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Il Primo maggio e la grande crisi: diretta streaming

Venerdì 1° maggio, ore 17:30, assemblea in diretta streaming sulla pagina Facebook del PCL

Questo 1° maggio ha come sfondo uno scenario internazionale inedito, che intreccia la pandemia con una nuova grande recessione. Una recessione che trascina con sé una nuova offensiva capitalistica contro le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
In Italia la crisi conosce una particolare intensità, sia per la particolare intensità del contagio, sia per le condizioni preesistenti di una crisi capitalistica irrisolta dopo la grande depressione del 2008/2012.

Dopo aver affrontato domenica 19 aprile, con una nostra iniziativa nazionale, il tema dell'emergenza sanitaria e delle responsabilità criminali del capitalismo nel suo innesco, nella sua propagazione, nei suoi tassi di mortalità, affrontiamo ora il risvolto sociale e politico della nuova grande crisi in Italia, e dunque i temi e i terreni di una risposta di classe e di massa del movimento operaio. Contro ogni forma di “unità nazionale”, politica e sindacale.


VENERDÌ 1° MAGGIO - ORE 17.30
Diretta streaming sulla pagina Facebook del Partito Comunista dei Lavoratori


Introduce Federico Bacchiocchi, segreteria nazionale PCL

con:

Lorenzo Mortara, operaio YKK
Elena Felicetti, coord. precari della scuola
Cristian Briozzo, ex lavoratore Poste
Donatella Ascoli, commissione donne PCL
Luigi Sorge, operaio FCA

Conclusioni di Marco Ferrando, portavoce nazionale PCL



Non mancare!
Partito Comunista dei Lavoratori

Il PCL sostiene le mobilitazioni promosse dal SI Cobas e da ADL Cobas il 30 aprile e 1 maggio

21Il governo, spinto da Confindustria e le altre associazioni padronali, vuole avviare la "fase due". I dati giornalieri dell'epidemia da coronavirus attestano, però, ancora alti tassi di contagio e purtroppo numerosi decessi. Non vi sono le condizioni di sicurezza per riaprire tutte le attività produttive. Inoltre mancano i presidi sanitari più elementari, a partire dalle mascherine, e non si può testare la popolazione per mancanza di tamponi, laboratori attrezzati e reagenti.
Al padronato questo non interessa. Chiede a gran forza la ripresa dei propri profitti a costo di sacrificare la sicurezza di milioni di lavoratori, dei loro familiari e di tutti a causa del rischio di propagazione del contagio.

Il PCL ha già denunciato le responsabilità criminali di Confindustria e consociate, che con la complicità di governo e istituzioni locali non hanno preso le misure necessarie alla protezione della popolazione, come si è visto in Lombardia, dove la malattia ha provocato migliaia di vittime.
Non si può adesso affidare il controllo della sicurezza sul lavoro, compresi gli spostamenti, alle stesse autorità che hanno provocato il disastro, come vogliono i protocolli di cartapesta firmati da governo, Confindustria e burocrazia di CGIL, CISL e UIL.
Il controllo deve essere delle lavoratrici e dei lavoratori, mediante le proprie organizzazioni.

Il PCL è da sempre impegnato nella costruzione di un fronte unico politico e sindacale che si basi sugli interessi della classe lavoratrice e la sua indipendenza dalle politiche e dagli interessi di padronato, banche e governo. Tanto più oggi, quando la crisi sanitaria a cui hanno contribuito decenni di tagli alla sanità pubblica ha già provocato una profonda crisi economica che sta sfociando in una durissima crisi sociale con milioni di disoccupati e l'impoverimento della maggioranza della popolazione.
Pertanto il PCL sostiene tutte le iniziative politiche e sindacali che si muovano nella stessa direzione, come le iniziative di mobilitazione, fino eventualmente allo sciopero, promosse dal SI Cobas e da ADL Cobas nelle giornate del 30 aprile e 1 maggio. Valuta positivamente le indicazioni rivendicative alla base della mobilitazione, e ritiene che esse possano incontrarsi con le rivendicazioni avanzate dal nostro partito:

- Controllo indipendente dei lavoratori sulle condizioni di lavoro
- Blocco dei licenziamenti, compresi i precari
- Salario al 100% per le lavoratrici e i lavoratori in cassa integrazione
- Indennità di quarantena per tutti coloro che si ritrovano senza lavoro e senza reddito
- Riduzione generale dell'orario di lavoro a parità di salario
- Rilancio e nuovi investimenti massicci nella sanità pubblica. Nazionalizzazione della sanità privata e dell'industria farmaceutica senza indennizzo per i grandi azionisti
- Imposizione immediata di una tassazione patrimoniale straordinaria: il 10% del patrimonio del 10% più ricco della popolazione

La sicurezza sia in mano alle lavoratrici e ai lavoratori. La crisi la paghino i padroni che l'hanno provocata.
Non più governi complici di banchieri e capitalisti!
Per il governo dei lavoratori!
Partito Comunista dei Lavoratori

I passi paralleli di Fed e BCE a tutela di 76 grandi gruppi capitalisti

Le banche centrali accettano “titoli spazzatura” per salvare grandi azionisti dalla bancarotta

28 Aprile 2020
Chi a sinistra ha invocato una BCE simile alla Fed è stato accontentato. Ma anche così i soldi finiscono comunque nelle tasche dei capitalisti
L'emergenza del coronavirus ha spinto l'Unione Europea a cambiare orientamento sui cosiddetti aiuti di Stato a gruppi capitalistici privati.
In realtà gli aiuti di Stato al capitalismo, diretti o indiretti, non hanno mai cessato di operare, perché sono fisiologici nella società borghese. Ed anzi dopo la crisi del 2008 hanno conosciuto una netta espansione. È vero tuttavia che la liberalizzazione interna del mercato europeo all'insegna della libera concorrenza aveva comportato una sorta di vigilanza reciproca: ogni stato imperialista teneva d'occhio gli stati concorrenti della fraterna Unione per evitare colpi bassi. Mentre i processi continentali di privatizzazione nel campo dei servizi, dei trasporti, della stessa industria allargavano a vantaggio di tutti le basi materiali dell'accumulazione capitalista.

Ora si cambia registro. Il collasso della nuova grande crisi innescata dalla pandemia è di tali proporzioni ed estensione da indurre i governi imperialisti della UE, e dunque la loro Commissione Europea, a benedire gli “aiuti di Stato”. Il vecchio credo liberista si è trasformato nel nuovo verbo statalista. La stessa ipocrisia ha solo cambiato vocabolario. Le sinistre riformiste ideologicamente neokeynesiane – che in realtà hanno capito ben poco del keynesismo reale, rimpiazzandolo con quello immaginario – salutano la svolta come progressiva, vedendovi i prodromi di un New Deal continentale nel segno della green economy e delle protezioni sociali. Purtroppo la realtà non è mai generosa con i riformisti.

Giovedì 22 aprile, nel nome della liberalizzazione degli aiuti di Stato, la Commissione UE si è avviata a concedere agli Stati membri il permesso di fornire garanzie pubbliche anche al debito subordinato delle aziende. La stessa identica scelta compiuta dalla Fed il 23 marzo. Chi a sinistra ha invocato “una BCE simile alla Fed” ha dunque coronato il proprio sogno. Se non che gli aiuti permessi da Fed e BCE ai relativi Stati di riferimento non sono esattamente un'operazione misericordiosa. Si tratta del soccorso pubblico al debito privato, e dunque ai profitti, di 76 grandi compagnie capitaliste messe in crisi dal crollo del prezzo del petrolio e dalla nuova recessione. Compagnie americane come la Ford e compagnie europee come Esselunga e Renault. Compagnie che sono state minacciate di declassamento dalle agenzie di rating per via dei loro debiti stratosferici (solo la Ford ha un debito di 113,8 miliardi di dollari) e della relativa difficoltà di rientro, e sono finite nella bassa classifica dei cosiddetti junk (titoli spazzatura).
La BCE, sulle orme della Fed, ha preferito giocare d'anticipo sul rischio declassamento offrendo alla compagnie europee l'ombrello protettivo delle garanzie di Stato. Lo Stato nazionale copre con risorse pubbliche i titoli spazzatura delle aziende private, la BCE a sua volta copre le spalle allo Stato con la propria garanzia. Così grandi azionisti vengono salvati dalla bancarotta coi soldi di tutti, quelli presi da trent'anni di tagli sociali e compressione dei salari.

