si concentra semplicemente sui «massacri contro le popolazioni italiane». Una tendenza che ha interessato diffusamente le amministrazioni di destra, ex Alleanza nazionale, leghiste o di coalizione, le quali non hanno lesinato sui fondi pubblici da destinare all'acquisto di opuscoli spesso pubblicati da case editrici neofasciste, di nessun valore scientifico, da destinare alla distribuzione gratuita nelle scuole. Un processo che ha subito un'accelerazione nell'ultimo decennio.

Nel 2010, il 23 febbraio, si teneva alla sede del Ministero dell'Istruzione a Roma, un convegno dal titolo Le vicende del confine orientale e il mondo della scuola, a cui seguì la pubblicazione degli atti [75]. La prima parte del volume è dedicata all'inquadramento storico delle vicende dell'Alto Adriatico: dopo il contributo di Raoul Pupo, che affronta il periodo Dal trattato di Campoformio alla grande guerra, si passa direttamente al 1943 e, infine, al dopoguerra, senza alcuna menzione del periodo che va dal 1920 al 1943. Dal 2010 ad oggi, le iniziative del Miur attorno al confine orientale sono state praticamente appaltate alle associazioni degli Esuli [76], fornendo delle “complesse” vicende del confine orientale una lettura estremamente riduttiva, secondo lo schema manicheo dell'italiano portatore di civiltà vittima del barbaro sanguinario slavocomunista in cerca di pulizia etnica.

Ultimo, in ordine di tempo, il Convegno, patrocinato dal Miur, tenutosi a Trieste nel novembre del 2019 e conclusosi con la proiezione del film Rosso Istria. Con Rosso Istria (Red Land) si è cercato di mettere in piedi la stessa operazione tentata un quindicennio prima con la fiction Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin. L'allora Ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, licenziò il film in tempi brevissimi per poter essere proiettato in occasione della celebrazione della prima “giornata del ricordo”, nel 2005. Si trattò, come lo definì la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» di un Massaker-Kitsch [77]: il protagonista, un truce slavocomunista di nome Novak, è impegnato a percorrere in lungo e in largo l'Istria per rapire il figlio che fugge protetto dalla madre, da un sacerdote cattolico e da un volontario della Rsi pacifista (naturalmente il bambino è figlio dello stupro di Novak) allo scopo di “eliminarlo”. Nel frattempo, a capo di una banda partigiana, giusto per non stare con le mani in mano, incendia qualche asilo e saccheggia qualche villaggio.

Vale la pena fare un passo indietro di sessant'anni e riportare ciò che scriveva il «Corriere della sera» del 19 gennaio 1944, preannunciando quello che a tutti gli effetti è il primo “giorno del ricordo”:

«Per disposizione del Duce il 30 gennaio le Federazioni fasciste repubblicane promuoveranno la celebrazione dei nostri Caduti in Istria e Dalmazia nella lotta contro il comunismo partigiano. … le bande bolsceviche si sono gettate con furia sulle popolazioni inermi trucidando e saccheggiando. … Quattrocentosettantun persone … pagarono con la vita, dopo inenarrabili torture, le colpe di essere semplicemente degli italiani. Ma l'elenco di questi martiri non è certo completo, poiché non ancora le “foibe” hanno finito di restituire le spoglie mutilate ed orribilmente sfregiate di molti patrioti … Donne e bimbi figurano tra i massacrati. La fede politica delle vittime importava fino a un certo punto ai feroci carnefici. Essi facevano obiettivo della più raffinata tortura o dell'omicidio chi portava nome italiano, o chi era italiano. … Dalle tragiche foibe si leva un monito: impugnare le armi per difendere la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, la stessa civiltà europea dagli orrori del bolscevismo che ora cerca di aprirsi un varco verso occidente con la complicità delle plutocrazie alleate contro il sacrosanto diritto delle genti povere propugnato dall’Italia e dalla Germania»

Come si vede, la trama del Cuore nel pozzo era già pronta. Lo stesso Leo Gullotta, che nel film interpreta il sacerdote Don Bruno, deve essersi accorto della strumentalizzazione della quale era stato vittima se ha abbandonato la sala dell'anteprima, proiettata in occasione del decennale della nascita di Alleanza nazionale, l'8 febbraio 2005.

Con Red Land [78] si è andato, se possibile, addirittura oltre. Il film, sulla vicenda dell'assassinio di Norma Cossetto, pieno di marchiani errori storiografici, gronda sangue ad ogni sequenza. Violenze, indiscutibilmente “titine” (anche se nel '43, epoca di ambientazione del film nessuno chiamava così gli insorti istriani), stupri, assassini ecc.; tutto l'orrido armamentario cui ci ha abituati la filmografia neofascista. Lo schema è quello del film western degli anni Quaranta e Cinquanta, da Ombre rosse a Sentieri selvaggi, quando i nativi (gli “indiani”) erano immancabilmente dipinti come primitivi selvaggi ostinatamente impenetrabili alla civiltà dell'uomo bianco. Stessa è la reazione di orrore per i selvaggi che si cerca nel pubblico.

Se sul piano estetico si tratta di pessimi b-movie, Il cuore nel pozzo e Red Land agiscono entrambi sul piano prepolitico e metastorico, delle emozioni e dei sentimenti, agitando il terrore ancestrale dell'altro, che si infila nelle “nostre” case a stuprare le “nostre” donne e rapire i “nostri” bambini. La foiba non è più la cavità carsica, ma il luogo nascosto della nostra rabbia e delle nostre paure [79]; una sepoltura senza celebrazione funeraria che non permette neppure l'elaborazione del lutto, così che i morti e i vivi condividano un'unica “patria”, che per questo sarà eterna. Si tratta della riproposizione della lugubre retorica fascista del martirologio patriottico.

Ai film si affianca il fumetto su Norma, Foiba rossa [80], edito dalla casa editrice neofascista Ferrogallico, disegnato da Beniamino Delvecchio e sceneggiato da Emanuele Merlino (figlio del noto neofascista Mario Merlino), che ripete schemi già descritti per le fiction di cui abbiamo detto.

Liberamente ispirato al libro di Frediano Sessi, Foibe rosse, in realtà il fumetto costituisce una drammatizzazione arbitraria degli avvenimenti. Lo stesso Frediano Sessi ammette, nella ricostruzione delle vicende che condussero alla morte della ragazza, di non avere elementi certi per la ricostruzione completa della storia:

«Quello che si sa di Norma Cossetto e del suo dramma, a tutt’oggi, sta racchiuso in poco più di due pagine. Qualcuno parla in proposito di falso storico e di mito, qualcun altro all’opposto di verità taciuta. Questa ricostruzione sceglie di privilegiare quel che resta della memoria del dolore, e di dare voce a una morte che in ogni caso, quale ne sia l’interpretazione che si vuole autentica, fu atroce e ingiustificata» [81].

Nel descrivere la vicenda di Norma, di famiglia di stretta osservanza fascista e figlia del podestà di Visinada, Giuseppe, aggregato al 134° battaglione camicie nere, probabilmente ucciso in combattimento nelle operazioni di repressione del movimento partigiano slavo cui si è accennato prima, Frediano Sessi, forse ispirato dalla “storiografia” di Pansa, ricorre spesso ai “si dice” e la sua versione è contestata da altre ricostruzioni che, sul piano storiografico, risultano più accurate [82]. Qui non è il luogo, ovviamente, per dirimere la questione, della quale occorre dire che non conosciamo abbastanza.

