Al fianco della resistenza palestinese!
Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...
Coloro che leggono questo resoconto (ma ormai buona parte degli italiani) sanno già chi è Ilaria Salis: l’anarchica milanese che l’anno scorso ha preso parte alle contro-manifestazioni del Giorno dell’onore (un raduno neonazista tollerato dall’Ungheria di Orbán), e che è stata arrestata con l’accusa di aver aggredito due neonazisti, assieme ad altre persone. Benché le lesioni riportate siano state lievi, benché i due aggrediti non abbiano sporto denuncia (hanno fatto sapere online che intendono vendicarsi per strada) e benché il suo volto non sia visibile nel video che riprende l’aggressione, Ilaria è stata in carcere sotto un regime durissimo per quasi un anno, fino alla prima udienza del processo che è iniziato oggi, 29 gennaio 2024.
La mattina a Budapest è fredda. Di fronte al tribunale una fila di persone: solo alle persone registrate è permesso l’accesso all’aula. Dopo i controlli di sicurezza, l’aula. Gli spalti per il pubblico sono divisi in due, un po’ come in certi stadi. Da una parte il padre di Ilaria Roberto Salis, da mesi impegnato in una battaglia perché la figlia abbia un giusto processo e sia sottoposta a una detenzione dignitosa. Accanto gli avvocati italiani di Ilaria, sue compagne e compagni milanesi, un gruppo di tedeschi venuti per il co-imputato Tobias. Dall’altra, cinque o sei neonazisti ungheresi, fin troppo riconoscibili coi loro bomber e crani rasati. Il giudice, un ragazzino dallo sguardo obliquo e inquietante (Dio ci perdoni se c’è offesa per Sua Eccellenza, ma ricorda il Dracula interpretato dal suo compatriota Béla Lugosi) dà inizio al processo.
L’ingresso di Ilaria in aula è spiazzante. Chi si aspettava di vedere entrare in aula una donna distrutta nel fisico e nello spirito dopo la durissima detenzione subita ha dovuto ricredersi. Ilaria entra pesantemente incatenata, due teste di cuoio armate la sorvegliano. Un trattamento che si penserebbe riservato a personaggi di ben altra fatta, ma forse è per farsi gioco anche di questo che Ilaria entra sorridendo agli astanti. Un sorriso fresco, sicuro e sincero, così simile a quello delle fotografie che nelle ultime settimane si sono viste sui media.
Di fatto, questa prima udienza equivale a un rompere il ghiaccio: il processo è aggiornato al 21 maggio e non è dato sapere quanto durerà, quale sarà la sorte di Ilaria, se le sue condizioni detentive cambieranno, se le verranno concessi i domiciliari in Ungheria o in Italia. Qual è quindi la conclusione dell’udienza di oggi? L’imputato tedesco Tobias, anch’egli pesantemente incatenato, si è dichiarato colpevole e ha accettato una condanna a tre anni (anche se i PM faranno ricorso, volendo ottenere almeno tre anni e mezzo).
Come abbiamo scritto in nostri precedenti articoli, non pensiamo che Ilaria subirà un processo giusto. Questo non solo perché le violenze dell’estrema destra in Ungheria sono solitamente impunite (mentre Ilaria viene trattata come una specie di terrorista), ma anche perché in quattordici anni di regno Orbán ha attaccato sempre più pesantemente l’indipendenza dei giudici. Molti giudici non allineati sono andati in pensione o sono stati indotti a dimettersi, e sono stati sostituiti da ragazzini e ragazzine freschi di laurea, ideologicamente fedelissimi a Orbán e al suo regime. Qualche giudice indipendente resta ancora, ma non sappiamo per quanto, né sappiamo come si evolverà la situazione.