Come volevasi dimostrare. Il problema non è il liberismo ma il capitalismo, come il nostro partito ha sempre sostenuto. L'alternativa non è “più Stato e meno mercato” come dicono i riformisti di tutte le salse, ma un altro Stato e un'altra società. Dove a comandare sia chi produce la ricchezza, non i parassiti che la intascano.
Partito Comunista dei Lavoratori

Ci ha lasciato Giulietto Chiesa

28 aprile 2020 - Ci ha lasciato Giulietto Chiesa. Non siamo mai stati politicamente d’accordo con lui né quando sosteneva posizioni di tipo riformistico (prima nel vecchio PCI e in un secondo tempo, da indipendente, a fianco di Di Pietro) né ovviamente quando è passato a posizioni di tipo “campista” mescolate a un un’idea di inaccettabile complottismo.
Però due cose di lui vanno ricordate. Innanzitutto è stato un grande giornalista, che ha perfettamente raccontato la fine dell’URSS: i suoi articoli, negli anni Ottanta e Novanta, sono stati illuminanti nel descrivere prima la crisi e la disgregazione dell’Unione Sovietica e poi la nascita di un processo che ha portato al regime di Putin. Poi, non solo ha sempre avuto rapporti corretti con il nostro partito, ma è grazie alla sua firma di europarlamentare che, bypassando le vergognose leggi che impediscono a una piccola forza di candidarsi, siamo riusciti a essere presenti alle elezioni europee del 2009 (nelle quali non abbiamo potuto eleggere il compagno Marco Ferrando solo perché pochi mesi prima delle elezioni venne votata la nuova legge proposta da Veltroni che poneva lo sbarramento al 4%).
Con Chiesa e il suo piccolo gruppo ci siamo ritrovati poi, negli anni 2011-2012, nel fronte unico che ha dato vita al “movimento no debito”, sfociato in una grande manifestazione con decine di migliaia di lavoratori e giovani contro il governo Monti e la sua politica.
È per questo che vogliamo qui ricordare Giulietto Chiesa e salutarlo con dispiacere.
Partito Comunista dei Lavoratori

Nuovo protocollo, vecchia truffa

La nuova intesa tra governo, padroni, burocrazie sindacali

Non potendo portare la realtà al livello dell'esigenza umana, il protocollo adatta l'esigenza alla realtà. Quella del capitalismo, un'organizzazione della società che in Italia spende 30 miliardi annui in spese militari ma non può dare all'operaio nemmeno una mascherina

Il 24 aprile governo, padroni e burocrazie sindacali hanno stipulato un nuovo protocollo d'accordo per “la ripartenza”. Le direzioni sindacali lo hanno presentato come sviluppo del precedente protocollo d'intesa del 14 marzo. In realtà ne rappresenta in larga parte la ricopiatura. L'unica vera novità è il riferimento a non meglio precisati comitati territoriali che dovrebbero vigilare sul rispetto delle norme sanitarie nelle proprie zone. Per il resto nulla di nuovo. Una lunga serie di «possono...» quando si parla dei padroni, di «devono...» quando si parla dei lavoratori. I lavoratori «devono» (giustamente) restare a casa in caso di febbre superiore a 37,5 gradi e informare subito l'azienda se manifestano sintomi di influenza. L'azienda «potrà» disporre di misure protettive. La responsabilità della sicurezza è un obbligo per l'operaio, una facoltà per il suo padrone.

In realtà l'intera logica del protocollo è la “sicurezza” degli operai secondo le disponibilità dei padroni. Una modica quantità di salute compatibile con la legge del profitto, e con le sue miserie. Che questa sia il vero significato dell'intesa lo dimostra l'esempio banale delle mascherine, il dispositivo di protezione individuale elementare. Il protocollo riesce a dire tutto e il suo contrario sull'argomento. Dice che saranno le intese aziendali ad indicare i dispositivi di protezione individuale da adottare «sulla base del complesso dei rischi valutati». Dunque non esiste una prescrizione generale. Poi afferma che le mascherine dovranno essere garantite solo qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza minore di un metro. Ma anche che l'adozione «è evidentemente legata alla disponibilità in commercio» delle stesse. Ma se «evidentemente» in commercio non se ne trovano?
Di più. Si dice che qualora un lavoratore accusi sintomi da Covid-19 dovrà essere posto in isolamento e «dotato, ove già non lo fosse, di una mascherina chirurgica». “Ove già non lo fosse”: dunque l'accordo riconosce, incidentalmente, che l'adozione della mascherina non è dovuta. Insomma, la defatigante trattativa notturna per stipulare l'intesa, di cui ci parlano le cronache, è stata spesa per trovare l'equilibrio fra tutto e il suo opposto. Tra il sì, il no, il forse. Un equilibrio effettivamente non facile, ma nulla a che fare con la sicurezza dei lavoratori.

L'esempio banale delle mascherine demolisce alla radice l'intero castello di carta del protocollo. Se non c'è garanzia neppure del dispositivo di protezione più elementare, se anzi neppure il protocollo la richiede, di cosa stiamo parlando?
La verità è che il protocollo non richiede la mascherina perché nella realtà se ne trovano poche. Secondo il Politecnico di Torino occorrerebbero 35 milioni di mascherine al giorno per coprire la ripartenza. Secondo Il Sole 24 Ore addirittura 40. Ma le 87 aziende rapidamente convertitesi alla loro produzione (perché attratte da incentivi fiscali) ne sfornano al massimo 3 milioni (tre!) su scala giornaliera, mentre il commercio mondiale alza ovunque barriere nazionali protezioniste a difesa dei propri articoli sanitari. Dunque, per dirla con la parole del protocollo, non c'è una adeguata disponibilità di commercio delle mascherine. Per non parlare dei loro prezzi e delle immonde speculazioni in materia.
Non potendo portare la realtà al livello dell'esigenza umana, il protocollo adatta l'esigenza alla realtà. Quella del capitalismo. Quella di un'organizzazione della società che in Italia spende quasi 30 miliardi annui in commesse militari ma non riesce ad assicurare all'operaio neppure venti centimetri di stoffa per la sua protezione dal contagio.

Per non vedere questa enormità occorre essere ciechi. Per non provare scandalo di fronte ad essa occorre essere cinici. Da inguaribili rivoluzionari non siamo né l'uno né l'altro.
Partito Comunista dei Lavoratori

Gli USA negano a Cuba i ventilatori polmonari.

Solidarietà al popolo di Cuba

Non basta l'embargo storico che gli USA esercitano contro la Cuba postrivoluzionaria, con le sue conseguenze rilevanti di lungo corso sulle condizioni della popolazione cubana. Ora gli USA hanno negato l'esportazione a Cuba di ventilatori polmonari, strumento decisivo contro l'epidemia del coronavirus.
Di più. Hanno annunciato ritorsioni commerciali contro i paesi e le aziende che dovessero aiutare lo stato cubano.
A far questo è lo stesso imperialismo canaglia che in casa propria nega ai lavoratori americani un servizio sanitario pubblico, moltiplicando gli effetti mortali dell'epidemia, a partire dalla città di New York. Un imperialismo con un governo criminale che per un mese ha negato l'esistenza stessa della pandemia lasciando la popolazione povera indifesa, priva di protezioni, colpita non a caso principalmente negli uomini e donne di colore.

Non ci identifichiamo acriticamente nel regime burocratico che oggi esiste a Cuba. Ci battiamo perché i lavoratori e le lavoratrici cubani possano realmente governare il paese attraverso proprie strutture indipendenti di autorganizzazione democratica e di massa, come nell'URSS dei tempi di Lenin e di Trotsky. Ci battiamo per legare questa prospettiva rivoluzionaria a quella della rivoluzione socialista in tutta l'America Latina. Ma proprio per difendere questa prospettiva rivoluzionaria, difendiamo Cuba e la sua economia pianificata dai progetti di restaurazione capitalista, coltivati anche da settori di burocrazia oggi al potere. Una economia pianificata che ha garantito protezioni sociali e sanitarie oggi inesistenti non solo in Sud America ma in larga parte del mondo capitalista.
A maggior ragione difendiamo Cuba incondizionatamente dalle minacce e dalle aggressioni dell'imperialismo, a partire dall'imperialismo yankee.