In questa sede occorre tuttavia ricordare che Norma Cossetto venne uccisa nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943, in una zona che, proprio il 5, cadeva sotto controllo nazista, che nella foiba di villa Surani dalla quale fu estratto il suo povero corpo, insieme con altri venticinque, vennero trovati 17 berretti con la stella rossa, probabilmente appartenenti a partigiani gettati dai nazisti nella voragine, e che la sorella di Norma, Licia, venne arrestata dai partigiani qualche giorno dopo e rilasciata poco dopo, e non è chiaro il motivo della diversa sorte che questi terribili “titini” avrebbero riservato alla sorella. Questi sono fatti accertati [83]. Quindi le circostanze nelle quali è stata uccisa Norma Cossetto vengono ricostruite in maniera completamente arbitraria e viene accolta una versione solo per scopi ideologici.

Sia il Cuore nel pozzo che Red Land riprendono i temi della kampfpropaganda, orchestrata da Karl Lapper nell'Alto Adriatico sotto occupazione nazista, secondo cui le “foibe” costituivano un massacro etnico organizzato e pianificato dall'alto dalle orde barbare dello slavobolscevismo. Le ragioni della propaganda nazista erano essenzialmente due: da una parte obliterare le ragioni storico sociali della rivolta istriana addebitandola alla particolare crudeltà della “razza slava”, dall'altra giustificare la spietata repressione e il massacro della popolazione civile da parte dell'occupante nazista.

Parte della propaganda era la riesumazione dei cadaveri, operati dai Vigili del fuoco, alla quale veniva invitata o costretta, a seconda dei casi, ad assistere la popolazione civile, sotto lo stretto controllo delle Camicie nere e di militi tedeschi. Lo scopo era dare vita alla trasmissione orale dei particolari più raccapriccianti e macabri dei ritrovamenti, in modo da scavare un solco tra la popolazione locale e il movimento partigiano. Ed è in questo contesto che maturano i racconti e le dicerie sulla fine di Norma Cossetto, con particolari sullo stupro e sevizie sul corpo, che il rapporto del comandante dei Vigili del fuoco che ne ha operato il recupero della salma, il maresciallo Arnaldo Harzarich esclude [84]. Ma è lo stesso Frediano Sessi ad ammettere la ricostruzione romanzata della vicenda:

«In questa ricostruzione, realtà storica e immaginazione convergono nel tentativo di restituire corposità ai fatti e ai pensieri. Un metodo che si giustifica, almeno in parte, con la scarsa documentazione disponibile a fronte della ricchezza di particolari, spesso coincidenti, emersi dai racconti dei testimoni. Un azzardo storico? In fondo, tutte le storie fanno i conti con la finzione perché arrivano a noi solo attraverso il linguaggio e la scrittura. Una vita quando si avvera sulla pagina non è altro che una trama di parole. Tutto, proprio tutto è parola» [85].

Anche qui si tratta del tipico metodo di fabbricazione di una postverità che, senza prove e documentazione certe, dà voce a testimonianze selettive allo scopo di costruire una storia mitica soffermandosi su aspetti drammatici e macabri riempiendo il vuoto delle fonti con le congetture dell'autore.

Naturalmente, non si tratta di sottoporre ad analisi storiografica la subcultura neofascista che produce b-movie e fumetti splatter. Giova invece osservare che, questa subcultura, generosamente finanziata mediante l'acquisto di migliaia di copie di Foiba rossa da distribuire alle scuole e la diffusione di Red Land con il patrocinio del Miur rende la scuola da agenzia democratica di formazione della coscienza storica e di studio critico del passato, dispositivo totalitario di diffusione di un'ideologia neoirredentista. Invece di essere problematizzate, le vicende delle terre dell'Alto Adriatico sono oggetto di una reductio ad unum. Finora, in generale, la manualistica non è stata disposta ad accettare tale lettura banalizzante, preferendo un approccio più equilibrato, in particolare inquadrando gli avvenimenti del 1943 – 45 nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell'occupazione nazifascista della Jugoslavia, con tutte le tragiche conseguenze di cui si è detto.

Nel frattempo si continuano a dare riconoscimenti agli ex combattenti di Salò, e perfino ai torturatori e criminali di guerra.

La legge istitutiva del “giorno del ricordo” prevede anche che ai superstiti e ai congiunti “fino al sesto grado” degli scomparsi in vario modo (nelle foibe, vittime di attentati, massacri, annegamento, ecc.) dal 1943 al 1947 venga consegnata una medaglietta e un diploma con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”.

Secondo la legge istituiva, dal riconoscimento sono esclusi i caduti in combattimento e coloro che «facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia» [86]. E visto che nel periodo 1943 – 1947 l'Italia era alleata dell'Unione sovietica, degli Stati uniti e dell'Inghilterra, e che i battaglioni di Ss italiane, come i membri della Milizia di difesa territoriale fascista, combattevano volontariamente sotto il comando nazista in una zona di fatto annessa al Terzo Reich, contro cui l'Italia era in guerra, sembrerebbe evidente che i loro congiunti “fino al sesto grado” non possano aspirare a questo riconoscimento. Tuttavia, come spesso accade quando si parla di fascismo in Italia, ciò che appare evidente scompare nel fumo della mistificazione.

Un articolo del «Corriere della sera» del 2015, rilevava che, tra i gli oltre trecento “premiati” dalla Repubblica, si trovavano anche cinque criminali di guerra:

«Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto» [87]

A scorrere inoltre l'elenco completo dei beneficiari del provvedimento, che il ricercatore triestino Sandi Volk aggiorna annualmente, 381 in totale nel periodo che va dal 2006 al 2019, ultima data disponibile, ci si accorge che nella stragrande maggioranza, oltre il 95%, sono ex appartenenti alla Rsi [88] e trovano il loro riconoscimento negli albi ufficiali dei caduti e dispersi degli istituti storici repubblichini.

Se praticamente tutti i premiati della Repubblica appartenevano alle formazioni armate di Salò, cade anche la menzogna che l'Esercito di liberazione e i partigiani jugoslavi infoibassero gli italiani “solo in quanto italiani” e non in quanto fascisti o collaborazionisti.

Nonostante sia smentita dalle vicende storiche, dalle ricerche, e dalle testimonianze e non ci sia nessuna prova a sostegno, quella della “pulizia etnica” è diventata verità ufficiale ripetuta a più riprese persino dalle alte cariche dello Stato.

Benché brevemente, è interessante notare come il significato di questo concetto sia mutato nel corso degli anni nei discorsi dei Presidenti. Nel 2006 il presidente Ciampi, in occasione della ricorrenza, si esprimeva come di seguito:

«L’odio e la pulizia etnica sono stati l’abominevole corollario dell’Europa tragica del Novecento, squassata da una lotta senza quartiere fra nazionalismi esasperati» [89].

Una frase che, posta su un monumento di Monfalcone, venne violentemente contestata [90] dalle Associazioni degli esuli giuliano – dalmati, tanto da venire oscurata. Così che, l'anno successivo, Giorgio Napolitano, il primo ex comunista (stalinista, ndr) ad occupare la più alta carica dello Stato, correggeva il tiro, attribuendo questa sete di vendetta esclusivamente agli Slavi, provocando anche la protesta ufficiale della diplomazia slovena:

«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» [91]

Nella ricorrenza del 2020, il Capo dello Stato non solo ha ripreso il concetto di “pulizia etnica” antiitaliana, ma è andato oltre, stigmatizzando le «sacche di negazionismo militante» e indicando la strada per la censura ai danni della ricerca indipendente [92]. Nel frattempo, una proposta di legge di Fratelli d'Italia, vorrebbe consegnare in via esclusiva alle associazioni degli esuli la facoltà di concedere spazi pubblici, le quali, inoltre, dovrebbero essere «le sole coinvolte nell’elaborazione dei piani di formazione ed insegnamento nelle scuole, per garantire una testimonianza autentica di quegli accadimenti per troppo tempo occultati» [93].