Per quanto riguarda Ilaria nello specifico, sembra che l’interprete che ha ricevuto faccia fatica e che non sia molto professionale. Il suo avvocato difensore fa notare che essa non ha ricevuto le traduzioni degli atti che la riguardano, né ha potuto visionare i video che la “incastrerebbero”. Critica il modo in cui si sono svolte le indagini, insiste che bisognerà analizzare più approfonditamente la perizia medica sui feriti e l’esame antropometrico di Ilaria. Attenzione, quest’ultimo esame non è di secondaria importanza dato che, ripetiamo, il volto di Ilaria non si vede nel video che la incolperebbe. L’esame dovrebbe essere pertanto una pesante prova a suo carico. Eppure, fa notare l’avvocato, nel testo della perizia si ripetono spesso espressioni come «probabilmente», «molto probabilmente», «non è escluso possa trattarsi di altra persona», che sono ben lontane dall’indicare una chiara colpevolezza. Sia il medico che ha stilato la perizia sia l’esperto antropometrico saranno chiamati a testimoniare.
Ma al di là della cronaca spiccia della prima giornata di processo, quali considerazioni politiche fare sul caso che ormai da tempo occupa i media italiani? Perché non c’è dubbio che si tratti di una questione politica: come si è detto, è improbabile che Ilaria sia sottoposta a un processo giusto e imparziale, visto anche che i neonazisti ungheresi possono solitamente commettere le loro violenze impunemente. Il padre di Ilaria e il Comitato nato per liberarla, del quale fa parte anche Ilaria Cucchi, insistono su una battaglia legalista e di principio: inammissibile trattare così una persona sottoposta a mera custodia cautelare, e che per di più potrebbe usufruire degli arresti domiciliari nel proprio paese, come consentito da precise norme europee. Benché non possiamo che inchinarci di fronte a queste considerazioni di principio, come partito ci sentiamo di poter andare oltre.
Noi non siamo anarchici, ma conosciamo l’impegno di Ilaria nel milanese. La consideriamo una compagna coraggiosa che ha resistito per quasi un anno a condizioni detentive che avrebbero spezzato ben altre persone. Il pacifismo e la nonviolenza astratti non hanno alcun senso se riportati sul terreno dei fatti concreti i quali, lo ripetiamo, mostrano che Ilaria rischia per un’accusa di lesioni lievi fino a 24 anni di carcere mentre violenze ben più gravi, frequenti e sistematiche restano impunite. Pertanto, come partito ribadiamo la nostra solidarietà a Ilaria e continueremo a seguire il processo, convinti che si tratti di una questione politica e non di mera amministrazione.
“Atto d'incolpazione d'addebito disciplinare”: questo il reato di cui dovranno rispondere 548 studenti del liceo Virgilio di Roma per l'occupazione della propria scuola. Il tribunale sarà il Consiglio d'Istituto. Rischiano dai 5 ai 15 giorni di sospensione, quindi la bocciatura. L'iniziativa disciplinare è stata intrapresa dalla preside, ma con le spalle coperte dal ministero leghista dell'Istruzione. Lo stesso ministro che in questi giorni ha ispirato in alcune regioni (Lazio) precise circolari rivolte agli insegnanti perché impedissero nel Giorno della Memoria iniziative pro Palestina.
La repressione al Virgilio non è un fatto isolato, segue misure analoghe assunte contro l'occupazione del liceo Tasso, in questo caso comminate dai consigli di classe. Ma certo al Virgilio l'iniziativa ha assunto contorni abnormi. Gli studenti compaiono con nome e cognome nella lista degli accusati; si distinguono due elenchi, quello degli occupanti “recidivi” (che cioè occuparono già l'anno scorso) e quello degli occupanti neofiti; si raccoglie l'elenco separato degli organizzatori e dei portavoce dell'occupazione (per lo più rappresentanti degli studenti nel consiglio di istituto) che «non solo hanno partecipato a tale occupazione ma ne hanno rivendicato le istanze in rappresentanza della totalità degli occupanti»; si dispongono misure e pene differenziate (disciplinari ed economiche) in base alla gerarchia delle responsabilità. Gli occupanti avrebbero violato «il patto educativo di corresponsabilità» approvato nel 2023, non avrebbero mantenuto «un comportamento corretto nell'agire e nel parlare». In altri termini, si sono immischiati in questioni politiche che non li riguardano, per esempio occupandosi di Palestina.
La linea disciplinare del ministro leghista sta facendo scuola. Letteralmente. Incoraggia ovunque la parte più reazionaria dei dirigenti scolastici nel promuovere la politica “legge e ordine” nelle scuole. Non senza la pressione, come nel caso di Roma, degli ambienti sionisti del territorio.