Il fatto che la più grande potenza economica e tecnologica del mondo neghi oggi a Cuba i ventilatori polmonari dà la misura della miseria morale del capitalismo e dell'imperialismo. Non si tratta certo di una forma di attenzione privilegiata per la popolazione americana, abbandonata anzi alla pandemia nelle condizioni peggiori. Si tratta invece della stessa politica odiosa che l'imperialismo USA riserva da un secolo ai popoli oppressi del mondo intero. L'”America first” di Donald Trump l'ha resa solo più odiosa ed evidente.

Gli imperialismi europei, e tra questi l'imperialismo italiano, sono corresponsabili di questa politica. Non solo in virtù dell'Alleanza Atlantica, ma del proprio essere imperialisti, segnati dalla stessa vocazione alla rapina e allo sfruttamento, seppur con forze disponibili minori. L'unico interesse che hanno per Cuba, coi loro deboli distinguo dalla politica USA, è quello che passa per la speranza di partecipare un giorno alla spartizione delle sue spoglie, ritagliandosi il proprio spazio nella restaurazione capitalistica dell'isola.

Difendere Cuba dall'embargo criminale USA e lottare contro l'imperialismo di casa nostra sono dunque due aspetti inseparabili della politica rivoluzionaria. Politica che non ha nulla a che spartire coi sovranismi, tanto più col sovranismo in un paese imperialista.
Partito Comunista dei Lavoratori

Regolarizzare i lavoratori domestici

Sosteniamo una petizione di USB Immigrati

Nel quadro drammatico della crisi determinata dal coronavirus e dalle responsabilità della gestione delle istituzioni borghesi di sanità, stato sociale ed epidemia, esiste una questione particolare: quella delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati, cosiddetti irregolari. Sostenitore da sempre della regolarizzazione di tutti gli immigrati, il PCL sottolinea la particolare urgenza di questa misura in questo momento drammatico, di fronte alla totale inerzia del governo. La petizione che segue si incentra nello specifico sulla situazione delle lavoratrici domestiche, in primis badanti di molte nazionalità, ma in particolare dell’Europa centro-orientale. Nel quadro della sua battaglia più generale, il PCL aderisce a questa petizione, invita tutti a farlo e sostiene pienamente la giusta lotta dei suoi promotori.



La presente O.S. e le associazioni firmatarie segnalano la condizione in cui versano centinaia di migliaia di lavoratrici domestiche, colpite come tutti noi dalle conseguenze del Covid-19.

Per queste lavoratrici, in larghissima parte non italiane e purtroppo spesso in condizione di irregolarità quanto al titolo di soggiorno, l’emergenza coronavirus è destinata a produrre effetti drammatici. La specifica condizione di operatrici dedite alla cura di persone anziane, proprio il settore di popolazione più fragile e maggiormente esposto alle conseguenze del virus, mette queste lavoratrici di fronte ad una condizione molto complicata. Per queste lavoratrici non ci sono le precauzioni previste per gli operatori del settore sanitario, che pure hanno subito un alto numero di decessi. Non ci sono dpi, non c’è sanificazione, non c’è assistenza medica. Queste lavoratrici sono a contatto fisico diretto con l’utenza e ne costituiscono in molti casi l’unica possibilità di assistenza. Queste lavoratrici sono esposte al contagio e non hanno alcun modo di proteggersi. Per loro non vale la precauzione della distanza di un metro o altro.

Quello che rende però intollerabile la loro condizione è che siano in larga parte costrette a nascondersi e a rendersi invisibili, il che le espone ulteriormente e le rende ancora più vulnerabili al rischio del contagio.

I decreti emanati negli ultimi anni in materia di immigrazione hanno ridotto in clandestinità centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, chiusi tra l’impossibilità di fare ritorno in patria e l’impossibilità di acquisire una condizione di regolarità a risiedere in Italia. Un danno alla convivenza sociale, un danno economico all’erario pubblico ed un fattore di illegalità diffuso e permanente.

La situazione di grave emergenza prodottasi con la diffusione del coronavirus può essere l’occasione per rimediare a questa situazione, consentendo a tanti e a tante di emergere dall’ invisibilità, acquistando lo status di cittadino regolare e lavoratore pienamente riconosciuto nei sui diritti e regolarmente contrattualizzato.

Vi chiediamo pertanto di considerare, tra i provvedimenti che prenderete nei prossimi tempi per affrontare questa condizione così complessa per il Paese, delle misure che consentano di uscire dalla irregolarità, mettendo tutti questi lavoratori e queste lavoratrici in grado di accedere ad un regolare rapporto di lavoro.



Unione Sindacale di Base

Costantino Saporito, responsabile Nazionale VVF/USB

Guido Lutrario, rappresentante del Sociale USB

Vincenzo de Vincenzo, responsabile Federazione USB Regione Campania

Dafne Anastasi, delegata USB

Daniela Mencarelli, delegata Pubblico Impiego USB

Maria Vittoria Molinari, ASIA USB Tor Bella Monaca

Consolato Onorario della Federazione Russa in Napoli

Consolato Onorario della Repubblica di Belarus in Napoli

Medicina Democratica

Rete Solidale Vicenza

Associazione "Insieme"

Associazione "Aipe"

Associazione "Se.Na.So"

Associazione “PARUS”

Associazione "BELLARUS"

Associazione "Unione delle Donne Ucraine in Italia'"

Associazione "Aurora"

Associazione "Russkie Motivi"

Associazione "Rus'"

Associazione ”SK HELP LINE”

Associazione ”Mande”

Associazione ”Malva”

Associazione “PRIMA”

Associazione “Roksolana”

Associazione Officina dell’idee

Associazione "VITAru Vitar"

Associazione "Goree onlus"

Associazione "I Girasoli dell'Est onlus"

Associazione "Arrevutammoce onlus"

Associazione "Stay Human@friends"

Associazione "Alfa"

Associazione Udar. Unione di Donne associate russofone

Associazione Antiviolenza

Associazione Bellarus Calabria

Società Cooperativa sociale Mondo solidale onlus

Società Cooperativa sociale Panta rei Onlus

Patronato Inac di Napoli

Comitato "Io sono"

Comitato "La nostra vita all'estero"

Comitato "Oberig"

Comitato "Aiutiamoci tra di noi"

Prof. Giuseppe Aragno

ex Ministro della Solidaietà Sociale Paolo Ferrero

Org. Centro sud elettronica




Testo della petizione:

https://www.change.org/p/ministero-appello-per-la-regolarizzazione-di-extracomunitari
Partito Comunista dei Lavoratori

Video: Ora e sempre resistenza


Tra il ‘43 e il ‘45 la resistenza partigiana e la ribellione operaia presentarono il conto alla dittatura fascista. Furono i giovani a capo della rivolta.

Una rivolta sospinta non solo da aspirazioni democratiche, ma anche dalla volontà di farla finita con la borghesia italiana che si era servita del fascismo.
Era la speranza di “una rossa primavera”. Ma quella speranza fu tradita.

Stalin aveva pattuito con gli imperialismi vincitori una spartizione delle zone di influenza. L'Italia doveva restare nel campo capitalista. Il PCI di Togliatti fu il fedele esecutore della linea. La Resistenza fu subordinata alla collaborazione con la DC.

I governi di unità nazionale tra DC e PCI disarmarono i partigiani, restituirono le fabbriche ai capitalisti, diedero l'amnistia a decine di migliaia di torturatori fascisti.

E ricominciò, in forme democratiche, la solita vecchia storia: il potere dei padroni, lo sfruttamento dei lavoratori.

Sono passati più di settant'anni dalla Resistenza, ma le sue migliori aspirazioni sono più attuali che mai. Il problema dell'umanità resta come allora il capitalismo, che ovunque ha tagliato gli ospedali per ingrassare le banche e gli armamenti, che ha devastato l'ambiente favorendo le pandemie, che annuncia oggi nella sola Europa 25 milioni di nuovi disoccupati, che nutre i razzismi, legittima i fascisti, moltiplica le guerre.

Anche oggi c'è bisogno di una rivoluzione!
Che questa volta vada sino in fondo! Che questa volta trovi un suo partito!
Per un antifascismo anticapitalista!

ORA E SEMPRE, RESISTENZA!

Antifascismo ieri e oggi

Una robusta riflessione sulle lezioni dell'antifascismo nel 75° anniversario della Liberazione

24 Aprile 2020
Il 25 aprile, quest’anno, anticipa di una settimana l’inizio della fase 2 dell’emergenza coronavirus. E per la fase 2, magari a settembre, in vista di un autunno caldo, la borghesia invoca “l’unità nazionale” dietro Mario Draghi, il più adatto per far pagare ai lavoratori i pesanti esborsi a fondo perduto che il governo è in procinto di regalare a banche e padroni per ripianare le loro perdite.