A queste parole, che invitano alla censura e al controllo di Stato sulla ricerca storica, tanto da mettere in pericolo uno dei principi della Costituzione, che garantisce la libertà d'insegnamento e di ricerca, seguono gli attacchi politici e non solo. Se le amministrazioni di destra negano gli spazi pubblici agli storici che dissentono dal discorso martirologico sulle foibe, gruppi esplicitamente neofascisti si sentono legittimati a intervenire con la violenza per impedire gli interventi di ricercatori che non si adeguano alla vulgata neoirredentista, come è successo a Torino in occasione dell'intervento di Eric Gobetti a un convegno universitario il 6 febbraio.

Come denuncia l'Istituto Nazionale Ferruccio Parri:

«È in corso una indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo. Queste persone attaccano qualsiasi interpretazione che non accetti una vulgata che si rifiuta di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione portata avanti durante il ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per spiegare quanto successo dopo la caduta del fascismo e durante la costruzione dello stato comunista jugoslavo. Si vuole imporre una versione ufficiale della tragedia delle foibe e di quella successiva dell’esodo dei giuliano fiumano dalmati sotto forma di genocidio degli italiani e con impropri e assurdi confronti con la Shoah. Chiunque operi la necessaria contestualizzaione di quanto successo sa che gli italiani furono perseguitati o in quanto ex fascisti, o perché identificati con le classi egemoni, o in quanto si opponevano alla costruzione dello Stato comunista, e non in quanto italiani» [94]

Quanto il discorso neoirredentista sulle “foibe” sia strumentale alla contingenza politica è dimostrato da quanto segue: il sito specializzato pagellapolitica ha esaminato gli interventi dei maggiori esponenti politici italiani in occasione delle due giornate del 27 gennaio (giorno della memoria delle vittime della Shoah) e del 10 febbraio 2020, osservando che «oltre l'80 per cento dei contenuti social è dedicato alle foibe». In particolare, Matteo Salvini su 42 post in totale, ha dedicato 39 alle “foibe” e 3 alla Shoah; Giorgia Meloni rispettivamente 16 e 3; Silvio Berlusconi un solo post per le “foibe” e nulla sulla Shoah; Luigi Di Maio uno e uno; l'unico a dedicare più post alla Shoah (sette a quattro) è stato Nicola Zingaretti. I post di Salvini e Meloni seguono tutti lo stesso cliché, quello della “pulizia etnica” e l'attacco alla storiografia “negazionista” [95].

L'indifferenza della destra estrema al dramma dei sei milioni di ebrei e delle altre vittime della violenza nazista e l'utilizzo strumentale delle tragedie del Novecento, non potrebbe essere espressa in maniera più lampante.

Come ha osservato Stuart Woolf, intervistato da Simonetta Fiori:

«Un uso pubblico della storia caratterizzato da «rozzezza», «superficialità» e «spregiudicatezza» non riscontrabili da altre parti. Severo dunque il giudizio sul neorevisionismo che assolve Mussolini o annacqua le differenze tra resistenti e repubblichini. Ma la sua «risonanza nel grande pubblico» non è fattore irrilevante; al contrario, è la spia di un qualcosa che già esisteva nel senso comune degli italiani, «un pensiero a lungo tenuto privato e comunque ignorato da politici e storici». è anche questa, secondo Woolf, «una conseguenza inavvertita della narrazione egemonica dell'antifascismo», ingenuamente fondata su una netta distinzione tra regime fascista e popolo italiano» [96]

Mentre per la destra politica le “foibe” sono parte dell'eterna campagna elettorale per attaccare e delegittimare l'avversario, con gli strumenti della censura, delle intimidazioni, fino all'aggressione fisica, non si nota finora una reazione da parte del mondo della scuola e dell'Università all'altezza della pesante e grossolana aggressione alla libertà di ricerca e di insegnamento, che proviene anche dalle alte cariche dello Stato.