Sono cose che accadevano in Italia nel 1967 e 1968 contro le prime iniziative della contestazione studentesca. Non hanno portato fortuna alla reazione.
Agli studenti del Virgilio come del Tasso va la piena e incondizionata solidarietà del Partito Comunista dei Lavoratori.
«Una missione navale per salvare il commercio. Previsto l'uso della forza.» Così il Corriere della Sera (22 gennaio) presenta e magnifica l'annunciata spedizione militare nel Mar Rosso, Aspides, da parte di Italia, Francia, Germania.
I relativi ministri degli Esteri si preoccupano di sottolineare “il carattere difensivo” della missione, distinguendola dall'operazione Prosperity Guardian promossa da USA e Gran Bretagna. In realtà, quali che siano le regole di ingaggio, si tratta di un intervento militare in zona di guerra a difesa dello stato sionista. La minaccia e gli attacchi degli houthi riguardano le navi dirette in Israele o in commercio con Israele. Ogni missione militare anti-houthi è a difesa dello stato d'Israele e della sua guerra di sterminio contro il popolo palestinese.
USA e Gran Bretagna hanno attaccato lo Yemen con ripetuti bombardamenti, con oltre cento morti. Italia, Francia, Germania inviano proprie navi da guerra (almeno tre cacciatorpediniere o fregate) per segnare la propria presenza deterrente. L'obiettivo è anche quello di non lasciare a USA e Gran Bretagna il monopolio di gestione della partita medio-orientale.
Ogni imperialismo vuole prenotare il proprio ruolo in partita. La “libertà dei mari e del commercio” è la comune bandiera propagandistica. Ma la prima libertà che viene tutelata è quella di Israele di massacrare i palestinesi.
La missione ha il patrocinio dell'Unione Europea. L'articolo 44 del Trattato dell'Unione prevede che il Consiglio Europeo possa affidare la realizzazione di una missione militare «a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie» per tale missione, in coordinamento con l'Alto rappresentante UE. Francia e Italia sono già presenti nella regione del Mar Rosso e del Canale di Suez con propri bastimenti militari, ufficialmente svincolati dalla presenza americana. La Germania si aggiunge di buon grado nel segno del suo nuovo protagonismo militare e filosionista. Gli ambasciatori dei paesi UE, presenti alla riunione del Comitato politico e di sicurezza del 16 gennaio scorso, hanno anticipato l'appoggio corale alla missione. La Spagna ha dichiarato che non partecipa ma non si oppone: il governo Sanchez-Podemos non vuole intralciare l'azione di guerra, cercando solo di salvare la faccia.
L'Italia si candida a paese guida dell'operazione. Il ministro degli Esteri Tajani ha spiegato che «Aspides non è solo una missione di polizia internazionale, è un importantissimo segnale politico della UE: siamo sulla direzione della difesa comune europea, che è il vero tassello necessario per la politica estera comune».
Tutta la retorica un tanto al chilo su una Europa autonoma dagli Stati Uniti, naturalmente nel nome della pace, si scontra con una realtà ben diversa: ogni passo autonomo degli imperialismi europei richiama lo sviluppo del loro militarismo. Separato o congiunto.
Il governo italiano, a differenza di quello tedesco, olandese, danese, non ha firmato il documento di appoggio agli attacchi di USA e Regno Unito. Vuole minimizzare il rischio di ritorsioni. Punta a coinvolgere nella missione europea i regni del Golfo e i paesi costieri africani più interessati (Gibuti, Eritrea, Egitto), sia per avere la più ampia copertura, sia in funzione della logica generale del cosiddetto Piano Mattei, che candida l'Italia al ruolo di pivot in Africa e Medio Oriente.
È significativo che le opposizioni liberali (PD, Azione, M5S) coprano e sostengano la missione militare italiana ed europea, con la benedizione del Quirinale. Il quotidiano liberalsionista La Repubblica invoca pubblicamente «la più ampia convergenza in Parlamento» (23 gennaio). È l'unità nazionale tricolore. Il governo a guida postfascista ha le spalle coperte quando si tratta dell'interesse superiore dell'imperialismo italiano (e del sionismo).