Storicamente la borghesia invoca l’unità nazionale quando si sente debole e smarrita. Non è quindi un esercizio puramente retorico riesaminare la più celebre delle “unità nazionali” di questo paese, quell’unità antifascista che portò alla nascita della Repubblica. E quale momento migliore per farlo se non questo 75° anniversario della Liberazione?

L’antifascismo storico resistenziale fu un fronte popolare interclassista. Chi c’era nel fronte? C’erano i liberali migliori, quelli del Partito d’Azione, gli stalinisti del PCI, i riformisti socialisti, alcuni esponenti cattolici della futura democrazia cristiana, i preti “rossi”, alcuni intellettuali, persino qualche piccolo padrone “illuminato”. Ed infine, e furono la maggior parte, tantissimi proletari partigiani, il vero e proprio nerbo della Resistenza.

L’idea che l’unità antifascista abbia messo tutti d’accordo dietro a un unico scopo è vera solo in parte, ed esalta solo le menti più superficiali e meno inclini alla riflessione. Primo, perché l’unità non è mai una semplice media di interessi tra le forze che si sono raggruppate; secondo, perché anche quando è un compromesso, come fu dal 1944 al 1947, bisogna sempre chiedersi quale linea programmatica sia stata egemone al suo interno. L’unità, infatti, non è mai un raggruppamento tra parti uguali.

L’unità antifascista raggruppò tutti i componenti dietro il programma sostanziale della grande borghesia finanziaria: sbarazzarsi del fascismo politico per conservare il potere economico mascherandolo dietro una nuova facciata politico-democratica. L’antifascismo liberal-stalinista-socialista-cattolico era cioè un antifascismo capitalista, quindi nella migliore delle ipotesi riformista. L’antifascismo operaio rivoluzionario, purtroppo, non era affatto sullo stesso piano, ma subordinato, nonostante fosse numericamente prevalente.

Già solo per questo dovrebbe venire spontanea una domanda: dobbiamo ripeterlo paro paro l’antifascismo storico? Come è finito l’antifascismo storico resistenziale? Ha vinto o ha perso?
Se stiamo allo scopo che si dettero i dirigenti del fronte antifascista possiamo ben dire con loro “missione compiuta!”. Ma noi non stiamo con loro, bensì con il resto degli antifascisti, composto per oltre due terzi dai partigiani senza particolari ruoli da dirigenti. Questi partigiani altro non erano che gli operai fedeli al PCI, erano il cuore rosso e pulsante della Resistenza. E gli operai, diciamolo pure a malincuore, hanno purtroppo perso, almeno nella loro più intima aspirazione, per la semplice ragione che non avevano soltanto gli stessi intenti politici del fronte antifascista. Avevano anche e soprattutto intenti economici propri: rovesciare il sistema capitalistico e sostituirlo con un regime socialista.

Vedere l’unità di intenti dove c’era una frattura evidente come la Rift Valley vuol dire che non si è guardato con sufficiente attenzione l’antifascismo, e sopratutto lo si è osservato solo dall’alto delle direzioni dei partiti, sprezzanti di chi stava più in basso in prima linea con aspirazioni ben diverse, più alte e nobili. L’ha ricordato, non a noi che l’abbiamo sempre saputo ma agli smemorati che facevano finta di non saperlo, Claudio Pavone nel suo libro epocale Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991).

Pochi hanno letto quel saggio denso e corposo, che comprova ampiamente quanto andiamo dicendo. Ma anche curiosando, per esempio, tra le carte dei tanti archivi della Resistenza sparsi per il web, ci si imbatte facilmente in memorie, come ad esempio queste di Domenico Facelli, il quale ricorda come alla caduta del fascismo si perse ancora un sacco di tempo prima di mettere d’accordo gli antifascisti, perché a differenza degli altri gli operai non si accontentavano della caduta del Duce, perché non ne volevano sapere di «ridare il potere alla classe che per vent’anni aveva dominato attraverso il fascismo».

Tale consapevolezza, più o meno profonda, pervade l’intera vicenda resistenziale e si protrae in maniera decisa almeno fino all’attentato a Togliatti del 1948, per poi scemare a poco a poco negli anni successivi. Anzi, la Resistenza, almeno per i dirigenti, fu anche e sopratutto questo, la guerra più o meno aperta e ai fianchi agli operai, per disorientarli, illuderli e infine disarmarli, sconfiggerli e ricacciarli indietro insieme con i loro desideri più intimi e rivoluzionari.

Durante il periodo della Resistenza gli operai avevano in mano le fabbriche. Al contrario, le colonne d’ercole della Costituzione “antifascista” sono appunto rappresentate dalla proprietà privata delle fabbriche. La Costituzione non prevede di darle in mano agli operai, nega la possibilità che possano occuparle, ha messo l’articolo 42 e la polizia armata a presidiarle: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Questo articolo è il vero e proprio perno della Costituzione borghese “antifascista”. Per tutta la durata della Resistenza, gli operai sono al di là e molto più avanti dell’architrave della Costituzione “antifascista”, che deve ancora arrivare e arriverà per ultima. Il movimento della Resistenza che va dalla caduta del fascismo alla Costituzione del gennaio del 1948, è appunto specialmente ai piani alti il movimento all’indietro per ricacciarli al di qua. I vari accordi tra padronato e CGIL sullo sblocco dei licenziamenti che rimasero lettera morta per anni per la resistenza operaia ne sono la più plastica dimostrazione. Ecco perché il dato oggettivo dice inequivocabilmente che gli operai in quel ciclo di lotte hanno perso. Non si può infatti perdere le fabbriche, cioè tutto, dicendo che comunque si è ottenuto qualcosa. Le fabbriche nel 1943 (come oggi del resto) sono praticamente l’intera ricchezza del paese, lo strumento che "la produce". Nel 1948 la borghesia le ha già soffiate da sotto il naso agli operai in cambio della carta costituzionale. Solo il compagno Pirro può chiamare tutto questo vittoria. Le riconquistate libertà politiche e sindacali, la scala mobile, il diritto di voto per la prima volta alle donne e tante altre "piccole" riforme, non possono ripagare minimamente gli operai di una perdita tanto enorme sul piano storico come quella del controllo delle fabbriche. Di qui la delusione con la conseguente sconfitta delle sinistre, immediatamente successiva al varo della carta, alle politiche del luglio del 1948, e l’inevitabile riflusso nel decennio successivo.

La guerra più o meno velata per strappare le fabbriche agli operai fu combattuta da tutte le forze dell’antifascismo storico resistenziale, ma non sarebbe stata vinta senza il concorso decisivo del PCI, il quale dopo la svolta di Salerno del 1944 fu in prima linea per ricacciarli fuori. In cambio di questo straordinario servizio reso ai padroni, il PCI poté ottenere che su quel pezzo di carta da sventolare il 25 aprile insieme con la bandiera rossa fosse incisa una promessa di rivoluzione a venire, in cambio di una rinuncia a una rivoluzione immediata (Calamandrei, il corsivo è nostro).

L’obiezione che molti fanno, arrivati a questo punto, è che se gli operai erano fedeli al partito, erano evidentemente fedeli anche all’unità antifascista da fronte popolare. Tale obiezione viene dalle stesse menti superficiali e poco inclini allo studio e alla riflessione di prima. Come il fronte popolare antifascista non mette semplicemente tutti concordi dietro un unico scopo, così la fedeltà sostanziale a un partito non si manifesta come il seguito di un cagnolino.

Come ha ben ricostruito Liliana Lanzardo: «la strategia della via democratica al socialismo passa, nei primi anni del dopoguerra, attraverso la collaborazione governativa tra borghesia progressista e movimento operaio […] mentre la classe operaia nella fabbrica si muove in direzione del tutto opposta a quella dell’alleanza col capitale».