NOTE

40 - Raoul Pupo, Trieste '45, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 9; v. anche Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 122 – 133.
41 - Sul biennio di occupazione della Slovenia, v. anche Karlo Ruzicic-Kessler, Il fronte interno. L'occoupazione italiana della Slovenia 1941 – 1943, in Percorsi srorici. Rivista di storia contemporanea, n. 3, 2015.
42 - Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935 – 1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, p. 360.
43 - https://www.corriere.it/cultura/12_luglio_17/stajano-vendetta-fascista-testa-per-dente_4a076aec-d008-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml?refresh_ce-cp (visitato il 29 maggio 2020); su questi episodi cfr. anche la bibliografia in nota 178.
44 - Mario Pacor, Confine orientale..., cit. p. 162.
45 - Giacomo Scotti, Quando gli italiani fucilarono tutti gli abitanti di Podhum, in «Patria indipendente», 19 febbraio 2012, p. 27 – 34.
46 - Cfr. Alessandra Kersevan, Lager italiani... cit., per i campi fascisti v. anche Gino Marchitelli, Campi fascisti. Una vergogna italiana, Jaca Book, 2020; Carlo Spartaco Capogreco, I campi del Duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2019; per i campi di internamento in epoca fascista, ci si può anche riferire al sito: campifascisti.it (visitato il 28 maggio 2020), v. anche https://www.lincontro.news/crimini-fascisti-in-jugoslavia-la-strage-di-podhum/ (visitato il 29 maggio 2020).
47 - https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 26 maggio 2020); si tratta della traduzione di Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, pubblicato in Christof Dipper, Lutz Klinkhammer e Alexander Nützenadel (a cura), Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, pp. 57 – 74 . Sulla guerra di Mussolini nei Balcani, ormai esiste una storiografia consolidata e omogenea nelle vicende e nei risultati acquisiti. Senza alcuna pretesa di completezza, si citano Giorgio Rochat, Le guerre italiane..., cit.; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani, cit., Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani. 1940 – 1943, Mondadori, Milano, 2006; Pietro Brignoli, Santa messa per i miei fucilati, Longanesi & Co., Milano 1973; Costantino Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona 2005; Tone Ferenc «Si ammazza troppo poco». Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella Provincia di Lubiana. 1941-1943, Inštitut za novejšo zgodovino – Društvo piscev zgodovine NOB, Ljubljana, 1999; Gobetti Eric, L’occupazione “allegra”. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007; Id. Gobetti, Eric, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) Laterza, Bari – Roma, 2013; Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia, Red Star Press, 2017; Id. “Bono taliano”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori” Odradek, Roma, 2017.
48 - Raoul Pupo, Trieste '45, cit. p. 11.
49 - Un opuscolo nazista, diffuso a partire dal 1943, Ecco il conto!, parla di “oltre cento vittime” estratte dalle cavità carsiche nel periodo dell'insurrezione del 1943, fonti successive, sempre di ispirazione neofascista, parlano di 349 “infoibati”, idem, p. 64.
50 - Le macabre foibe istriane, citato in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, cit. p. 61.
51 - https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/ (visitato il 7 giugno 2020).
52 - Ibidem.
53 - L'esempio più indicativo di una storiografia sciatta sulla questione è rappresentata dal testo di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, che a pagina 2 includono tra gli “infoibati” alcune migliaia di vittime della repressione jugoslava contro gli occupanti nazifascisti e gli oppositori politici, in una voluta operazione di disinformazione, mentre a pagina 30, citando l'ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, riportano in 4122 le vittime “comprendendo anche persone scomparse per cause belliche” . Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori Editore, Milano.
54 - La cifra di meno di circa 400 vittime durante l'insurrezione del 1943 è generalmente accettata dagli storici, anche se Pupo e Spazzali fissano tra le 500 e le 700 le vittime delle insurrezioni istriane del 1943, idem; Per ciò che riguarda le vittime del 1945, lo stesso Spazzali, in altra pubblicazione, scrive: «Il numero di coloro che vennero effettivamente eliminati subito e gettati nelle foibe nel 1945 (morti o vivi che fossero), è relativamente basso, probabilmente inferiore al migliaio», in Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola (Studi e documenti degli annali della Pubblica istruzione) Le Monnier – Firenze 2010, p. 45; mentre Claudia Cernigoi, Operazione foibe …, p. 270 ss., mediante un minuzioso lavoro di controllo delle fonti è risalita a circa 500 scomparsi da Trieste nel periodo dal 1 maggio al 12 giugno 1945; un dato che corrisponde, del resto, a quanto scriveva «Trieste sera» il 4 febbraio 1948 e ad altre fonti coeve, tutte riportate dal testo di Cernigoi. Mario Pacor, che riporta dati della Croce rossa italiana, v. p. 331; v. anche Cernigoi, Il pozzo artificiale. La questione foibe tra ricerca e uso pubblico, in «Zapruder» n. 15, cit. p. 45 – 57; Jože Pirjevec, Foibe, cit. parla di circa 2500 vittime nel 1945.
55 - Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”...., cit. a p. 271 – 285: pubblica l'elenco degli scomparsi da Trieste.
56 - Mario Pacor, Confine orientale …, p. 331.
57 - Claudia Cernigoi, Foibe. La verità contro il revisionismo storico, in Aa. Vv., Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu, Udine, 2008 p. 82.
58 - Come la banda Steffé e altri, v. Mario Pacor, Confine orientale …, cit. p. 332.
59 - Mario Pacor, Idem, p. 330 – 331
60 - Eric Gobetti, La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943 – 1945), Salerno Editrice, Roma, 2019; si vedano anche i due corposi volumi, di Luciano Viazzi, La resistenza dei militari italiani all'estero. Montenegro, Sangiaccato, Bocche di Cattaro e Luciano Viazzi e Leo Taddia, La resistenza dei militari italiani all'estero. La divisione «Garibaldi» in Montenegro, Sangiaccato, Bosnia – Erzegovina, ambedue edite dalla «Rivista Militare», Ministero della Difesa, Roma, 1994, per complessive 1660 pagine.
61 - V. intervista a Giacomo Scotti, in https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o4333
62 - Raoul Pupo, Trieste '45, cit. p. 202.
63 - Cfr. Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79 ss, e Jože Pirjevec, Foibe, cit. p. 63 per i dettagli.
64 - Per cui si rimanda a Jože Pirjevec, Foibe, cit. p. 132; Claudia Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79. Cernigoi riporta in appendice anche copia della documentazione delle varie esplorazioni della “foiba”, alla quale senz'altro si rimanda.
65 - Per i quali si rimanda a Pol Vice, La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei “sopravvissuti”, KappaVu, Udine, 2008, con ampia documentazione riprodotta.
66 - Jože Pirjevec, Foibe... cit., p. 118 e 133; sull'inconsistenza della ricostruzione postfascista del dopoguerra, v. anche Gorazd Bajc, Gli angloamericani e le “foibe”, in Id. p. 299 – 318
67 - Cristiana Columni e al.: Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956, Istituro regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia – Giulia, Trieste, 1980; si considerino anche Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle provincie orientali, Del Bianco, Udine, 1961; Teodoro Sala, La crisi finale nel litorale adriatico: 1944-1945, Del Bianco, Udine, 1962; Ennio Maserati, L’occupazione jugoslava di Trieste: maggio-giugno 1945, Del Bianco, Udine, 1963; Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943: ricerche storiche, Laterza, Bari, 1966.
68 - http://www.marcelloveneziani.com/articoli/accogliete-la-patria-nella-costituzione/ (visitato il 30 maggio 2020).
69 - Ernesto Bignami, Cos'è il fascismo … cit. p. 42; uno dei bersagli polemici dell'opuscolo di Bignami è la difesa dei diritti individuali, diffusa in epoca illuminista.
70 - Marcello Veneziani, La cultura della destra, Laterza, Bari – Roma, 2002, p. 102.
71 - Come il convegno di Verona, al quale si è fatto riferimento nel paragrafo precedente.
72 - Luigi Cajani, La storia del confine …, cit. p. 578.
73 - Marcello Veneziani, La cultura della destra, cit. p. 102.
74 - Direzione centrale Istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano, Là dove nacque l'Italia, De Agostini, Novara, 2004, p. 122.
75 - Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura) Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, Le Monnier, Firenze, 2010.
76 - Sul sito http://www.scuolaeconfineorientale.it/enti.php (visitato il 9 giugno 2020) si trova l'elenco delle iniziative congiunte delle Associazioni di esuli e del Miur.
77 - Federico Tenca Montini, Confini stridenti. Nazionalismo antislavo e giorno del ricordo, in «Zapruder» n. 36, gennaio – aprile 2015, p. 126; v. anche Gino Candreva, La verità nel pozzo, in Pol Vice, La foiba dei miracoli, cit. p. 241 ss.
78 - Per un'analisi approfondita del film v. https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-1-red-land/#sovranismo%20e%20 https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/ (visitato il 1 giugno 2020); anche Enrico Miletto in http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/rosso-istria-un-mese-dopo-3646/ (visitato il 1 giugno 2020).
79 - Per questi aspetti di analisi si rimanda a Luisa Accati e Renate Cogoy (a cura), Il perturbante nella storia. Le foibe. Uno studio di psicopatologia della ricezione storica, QuiEdit, Verona, 2010.
80 - Per una disanima del fumetto v. http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/considerazioni-su-un-fumetto-sulle-foibe-6132/.
81 - Frediano Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto, uccisa in Istria nel '43, Marsilio, Venezia, 2007 (epub ).
82 - Claudia Cernigoi.Operazione foibe …, cit. p. 146 – 147; Jože Pierjevec, Foibe. .., cit. p. 54 – 55; sulla vicenda di Norma Cossetto, ricostruita attraverso uno scrupoloso confronto delle fonti disponbili, v. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/CasoNormaCossetto.pdf (visitato il 7 giugno 2020).
83 - Ibidem.
84 - Claudia Cernigoi, Operazione foibe .., cit. p. 146.
85 - Frediano Sessi, Foibe rosse … cit., capitolo Lampi di verità sulla vita di Norma? (epub).
86 - Sandi Volk, Cosa ricorda la repubblica? In Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie .. , cit. p. 143.
87 - Alessandro Fulloni, Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo, «Corriere della sera», 23 marzo 2015.
88 - Qui l'elenco completo, con i riscontri: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2019/11/premiati-2019-381.pdf (visitato il 7 giugno 2020).
89 - Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico … , cit. p. 194.
90 - Idem, p. 160.
91 - Anche per un'analisi più approfondita del discorso di Napolitano, v. idem p. 141 ss. In appendice, i discorsi dei Presidenti della Repubblica, dal 2006 al 2012.
92 - https://www.quirinale.it/elementi/44205 (visitato il 2 giugno 2020).
93 - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-questione-foibe-e-la-storia-governativa/ (visitato il 2 giugno 2020).
94 - L'intero comunicato, con le opinioni, può essere letto in http://www.reteparri.it/ (visitato il 2 giugno 2020).
95 - https://pagellapolitica.it/blog/show/607/sui-social-i-politici-parlano-delle-foibe-molto-pi%C3%B9-che-della-shoah.
96 - Simonetta Fiori, La storia non siamo noi , «Repubblica», 18 ottobre 2005.

Gino Candreva

ALLEGATI


Foibe: pulp history e verità di Stato

 

1

0 Febbraio 2022

(Prima parte)

Pubblichiamo la prima parte (a breve la seconda) di un testo tratto da un lungo saggio sul falso storico.