È una ragione in più perché tutte le sinistre politiche, sindacali, associative, di movimento, si mobilitino unitariamente contro la missione militare imperialista, facendo dell'opposizione alla missione una parte integrante della difesa del popolo palestinese e della sua resistenza. È questa la proposta del Partito Comunista dei Lavoratori.
Il 14 gennaio almeno sedici persone sono state ricoverate in ospedale con ossa rotte e altre ferite a seguito di attacchi brutali da parte della polizia con manganelli e spray al peperoncino, secondo quanto riportato dalle squadre di soccorso medico presenti alla manifestazione. Un uomo di 65 anni è stato colpito in modo particolarmente duro, ed è stato lasciato a terra privo di sensi, sanguinante dalla bocca e dal naso.
Il motivo – o più precisamente il pretesto – per il dispiegamento di diverse centinaia di agenti di polizia è stato la solidarietà con la Palestina espressa della manifestazione. Secondo i rapporti della polizia, un oratore e un partecipante avrebbero gridato lo slogan vietato "Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera". Di conseguenza, diverse persone sono state arrestate.
Nel momento in cui i manifestanti in testa nel corteo e interi isolati sono tornati indietro per mostrare solidarietà, la polizia si è davvero scatenata. Sicuramente i vertici della polizia, le cui forze non sono nuovo a questo genere di attacchi provocatori, si giustificheranno dicendo che anche in questo caso il loro operato è stata "proporzionato" e che i poliziotti sono in realtà le vittime e non gli autori della violenza.
Naturalmente, il Parlamento sarà anche disposto a discutere della provocazione, dell'attacco al diritto di manifestare, ma con un esito prevedibile: la colpa è dei manifestanti. In fondo, la solidarietà con la Palestina, sempre attaccata pubblicamente, è stata criminalizzata da governi e amministratori per mesi. Anche per la "società civile", cioè per l'opinione pubblica borghese, ce n'è abbastanza. Così la polizia sta facendo rispettare l'ordine di marcia, e ovviamente non solo nella manifestazione del 14 gennaio.
Mentre la solidarietà antimperialista viene criminalizzata e colpita, decine di migliaia di persone sono preoccupate per lo stato della democrazia tedesca dopo le ultime rivelazioni sui piani di deportazione razzista dei rappresentanti dell'AfD, del Movimento Identitario e della WerteUnion in una riunione "privata" a Potsdam. Non c'è dubbio che la preoccupazione e la paura per l'istituzione di un regime di deportazione ed espulsione razzista di massa siano giustificate. L'AfD e vari gruppi fascisti costituiscono la punta di diamante di una politica che incoraggia le continue richieste di politiche migratorie e dei rifugiati sempre più rigide e la prevista abolizione de facto del diritto di asilo da parte dell'UE. Lo spostamento a destra è alimentato anche dalla denigrazione della solidarietà palestinese, dei palestinesi, degli arabi e dei musulmani, definiti antidemocratici e antisemiti, nonché dal parallelismo tra antisemitismo e antirazzismo. Chi non combatte il razzismo antimusulmano in costante aumento e la criminalizzazione e diffamazione della solidarietà palestinese, alla fine non sarà in grado di fermare lo spostamento a destra.
La manifestazione in ricordo di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht è stata assolutamente pacifica. Non si è lasciata intimidire, ma i suoi partecipanti si sono opposti alla violenza della polizia.
English translation
La costante oppressione, l'espulsione e le uccisioni dei palestinesi in Israele, Cisgiordania e Gaza hanno nuovamente attirato l'attenzione del mondo attraverso il contrattacco condotto da Hamas e da altri combattenti della resistenza il 7 ottobre e la brutale risposta di Israele – superiore ai suoi precedenti attacchi – contro l'intera popolazione di Gaza. Tutto ciò ha indignato e mobilitato milioni di persone in tutto il mondo contro lo Stato sionista e il supporto incondizionato che riceve dai suoi sostenitori imperialisti e razzisti.
È dovere urgente di tutti i rivoluzionari dare il massimo sostegno a questo movimento mondiale, presentando al contempo una chiara prospettiva rivoluzionaria anticapitalista per il suo sviluppo. A tal fine, presentiamo la seguente dichiarazione e invitiamo tutti coloro che condividono la nostra visione della situazione a unirsi a noi in questo sforzo.