Naturalmente a noi non interessa il velato cinismo con cui la studiosa prende per buone le definizioni che i politici danno di sé e dei loro alleati, per cui in primo luogo è dato per scontato che una parte della borghesia sia progressista, quando è almeno dal 1917 che nessuna sua parte ha mai dimostrato storicamente di esserlo, ma soprattutto, in secondo luogo, il Partito Comunista diventa “il movimento operaio”, mentre il vero movimento operaio, la classe operaia medesima, resta semplicemente “la classe operaia”, quasi la sua azione non contasse nulla per farne parte davvero.
A noi, qui, interessa soltanto mostrare inequivocabilmente come gli operai avessero idee diametralmente opposte a quelle del loro partito. Ci volle tutta la doppiezza togliattiana, la chiusura di sedi, numerose esautorazioni d’ufficio ed espulsioni, per riuscire a tirarsi dietro il grosso della classe senza giungere a una vera e propria frattura con la base. Il che però non vuole dire che la classe seguì il partito come chi è convinto che la linea sia giusta. La classe sentì puzza di bruciato ad ogni passo, ma seguì il partito come lo segue chi lo riconosce come qualcosa comunque di suo. Dopo vent'anni di fascismo, gli operai ignoravano gran parte delle vicende, non potevano chiarirsi tutto in un colpo cosa fossero lo stalinismo e i suoi partiti. In breve, non riuscirono a liberarsi in tempo delle loro illusioni in Stalin e nel PCI, ma non furono comunque fedeli come marionette. Al contrario, seguirono obtorto collo il partito, e questa contraddittoria fedeltà fu fatale per i loro sogni di gloria.

La sconfitta dell’antifascismo operaio classista pregiudica pesantemente anche la presunta vittoria storica interclassista del suo partito di riferimento, il PCI. Forse hanno vinto gli altri partiti, che non avevano ufficialmente lo stesso programma, ma non certo il PCI. Non tanto perché alla fine del ciclo, tolta la forza economica alla sua base, il PCI è espulso dal governo borghese da De Gasperi e battuto alle elezioni, ma perché ricacciare indietro gli operai all’apice della mobilitazione, per poi sperare di farli avanzare successivamente, per via parlamentare, smobilitati e delusi, appare subito come un assurdo controsenso. Infatti, per un robusto marxista come Bordiga (qualcuno legge ancora i suoi vivacissimi scritti?), era chiarissimo già allora come fosse impossibile, quando commentava sarcastico Togliatti che presentava la Costituzione come chissà quale trofeo e come inizio di chissà quale avvenire di sicuro progresso.

Dal punto di vista programmatico, però, per la sconfitta definitiva dell’antifascismo "comunista" costituzionale bisogna aspettare il 2007, anno della nascita del PD, con cui si chiude la parabola del PCI-PDS-DS. Nella Costituzione, infatti, il famoso testo della stucchevole promessa di rivoluzione per il povero PCI che ci aveva rinunciato recitava così: «È compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana...». Tecnicamente, se la frase ha un senso, significava che era compito dello Stato ridare le fabbriche agli operai, di quello stesso Stato borghese che si era appena ricostruito facendosele riconsegnare da Togliatti. Prosaicamente, era la famosa “via italiana al socialismo”, il vecchio programma socialdemocratico del “partito nuovo”, come si definiva il PCI repubblicano. La Costituzione diventava, nella narrazione degli stalinisti italiani, il perno dell’ennesima variante del socialismo per via di riforma.
Nel 2007, per i San Tommaso a cui il Bordiga del 1947 non basta, anche questo capitolo si chiude per sempre: attraverso la svolta della Bolognina del 1989-’91, la via italiana al socialismo si rivela per quello che è: la via italiana dal PCI al PD. Dalla promessa immaginaria di una trasformazione di uno Stato borghese in uno socialista alla trasformazione opposta di un partito operaio (stalinista) in un partito pienamente borghese. Game over!

Riproporre ancora, tredici anni dopo, un antifascismo sconfitto subito nella sua classe portante, quella operaia, e definitivamente negli intenti programmatici del suo principale partito nel 2007, significa preparare nuove sconfitte senza aver neanche speranza di mezze vittorie politiche come quelle della Resistenza.

Infatti, la vittoria politica dei partiti antifascisti è stata oltretutto ottenuta nell’epoca del crollo dello Stato borghese e del disfacimento del fascismo. La borghesia oggi ha ben saldo nelle mani il suo Stato, non deve ricostruirlo. Gli operai, pur con la bella prova degli scioperi di marzo per difendersi dall’emergenza coronavirus, non hanno in mano le fabbriche. Se la borghesia chiama all’unità nazionale – contro il movimento operaio, anche se questo non lo dice – è perché sa che alla ripresa, per tenerlo buono, non ha alcuna riforma da offrirgli, ma solo l’accelerazione e il raddoppio delle misure lacrime e sangue che abbiamo già visto e sperimentato nell’ultimo decennio abbondante di crisi. Il rischio quindi di una ribellione furiosa e di uno scontro frontale col movimento operaio esiste, e per quanto noi marxisti, prudenti, non lo diamo per scontato, è indubbiamente sentito dalla borghesia.

Perciò mettiamo in guardia i compagni che come noi stanno lavorando per la mobilitazione più ampia e radicale che si sia mai vista in questo paese, perché qualora la rabbia operaia scoppiasse davvero, mettendo all’angolo la borghesia, il fascismo che ci ritroveremo davanti non sarà certo quello alla frutta e moribondo del 1945, ma un fascismo molto più simile a quello in ascesa, giovane e forte, della marcia su Roma del 1922. Quello che i fronti popolari interclassisti se li mangiava in un boccone. Non tanto in Italia, dove Stalin non aveva ancora avuto il tempo di prepararli, ma in Spagna, nel 1936, dove dettero dimostrazione imperitura e storica di tutta la loro impotenza di fronte alla versione spagnola del fascismo in ascesa: il franchismo.

L’antifascismo da fronte popolare interclassista, dunque, non si può dire abbia fatto il suo tempo, come tutte le cose venute male e storicamente sbagliate, perché sostanzialmente riformiste. È proprio che è tanto più retorico e acritico perché fondamentalmente inattuale.

Quello che va ricostruito non è l’antifascismo di Stalin, ma quello di Lenin, l’antifascismo del fronte unico interamente classista, cioè l’antifascismo proletario e rivoluzionario, l’unico in grado di battere il fascismo controrivoluzionario in ascesa. Ai tempi del Duce questo tipo di antifascismo si manifestò in Italia non nella forma piccolo-borghese del fronte popolare, ma in quella sostanzialmente genuina degli arditi del popolo, fondati nel giugno del 1921.

È, quella degli arditi del popolo, la forma più attuale per l’antifascismo di oggi.
Anche gli arditi del popolo allora furono sconfitti, nonostante alcune iniziali e brillanti vittorie, ma ciò non fu a causa di una formula sbagliata di antifascismo, ma degli errori del PCd'I appena nato, che non comprese le direttive di Lenin. Lenin, di cui non onoreremo mai abbastanza i 150 anni dalla nascita della sua grandezza, voleva che il PCd'I si unisse agli arditi del popolo per esserne alla testa contro il fascismo. Il settarismo estremista di Bordiga lo impedì per purezza di partito. Così gli arditi del popolo, privati del partito rivoluzionario e quindi di una fetta importante della classe operaia, coi socialisti che tenevano con le mani legate l’altra fetta, furono lasciati soli e condannati alla sconfitta.

Oggi, alla vigilia di un nuovo possibile ciclo di lotte, nel parziale stand-by del momento, il fascismo non è ancora in ascesa come allora, perciò i nuovi arditi del popolo non si sono ancora formati. Però, sapendo che senza comunisti e classe operaia saranno destinati di nuovo alla sconfitta, possiamo imparare dalla Storia preparando i più arditi tra gli arditi del popolo: gli arditi del partito militante e rivoluzionario; perché senza la ricostruzione del suo insostituibile ruolo di guida dell’antifascismo tutto, l’antifascismo non sarà mai vittorioso.

Viva il 25 aprile!
Viva i partigiani!
Viva la Resistenza!




Approfondimenti:

Per il rapporto tra classe operaia e PCI, si legga di Liliana Lanzardo “Classe operaia e Partito Comunista alla Fiat – la strategia della collaborazione 1945-1949” (Einaudi, 1971).

Per la forte opposizione che la linea del PCI incontrò, si legga del grande Arturo Peregalli: “L’altra Resistenza – Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-1945” (Graphos 1991) e “Togliatti guardasigilli 1945-1946”, (Colibrì 1998, quest’ultimo scritto con Mirella Mingardo).

Per i commenti sarcastici e in presa diretta di Bordiga sulla Costituzione, consigliamo questi due scritti: “Abbasso la Repubblica borghese, abbasso la sua Costituzione”, del 1947, e “I socialisti e le costituzioni”, del 1949.