Fin dai primi decenni dell'epoca postunitaria, in periodo liberale e fascista l'espansione coloniale è stata considerata il naturale compimento dell'Unità: la retorica delle “terre irredente”, del “posto al sole” della “quarta sponda”o dell'impero che “risorge sui colli fatali di Roma”, “le nostre terre” (riferito all'Istria e alla Dalmazia) stanno a indicare un concetto di “patria” che si estende geograficamente ben oltre i confini naturali della Penisola, e sfocia nel mito della pretesa che le sponde del Mediterraneo meridionale e orientale appartengano di diritto all'Italia: «il passato coloniale italiano – ha notato Nicola Labanca – non è un'appendice esterna e trascurabile della storia italiana» [1].

Da Nizza, Savoia e Corsica, al Quarnaro, a Malta, alla Libia e alla Tunisia, come nella canzone Mediterraneo. Riassunta nelle parole dello stesso capo del fascismo:

«Fa’, o gioventù italiana di tutte le scuole e di tutti i cantieri, che la Patria non manchi al suo radioso avvenire; fa’ che il XX secolo veda Roma, centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per tutte le genti» [2].

Ernesto Bignami, insegnante di filosofia e fervente fascista, in un saggio per le scuole, pubblicato nel 1935 e premiato dal Regime, parla di ingiustizia storica consumata a Versailles, dopo la prima Guerra mondiale, contro i diritti italiani nel Mediterraneo orientale [3] e conclude:

«L' espansione mediterranea, è per 1'Italia necessità di vita: popolo eccezionalmente prolifico e migratorio, e pur nello stesso tempo cosi povero di materie prime e di risorse naturali, ha pure il diritto di vedersi garantito uno sfogo su terre che offrano la duplice possibilità di un ampio popolamento e di ricche materie prime. Terre, naturalmente, appartenenti alla zona mediterranea: perché qui convergono da secoli i massimi interessi della Nazione» [4].

A questa pretesa di diritto naturale si è accompagnata, nel corso dei decenni, il mito del “buon italiano”, suffragato da un'ampia letteratura nazionalpopolare, da Pascoli a De Amicis a Salgari [5] e alimentato in epoca fascista, come nel testo di Renato Micheli della canzone Faccetta nera: l'Italia che andava in Africa non era l'Italia dei carri armati e dell'iprite, ma l'Italia proletaria, che esportava lavoro e civiltà, emancipando gli schiavi africani. A tale scopo, per lungo tempo si è cercato di nascondere o semplicemente negare i massacri, le deportazioni di popolazione, le stragi, quando non i veri e propri genocidi compiuti ai danni delle popolazioni sottomesse: dall'Etiopia alla Libia [6], dalla Grecia [7] all'Albania all’ex Jugoslavia, di cui si dirà in seguito. Dei criminali di guerra italiani di cui si è chiesta l'estradizione, ai termini dell'articolo 45 del Trattato di pace, nessuno è stato estradato nei paesi nei quali si è reso responsabile di questi delitti [8]. L'amnistia Togliatti e i processi successivi, tutti rigorosamente celebrati in Italia e non per i crimini commessi all'estero, posero la pietra tombale sulla possibilità di punire i responsabili delle avventure coloniali e dei crimini di guerra. Ne uscì rafforzata l'idea del “buon italiano” e delle aggressioni coloniali come missioni di civiltà.

Che questo mito sia duro a tramontare, del resto, lo confermano anche vicende recenti. Come ha notato Angelo Del Boca, quando il 10 novembre del 2003 i guerriglieri di Abu Omar al-Kurdi, facendo esplodere un camion imbottito di esplosivo, causarono la morte di 21 militari del contingente italiano a Nassirya, in Italia si ebbe una reazione mista di dolore e stupore, increduli che i nostri soldati in Iraq potessero essere in qualche modo considerati truppe straniere d'occupazione e non un contingente “di pace” [9].

E che la mentalità colonialista non sia un semplice retaggio del passato, lo mostra la vicenda di Indro Montanelli, che, ancora nel 2000 dichiarava, quasi divertito, da maschio coloniale bianco, di aver “comprato” una bambina dodicenne in Etiopia, spiegando questo gesto con la semplice differenza culturale con il paese africano: «lei era un animalino docile; ogni 15 giorni mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri» [10].

Nonostante la ricerca abbia compiuto notevoli progressi rompendo l'egemonia di una memoria consegnata in gran parte ai vecchi funzionari coloniali e rappresentata nella monumentale, quanto incerta dal punto di vista scientifico, opera L'Italia in Africa [11], dedicata essenzialmente a dimostrare i meriti della colonizzazione e a imporre il mito degli “italiani, brava gente”, questa narrazione delle nostre (borghesi, ndr) imprese coloniali sopravvive tutt'oggi. I lavori attinenti a quest'opera sono durati per oltre un trentennio, fino allo scioglimento, nel 1984, del comitato che ne aveva assunto il compito. Tuttavia, che l'idea che sorreggeva quest'opera sia dura a morire è dimostrato dalla pubblicazione, meno di dieci anni fa, del volume di Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano [12], a cura dell'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito, che ripropone l'ideologia di un “colonialismo buono” perfino in quella che è stata la più brutale e spietata operazione coloniale dell'imperialismo italiano, ovvero l'occupazione dell'Etiopia.

Oltre che alle rimozioni e alle amnesie, a inibire la formazione di una coscienza critica del colonialismo italiano, si è anche ricorso a una vera e propria censura su opere cinematografiche come Il leone del deserto [13], che narra le vicende del dirigente della Resistenza libica Umar el-Mukhtar, oppure il documentario di Ken Kirby e Michael Palumbo Fascist Legacy [14]. Si può senz'altro concordare con quanto osserva Patrizia Palumbo, che nel dopoguerra il discorso culturale in Italia non ha attraversato il processo di decolonizzazione che hanno sperimentato altre nazioni, come la Francia, tanto che «Il discorso coloniale è parte integrante della cultura italiana» [15]. Conclude Labanca: «il colonialismo, pur finito nella storia politica, continua (ovviamente trasformandosi e adattandosi ai tempi nuovi) nelle menti degli italiani» [16].

Una mentalità che emerge a ogni contingenza politica che in qualche modo abbia attinenza con il passato coloniale e i presunti interessi dell'Italia all'estero. Ma che è esplosa in tutta la sua potenzialità tra la fine del ventesimo e l'inizio del ventunesimo secolo sulla questione del confine orientale.

Il 14 giugno 1992, poco dopo la dissoluzione della Jugoslavia, l'allora Movimento sociale – Destra nazionale organizzò, sotto la presidenza di Maurizio Gasparri, un convegno dal titolo Dalla fine della Jugoslavia al ritorno dell'Italia in Istria, Fiume e Dalmazia. Il giorno dopo era previsto il riconoscimento delle neonate repubbliche di Slovenia e Croazia da parte del governo italiano.

Nell'intervento iniziale, rivolgendosi ai suoi “camerati”, Gasparri invitava il governo a ”rimettere in discussione” i trattati internazionali (dal “dictat” del Trattato di pace del 1947 a quello di Osimo del 1975), «imposti dalla defunta Jugoslavia che hanno decurtato l'Italia di terre, di storie e di tradizioni» [17]. Al convegno sfilava una vera e propria galleria degli orrori del reducismo, da ex repubblichini di Salò a partecipanti alla guerra di Spagna, a esponenti neofascisti che troveremo in seguito arruolati nei vari governi Berlusconi. Il senso del convegno era che l'Italia sarebbe stata vittima di un'ingiustizia storica consumatasi sul confine orientale: un'ingiustizia alla quale occorre porre termine col ritorno in Istria e Dalmazia. Si tratta di una lettura del trattato di pace che mostra la difficoltà ad accettare la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, ma è anche indicativa della coscienza collettiva di una nazione che non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e le conseguenti atrocità commesse nei territori occupati, in Africa come nei Balcani.