SIONISMO E IMPERIALISMO
Il sionismo è stato un progetto coloniale fin dalla sua nascita. Il suo obiettivo è quello di espellere la popolazione araba autoctona della Palestina per fare spazio ai coloni ebrei. Una colonia sionista in Palestina sembrava lontana fino a quando l'Olocausto non uccise sei milioni di ebrei europei e lasciò molti degli altri tre milioni alla disperata ricerca di un rifugio. L'antisemitismo impedì alla maggior parte degli ebrei di emigrare negli Stati Uniti e in Europa occidentale. Le organizzazioni sioniste portarono molti di essi in Palestina.
In una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo, un popolo terribilmente oppresso, gli ebrei europei, inflisse una terribile oppressione a un altro popolo oppresso, gli arabi palestinesi. Con la Nakba del 1948, i sionisti si impadronirono del 78% della Palestina mandataria e la dichiararono Israele. Le milizie sioniste e l'esercito israeliano espulsero 750.000 palestinesi, e molte altre migliaia fuggirono. La Nakba ridusse la popolazione araba nel territorio rivendicato da Israele da 1.324.000 nel 1947 a 156.000 nel 1948.
Gli imperialismi statunitense ed europeo, alleati di Israele, hanno due interessi primari in Medio Oriente: la sua posizione strategica all'incrocio tra Asia, Europa e Africa e il suo petrolio e gas. Per più di un secolo hanno cercato di dominare la regione attraverso una combinazione di violenza e di contrapposizione tra settori della popolazione locale.
Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, gli Stati Uniti hanno soppiantato la Gran Bretagna e la Francia come potenza imperialista dominante nella regione e sono diventati junior partner. Questo trio ha sponsorizzato monarchi e dittature militari dal Marocco all'Iran e ha trovato il modo di incorporare governi nazionalisti, come quelli di Algeria, Egitto, Siria e Iraq, nel proprio ordine mondiale neocoloniale.
Israele si è dimostrato molto utile nella creazione dell'ordine imperiale neocoloniale, soprattutto dopo aver sconfitto Egitto, Siria e Giordania nella Guerra arabo-israeliana del 1967. Gli Stati Uniti hanno inviato miliardi di dollari in aiuti e armi per costruire Israele come gendarme al centro del mondo arabo. Israele ha anche una funzione politica, in quanto permette agli Stati Uniti di mascherare le proprie operazioni militari, e in quanto aiuta i governi arabi reazionari e compradori a distogliere l'attenzione dal proprio malgoverno a favore di un nemico esterno, Israele.
INTIFADA
Nella Guerra del 1967 Israele conquistò Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan, completando l'occupazione della Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Occupò anche la penisola egiziana del Sinai. Nella guerra del 1973, l'Egitto e la Siria combatterono Israele fino a un punto di stallo. L'Egitto riconquistò il Sinai e, nel 1979, riconobbe Israele.
Da allora è emerso uno schema: Israele, sostenuto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei, occupa la Palestina; gli Stati arabi protestano ma non fanno nulla; i palestinesi si sollevano periodicamente per opporsi alla loro emarginazione.
La Prima intifada del 1987-1993 ha portato agli Accordi di Oslo, che hanno creato l'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per amministrare la Cisgiordania e Gaza. Gli accordi implicavano una soluzione a due Stati per il conflitto arabo-israeliano in Palestina, ma Israele non ha mai accettato tale soluzione, né una partizione sopportabile per i palestinesi.
La Seconda intifada del 2000-2005 ha costretto Israele a "disimpegnarsi" da Gaza, ritirando le truppe e smantellando gli insediamenti israeliani. Fatah, con sede in Cisgiordania, e Hamas, con sede a Gaza, si sono sfidati alle elezioni legislative palestinesi del 2006. Hamas ha ottenuto la maggioranza, il che ha portato Fatah a dividere l'ANP. Dopo una breve guerra civile, Fatah ha consolidato la sua posizione in Cisgiordania e Hamas ha preso il controllo di Gaza.
L'ESPANSIONE ISRAELIANA
Israele opprime i palestinesi in tutti e tre le zone della sua occupazione di apartheid: Cisgiordania, Gaza e Israele stesso.