Sugli Arditi del popolo e le loro prime formazioni armate, da leggere è senz’altro “Dal nulla sorgemmo” di Valerio Gentile (Red Star Press, 2012).

Infine, sull’impietoso bilancio dell’unità nazionale antifascista, molto preciso e sintetico è il capitolo: “Il PCI al governo nel ’44-47” di Antonio Moscato, contenuto in “Sinistra e potere” (Sapere, 2003)
Lorenzo Mortara

Paghi chi non ha mai pagato!

Le ragioni di una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco

Novemilasettecentoquarantatre (9743) miliardi di euro – cinque volte il Pil nazionale – sono la somma dei patrimoni detenuti in Italia secondo uno studio di Banca Italia del 2018. Quasi due terzi (5246 miliardi) sono immobili residenziali, 679 miliardi immobili non residenziali, 223 miliardi terreni coltivati. Un terzo i patrimoni finanziari, di cui oltre 1000 miliardi in azioni. In tutto, dunque, quasi 10000 miliardi.

Questi dati in sé non dicono molto, ma dicono tutto se si studia la loro composizione sociale. Il 10% della popolazione italiana possiede un patrimonio che vale 7 volte quello che detiene la metà più povera della popolazione. Nel solo ambito finanziario tra il 2006 e il 2017, il patrimonio in mano al 50% di famiglie più povere è sceso sotto l'11%, mentre quello del 10% più ricco è salito al 52%. Oggi in Italia 10701 persone detengono un patrimonio superiore a 30 milioni di dollari (al mondo sono 513000). Secondo il Wealth Report 2020 della società Knight Frank, il maggior incremento delle grandi ricchezze nel 2019 si è avuto proprio in Italia, con un incremento del 21%, il più elevato di tutta Europa e il secondo al mondo dopo la Corea del Sud. Un incremento tanto più significativo a fronte di un reddito nazionale sostanzialmente stagnante.

La grande crisi di dieci anni fa ha dato un forte impulso alla concentrazione dei patrimoni. La nuova grande crisi spingerà nella medesima direzione. Ad esempio in questo mese di crisi le azioni di Ferrari (supercar) e San Lorenzo (yacht) sono cresciute nella Borsa di Piazza Affari del 18% e nel 16% rispettivamente. Yachts e macchine di lusso non sono in terapia intensiva, e soprattutto non lo sono i loro azionisti. I capitalisti comprano e ricomprano le loro stesse azioni per gonfiarne il valore di borsa e i relativi dividendi. Il mondo del capitale finanziario si eleva al di sopra del mondo reale, e persino della produzione materiale. Più ristagna il saggio di profitto nell'economia reale, più si gonfia il parassitismo finanziario. È la misura della decadenza della società borghese.

E tuttavia questo parassitismo si appoggia sullo sfruttamento del lavoro, e si alimenta di debito pubblico e tagli sociali. Il taglio di posti letto, personale sanitario, ospedali, ha contribuito al parassitismo finanziario non meno del taglio alle pensioni e al lavoro. Per questo è inaccettabile tanto più oggi qualsiasi riproposizione di austerità e sacrifici per i lavoratori. Altro che nuovo indebitamento con le banche italiane o con la BCE o col MES, come se per i lavoratori e le lavoratrici ci fosse differenza tra ripagare il debito a Banca Intesa o a Bruxelles. È necessario rovesciare questa logica. Paghi il 10% più ricco con una patrimoniale straordinaria del 10%! Paghi chi non ha mai pagato! Per ricostruire la sanità pubblica, prima di tutto.
Partito Comunista dei Lavoratori

Ripartenza di cosa?

La società borghese inciampa a ogni passo sulle contraddizioni che crea

Il Presidente del Consiglio ha annunciato la ripresa generale del lavoro il 4 maggio. Indistintamente, su tutto il territorio nazionale, quindi anche nelle regioni tuttora segnate da un alto tasso di contagio e mortalità, che peraltro sono le regioni in cui si concentra guarda caso il cuore della produzione industriale, e dove è più forte la pressione di Confindustria per la ripartenza.

Grande è lo sforzo della comunicazione pubblica nell'annunciare che la ripresa avverrà “ in sicurezza”. La raccomandano le autorità sanitarie, la garantiscono gli industriali. Gli stessi industriali che hanno posto il veto sulla zona rossa nel bergamasco, che hanno chiesto alle prefetture di produrre in deroga, che hanno licenziato operai che denunciavano la mancata osservanza delle regole. C'è qualcuno che oggi può credere alle loro "preoccupazioni"?


L'INCIAMPO DELLE MASCHERINE

Non è solo un problema di credibilità, ma anche di contraddizioni plateali. Persino sui temi più elementari.

Prendiamo il caso delle arcinote mascherine. A due mesi dall'inizio dell'emergenza sanitaria, la seconda potenza industriale d'Europa è ancora alle prese con la loro insufficienza. Una insufficienza macroscopica. Il giornale di Confindustria ci informa (21 aprile) che con la ripresa generalizzata saranno necessari 40 milioni di mascherine al giorno (due a testa per 20 milioni di lavoratori). Secondo la task force di Colao ne occorreranno 953 milioni al mese. «Fabbisogni impossibili da soddisfare», riconosce il quotidiano confindustriale, perché le 80 aziende che si sono buttate sul mercato per produrle, allettate dagli incentivi offerti, ne producono appena 3 milioni al giorno, mentre il commercio mondiale delle mascherine è ormai intasato dalla competizione di tutti contro tutti. Solo una larga riconversione produttiva di altri settori potrebbe far fronte al bisogno. Ma ciò richiederebbe misure drastiche e immediate di nazionalizzazione a garanzia della riconversione. Una bestemmia per Confindustria.


TAMPONI, TEST, LABORATORI. LA CRISI DELLA DIAGNOSTICA

Il problema dei tamponi e dei test sierologici non è da meno.

Il nuovo capo di Confindustria Carlo Bonomi ha sempre accompagnato la richiesta della riapertura con la garanzia della diagnostica. Di cui peraltro si occupa, guarda caso, la sua azienda. Questa garanzia è clamorosamente assente. La ripresa richiederebbe un esame tampone generalizzato a tutti i lavoratori, perché non si possono portare in fabbrica i positivi. Ma il numero dei tamponi oggi effettuato, a partire dalla Lombardia, resta irrisorio. Non dipende dalla mancata disponibilità dei tamponi, ma dall'assenza dei laboratori per l'esame dei dati: i laboratori pubblici sono stati tagliati, quelli privati prendono cifre da capogiro e sono comunque insufficienti.

Ancor più complicato è il quadro dei test sierologici, fondamentali per individuare gli immuni. Qui c'è una autentica guerra per bande tra aziende produttrici per accaparrarsi il mercato. In particolare in Lombardia. Da un lato la Diasorin, sponsorizzata dalla regione, che punta all'esclusiva di monopolio. Dall'altro la TecnoGenetcs che ha fatto ricorso al TAR contro la Diasorin. Parallelamente è in corso anche una gara nazionale gestita dall'Istituto Superiore della Sanità, che non si capisce come interagisca con lo scontro in Lombardia. L'unica cosa certa in questa guerra di mercato è che non esiste ad oggi un test sierologico nazionalmente validato e riconosciuto. E questo a pochi giorni dalla “ripartenza”. Solo una immediata nazionalizzazione dell'industria farmaceutica, un investimento concentrato su laboratori e ricerca pubblica, una massiccia assunzione di nuovi ricercatori e specialisti, risponderebbe alle necessità.


L'ENIGMA DEI TRASPORTI

Non ci sono solo problemi sanitari, ma anche di organizzazione del lavoro, e soprattutto di trasporto sul lavoro. Tutta la stampa borghese è costretta a riconoscere che non può esserci una condizione minima di sicurezza senza una riorganizzazione del trasporto: bus, tram, metropolitane, ferrovie regionali. Tuttavia le aziende di settore, largamente privatizzate, mettono le mani avanti.