Mentre per ciò che riguarda le ex colonie africane, di cui peraltro in sede di revisione del Trattato di pace si fece fatica a rinunciare (in particolare alla Libia e alla Somalia) non c'è stata nel dopoguerra una massiccia campagna di riacquisizione territoriale, non si sono mai smorzate del tutto le aspirazioni sulle terre di confine con la Jugoslavia, considerate “italiane” a tutte gli effetti. Gli equilibri emersi dal secondo conflitto mondiale e la particolare collocazione della Jugoslavia nel contesto della guerra fredda tuttavia impedirono, fino al crollo della federazione jugoslava, un chiaro programma irredentista da parte italiana. Per l'Italia, nel 1991 sembrò arrivato il momento di riaprire il contenzioso di frontiera con le nuove repubbliche sorte dalla dissoluzione del paese balcanico. Secondo un lungo e argomentato articolo di «Limes», l'allora segretario del Movimento sociale – Destra nazionale, Gianfranco Fini, trattò con la leadership serba sulla spartizione della Croazia tra Italia e Serbia, e la revisione dei confini con la Slovenia [18].

Il convegno del 14 giugno 1992, cui si è accennato poco sopra, è il corollario di questi avvenimenti. In virtù di questi riallineamenti internazionali, il primo governo di centro – destra, nel 1994, si oppose all'ingresso della Slovenia in Europa [19].

Seppure originato dalla contingenza geopolitica degli inizi degli anni Novanta, il revisionismo dei confini orientali era indice di un più profondo fiume carsico che pervadeva la coscienza storica nazionale e riemergeva a ridefinire i riferimenti e i miti della nazione. Come si è accennato, l'integrazione del Movimento sociale nell'area di governo aveva fatto cadere la pregiudiziale antifascista e messo in crisi la retorica dell' “arco costituzionale”; d'altro canto, l'abbandono ad ogni riferimento, seppure formale, al comunismo da parte del Pci e la trasformazione in un partito democratico di centro-sinistra comportava il riconoscimento reciproco dei due ex avversari.

L'incontro a Trieste tra Gianfranco Fini e Luciano Violante, nel 1998, organizzato da Giampaolo Valdevit, importante esponente dell'Istituto per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia – Giulia, stava a suggello della nuova svolta, che verrà formalizzata con la Legge del 30 marzo 2004, approvata dall'intero Parlamento con la sola eccezione di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, istitutiva del “giorno del ricordo”, da celebrare il 10 febbraio, data della firma del trattato di pace del 1947. Era il punto di arrivo di un iter parlamentare durato circa dieci anni (la prima proposta era stata presentata nel 1995 da un gruppo di deputati dell'allora neonata Alleanza nazionale [20]), che aveva visto confrontarsi iniziative parlamentari di vari schieramenti. Nel corso del dibattito, l'unica fonte citata, da parte neofascista, è Luigi Papo di Montona, autore di un Albo d'Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell'ultimo conflitto [21], che elenca circa ventimila vittime “giuliano-dalmate” della seconda Guerra mondiale, in un periodo che va dal 16 ottobre 1940 al 1993 (sic!) [22]. Del resto Luigi Papo stesso dichiarava: «la storia, quando serve alla propaganda, può benignamente essere falsata» [23].

Infine la legge istitutiva recitava:

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

L'istituzione del “giorno del ricordo” è stato preceduto dalla ripresa del dibattito nazionale sulle vicende di confine tra Italia e Slovenia. Prima di questa decisione del Parlamento, si è tentata la strada della collaborazione tra storici, culminata nel 1993 nella formazione di una Commissione storico culturale italo – slovena, che affrontasse le relazioni storiche tra i due Stati, nel periodo 1880 – 1956 (un'analoga commissione italo – croata non vide mai la luce, benché formalmente istituita).

Dopo sette anni di lavoro, la Commissione di storici giunse alla formulazione di una relazione comune e ne raccomandava una «presentazione pubblica ufficiale della relazione nelle due capitali, possibilmente in sede universitaria, come segno di stabile riconciliazione tra i due popoli; pubblicazione del testo nelle versioni italiana e slovena; • raccolta e pubblicazione degli studi di base; diffusione della relazione nelle scuole secondarie» [24].

Nel licenziare la versione definitiva del rapporto, l'allora ministro degli Esteri sloveno, Dimitrij Rupel dichiarava, con eccessivo ottimismo visti gli sviluppi successivi:

«Il Rapporto sloveno-italiano relativo al passato è un documento destinato al futuro. Nel suo messaggio vi è la consapevolezza che i contrasti avuti nella storia non devono trasformarsi in discordie del presente e oberare le relazioni del futuro. Se saremo in grado di accettare la storia, le nostre relazioni saranno maggiormente improntate alla spontaneità e all'amicizia. La storia non può venire conformata o assoggettata alla volontà degli attuali governanti. Il Rapporto comune italo-sloveno raccoglie dati che a molti non piaceranno. I contenuti del documento in Slovenia non vengono respinti, li accettiamo in quanto relativi a fatti storici» [25].

Da parte slovena venne data la massima diffusione alla relazione comune, mentre in Italia non c'è stata alcuna divulgazione, se non su qualche rivista locale, e nessuna delle misure di pubblicazione venne adottata. La propaganda neoirredentista, divenuta ideologia di Stato, non poteva tollerare una valutazione equilibrata come quella emersa dalla commissione di storici.

Vedremo che, nel corso degli ultimi 15 anni, questa vicenda da complessa viene notevolmente semplificata, dato che agli storici verrà progressivamente impedito di intervenire sulla questione. Con l'istituzione della Legge del ricordo, sono stati anche stanziati fondi per le associazioni degli esuli, oltre che per i familiari delle vittime.

Oltre a un programma apertamente revanscista, l'istituzione del “giorno del ricordo” costituisce un tassello fondamentale nel cambio di paradigma storico dell'Italia del dopoguerra, a causa di un discorso pubblico pervicacemente egemonizzato da una destra, non più in cerca di legittimità ma aggressivamente protesa a imporre una narrazione postfascista della storia d'Italia mediante il ricatto morale, la censura e il controllo sui testi.

Posto a ridosso del 27 gennaio, “giorno della memoria” delle vittime della Shoah, il “giorno del ricordo” suggerisce artatamente un paragone con la tragedia che ha sterminato milioni di esseri umani, tra cui sei milioni di ebrei, oltre a rom, testimoni di Geova, prigionieri di guerra sovietici e oppositori politici, vittime del Nazismo e del Fascismo. Come ha dichiarato, parlando delle “foibe”, Maurizio Gasparri: «sono grandi tragedie, come quelle dell'Olocausto o di Anna Frank» [26].

Allo scopo di questa olocaustizzazione non si fa riferimento ad alcuna storiografia o ricerca sostenuta da fonti e dati certi, ma a una malastoriografia [27] incerta, confusa e contraddittoria, dal citato Luigi Papo a padre Flaminio Rocchi, da Marco Pirina a Giorgio Rustia da Ugo Fabbri a Augusto Sinagra ad Antonio Serena [28], tutti personaggi di estrema destra, in transito tra formazioni fasciste e Lega nord, che hanno prodotto lavori confusi e pervasi da un comune furore ideologico antislavo.

A seconda delle ricostruzioni, gli stessi numeri di “infoibati” passa da alcune centinaia a decine di migliaia se non centinaia di migliaia di vittime. L'allora presidente della Camera Ferdinando Casini, in sede di discussione, parlò di “centinaia di migliaia di italiani” oggetto di persecuzione [29]. L'oscar dell'abominio però spetta a Maurizio Gasparri, uno dei “foibologi” più impegnati nella diffusione di false notizie su questo avvenimento. In un intervento alla trasmissione 3131 di Rai 2, nel febbraio del 2004, l'allora Ministro delle Comunicazioni dichiarò all'intervistatore Pierluigi Diaco che «milioni di italiani furono gettati vivi solo per essere italiani» [30]. Basti ricordare che l'intera popolazione italofona in Istria e Dalmazia non raggiungeva le cinquecentomila unità.

Ai fini di questa ricostruzione che di storico ha ben poco, occorre semplificare, come si diceva prima, le vicende delle terre dell'Alto Adriatico e confinarle nel periodo 1943 – 45. Eppure la loro storia non inizia nel 1943. Senza addentrarci nelle vicende delle origini della formazione delle ideologie nazionali nell'Impero asburgico [31], basti ricordare che negli anni del primo dopoguerra l'irredentismo italiano in Istria e in Dalmazia si salda col mito della “vittoria mutilata” e vede nell'impresa fiumana di D'Annunzio il momento del riscatto nazionale.

Come ha osservato Brunello Mantelli, un ruolo importante fu giocato dall’antislavismo radicale costitutivo del nazionalismo espansionistico italiano di fine Ottocento, uno dei principali filoni confluiti nel movimento interventista che nel 1914 si agitò per spingere l’Italia nella prima guerra mondiale; nei confronti degli slavi, vissuti come ostacolo da quelle correnti irredentistiche che, nel primo scorcio del secolo XX, avevano ormai trasformato l’aspirazione al completamento dell’unità nazionale in slancio imperialistico verso la sponda orientale del mare Adriatico, iniziarono allora a risuonare accenti razzisti; nelle parole scritte immediatamente prima dello scoppio della Grande guerra dall’esponente nazionalista Ruggero Fauro (più noto con lo pseudonimo di Timeus, con cui era solito firmare i suoi scritti) [32]:

«Nell'Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono...» [33].

Questo progetto diventa concreto con l'irrompere del fascismo sulla scena politica; la situazione dei territori dell'Alto Adriatico muta radicalmente. Il 13 luglio 1920 veniva dato alle fiamme dai fascisti agli ordini di Francesco Giunta il Narodni Dom di Trieste, che ospitava l'hotel Balkan e simbolo della presenza slava in città, sede di associazioni culturali serbe, croate e slovene, ma anche ceche. Seguì l'incendio della Casa del popolo di Pola e, nel corso di queste violenze, vennero incendiati 134 edifici, tra cui 100 circoli di cultura, case del popolo, camere del lavoro e cooperative. In seguito alla resistenza operaia dei minatori dell'Arsa, i fascisti incendiarono interi villaggi [34]. Negli anni a seguire, la violenza nazionalista italiana si scatenò non solo contro gli oppositori politici, socialisti, comunisti, liberali e tutto ciò che era in odore di “antifascismo”, ma soprattutto contro sloveni e croati, non risparmiando neppure i preti che si opponevano a quell'orgia di brutalità, tanto da suscitare anche la reazione del papa Benedetto XV che deplorava la ferocia sui sacerdoti [35].

Il 3 marzo 1922 nella città libera di Fiume un colpo di stato fascista con l'attivo sostegno dei carabinieri, dell'esercito e della marina italiani, depose il governo locale, costringendo all'esilio Riccardo Zanella, presidente della giunta autonomista fiumana [36]. Lo stesso capo del fascismo, del resto, dichiarava il 20 settembre 1920 in un discorso al teatro Cescutti di Pola:

«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraaneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche» [37].

Non si trattava solo di un piano di espansione geopolitica, ma della definizione di un nuovo concetto di italianità, che univa lingua, nazione e razza. Lo strumento per la sua affermazione era la “bonificazione etnica” degli “allogeni”, come venivano chiamate le popolazioni slave. Riferendosi al programma fascista, Enzo Collotti ha parlato dell'«italianità di frontiera come quintessenza e distillato allo stato della massima purezza dell'italianità» [38].

Gli anni dal 1922 al 1941, data dell'invasione della Slovenia, furono anni terribili per le popolazioni sottomesse al governo di Roma. Il fascismo procedette a tappe forzate a un programma di italianizzazione e fascistizzazione delle istituzioni, mediante la distruzione della cultura e delle istituzioni slave; venne proibito l'uso delle lingue locali, italianizzati i cognomi e, come si è visto, perfino il clero non fu risparmiato da questo processo. L'intero sistema creditizio venne italianizzato, privando in questo modo le cooperative rurali dei fondi necessari al loro sviluppo. Entro il 1928 oltre 300 tra cooperative e istituti finanziari passarono in mani italiane. Mediante questi strumenti economici si provvide a colpire la proprietà slava a favore di una borghesia italiana, agraria e industriale, che fin dall'inizio aveva sostenuto il fascismo, convinta di trarre notevoli benefici economici. Nel 1931, lo stesso Mussolini inviava una circolare ai prefetti nei quali proponeva di espropriare «le proprietà terriere … che si trovano oggi in possesso di allogeni» [39]

[continua...]


NOTE

1 - Nicola Labanca, Introduzione, a Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 14.

2 - Alberto Maria Banti, Sublime madre nostra, cit. p. 154.

3 - Ernesto Bignami, Cos'è il fascismo. Saggio premiato nel decennale della rivoluzione., Milano, 1935, p. 48.

4 - Ibidem.

5 - Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2010, p. 4.

6 - Secondo le stime più accurate, l'occupazione italiana in Libia ha prodotto circa 100.000 vittime, su una popolazione di 800.000 persone; in Etiopia secondo il governo etiope le vittime furono circa 500.000, anche se stime più accurate (Del Boca) ne considerano circa 300.000. Per una bibliografia non esaustiva sul colonialismo italiano, v. di Giorgio Rochat Militari e politici nella preparazione della campagna d'Etiopia. Studio e documenti, FrancoAngeli, Milano, 1971; di Angelo Del Boca, si ricordano soprattutto Gli italiani in Africa orientale, in quattro volumi, che ha conosciuto diverse edizioni presso Laterza e poi Mondadori, ma anche Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma – Bari, 1991 e Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano, 1997 Di Nicola Labanca si ricordano essenzialmente Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, La guerra di Libia, 1911 – 1931, Il Mulino, Bologna, 2011, La guerra d'Etiopia. 1935 – 1941 Il Mulino, Bologna, 2015; di Matteo Dominioni, Lo sfascio dell'impero. Gli italiani in Etiopia 1936 - 1941, Laterza, Roma – Bari, 2008; di Luigi Goglia, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, Laterza, Roma - Bari, 1981; di Calchi – Novati, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma, 2005, ma anche i numerosi articoli e saggi apparsi in riviste e opere collettanee, che è impossibile citare estesamente; Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità dell'avventura coloniale italiana (1911 – 1931), SugarCo, Milano, 1978; tra le varie opere di Romain Rainero, v. essenzialmente Il colonialismo, Le Monnier, Firenze, 1978, Il risveglio dell'Africa nera, Laterza, Bari, 1960, Colonialismo e decolonizzazione nelle relazioni italo – francesi, Società toscana per la storia del Risorgimento, Firenze, 2001; C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973; Renato Mori, Mussolini e la conquista dell'Etiopia, Le Monnier, Firenze, 1978; Gianluigi Rossi, L'Africa italiana verso l'indipendenza, Giuffré, Milano, 1980; L. Ceci, Il papa non deve parlare, Laterza Roma – Bari, 2010; Federico Cresti e Massimiliano Cricco, Storia della Libia contemporanea. Dal dominio ottomano alla morte di Gheddafi, Carocci, Roma, 2012.

7 - Secondo l'Unrra e la Croce rossa internazionale, le vittime dell'occupazione nazifascista della Grecia furono in totale 620.000, v. Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente”, Odradek, Roma, 2008, p. 189.

8 - Gli italiani richiesti dalla Jugoslavia, fin dal febbraio del 1945, erano circa 700. Michael Palumbo, L'olocausto rimosso. I crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani, Rizzoli, Milano, 1992.

9 - Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, cit.; secondo un'inchiesta delle Iene, militari italiani non erano estranei alle torture ai danni di prigionieri iracheni nella base militare di White Horse, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Un-militare-confessa-Gli-italiani-torturavano-a-Nassiriya-de7c29fc-6ede-4cc8-81b1-0b222ff26570.html?refresh_ce (visitato il 23 maggio 2020).

10 - https://it.aleteia.org/2018/08/16/indro-montanelli-elvira-banotti-violenza-bimba-12-anni-africa/ (visitato il 23 maggio 2020); video disponibile in https://www.youtube.com/watch?v=N_2xZWu_Ak8 (visitato il 24 maggio 2020) rispondendo a una lettrice, dalle pagine del «Corriere della sera» del 12 febbraio 2000, Montanelli dichiara anche le sue difficoltà ad «avere un rapporto sessuale», non per remore morali o d'altro tipo, ma perché la ragazza era infibulata (problema risolto dalla madre, per la gioia del tenente italiano) e «puzzava di sego di capra».

11 - Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L'Italia in Africa, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1955 – 1974. Per un'analisi critica di quest'opera, v., tra gli altri, Antonio M. Morone, I custodi della memoria, in «Zapruder», n. 23, settembre – dicembre 2010; sullo stesso numero della rivista, v. anche Chiara Ottaviano, Riprese coloniali e Giulietta Stefani, Eroi e antieroi coloniali, ma anche Giuliano Leoni e Andrea Tappi, Pagine perse, sui manuali scolastici del dopoguerra.

12 - Saini Fasanotti, Federica, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano, Stato maggiore dell'esercito – Ufficio storico, Roma, 2010: dall'introduzione del generale Montanari: “Mancò, lo si è detto, il tempo per raggiungere la pacificazione: ma – riferisce con inconsueta onestà intellettuale l'Autrice – in quello stesso periodo, ancorché breve, l'iniziativa italiana trovò il modo di realizzare in Etiopia … una rete stradale e ferroviaria di base, l'impianto urbano delle maggiori città, villaggi, ospedali, ambulatori, scuole, chiese per tutte le confessioni, la scolarizzazione dei giovani, il tentativo di modernizzare l'agricoltura”.

13 - Prodotto nel 1981, censurato perché ritenuto lesivo dell'onore dell'esercito italiano; alcune proiezioni private vennero addirittura interrotte dalla Digos, come a Trento nel 1987. Si è potuto proiettare liberamente solo dal 2009.

14 - La Rai acquistava i diritti per il filmato nel 1990, ma non l'ha mai mandato in onda. Qualche spezzone è stato trasmesso da La7, soltanto nel 2004. Oggi, una versione di History Channel è visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys (sito visitato il 24 maggio 2020).

15 - Patrizia Palumbo, (ed.), A place in the sun. Africa in Italian Colonial culture from post – unification to the present, University of California Press, Berkeley and Los Angeles – London, 2003, p. 11; sulle nostalgie coloniali si veda anche Angelo Del Boca, Nostalgia delle colonie, Mondadori, 2001; ma anche Nicola Labanca, Perché ritorna la “brava gente, in Angelo Del Boca (a cura) La storia negata, cit., p. 76 ss.

16 - Idem, p. 94.

17 - Qui la registrazione dell'intero convegno: http://www.radioradicale.it/scheda/44063/dalla-fine-della-jugoslavia-al-ritorno-dellitalia-in-istria-fiume-e-dalmazia (visitato il 13 maggio 2020).

18 - Quando Fini sognava Istria e Dalmazia, «Limes» disponibile qui: https://www.limesonline.com/cartaceo/quando-fini-sognava-istria-e-dalmazia?prv=true (visitato il 25 maggio 2020).

19 - Guido Franzinetti, La riscoperta delle foibe, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, Einaudi, Torino, 2009, p. 320.

20 - Qui il testo della proposta del 1995: https://www.camera.it/_dati/leg12/lavori/stampati/pdf/56004.pdf (visitato il 25 maggio 2020).

21 - Luigi Papo di Montona, Albo d'Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell'ultimo conflitto, Unione degli istriani, Udine, 1989.

22 - Citato in Claudia Cernigoi, Operazione “foibe” tra storia e mito, KappaVu, Udine, 2005, p. 84.

23 - Citato in Idem, p. 85

24 - Il testo della relazione ufficiale si può leggere qui: http://aestovest.osservatoriobalcani.org/documenti/Relazione_CommMista_italo-slovena.pdf?fbclid=IwAR3WuqjervYXR8svMKtnZU-vm0TCyMcw2JYY9cavIeNl62vvQCZWj7u_ETo (visitato il 30 maggio).

25 - Ibidem.

26 - La stampa, 18 aprile 2002.

27 - Il termine è di Alessandra Kersevan, La malastoriografia. Esempi nella storia del confine orientale, in Cesp, Revisionismo storico e terre di confine. Atti del corso di aggiornamento. Trieste 13 -14 marzo 2006, KappaVu, Trieste 2006, p. 175 – 195. Esempio di questa malastoriografia è anche l'uso spregiudicato di immagini di atrocità dell'esercito italiano spacciate per azioni di repressione dell'Esercito jugoslavo di liberazione. In una celebre puntata di Porta a porta, il 13 febbraio 2012, la stessa storica ha smentito il conduttore che presentava come azione antiitaliana l'esecuzione di cinque contadini sloveni, nel villagio di Dane avvenuta il 31 luglio 1942. Per i dettagli si rimanda al sito di wumingfoundation: https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/ (visitato il 18 maggio 2020).

28 - Per una attenta disanima dell'infondatezza di questa malastoriografia v., oltre a ibidem, anche Claudia Cernigoi, Operazione 'foibe'... cit., p. 79 ss.; della stessa autrice Foibe, tra storia e propaganda, in Aa. Vv. Foibe. La verità contro il revisionismo storico. Atti del convegno. Sesto San Giovanni, 9 febbraio 2008, KappaVu, Udine 2008; vale la la pena sottolineare che tutti i nomi citati transitano nell'area dell'estrema destra, tra formazioni fasciste e Lega nord.

29 - Per il dibattito parlamentare v. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, KappaVu, Udine, 2014, p. 90 – 94.

30 - http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2004/02/08/Politica/FOIBE-GASPARRI-RICORDARE-TUTTI-GLI-ORRORI-DELLA-STORIA_110100.php (visitato il 26 maggio 2020); persino il giornale ufficiale di Casapound, riprendendo Papo, è costretto ad ammettere che il numero delle vittime accertate nelle foibe carsiche nel periodo 1943 – 45 è di circa un migliaio di persone: https://www.ilprimatonazionale.it/politica/quanti-furono-i-morti-delle-foibe-5300/ (visitato il 26 maggio 2020).

31 - Per le quali vicende si rimanda, anche per la bibliografia all'articolo di Boris Gombač, La patria cercata. La nascita della coscienza nazionale negli slavi del Sud, in «Zapruder», n. 15, gennaio – aprile 2008, p. 23 – 41; per un'analisi più approfondita v. AA. VV., Dall'Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell'area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009; Darko Darovec, Breve storia dell'Istria, Forum, Udine, 2010.

32 - https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 1 giugno 2020).

33 - Citato in Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi. 1941 – 1943, Nutrimenti, Roma, 2008, (epub).

34 - Marina Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 141 – 146.

35 - Mario Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964, p. 107.

36 - Idem, p. 167 – 168.

37 - Riportato nel «Manifesto», 5 febbraio 2014.

38 - Enzo Collotti, Sul razzismo antislavo, in Alberto Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870 – 1945, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 54.

39 - Citato in Stefano Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di “bonifica etnica” al confine nor orientale, I.S.R.Pt editore, Pistoia, 2006 p. 123, al quale si rimanda anche per tutta la documentazione relativa a questa questione.

Gino Candreva