Dal 2007 Israele si è ulteriormente espanso in Cisgiordania e sulle alture del Golan. 450.000 coloni israeliani si sono trasferiti in Cisgiordania, 220.000 a Gerusalemme Est e 25.000 sulle alture del Golan. I coloni sono una forza paramilitare armata. Sostenuti dall'esercito israeliano e dalla polizia dell'Autorità Nazionale Palestinese, essi terrorizzano i loro vicini palestinesi e rubano le loro terre.
Israele non ha coloni a Gaza, ma controlla lo spazio aereo del territorio, le sue coste e sei dei suoi sette valichi terrestri. Israele controlla l'approvvigionamento idrico, l'elettricità e le telecomunicazioni di Gaza. L'esercito israeliano mantiene una no-go zone all'interno di Gaza ed entra nel territorio a piacimento. Israele ha dichiarato guerra a Gaza nel 2008-2009 e nel 2014, e ha attaccato i manifestanti non violenti durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018-2019.
Israele sostiene di essere una democrazia, ma nega i diritti democratici non solo ai 5,5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza, e a un numero simile di rifugiati fuori dalla Palestina, ma anche ai 2,1 milioni di palestinesi che vivono in Israele. Un ebreo che vive in qualsiasi parte del mondo può trasferirsi in Israele e diventare cittadino a tutti gli effetti. Un palestinese la cui famiglia vive in Palestina da molto prima che Israele esistesse non potrà mai diventare cittadino a tutti gli effetti. I palestinesi sono sistematicamente discriminati, esclusi economicamente, e politicamente e trattati come nemici.
7 OTTOBRE
Fin dagli accordi di Camp David del 1978, gli Stati Uniti hanno cercato di convincere i governi degli Stati arabi a normalizzare le relazioni con Israele, nonostante il trattamento riservato ai palestinesi e l'odio che questo trattamento suscita nel popolo arabo. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno mediato accordi che hanno normalizzato le relazioni di Israele con Bahrein, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti. L'Arabia Saudita ha avviato colloqui nella stessa direzione.
L'attacco del 7 ottobre ha fatto saltare i piani israeliani e imperialisti. Dopo un anno di attenta pianificazione, ignorata dalle forze di sicurezza israeliane, i combattenti palestinesi guidati da Hamas hanno superato le difese di confine di Israele e hanno colpito decine di obiettivi militari, oltre ad alcuni civili. Hanno preso centinaia di ostaggi prima di essere costretti a tornare oltre il confine.
Il maltrattamento, la tortura e l'uccisione di civili disarmati, non in età militare, devono essere condannati senza equivoci, anche se riconosciamo che si è trattato, in parte, di un'espressione della rabbia dei palestinesi per i massacri e l'espropriazione del loro popolo da parte di Israele. Ha fatto il gioco della macchina propagandistica sionista che ha disumanizzato i palestinesi e "giustificato" i propri crimini di guerra, di portata maggiore rispetto a quelli di Hamas o delle altre forze di resistenza palestinesi. Ma la maggior parte dell'operazione, compresa la presa di ostaggi, era militarmente legittima.
L'attacco ha interrotto il processo di "normalizzazione" delle relazioni di Israele con gli Stati arabi e musulmani sponsorizzato dagli Stati Uniti, ha mostrato la guerra coloniale latente di Israele contro il popolo palestinese e ha riportato la Palestina all'ordine del giorno nel mondo.
Nelle settimane successive, Israele ha lanciato una guerra genocida contro Gaza. L'esercito israeliano ha bombardato case, ospedali, scuole e centri comunitari, causando un numero di vittime di gran lunga superiore a quello del raid del 7 ottobre. La metà delle vittime sono bambini, una percentuale molto più alta di quella del raid del 7 ottobre. L'esercito israeliano ha accettato un breve cessate il fuoco per lo scambio di prigionieri e ora ha ripreso il suo attacco genocida, spingendo i 2,3 milioni di abitanti in un angolo sempre più piccolo della Striscia di Gaza e minacciando una nuova Nakba.
SOLIDARIETÀ
L'audacia della resistenza palestinese e la ferocia del contrattacco israeliano hanno rilanciato il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo. Enormi manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo arabo, ma anche in Europa, negli Stati Uniti e altrove. Il movimento di solidarietà era stato assopito dal lento strangolamento della Palestina e dalla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e altri quattro Stati arabi. Il 7 ottobre ha riportato in vita il movimento.