ASSTRA, l'associazione nazionale maggiormente rappresentativa delle imprese di trasporto pubblico in Italia, è lapidaria: non sarà possibile incrementare il parco mezzi. La produzione richiederebbe tempi variabili che vanno dai 18 a 36 mesi a seconda della tipologia di mezzi, bus o treni. Peccato che le aziende che producevano mezzi pubblici siano state smantellate nello scorso decennio, a partire da Irisbus.
Si potranno allora, a parità di mezzi, aumentare le corse? No. «Non si potranno aumentare le corse come qualcuno ipotizza, perché mancano i mezzi, il personale e la capacità delle reti» dichiara al Corriere Andrea Gibelli, presidente di ASSTRA. Il distanziamento di sicurezza di un metro non sarà dunque possibile. Peraltro, ci informa Gibelli, «non sarebbe economicamente sostenibile». Il che taglia la testa al toro, dal punto di vista confindustriale. Dunque al lavoro con l'auto privata, in un nuovo vortice di inquinamento urbano? Alla faccia della salute.


TUTTI CERCANO DI PARARSI IL CULO

Non a caso in questa babele ogni attore in scena cerca di pararsi il culo scaricando sugli altri le proprie responsabilità. Il governo nazionale scarica le responsabilità delle scelte sui comitati di esperti, peraltro internamente divisi. Gli industriali cercano la copertura delle burocrazie sindacali per disincentivare sia gli scioperi che le cause giudiziarie. I governi regionali dicono che comanda il governo nazionale, e viceversa. In realtà tutti sanno che la ripartenza oggi è un'avventura, e nessuno vuole intestarsi la scelta senza chiamate di correo. L'unico punto di accordo generale è che gli operai devono tornare il fabbrica, mentre le scuole restano chiuse per tutelare gli studenti. Inutile cercare la logica, perché è solo quella del capitale.
Partito Comunista dei Lavoratori

Bonaccini, come Fontana, Zaia e Cirio, obbedisce al richiamo del padrone

In questi giorni Confindustria sta facendo pressioni fortissime sul governo per l'avvio al più presto della fase due, ossia della riapertura delle attività produttive. Le autorità scientifiche lo sconsigliano, perché dati i numeri ancora alti del contagio da coronavirus, soprattutto nelle regioni del Nord, le più industrializzate, è ancora alto il rischio di una recrudescenza dell'epidemia.
Il governo traccheggia, mente i governatori del Nord fanno asse con Confindustria.
È il potente richiamo del padrone, quello sotto la cui influenza decisiva sono stati commessi autentici crimini, come il Partito Comunista dei Lavoratori ha denunciato recentemente.

Bonaccini, governatore dell'Emilia-Romagna, proprio non ce la fa: nemmeno lui può sottrarsi a questo richiamo.
Nella riunione con il governo insieme agli altri "governatori" regionali – la cosiddetta cabina di regia – ha proposto, analogamente alla Lombardia, la riapertura delle filiere internazionali, dal comparto automobilistico, alla ceramica, alla nautica ecc..., per «salvaguardare l'export», l'edilizia e le costruzioni, ovviamente «garantendo ciò che serve per avere la massima sicurezza».
Peccato che, come affermano le autorità scientifiche, questa benedetta sicurezza non solo non è massima, ma non esiste finché il tasso di contagio non sia azzerato.

Se la sicurezza non è la preoccupazione principale, secondo le dichiarazioni del nostro Presidente di regione un'altra è la vera minaccia: «evitare che ci sia un problema di scontro sociale e di perdita di lavoro per troppe persone». Vale a dire che l'intenzione del padronato è proprio quella di scaricare la crisi sui lavoratori, e Bonaccini se ne fa un fidato messaggero.

Alle elezioni regionali di gennaio il Partito Comunista dei Lavoratori ha rifiutato di dare il proprio sostegno a Bonaccini, denunciando il suo ruolo in continuità sostanziale con le politiche antisociali del PD e del governo di manutenzione degli interessi capitalistici. La manutenzione evidentemente continua, a dispetto di ogni emergenza e del pericolo di contagio per milioni di lavoratori.
Bonaccini lo aveva dimostrato allora, allineandosi ai governatori leghisti e della destra sulla richiesta di autonomia regionale differenziata. L'emergenza sanitaria ha dimostrato impietosamente che proprio la frammentazione regionale ha favorito la disastrosa disorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale di fronte all'epidemia. Oggi il governatore dell'Emilia-Romagna conferma il suo ruolo subalterno agli interessi padronali facendosi alfiere degli interessi di Confindustria insieme alle regioni governate dalla destra.

Intanto Emilia Romagna Coraggiosa, la sinistra che ha appoggiato la rielezione di Bonaccini, rimane in silenzio. Dov'è finito tutto il suo coraggio? Forse bisogna ammettere, come Don Abbondio, che in certi casi, quando si rischia l'osso del collo (politicamente parlando, s'intende) “uno il coraggio... mica se lo può dare”.

Per quanto ci riguarda, come Partito Comunista dei Lavoratori, rimaniamo fermamente dall'altra parte della barricata: quella delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno tutto il diritto, anche in Emilia-Romagna, di tornare al lavoro solo quando sarà garantita la prevenzione dal contagio, di controllare essi stessi le condizioni di sicurezza della propria mansione lavorativa, di aver garantiti salario e occupazione per tutti, compresi i precari, di poter usufruire di una sanità pubblica adeguata mediante il massiccio rifinanziamento del SSN e la nazionalizzazione della sanità privata, di imporre che questa volta siano i padroni a pagare la crisi tramite una patrimoniale straordinaria del 10% del patrimonio sul 10% più ricco della popolazione.
Per questo sosterremo ogni forma di mobilitazione unitaria della classe lavoratrice senza alcun timore dello scontro sociale.
Partito Comunista dei Lavoratori - sezione di Bologna

La febbre della ripartenza

L'arrembaggio della Confindustria, l'inganno del padronato “progressista”

21 Aprile 2020
Il padronato italiano fa semplicemente ciò che vuole, al di là degli accordi. L'essenziale, per loro, è tornare a fare profitti
Rulla il tamburo della ripartenza, sotto la pressione delle organizzazioni padronali. Il nuovo vertice di Confindustria ha fornito a questa pressione una spinta propulsiva nuova. La ripartenza non è (solo) una data futura al momento incerta, è un processo già in corso oggi; lento, a macchia di leopardo, ma continuativo. Un processo che attraversa diversi settori della produzione e tutte le aree geografiche del paese.

Una parte rilevante del lavoro salariato non si è mai fermato, in realtà. A inizio marzo, mentre il governo e le autorità sanitarie celebravano il “tutti a casa”, milioni di operai continuavano a varcare i cancelli delle fabbriche. Anche nelle zone di massimo contagio. Anche nel bergamasco, nel bresciano, nel piacentino, laddove il veto di Confindustria sulla zona rossa ha consumato un crimine che nessuno può ormai negare o ignorare.


IL PRESSING TRAVOLGENTE DELLA RIPARTENZA

Dopo il famoso protocollo d'intesa del 14 marzo tra sindacati e padroni, e i decreti governativi del 22 marzo, avallati dal sindacato, la sicurezza in fabbrica è rimasta un miraggio. In compenso la ripartenza produttiva si allarga, al di fuori di ogni regola e controllo. 105.727 imprese nell'ultimo mese hanno “comunicato” alle prefetture la continuità della produzione, usando la norma del silenzio assenso. Solamente 2296 sono state bloccate. Il resto ha avuto via libera, o per connivenza tra prefettura e padrone, o per l'impossibilità di fare le verifiche a causa della mancanza di personale e dei tempi necessari. Insomma, il padronato italiano fa semplicemente ciò che vuole, al di là del dettato formale degli accordi, o utilizzando le loro maglie larghe.

Ora il pressing si fa travolgente. Hanno un bel dire una parte di esperti e virologi che non vi sono le condizioni per ripartire in sicurezza, tanto più in Lombardia. Ha un bel dire il dottor Galli del Sacco di Milano che ciò che è acquisito in teoria non lo è affatto in pratica, che i tamponi sono ancora un numero esiguo, che sui kit sierologici c'è una guerra per bande tra aziende produttrici fuori da ogni controllo sanitario validante, che neppure su quantità e qualità delle famigerate mascherine si è raggiunto un risultato soddisfacente, che non si sa ancora dove isolare i contagiati, che senza riorganizzare l'intero sistema dei trasporti urbani e metropolitani la riapertura generale è un'avventura... Non serve. I padroni hanno il fiato sul collo della concorrenza estera, e questo basta. Sulla sicurezza simuleranno un po' di attenzioni, qualche gesto esemplare nei primi giorni, un po' di fumo negli occhi a uso e consumo delle telecamere. Finzioni. L'essenziale è che la vita normale riprenda il suo corso e rimonti la china. Che riprenda la borsa, che si possano macinare profitti, che si possano spartire i dividendi. Il resto è contorno, o rumore di fondo.