I marxisti rivoluzionari devono partecipare a tutte le azioni di solidarietà. Il cessate il fuoco a Gaza e il ritiro delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), per fermare il genocidio, è la priorità più urgente, ma il movimento di solidarietà deve anche rivendicare aiuti umanitari per Gaza, lo stop all'avanzata dei coloni israeliani in Cisgiordania, la protezione dei diritti degli arabi israeliani e degli ebrei antisionisti in Israele, il diritto al ritorno dei rifugiati e l'interruzione dei legami militari con Israele.
Le azioni in corso comprendono già manifestazioni, disobbedienza civile, eventi pubblici, campagne mediatiche e di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele. Sindacati e altre organizzazioni stanno adottando risoluzioni che chiedono il cessate il fuoco e il taglio degli aiuti militari. In alcuni luoghi, i lavoratori stanno rispondendo all'appello della Federazione Generale Palestinese dei Sindacati (PGFTU) di interrompere la produzione e la spedizione di armi a Israele.
PROSPETTIVA
Sebbene i marxisti rivoluzionari debbano partecipare ad azioni di solidarietà ovunque sia possibile, il nostro ruolo particolare è quello di promuovere nella classe lavoratrice la comprensione della crisi e delle soluzioni.
Questo compito inizia con il dire la verità. Un cessate il fuoco a Gaza è necessario ma non sufficiente, poiché i sionisti continueranno la loro campagna per cacciare i non ebrei dalla Palestina. Un accordo negoziato è impossibile, poiché Israele non cederà abbastanza terra per uno Stato palestinese che sia accettabile e non rinuncerà alla supremazia ebraica per lasciare spazio a una democrazia laica in uno Stato binazionale. Gli imperialismi statunitense ed europeo non costringeranno Israele ad accettare la soluzione dei due Stai, o di uno Stato, poiché hanno bisogno che Israele li aiuti a dominare la regione.
Il capitalismo non ha una soluzione per la Palestina. Le alternative sono o il massacro e l'espropriazione dei palestinesi o l'intervento della classe operaia nella storia.
I lavoratori in Israele potrebbero fermare la società israeliana, dividere l'esercito e impedire ai sionisti di usare le loro armi nucleari. Ma per ora, la grande maggioranza della classe operaia israeliana è fedele al sionismo, e considerano lo sfruttamento in un regime di supremazia ebraica come migliore dello sfruttamento in un regime di assenza di supremazia ebraica. È una vecchia storia negli Stati coloniali. Solo la prospettiva di una Palestina democratica, laica e socialista potrebbe dare loro un motivo per rompere con i loro padroni.
I lavoratori negli Stati Uniti e in Europa potrebbero privare Israele del sostegno economico e militare di cui ha bisogno per perseguire le sue politiche genocide. La simpatia per i palestinesi sta crescendo, perché resistono e soffrono. Potrebbe raggiungere il livello dell'opposizione alla guerra del Vietnam alla fine degli anni Sessanta, che rese impossibile il proseguimento della guerra. I marxisti rivoluzionari e gli altri individui impegnati nel movimento di solidarietà palestinese - tra cui decine di migliaia di ebrei antisionisti e decine di migliaia di sindacalisti - dovrebbero fare tutto il possibile perché ciò accada.
I lavoratori dei Paesi arabi potrebbero rovesciare i loro governi collaborazionisti, costringere gli imperialisti statunitensi ed europei ad abbandonare Israele e offrire alla classe operaia israeliana la prospettiva di un futuro laico e democratico libero dal dominio capitalista e dalla guerra infinita. La Primavera araba ne ha mostrato il potenziale.
Non possiamo sapere come finirà l'ingiustizia del dominio sionista sulla Palestina, e nemmeno se finirà prima che il capitalismo faccia precipitare il mondo in un disastro ecologico o in una guerra nucleare. Quello che possiamo fare è proporre un programma d'azione per cui lottare, che parta da richieste immediate e culmini nell'unica soluzione reale: la rivoluzione dei lavoratori in tutta la regione. Questo è il nostro progetto.
Porre fine all'assalto genocida a Gaza. Cessate il fuoco immediato. Ritiro delle truppe israeliane. Porre fine all'assedio. Aprire i valichi.
Ricostruire le case, gli ospedali, le scuole, le università e le infrastrutture devastate di Gaza a spese di Israele e dei suoi finanziatori imperialisti.
Porre fine all'occupazione sionista della Cisgiordania. Ritirare l'esercito israeliano. Espulsione dei coloni.
Liberare tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Piena uguaglianza per i palestinesi nello Stato israeliano.
Porre fine agli aiuti e alle spedizioni di armi degli Stati Uniti e di altri imperialisti a Israele. Sostenere il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele.
Solidarietà con il popolo palestinese e arabo. Nessuna pace con il sionismo e l'imperialismo.
Per la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista. Per una Palestina laica, democratica e socialista dal fiume al mare.
Per il diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi. Pari diritti per la maggioranza araba e la minoranza ebraica della Palestina.
Abbasso i capitalisti, i proprietari terrieri, le monarchie e gli Stati arabi, agenti dell'imperialismo. Per l'unità rivoluzionaria del popolo arabo.
Per la rivoluzione proletaria in Medio Oriente e Nord Africa. Per una federazione socialista della regione.
Il governo Milei all'attacco frontale. È l'ora dello sciopero generale
Privatizzazione di tutte le aziende statali, aumento delle tasse sul lavoro e abbassamento delle aliquote per i grandi capitali, abbattimento delle tutele sul lavoro, blocco totale dei rinnovi contrattuali nel settore pubblico, taglio immediato di 30000 posti di lavoro nella pubblica amministrazione, arresto in flagranza per blocco stradale e sanzioni durissime per chi li promuove... Il nuovo governo argentino di Javier Milei ha scelto la via dell'attacco frontale immediato al movimento operaio argentino.
Il calcolo è semplice nella sua brutalità: sfruttare l'onda del proprio successo elettorale prima che rifluisca, puntare all'effetto stordimento dell'avversario di classe, imporre da subito il cambio dei rapporti di forza attraverso una terapia d'urto.
La dirompenza dell'attacco ha tuttavia suscitato un sentimento di indignazione tra i salariati. Il gradimento del governo in soli dieci giorni è passato dal 60,8% al 54%. Un livello ancora molto alto ma in caduta.
La sinistra rivoluzionaria, con un ruolo centrale del Polo Obrero, ha promosso una grande manifestazione a Buenos Aires già il 20 dicembre, poche ore dopo il “decretazo”, chiedendo la mobilitazione generale. Le burocrazie sindacali, spiazzate dall'attacco ma desiderose di diluire lo scontro, cercano di dirottare la risposta sociale sul terreno della contestazione legale dei provvedimenti governativi, con presidi sotto i palazzi di giustizia (26 dicembre), senza alcun serio piano di mobilitazione di massa. Ma Milei ha già risposto che se i provvedimenti presi venissero intralciati per via giudiziaria, andrebbe avanti lo stesso. In realtà solo una mobilitazione di massa, radicale e prolungata, può contrastare l'azione del governo.
La parola d'ordine dello sciopero generale sale dai settori più combattivi del movimento operaio. “Paro, paro, paro general” ha echeggiato persino nei presidi convocati dai sindacati. Le formazioni trotskiste (Frente de Izquierda) propongono con forza il fronte unico d'azione contro il governo e i suoi decreti, rivolgendosi all'insieme delle forze del movimento operaio e popolare, e innanzitutto alla base operaia del peronismo.
La posta in gioco è chiara: o il governo incontra una risposta tanto radicale quanto il suo piano d'attacco, o la classe operaia argentina rischia una retrocessione profonda dei propri diritti e conquiste.
Il trotskismo argentino, forte del proprio ruolo e radicamento nell'avanguardia larga della classe operaia e dei movimenti sociali, è al suo posto di combattimento nella lotta. Che è anche la lotta per una direzione alternativa del movimento operaio.
Il Partito comunista dei Lavoratori esprime la propria solidarietà e il proprio sostegno all'azione della sinistra rivoluzionaria argentina, tanto più in questo momento cruciale per i lavoratori e le lavoratrici.