LA FIABA DI BRUNELLO CUCINELLI

A tirare la volata della ripartenza generalizzata c'è il fior fiore del made in Italy. Non solo la grande industria meccanica, la cantieristica, ma anche la moda, l'oreficeria, le costruzioni di yacht... Quel mondo delle grandi famiglie del capitalismo italiano, prodigo di pose progressiste, ospite ricercato dei salotti liberali, in realtà provvisto di un pelo sullo stomaco da far invidia alla foresta amazzonica.

In questi giorni diversi esponenti di questo mondo dorato sentono l'esigenza di aggiungere la propria voce al coro assordante della ripresa. Si distingue al suo interno il grande stilista umbro Brunello Cucinelli, proprietario di un'azienda dell'alta moda con stabilimenti in mezzo mondo, Cina inclusa, con un fatturato di tutto rispetto di 607,8 milioni nel 2019. «Dobbiamo pensare a garantire il cibo alle persone che lavorano con noi» dichiara compunto a La Stampa. «Capitalismo etico?» chiede l'intervistatore. «Il mercante onorevole» risponde il nostro con l'aria di chi si carica sulle spalle le sofferenze del mondo. «Come ha passato la quarantena?» incalza la giornalista. «Aiutando mia moglie a stirare, anche il copripiumone, una cosa complicatissima» risponde Cucinelli convinto di aver lustrato così la propria pietas. Dopo di che arriva finalmente al sodo: «Abbiamo detto da subito alle persone che lavorano con noi: non licenzieremo nessuno... In cambio ho chiesto due cose: la disponibilità a lavorare mezz'ora in più al giorno e lavorare in agosto tranne una settimana. In poco tempo recupereremo le settimane perse». Una generosità commovente.

Ecco, in questa intervista c'è uno squarcio di possibile futuro. La frontiera più avanzata del progresso che il capitale sa offrire ai salariati di fronte alla nuova grande recessione è un allungamento dell'orario quotidiano e l'annullamento delle ferie in cambio del lavoro. Una “offerta che non si può rifiutare”, con 25 milioni di nuovi disoccupati in arrivo nella sola Europa secondo le previsioni del FMI. Questo è il calcolo dei “mercanti onorevoli”.
C'è solo una eventualità che non hanno calcolato: che gli operai possano rifiutarsi di chinare il capo. Non avviene spesso nella storia, ma accade. E quando accade, tutto diventa possibile. Anche quello che nessun padrone potrebbe mai immaginare: che gli operai facciano a meno di lui.
Partito Comunista dei Lavoratori

Le Tesi di aprile e lo strano scherzo di Rizzo

Fotoritocco: dalla tragedia alla farsa

21 Aprile 2020
Ieri, in ricorrenza dell'anniversario delle Tesi di aprile, il partito di Rizzo ha messo sulla sua pagina Facebook la celebre foto di Lenin che arringa la folla dal pulpito. Ma, scherzo del destino, la foto scelta per la celebrazione non è quella falsificata da Stalin con le persone che scompaiono, ma quella vera (a colori, per l'occasione) con Trotsky di guardia di lato.

Subito, una marea di compagni è accorsa divertita a “trollare” sulla pagina, chi dicendo: «Finalmente il PC passa alla rivoluzione permanente!»; chi gridando: «Viva Lenin, il capo della Rivoluzione! Viva Trotsky, il capo dell’Armata Rossa!»; chi scherzando: «Compagni, occhio, è un fake, avete aggiunto Trotsky che non c’era!».

Di norma, i post del PC sono seguiti da una marea di commenti agiografici, ma ieri, a parte i commenti dei trotskisti, il post è rimasto pressoché privo di autocelebrazioni, segno dell’evidente imbarazzo degli iscritti.
Chi però pensava che dall’errore che ripristinava la verità storica potesse nascere una qualche riflessione, o anche solo un segno di ripensamento da parte degli stalinisti, è presto smentito.

Oggi la foto, come ai tempi d’oro di Stalin, è stata ritoccata: Trotsky è stato ricancellato con un pennarello nero, non si capisce bene se elettronico o meno. L'effetto è tanto penoso quanto dilettantesco: Stalin era decisamente più professionale.
E così aprile, che poteva essere il mese della verità, resta invece il mese delle Tesi di Lenin per i partiti comunisti che le celebrano, e dei partiti stalinisti più strampalati che le scimmiottano, come quello di Rizzo: uno scherzo di partito.
Partito Comunista dei Lavoratori

Razza padrona

L'esordio del nuovo Presidente di Confindustria

20 Aprile 2020
Carlo Bonomi nuovo Presidente di Confindustria. Un industriale del biotech e del medicale scala la rappresentanza del padronato italiano. La candidatura del Presidente di Assolombarda era avanzata da tempo, ben prima della crisi del coronavirus, ma il nuovo scenario aggiunge alla sua affermazione un tocco surreale. Confindustria è stata nei lunghi anni della grande crisi (2008-2012) il principale alfiere dei tagli sistematici alla sanità pubblica nel nome dell'ascesa della sanità privata. La Lombardia è stata il principale teatro di questa politica e di questi affari. Che il Presidente di Assolombarda diventi il Presidente di Confindustria sullo sfondo della più grande emergenza sanitaria è già di per sé una notizia. Che lo diventi un industriale del settore medicale è davvero un curioso paradosso.

Ma il nuovo Presidente è andato più in là. Ha voluto immortalare il giorno della propria elezione con un appello accorato ai sentimenti profondi della sua base elettiva: «La politica ci ha esposto ad un pregiudizio fortemente anti-industriale... Non pensavo di sentire più l'ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Sentire certe affermazioni da parte del sindacato mi ha colpito profondamente. Credo che dobbiamo rispondere con assoluta fermezza».

Ora, preferiamo tralasciare per misericordia il cosiddetto pregiudizio anti-industriale da parte della politica, a ridosso della lunga stagione di politiche confindustriali contro lavoro, pensioni, sanità, istruzione, perché si tratta di delirio puro. Ci soffermiamo invece sul sentimento offeso della sensibilità di Bonomi verso i propri “collaboratori”, come il nostro chiama i suoi operai. Carlo Bonomi – assieme al suo diminutivo Bonometti, Presidente di Confindustria Lombardia – è stato colui che in veste di capo di Assolombarda ha avuto un peso determinante nell'imporre il veto sulla zona rossa nel bergamasco. Governo nazionale e regionale hanno subito quel veto a capo chino, a proposito di “pregiudizio anti-industriale”. E quel veto ha prodotto, come tutti sanno, una impressionante catena di morti in tutta la Val Seriana, e per propagazione in larga parte della Lombardia, facendone il picco più alto di contagio al mondo.

L'unica vera "ingiuria" è che il nuovo capo di Confindustria rivendichi il proprio amore per gli operai. Questo sì, non si può più sentire.
Partito Comunista dei Lavoratori

VIDEO: PADRONI CRIMINALI

NE PARLIAMO CON MARCO FERRANDO
MODERA DIEGO ARDISSONO


Il PCL è stato impegnato nelle ultime settimane nel denunciare le responsabilità del capitalismo nella determinazione del disastro relativo all'emergenza sanitaria del coronavirus. Responsabilità dirette e determinanti: i tagli alla ricerca scientifica, asservita al capitale e al profitto delle industrie farmaceutiche; la devastazione ambientale che ha favorito il salto di specie del virus; i tagli massicci ai sistemi sanitari pubblici in tutto il mondo, a favore del privato.

In questo quadro, l'emergenza coronavirus ha messo in luce, ancora una volta, l'irrazionalità folle del sistema capitalista. Un sistema dove tutto, salute compresa, è subordinato al profitto. Un sistema che solo una rivoluzione può distruggere.

Che risposta dare a questa crisi?

Attorno a queste tematiche e all'esposto giudiziario che abbiamo presentato in merito alle responsabilità criminali del governo nazionale, della regione Lombardia e di Confindustria nello sviluppo esponenziale del contagio e delle morti in Lombardia, promuoviamo questa assemblea pubblica in streaming, domenica 19 aprile alle 18:30, con Marco Ferrando (portavoce nazionale del PCL) e Diego Ardissono (Segreteria del PCL).

Perché il conto del coronavirus lo paghino i capitalisti, non i lavoratori e le lavoratrici!

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI