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La parità? In Russia e nel 1917

Quando ottenemmo tutto quello che ora non osiamo chiedere
27 Dicembre 2017
Mai, in nessuna epoca e in nessun paese, le donne hanno avuto una parità maggiore rispetto alla Russia all’indomani della Rivoluzione di Ottobre. Non adesso in Italia, non negli anni 70, in nessun tempo in nessun luogo.
Cosa volevano dunque i bolscevichi per le donne?

Marx e Engels si occuparono prestissimo della questione della famiglia e delle donne. Già nella Condizione della classe operaia in Inghilterra del 1844, Engels descrisse le puerpere che, dopo aver appena partorito, tornavano in fabbrica, con i seni che grondavano latte mentre i loro bambini a casa soffrivano la fame; descrisse le donne incinte costrette a lavorare fino al termine, che non di rado partorivano accanto alle macchine.

Tuttavia fu nell’Ideologia tedesca che Marx e Engels diedero maggiore struttura alla loro visione della condizione femminile, affermando che la famiglia è qualcosa di più di una serie di relazioni biologiche, svelandone lo strettissimo legame con i modi di produzione.

Per la prima volta, la famiglia non era più immutabile: come ogni altro oggetto finito sotto la lente del materialismo marxista, la famiglia venne trattata empiricamente in tutte le fasi storiche e non considerata un assoluto, innato, sempre uguale a se stesso. La famiglia diventò un costrutto sociale determinato dalla dinamica dello scontro tra classi.

In quel meraviglioso libro che è l’Origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato, Engels spiegò come la prima forma di proprietà privata avesse origine proprio nella nascita della famiglia, proprio nel momento in cui le comunità umane divennero stanziali, in quel preciso momento in cui si produsse un surplus di beni da tramandare l’interno della propria linea dinastica. Monogamia, patriarcato, proprietà privata hanno un’origine comune e, a cascata, innescano la nascita della schiavitù, del debito, della moneta, in sintesi di quella società capitalista e patriarcale in cui ci troviamo a vivere ancora oggi. È quel preciso punto storico in cui patriarcato e capitalismo intrecciano le proprie radici che Engels definì come “la sconfitta storica del sesso femminile”.

Su queste basi teoriche marxiste e materialiste, qui solo accennate, alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, i teorici bolscevichi basarono il proprio intervento sul versante della lotta contro l’oppressione di genere, immaginando una società completamente diversa. Era imperativo liberare la donna dalla famiglia, e in generale le relazioni umane dalle pastoie dello Stato borghese. I rapporti umani dovevano essere liberi, non fungere da strutture di controllo sociale. Per farlo occorreva liberare i rapporti interpersonali dai lacci imposti dalla struttura economica della società precedente, che rendeva il calcolo e l’interesse una componente irrinunciabile di qualsiasi relazione amorosa o famigliare.

E i bolscevichi agirono da subito su questo terreno, nonostante avessero tantissimi problemi molto importanti di cui occuparsi all’indomani di una rivoluzione epocale.

Fin da subito risulta ovvio che le aspirazioni di liberazione sociale dei bolscevichi si discostano nettamente dal femminismo borghese suffragista di quegli anni per saldarsi senza tentennamenti alle rivendicazioni della lotta di classe. Questa è la chiave che ha consentito alle donne di ottenere così tanto in quell’epoca: saldare la lotta di classe alle rivendicazioni femministe e femminili significa abbattere alla radice i modi di produzione e la struttura economico politica e sociale che produce il patriarcato.

È la strada rivoluzionaria e non quella riformista a garantire la liberazione delle donne: lo si evince chiaramente dai dialoghi di Lenin con Clara Zetkin, con Inessa Armand e dalle opere di Aleksandra Kollontaj. Questo “matrimonio” tra lotta di classe e lotta femminista è un caposaldo che noi marxisti rivoluzionari non possiamo dimenticare, perché è valido oggi come allora: solo il rovesciamento del modo di produzione capitalistica può rovesciare contemporaneamente anche il patriarcato e liberare gli sfruttati, donne comprese.

Cosa ottennero dunque le donne all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre? Prestissimo, con due decreti del dicembre 1917 si abolì da un lato il matrimonio religioso e dall’altro si istituì quello civile. Chi voleva, poteva ancora sposarsi con i riti ecclesiastici che però non avevano alcun valore legale. Centinaia di anni di dominio della Chiesa sulla vita più intima delle persone vennero così spazzati via con un colpo di penna.

La seconda misura fu l’introduzione del divorzio su richiesta di una delle due parti. È quasi incredibile pensare che, a due mesi dalla presa del Palazzo d’Inverno, siano proprio queste le misure che si preoccupano di prendere i bolscevichi.

Nel 1918, più precisamente in agosto (in piena turbolenza), viene varato il Codice sul matrimonio la famiglia e la tutela. Tale codice:

Aboliva lo status di inferiorità delle donne, conferendo quindi loro la parità sul piano formale e legale (primo paese al mondo).
Concedeva il divorzio alla richiesta di uno dei due coniugi senza motivazione, istituendo gli alimenti per entrambi, a prescindere da chi fosse la parte più debole.
Abolì lo status di illegittimità dei figli nati fuori dal matrimonio (questa misura in Italia è stata introdotta con decreto legislativo n. 154 del… 2013).
Tutte queste misure vennero varate in un profondo clima di scambio, dialogo e dibattito all’interno del partito bolscevico, come sempre. Alcuni volevano abolire completamente il matrimonio, eliminando anche la procedura civile. Altri ne difendevano l’utilità. Si decise infine, giustamente, di garantire il matrimonio civile, anche come strumento per combattere l’egemonia ecclesiastica e come fase di transizione verso una società in cui il matrimonio sarebbe stato superfluo.

Questo codice familiare, come molte altre leggi bolsceviche, era un incipit per una società diversa che doveva ancora essere creata e testimonia la lungimiranza dei bolscevichi all’indomani della Rivoluzione. Era un codice di transizione verso un futuro in cui ogni individuo avrebbe avuto la propria indipendenza economica e la propria libertà affettiva e personale.

E funzionò. Nel 1925 solo un terzo dei matrimoni era accompagnato dalla funzione religiosa.

I bolscevichi riservarono un’attenzione particolare anche all’infanzia. Nonostante il paese versasse in una situazione terribile, in cui orde di orfani si aggiravano per le strade vivendo di furti, i bolscevichi scelsero di attuare una politica estremamente lungimirante in termini pedagogici. Anzi, operarono una vera e propria rivoluzione anche nella pedagogia, mettendo al centro il bambino e i suoi interessi, il suo sviluppo psicofisico e le sue inclinazioni, affermando che lo Stato doveva farsi carico di garantire il pieno sviluppo del bambino in tutto ciò che avrebbe voluto intraprendere nella vita. Una visione estremamente avanzata per l’epoca.

Un altro punto fondamentale del programma di liberazione sociale attuato dopo la Rivoluzione fu la socializzazione del lavoro domestico. Oggi non si riesce a parlare di questo argomento, neppure nei circoli femministi più avanzati, senza suscitare sguardi ironici o aperta disapprovazione. Lo si ritiene, nel migliore dei casi, un’utopia irrealizzabile (e nel sistema capitalista lo è). Nella Russia sovietica divenne, seppur per poco tempo, una realtà. Il lavoro domestico è lavoro e come tale deve essere retribuito e collettivizzato.

Fin dall’autunno del 1918 è stato adottato in tutto il paese un sistema di mense pubbliche. Certo, tali mense erano carenti, grazie al blocco che gli Stati imperialisti avevano imposto al neonato Stato rivoluzionario, tuttavia erano presenti e diffuse. Nel 1919-20, il 90% degli abitanti di San Pietroburgo mangiava regolarmente alle mense statali.

La Kollontaj scrive: “Nella storia della donna la separazione della cucina dal matrimonio è una grande riforma non meno importante della separazione dello Stato dalla Chiesa.”

Furono istituiti alloggi comunitari, per famiglie e persone sole. I lavori di casa venivano svolti da donne delle pulizie salariate, in molte di queste abitazioni vi erano lavanderie centralizzate, asili, scuole.

I bolscevichi fecero tanto anche per la liberazione della sfera sessuale degli individui. Nella stesura del 1926, il codice prevede gli stessi diritti per le coppie di fatto, i conviventi non sposati, cancellando sostanzialmente la differenza tra convivenza e matrimonio. Noi occidentali progrediti abbiamo dovuto aspettare fino all’anno scorso. L’omosessualità fu depenalizzata già nel 1917 e gli omosessuali potevano entrare nel partito bolscevico.

Un altro diritto fondamentale che conquistarono le donne russe fu l’aborto, persino in un momento di forte arretramento demografico. Nella Russia prerivoluzionaria il ricorso a metodi casalinghi per abortire era molto diffuso, tanto che nel 1920 i bolscevichi, guardando in faccia la realtà, riconobbero che la repressione era inutile e resero l’aborto legale e gratuito negli ospedali. Al di fuori di queste strutture l’aborto era pesantemente perseguito soprattutto a carico di chi lo provocava. Anche in questo caso l’Unione Sovietica è stata il primo paese al mondo a garantire alle donne questo diritto.

Anche se l’aborto era legale, libero e gratuito, i bolscevichi miravano a costruire una solida rete di aiuto per le madri, in modo da limitare il ricorso a questa pratica. I bolscevichi si impegnarono affinché la maternità fosse una scelta come un’altra e non con una condanna all’estromissione dalla vita sociale e lavorativa della donna.

La salute stessa della donna divenne importante come mai prima: nella Russia zarista vi erano 6 consultori per le donne incinte, nella Russia del 1921 ce n’erano 200, oltre a 138 centri per l’allattamento.

Ma non finisce qui. Vi erano apposite strutture di accompagnamento al parto, veri e propri “asili per madri” (135 nel 1921), per tutelare le donne in un periodo delicatissimo della loro vita prima e per settimane dopo la nascita, a discrezione delle donne. Qui venivano curate, seguite, nutrite, o semplicemente ospitate se non avevano voglia di aggiungere alla maternità gli altri lavori di casa. In queste strutture potevano trovare rifugio anche donne sposate in fuga dalla violenza ed erano prese d’assalto anche da donne celibi che qui trovavano cure e riposo.

Cosa è accaduto a tutte queste conquiste?

Lo sappiamo: il soffocamento della rivoluzione in un solo paese, la burocratizzazione staliniana e il tradimento dello spirito e della prassi rivoluzionaria hanno portato alla sgretolazione della società bolscevica, sostituita da quell’orrore grigio, autoritario e povero che ora nell’immaginario collettivo mondiale è purtroppo collegato al comunismo.

Nel 1936 sui giornali veniva propagandato uno Stato forte, basato sulla solida famiglia sovietica.

Il Zhenotdel, la sezione femminile e femminista del partito che tanto aveva fatto per l’avanzamento delle donne venne chiuso nel 1930. Nel 1933 l’omosessualità divenne nuovamente reato.

La pluralità di visioni e di opinioni presenti sui giornali terminò nel 1934. Molti di coloro che collaborarono alla scrittura del codice sulla famiglia o che ne discussero i principi vennero uccisi dal terrore staliniano.

Nel 1936 venne abolito l’aborto e con la legge sulla famiglia del 1944 morì definitivamente la liberazione della donna come concepita dai rivoluzionari e dalle rivoluzionarie bolsceviche: venne re-introdotta la differenza fra figli legittimi e non, si abbandonò l’educazione collettiva dei bambini e si aprì la strada alla concezione della donna e della famiglia in salsa fascio-staliniana, con relativo apparato propagandistico.

Una fine ingloriosa per un modello sociale che non era un sogno, ma che si avviava ad essere realtà concreta anche in uno stato poverissimo, affamato e arretrato.

In ciò che ottennero le donne all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre è contenuta la risposta al “che fare” di oggi. Solo l’abbattimento congiunto di patriarcato e capitale può rovesciare concretamente l’odierna oppressione femminile. Il resto è la solita favoletta riformista che tante lotte ha infilato in un vicolo cieco.
MG
 

Il lavoro sporco dell'Italia in Africa

 Le vere ragioni della spedizione in Niger

26 Dicembre 2017
«Se l'Europa vuole che facciamo il lavoro sporco con i migranti, deve mettere mano al portafoglio. L'aiuto UE è più che benvenuto». Sono le parole testuali del Presidente del Niger Mahamadou Issoufou dello scorso marzo. Sono parole che spiegano la vera natura della politica europea sul fronte dell'immigrazione, in primo luogo di quella italiana. Non solo in Libia, ma nell'Africa profonda.
“Lavoro sporco con i migranti” non significa solamente accordo politico diretto con le milizie libiche e i governi rivali di al-Sarraj e Haftar per segregare uomini, donne, bambini in luoghi di tortura e stupri, dopo aver bloccato manu militari la loro fuga via mare; non significa solamente finanziare ed equipaggiare queste funzioni criminali di polizia, formalmente nel nome della lotta ai trafficanti di esseri umani, in realtà assicurando loro un nuovo lucroso mercato (dalla compravendita di schiavi al loro uso in veste di ostaggi per estorcere soldi alle loro famiglie). Lavoro sporco significa anche e sempre più bloccare i migranti alla partenza, negare loro alla radice il diritto di fuga dalla propria disperazione. Qui sta la nuova frontiera dell'Unione Europea in Niger e nei paesi del Sahel. Il governo del Niger incassa dalla Unione Europea i cosiddetti aiuti (naturalmente... “umanitari”), in cambio assicura alla UE il blocco dei migranti nel proprio territorio, attraverso un'ordinaria criminalizzazione dei migranti stessi. La proposta tedesca, francese, italiana di istituire campi di “accoglienza” in Niger vuol dare una parvenza legale a questa partita di scambio criminale. Il fatto che questa funzione di polizia sia finanziata dalle casse del Fondo Europeo di Sviluppo dà la misura dell'ipocrisia imperialista, oltre a spiegare la vera natura della UE.

Ma i governi imperialisti della UE non si limitano a foraggiare il lavoro sporco del governo nigerino. Inviano direttamente proprie spedizioni militari lungo le frontiere del Sahel. L'annunciato invio di un corpo militare di spedizione di 500 uomini in Niger da parte del governo Gentiloni è parte della politica africana della UE. La Francia presidia la propria area ex coloniale africana con oltre 4000 soldati e decine di basi (Mauritania, Ciad, Mali, Burkina Faso, Niger), mentre la Germania ha accresciuto sino a mille soldati la propria presenza nel Sahel, facendone il principale teatro di propria presenza estera del dopoguerra.


LA NUOVA CORSA ALL'AFRICA

La verità è che non siamo di fronte unicamente alla questione dei migranti. È in corso una vera e propria competizione mondiale tra potenze imperialiste vecchie e nuove per il controllo e la spartizione dell'Africa. Le truppe seguono la rotta degli affari. Attraverso la diretta presenza sul terreno servono a sostenere le ragioni negoziali dei propri imperialismi al tavolo della spartizione. Ai lavoratori europei si chiede di pagare di tasca propria i costi della gara tra i loro sfruttatori, sulla pelle dei popoli di un altro continente.

L'Africa è un continente ricchissimo di materie prime. Possiede terre libere coltivabili di oltre 200 milioni di ettari. Rappresenta un'immensa riserva disponibile di giovanissima manodopera. Non a caso la Cina ha fatto dell'Africa un proprio bacino di espansione, con tutto l'arsenale delle politiche imperialiste: acquisizione di terre e materie prime in cambio di indebitamento, esportazione di capitale finanziario, costruzione e controllo di infrastrutture strategiche in campo portuale e ferroviario: un enorme cantiere a cielo aperto sotto bandiera cinese.

Gli imperialismi europei e la loro “unione” cercano una risposta all'espansione africana della Cina, sia provando a integrarsi nella filiera di affari che la Cina ha attivato, sia puntando a un controbilanciamento in termini di salvaguardia di propri presidi e aree di influenza.
La Francia fa perno sulla Costa d'Avorio e sulla massa monetaria del franco CFA occidentale per irradiarsi in Nigeria e Ghana, oggi all'apice dello sviluppo africano, mentre tutela i propri interessi in Niger in fatto di petrolio, gas naturale, oro, diamanti, ma soprattutto uranio. Al tempo stesso Parigi ha difficoltà a preservare il vecchio monopolio sulla Francafrique, come dimostra la sua richiesta d'aiuto all'Unione Europea per una presenza militare in Mali. Lo sfondamento economico cinese in Niger (che è ormai ultraindebitato con la Cina) è un altro segno delle difficoltà francesi.


L'ITALIA CERCA IL PROPRIO POSTO AL SOLE

In questo contesto l'Italia cerca nuovamente il proprio posto al sole. Da un lato dando sponda, nel proprio interesse, alle esigenze della Francia; dall'altro contendendo proprio alla Francia spazi e mercati nel cuore dell'Africa. L'imperialismo italiano in Africa (e non solo) è tutt'altro che un imperialismo straccione. Nel 2016 l'Italia è divenuta terzo paese investitore al mondo nel continente africano. ENI è la principale azienda europea in Africa, con un ampio raggio di espansione dall'Egitto al Mozambico. ENEL ha conquistato il primato in fatto di energie rinnovabili. “L'Africa è la nostra profondità strategica”, dichiara alla rivista Limes il sottosegretario Giro, che non manca di vantare l'attuale ruolo italiano in Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia: guarda caso i luoghi dei crimini coloniali dell'imperialismo tricolore, in epoca sia liberale che fascista. L'imperialismo torna sempre sui luoghi del delitto.

Qui il cerchio si chiude. La nuova corsa all'Africa delle potenze imperialiste vecchie e nuove è e sarà un nuovo fattore di saccheggio delle risorse e dei popoli del continente nero. Per questo le migrazioni bibliche continueranno, assieme alle barriere poliziesche che vorrebbero impedirle o bloccarle, col seguito annunciato di nuovi orrori e sofferenze. Il sostegno di Francia, Germania, Italia e Spagna alla nuova forza militare congiunta di Niger, Ciad, Mali, Mauritania, per “contrastare il flusso migratorio” è solo un nuovo paragrafo di questo lungo libro.

“Aiutiamoli a casa loro”, recita il mantra della propaganda dominante, sulle labbra di Renzi, Di Maio, Salvini. Ma il sottotesto vero è un altro: segreghiamoli in casa loro, con porte e finestre sbarrate da nostri gendarmi e da poliziotti locali, e contemporaneamente occupiamo noi quella casa, come già facemmo per secoli , spartendoci il bottino. Milioni di africani segregati nella propria terra lavoreranno al servizio dei nostri capitali in cambio di salari miserabili e con orari di lavoro massacranti. Come già avviene nelle miniere d'oro e di diamanti di Niger e Congo, nei campi sterminati del Kenya e dell'Angola, nelle fabbriche tessili di Etiopia ed Eritrea. Spesso con donne e bambini, privati del diritto alla vita e al futuro. Spesso sotto bandiera tricolore.

Altro che difesa della “sovranità nazionale dell'Italia” contro “il dominio tedesco”, come rivendicano i nazionalisti di tutte le risme, inclusi i nazionalisti “di sinistra” che giurano sulla Costituzione italiana.

Il lavoro sporco è la natura stessa dell'imperialismo, a partire dal nostro.
Solo una rivoluzione socialista potrà voltare pagina. In Italia, in Europa, in Africa, ovunque.
Partito Comunista dei Lavoratori
 

Per una sinistra rivoluzionaria. Il nostro programma

  IL PROGRAMMA PER UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA

Siamo entrati nel decimo anno dall’inizio della crisi economica. Renzi, Gentiloni, Padoan e Draghi ci dicono che la crisi è oramai finita, ma le cose non stanno realmente così. La ripresa italiana è la più bassa in Europa, il nostro Pil è ancora ben lontano dai livelli pre-crisi e in questi anni è andato perduto il 25% della capacità produttiva del paese.La crisi però non ha colpito tutti allo stesso modo in questi dieci anni. Da una parte sono aumentati i disoccupati, i salari sono crollati, il lavoro si è precarizzato e molti piccoli commercianti sono stati costretti a chiudere; dall’altra le grandi aziende, le multinazionali e i gruppi finanziari hanno fatto profitti favolosi e i top manager hanno incassato compensi d’oro spropositati. Tutti i dati confermano che la disuguaglianza sociale non è mai stata così alta. Eppure tutte le forze dell’arco parlamentare italiano non fanno altro che tutelare gli interessi di questa elite economica. Basti pensare a come tutti i leader politici, Salvini e Di Maio compresi, sono andati a scodinzolare al convegno di Cernobbio, che riunisce ogni anno il gotha dell’alta finanza. Oppure basta ricordarsi di come tutti i governi dagli anni 90’ ad oggi non abbiano fatto altro che tagliare i finanziamenti ai servizi sociali che riguardano tutti (sanità, pensioni, scuola, ricerca…) per drenare quattrini a favore delle grandi imprese sotto le forme più svariate (incentivi economici, sgravi fiscali, investimenti pubblici, privatizzazioni…).
Tutto questo è inaccettabile ed è durato fin troppo. È ora di una rivoluzione, che rovesci completamente questo sistema politico-economico in cui i diritti, i bisogni e le aspirazioni dei tanti sono calpestati in nome dei super-profitti di pochi. Fino ad oggi hanno governato i banchieri, gli speculatori, i faccendieri… proprio quelli che la crisi l’hanno provocata. È ora che al governo vadano i lavoratori, che invece finora la crisi l’hanno pagata. Ci hanno sempre detto che non ci sono le risorse per una politica diversa, per una politica a favore delle classi popolari. Ma in realtà queste risorse ci sono, il problema è che sono concentrate nelle mani di una ristretta minoranza. È lì che dobbiamo andare a prenderle per metterle a disposizione della società nel suo complesso. Finché non faremo questo, non ci sarà mai un vero cambiamento.

NO AL PAGAMENTO DEL DEBITO

Qualsiasi governo voglia davvero prendere misure a sostegno dei lavoratori, dei disoccupati e dei pensionati si troverà innanzitutto di fronte all’ostacolo rappresentato dall’Unione Europea e dal pagamento degli interessi sul debito pubblico. Le istituzioni europee in questi anni non hanno fatto altro che imporre in modo inflessibile le più spietate politiche di austerità, proprio per far rispettare il pagamento del debito.


È bene ricordare che il debito dello Stato italiano è stato contratto solo in minima parte da famiglie e piccoli risparmiatori, mentre il grosso è nelle mani di banche, assicurazioni e fondi d’investimento, sia nazionali che internazionali. Di fatto ci hanno spremuto con le politiche di lacrime e sangue solo ed esclusivamente per garantire la remunerazione del grande capitale finanziario.
Di fronte a questa vergogna, tutte le forze politiche si limitano a parlare di “avviare trattative con le istituzioni europee”, ma il caso della Grecia ci ha insegnato che la Trojka non è disponibile a fare la minima concessione, a costo di trascinare un intero paese nella miseria più nera. Non è possibile fare politiche di spesa sociale e allo stesso tempo restare all’interno dei parametri di questa Unione Europea.

  • Abolizione del pareggio di bilancio nella Costituzione.

  • Rifiuto del pagamento del debito, tranne che ai piccoli risparmiatori.

  • Rottura unilaterale dei trattati europei, NO all’Unione europea capitalista.

PER LA NAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA BANCARIO

Mentre l’Istat ci dice che 18 milioni di italiani sono a rischio povertà, il governo ha stanziato la bellezza di 26 miliardi di euro per salvare le banche venete e il Monte dei Paschi di Siena. E questo potrebbe essere solo l’inizio, visto che l’intero sistema bancario italiano è in sofferenza a causa dell’alto numero di crediti deteriorati.

Anche la Banca Centrale Europea ha pompato liquidità a piene mani sui mercati finanziari per tenere a galla le banche. Il conto di questo fiume di denaro è stato presentato alle popolazioni dei vari paesi europei attraverso le politiche di austerità.

In pratica tutti i sacrifici che ci hanno imposto sono serviti per consentire alle banche di mantenere alto il livello dei profitti, proseguire nelle loro speculazioni azzardate e premiare i manager responsabili del dissesto con liquidazioni a sei zeri.

  • Nazionalizzazione del sistema bancario, senza indennizzo per i grandi azionisti e con garanzia pubblica per i depositi dei piccoli risparmiatori.

  • Creazione di un’unica grande banca pubblica nazionale, in grado di mettere in campo gli investimenti necessari a rilanciare l’economia.



LA LOTTA ALLA DISOCCUPAZIONE E LA DIFESA DEL SALARIO

I governi in questi anni hanno trovato un modo molto originale per combattere la disoccupazione: consentire alle aziende di licenziare più facilmente, sia con il Jobs Act che con i contratti precari. Il risultato è che i posti i lavoro non sono aumentati, ma sono diminuiti. In Italia ci sono oggi più di 3 milioni di disoccupati e tutti i nuovi contratti sono a termine.

Peraltro la disoccupazione è stata trasformata in un business: gli uffici pubblici di collocamento sono stati sostituiti da agenzie interinali private e i corsi di formazione per i disoccupati sono serviti solo per incassare i fondi europei.

Anche chi un lavoro ce l’ha, ha visto ridurre drasticamente il potere d’acquisto del suo stipendio. I salari italiani sono tra i più bassi d’Europa. Tanti, pur di lavorare, hanno accettato condizioni di lavoro sempre peggiori. Giornate di lavoro di 10-12 ore, lavoro domenicale, finte partite iva, corrieri pagati a consegna… fino al lavoro nero e al caporalato.

Siamo arrivati al paradosso del lavoro gratuito: il sociologo Domenico De Masi, tenuto in grande considerazione dal Movimento 5 Stelle, sostiene che per ridurre la disoccupazione, i disoccupati dovrebbero lavorare gratis…

Tutto questo deve essere completamente ribaltato. Per aumentare l’occupazione innanzitutto bisogna che chi ha un lavoro non lo perda; in secondo luogo il lavoro disponibile deve essere distribuito tra tutti attraverso la riduzione dell’orario di lavoro. Inoltre ai lavoratori e ai disoccupati devono essere riconosciuti i mezzi necessari per vivere dignitosamente.

  • Abolizione del Jobs Act, ripristino dell’art. 18 e sua estensione a tutti i lavoratori dipendenti. Nessuno deve essere licenziato senza giusta causa.

  • Trasformazione dei contratti precari in contratti a tempo indeterminato.

  • Salario minimo intercategoriale fissato per legge, non inferiore ai 1.200 euro mensili.

  • Una nuova scala mobile che indicizzi tutti i salari all’inflazione reale.

  • Salario garantito ai disoccupati pari all’80% del salario minimo.

  • Riduzione dell’orario di lavoro a un massimo di 32 ore settimanali a parità di salario.

  • Abolizione delle agenzie interinali e ritorno al collocamento pubblico.

  • Contrasto frontale al lavoro nero, le aziende che ne fanno uso devono essere espropriate.

UN’ECONOMIA SOTTO IL CONTROLLO DEI LAVORATORI



Ci hanno sempre raccontato che “il privato funziona meglio”, eppure la crisi ha completamente sfatato questo mito. Guardiamo a cosa hanno portato le privatizzazioni: aumento generalizzato di prezzi e tariffe, peggioramento complessivo dei servizi ai cittadini e peggioramento delle condizioni di lavoro dei dipendenti delle aziende privatizzate. Le privatizzazioni e le esternalizzazioni hanno inoltre aperto la strada, attraverso il sistema degli appalti e dei sub-appalti, alle infiltrazioni della criminalità organizzata in una serie di settori, come quello dei rifiuti.
Ancora più desolante è il panorama delle infinite crisi industriali. Non si contano le imprese che, nonostante gli aiuti pubblici, hanno chiuso, licenziato e delocalizzato all’estero per risparmiare sulla manodopera.



In questi casi la soluzione non può essere “l’intervento pubblico”, che in Italia va sempre a finire allo stesso modo: lo Stato ci mette i soldi, ma la gestione e i profitti rimangono nelle mani dei privati. È invece necessario rimettere in discussione la proprietà e la gestione private di una serie di attività economiche. Questo è ancor più vero nel campo dei servizi essenziali per la collettività (energia, acqua, trasporti, telecomunicazioni…), che per la loro stessa natura non possono essere impostati sulla logica del profitto.



Non si tratta solo di nazionalizzazioni, ma di controllo dei lavoratori sulla produzione. Nelle grandi aziende “la proprietà” non ha alcun ruolo attivo: si tratta di cordate di grandi azionisti, che si limitano a nominare il management e intascarsi i dividendi in modo totalmente parassitario. La gestione delle imprese deve essere affidata agli operai, agli impiegati e ai tecnici che ci lavorano ogni giorno, che le conoscono in modo approfondito e che le fanno funzionare concretamente.
Aziende dirette da un comitato democraticamente eletto da tutti i lavoratori, senza il fardello degli utili agli azionisti e dei bonus milionari ai manager, potranno funzionare molto meglio di prima.

  • Esproprio di tutte le aziende che chiudono, licenziano e delocalizzano.

  • Nazionalizzazione di tutte le aziende privatizzate.

  • Nazionalizzazione dei grandi gruppi industriali, senza indennizzo eccetto che per i piccoli azionisti.

  • Nazionalizzazione delle reti di trasporti, telecomunicazioni, energia, acqua e ciclo dei rifiuti.

  • Tutte le azienda nazionalizzate siano poste sotto il controllo e la gestione dei lavoratori.

PENSIONI PUBBLICHE E DIGNITOSE PER TUTTI

Viviamo in un mondo paradossale, dove tutto funziona all’incontrario. Da una parte abbiamo la disoccupazione giovanile al 35% e dall’altra riforme che continuano ad alzare l’età pensionabile. Così ci sono i giovani che non trovano lavoro e allo stesso tempo gli anziani che sono costretti a continuare a lavorare.

Si dice che questo è necessario per i conti dell’Inps. In realtà le casse dei lavoratori dipendenti sono sostanzialmente in pareggio. Il problema è che sono a carico dell’Inps una gran quantità di spese che niente hanno a che fare con le pensioni. È il caso degli ammortizzatori sociali, ma anche della decontribuzione fiscale sulle nuove assunzioni regalata da Renzi agli imprenditori assieme al Jobs Act.
Se vogliamo creare lavoro per i giovani, cominciamo mandando in pensione chi ha già lavorato tutta una vita.

  • Abolizione della legge Fornero.

  • In pensione con 35 anni di lavoro o 60 anni di età.

  • Pensione pari all’80% dell’ultimo salario e comunque non inferiore al salario minimo.


PER UN SISTEMA SANITARIO UNIVERSALE E GRATUITO

Anni di tagli hanno devastato il sistema sanitario nazionale. Negli ospedali mancano i fondi, c’è carenza di personale e le apparecchiature non sono adeguate.
Il processo di privatizzazione ha poi portato a una divisione di classe tra pazienti di serie A, che possono permettersi di pagare le prestazioni e hanno una corsa preferenziale, e pazienti di serie B, che invece devono aspettare mesi per un esame, spesso all’interno della stessa struttura.

  • Raddoppio immediato dei fondi destinati alla sanità.

  • Abolizione di ogni finanziamento alla sanità privata e della pratica privata all’interno delle strutture pubbliche. Per un unico sistema sanitario pubblico e gratuito.

  • Abolizione dei ticket sui medicinali e sulle prestazioni specialistiche.

  • Nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori dell’industria farmaceutica.

  • Difesa dei piccoli presidi ospedalieri.

PER UN’ISTRUZIONE PUBBLICA, GRATUITA E DEMOCRATICA

Le scuole e le università italiane versano in uno stato pietoso, soprattutto per la mancanza di risorse adeguate. Tutti i costi vengono scaricati sulle famiglie: aumento delle tasse scolastiche e universitarie, contributi extra richiesti alle famiglie, riduzione delle borse di studio… In questo modo il diritto allo studio non è garantito per tutti, tanto più che aumentano i numeri chiusi e i test d’ingresso.
Il governo Renzi ha peggiorato una situazione già compromessa. Con la riforma della “Buona Scuola” le scuole sono state trasformate in aziende in concorrenza tra loro. Con l’alternanza scuola-lavoro, utilizzando la scusa di “formare i giovani”, gli studenti vanno a fornire manodopera gratuita alle aziende e l’unica cosa che imparano è ad essere sfruttati.

  • Abolizione della Buona Scuola e dell’alternanza scuola-lavoro

  • Raddoppio dei fondi destinati alla pubblica istruzione. No a qualsiasi finanziamento alle scuole private.

  • Per un piano nazionale di edilizia scolastica.

  • No al numero chiuso e ai test d’ingresso nelle università e nelle scuole.

  • No ai contributi delle famiglie alle spese scolastiche. La scuola pubblica deve essere gratuita.

  • Per una scuola pubblica, laica e gratuita per tutti.


PER L’UNITA’ TRA LAVORATORI ITALIANI E IMMIGRATI

Ci vogliono far credere che la colpa di tutti i mali – dalla disoccupazione ai tagli dei servizi sociali, dal degrado delle periferie al problema casa – sia degli immigrati. Tutti i partiti fanno a gara a chi adotta la posizione più razzista e repressiva sul tema dell’immigrazione. In questa competizione disgustosa il ministro Minniti si è aggiudicato il primo premio, appaltando la gestione dei profughi alle bande di tagliagole libici, in totale dispregio dei diritti umani.

Ogni menzogna è buona per alimentare il clima d’odio contro gli stranieri. La balla più clamorosa è quella per cui gli immigrati ricevono soldi dallo Stato, quando in realtà i fondi pubblici vengono intascati dai privati che gestiscono i centri di accoglienza, dove i migranti sono reclusi in condizioni disumane.

In realtà oggi in Italia gli immigrati rappresentano una parte importante della classe lavoratrice in molti settori, dall’edilizia alla logistica, dalla manifattura all’assistenza sanitaria. Ogni legge che discrimina gli immigrati non fa altro che indebolire i lavoratori nel loro complesso e alimentare una guerra tra poveri, utile solo a chi vuole mantenere l’attuale sistema di potere.

  • Abolizione del decreto Minniti, della Bossi-Fini e di tutte le leggi che discriminano gli immigrati.

  • Abolizione del reato di immigrazione clandestina.

  • Diritto di voto per chi risiede in Italia da un anno.

  • Cittadinanza dopo 3 anni per chi ne faccia richiesta.

  • Cittadinanza italiana per tutti i nati in Italia.

LA LOTTA PER I DIRITTI DELLE DONNE

Tutte le forze politiche oggi fanno un gran parlare di violenza sulle donne, discriminazioni di genere, di abusi sessuali… ma nei fatti quale assistenza ricevono le donne in difficoltà dallo Stato? I consultori pubblici sono stati in gran parte smantellati. L’assistenza dei parenti anziani ricade interamente sulle famiglie. Persino il diritto all’aborto è messo in discussione dall’obiezione di coscienza dei medici, che raggiunge in media livelli tra il 70 e l’80%.

Dietro la retorica “rosa” a buon mercato la realtà è che, con il peggioramento della legislazione sul lavoro e i tagli ai servizi, è peggiorata anche la condizione delle donne. Di quale diritto alla maternità si può parlare per una lavoratrice precaria o assunta con il Jobs Act? Come potrà resistere alle molestie sessuali del suo datore di lavoro una lavoratrice che rischia di essere licenziata e lasciata in mezzo ad una strada? Come può una donna con figli emanciparsi davvero se non ci sono abbastanza posti negli asili nido pubblici e le rette degli asili privati sono proibitive?

  • Applicazione del pieno diritto all’aborto. Abolizione dell’obiezione di coscienza del personale medico.

  • Ripristino e potenziamento dei consultori pubblici.

  • Rete capillare di asili nido e scuole materne, pubblici e gratuiti, che coprano l’effettivo orario lavorativo.

  • Rete di strutture pubbliche per il sostegno ai parenti anziani.


PER IL RISCATTO DEL MEZZOGIORNO

Durante la crisi il divario tra Nord e Sud si è ulteriormente accentuato. Nel Mezzogiorno il 46% della popolazione è a rischio povertà e la disoccupazione giovanile in certe zone tocca punte del 60%. Nel giro di vent’anni sono emigrati due milioni e mezzo di persone dal Sud.
La presa della criminalità organizzata sul territorio diventa sempre più soffocante. La mafia, camorra e la ‘ndrangheta monopolizzano grandi fette dell’economia e spesso l’intreccio tra amministrazioni pubbliche, gruppi imprenditoriali e organizzazioni criminali è così fitto che è impossibile distinguere tra attività legali e illegali.

  • Piano di investimenti pubblici per il potenziamento dell’industria, delle infrastrutture e dei servizi al Sud.

  • Bonifica immediata dei territori inquinati da rifiuti tossici.

  • Esproprio delle aziende legate alla criminalità organizzata e confisca dei beni dei mafiosi.

LA DIFESA DELL’AMBIENTE

A mettere in pericolo l’ambiente in cui viviamo è soprattutto la logica del profitto. Inquinamento, speculazione edilizia, trivellazioni stanno distruggendo il territorio e la qualità della vita.
Si investono miliardi in grandi opere, come la Tav, che hanno un alto impatto ambientale e sono utili solo per far guadagnare le imprese di costruzione. E intanto le reti periferiche e i trasporti per i pendolari sono in stato di abbandono.

Il territorio, devastato dalla cementificazione selvaggia, è allo stremo: ogni pioggia diventa un’alluvione e ogni scossa sismica una tragedia.

  • Per un piano nazionale di riassetto idro-geologico del territorio.

  • Abbattimento degli eco-mostri e riqualificazione delle aree degradate.

  • Esproprio e riconversione delle aziende che inquinano.

  • No alle grandi opere inutili, per un trasporto pubblico efficiente e gratuito.


RIPRENDIAMOCI I SINDACATI

Durante la crisi i sindacati si sono dimostrate incapaci di contrastare efficacemente l’offensiva padronale. Ogni accordo sindacale non ha fatto altro che ratificare i passi indietro del movimento operaio. La distanza tra le burocrazie sindacali e i lavoratori che dovrebbero rappresentare non è mai stata così forte.

A questo si aggiunga che sono state adottate leggi volte a limitare pesantemente il diritto di sciopero, soprattutto nel pubblico servizio. Anche sul terreno della rappresentanza sindacale, con il Testo Unico del 10 gennaio 2014, si è imposto un giro di vite aumentando il peso degli apparati sindacali a scapito del controllo dal basso da parte dei lavoratori.

Sosteniamo tutte le lotte reali promosse dalle forze sindacali di classe, dentro una battaglia più generale per l’unificazione del movimento operaio.

I lavoratori devono riprendersi i loro sindacati e trasformarli nuovamente in organizzazioni democratiche di lotta, che siano in grado di difendere davvero i loro diritti.

  • Abolizione di tutte le leggi anti-sciopero.

  • Rappresentanze sindacali democratiche, con i soli delegati eletti dai lavoratori.

  • Piena agibilità per tutte le organizzazioni sindacali.

  • I rappresentanti sindacali devono essere revocabili in qualsiasi momento dell’assemblea che li ha eletti.

  • Salario operaio per i funzionari sindacali.


ROVESCIARE UN FISCO CLASSISTA

Si fa un gran parlare di lotta all’evasione, ma senza il minimo risultato concreto. Questo perché il sistema fiscale italiano è strutturato in modo da intrappolare i piccoli e lasciar passare i grandi. Mentre i lavoratori dipendenti vedono una fetta troppo grande della loro busta paga svanire in tasse e i piccoli commercianti sono letteralmente strangolati dalla pressione fiscale, i grandi patrimoni vengono messi al sicuro nei paradisi fiscali.

Tutti i governi si sono ben guardati da andare a toccare le rendite più alte e invece hanno spostato il peso del carico fiscale sui redditi bassi, anche attraverso il continuo innalzamento delle imposte indirette come l’Iva che, essendo slegate dal reddito, colpiscono soprattutto i ceti meno abbienti.

  • Abolizione delle imposte indirette.

  • Tassazione fortemente progressiva, che vada a colpire soprattutto i grandi patrimoni.

  • Esproprio del patrimonio dei grandi evasori fiscali.


LA LOTTA PER I DIRITTI CIVILI E DEMOCRATICI

Non solo siamo costretti ad una quotidianità di disoccupazione, precariato e sfruttamento, ma lo Stato pretende di regolamentare e reprimere in modo bigotto tutti gli altri aspetti della nostra vita, dalle preferenze sessuali alla gestione del tempo libero.

  • Estensione del matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso.

  • La possibilità di adozione deve essere indipendente dalla composizione del nucleo famigliare.

  • Abolizione delle leggi repressive del consumo di stupefacenti e di tutte le misure liberticide sia legali che amministrative (daspo, coprifuoco ecc.) rivolte in particolare contro le forme di socialità libere e non commerciali.

PER IL DIRITTO ALLA CASA

Il problema della casa riguarda un numero di persone sempre più grande. Prezzi, affitti e mutui sono al di fuori della portata di disoccupati e lavoratori precari. Il numero di case popolari è ridotto ai minimi termini e crescono ogni anno gli sfratti, i pignoramenti e le esecuzioni immobiliari. Allo stesso tempo le città sono sempre più cementificate a causa della speculazione edilizia e in tutta Italia ci sono ben 7 milioni di case sfitte, molte di queste appartenenti alle grandi immobiliari.

  • Censimento e riutilizzo di tutte le case sfitte.

  • Esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari.

  • Per un piano nazionale di edilizia popolare.

PER LA LAICITA’ DELLO STATO

È inaccettabile che in Italia la Chiesa cattolica eserciti continue ingerenze sui diritti e sulle libertà delle persone. D’altro canto la Chiesa non assolve solo ai suoi compiti “spirituali”, ma è una vera e propria potenza economica, che controlla uno sterminato patrimonio immobiliare, banche e grandi consorzi imprenditoriali come la Compagnia delle Opere. Come se tutto questo non bastasse, la Chiesa gode ancora di consistenti privilegi statali e finanziamenti pubblici.

  • Per la separazione tra Stato e Chiesa.

  • Abolizione del Concordato e dell’8 per mille. Nessun finanziamento pubblico o regime fiscale di favore per le confessioni religiose.

  • Esproprio del patrimonio immobiliare e finanziario della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali.

  • Abolizione dell’ora di insegnamento della religione cattolica nelle scuole.

NO ALL’IMPERIALISMO

Lo Stato italiano non ha i fondi per le scuole e gli ospedali, ma spende miliardi di euro in armamenti e missioni militari all’estero. Le truppe italiane in Iraq, in Libano, etc. non sono lì per portare la pace, ma per tutelare gli interessi economici delle imprese italiane. La proiezione estera delle imprese italiane, a partire dall’Europa dell’Est e dall’Africa, a caccia di materie prime ei di lavoro a basso costo ha un carattere classicamente imperialista.
Mentre Trump apre un focolaio di guerra dopo l’altro dalla Corea alla Palestina, è semplicemente scandaloso ma significativo che l’Italia sia ancora parte della coalizione militare della Nato guidata dall’imperialismo Usa.

  • Drastica riduzione delle spese militari.

  • Ritiro delle missioni militari all’estero.

  • Fuori l’Italia dalla Nato. Chiusura delle basi Nato e americane sul territorio italiano.


PER IL GOVERNO DEI LAVORATORI

Il sistema di democrazia parlamentare in Italia è marcio. Il parlamento non è più simbolo di “sovranità e rappresentanza popolare”, ma sinonimo di privilegi, scandali e corruzione.
Tutto si riduce ad una finzione. Ogni cinque anni ci chiamano a votare, ma tanto il programma di governo è già scritto dalle banche, dalla Confindustria e dalle istituzione europee. Tutte le decisioni fondamentali vengono prese da una potente burocrazia statale che nessuno ha eletto: banche centrali, dirigenti dei ministeri, enti amministrativi, commissioni di esperti, garanti, magistrati, prefetti…
La risposta a questa crisi politica non è quella di “riavvicinare i cittadini” a queste vecchie istituzioni screditate in nome di una falsa democrazia. Bisogna invece creare nuove istituzioni, in grado di rappresentare davvero i giovani, i lavoratori, i disoccupati e i pensionati.
Serve una democrazia dei lavoratori, fatta di consigli di delegati eletti nei luoghi di lavoro e di studio, di comitati nei quartieri popolari, di assemblee popolari cittadine. La vecchia burocrazia statale deve essere smantellata e il controllo dei lavoratori deve essere esteso a tutti i rami della vita pubblica.

  • Eleggibilità e revocabilità di tutte le cariche pubbliche.

  • Un tetto alla retribuzione delle cariche pubbliche, che corrisponda allo stipendio medio di un lavoratore qualificato.

  • Controllo dei lavoratori a tutti i livelli della pubblica amministrazione.

UNA PROSPETTIVA INTERNAZIONALISTA

Questo programma entra apertamente in contrasto con tutte le compatibilità del sistema capitalista. D’altronde il capitalismo ha dimostrato di essere un sistema che funziona solo per una ristretta minoranza, ma non è in grado di risolvere i problemi delle grandi masse.
Il nostro modello non è certo il “socialismo reale” che esisteva nei paesi dell’est, dove tutto era deciso dall’alto da un’onnipotente burocrazia statale e i diritti politici dei lavoratori erano calpestati. Il socialismo per cui ci battiamo è quello in cui le principali leve dell’economia non sono nelle mani di un’oligarchia parassitaria, ma appartengono a tutti e il loro utilizzo viene pianificato democraticamente attraverso il controllo dei lavoratori.
Questo programma non può essere realizzato su scala nazionale, non vogliamo isolare l’Italia dal resto del mondo. Siamo anzi convinti che se ci mettessimo con decisione su questa strada rivoluzionaria, offrendo finalmente un’alternativa all’austerità senza fine dell’Unione Europea, saremmo seguiti dalle classi lavoratrici di un paese europeo dopo l’altro.
Solo così si potrebbe ricreare la base per un’unità genuina tra le nazioni europee, attraverso una federazione volontaria costruita su basi economiche completamente nuove.

  • Per la federazione socialista d’Europa

Partito Comunista dei Lavoratori

Potere al Popolo. Rappresentazione e realtà

   
L'iniziativa di Potere al Popolo ci pare rifletta, sotto una veste apparentemente nuova, equivoci già vissuti e già falliti. Il contenuto politico che racchiude è ben diverso infatti, a ben vedere, dalla confezione d'immagine che lo ricopre.



IL PESO INGOMBRANTE DEL PASSATO

La retorica di accompagnamento della lista evoca in qualche modo la contrapposizione ai politici e ai partiti, declinando a sinistra il populismo (regressivo) di questi anni. Una sorta di Podemos all'italiana, in salsa sociale. Eppure precisi partiti, come Rifondazione Comunista e PCI (ex PdCI), sono parte costituente e decisiva della nuova lista. E non sono partiti qualsiasi. Sono partiti e gruppi dirigenti che sono stati coinvolti in cinque anni di governo negli ultimi venti (nel primo governo Prodi tra il 1996 e il 1998, e nel secondo governo Prodi tra il 2006 e il 2008) votando Pacchetto Treu, privatizzazioni, il taglio verticale delle tasse sui profitti, l'aumento delle spese militari, le missioni di guerra, i campi di detenzione contro i migranti. Possono presentarsi nel nome del “nuovo” e del “popolo” partiti compromessi nelle vecchie politiche antipopolari?
Possono farlo gruppi dirigenti che hanno varato, votato, difeso attivamente quelle politiche contro l'opposizione interna ai loro stessi partiti ?

Non è un caso se da molti anni Rifondazione Comunista non si presenta più con la propria faccia alle elezioni. Hanno avuto (e hanno) bisogno di nascondere i disastri compiuti, e le relative responsabilità, sotto diverse sembianze e colori: una volta l'Arcobaleno, poi la Rivoluzione Civile di Ingroia e Di Pietro, poi l'Altra Europa con Tsipras attorno a Barbara Spinelli, infine oggi il centro sociale Je so' pazzo. C'è un solo elemento costante: la rinuncia a presentarsi col proprio simbolo e la propria riconoscibilità, preferendo imboscarsi sotto mentite spoglie. Comprensibile. Ma perché un centro sociale deve prestarsi a far da sipario di questa operazione? E soprattutto: può farlo ammiccando alla contrapposizione... ai partiti?


IL DIRE E IL FARE. IL CAPITALISMO... MA SOTTO “CONTROLLO DEMOCRATICO”

Tuttavia l'equivoco della lista non riguarda solo il passato. Riguarda soprattutto il futuro. In ossequio alla natura reale di PRC e PCI, il programma di Potere al Popolo rimuove infatti la prospettiva comunista. Si limita a rivendicare “una società più libera, più giusta, più equa”, come recita testualmente la conclusione del programma. Un programma di pii desideri per l'umanità dolente, non un programma di rivoluzione per i proletari.

La retorica ispira l'intera impostazione.
«Non dobbiamo dire quello che siamo, dobbiamo fare... Smettiamo di evocare gli ideali, pratichiamoli... Facciamo le cooperative, quelle sane, facciamo le camere del lavoro, facciamo i luoghi dove la gente crea delle risposte, creiamo comunità... La distinzione tra riformisti e rivoluzionari avviene nella pratica... ricreiamo un sentimento di appartenenza a un'umanità diversa...» (dalle conclusioni dell'assemblea di lancio di Potere al Popolo a Napoli). Curioso. Nel nome del “fare” in contrapposizione al “dire”, si finisce col... dire ciò che dicevano (con un livello culturale forse più raffinato) i riformismi antichi. “Il movimento è tutto, il fine è nulla”, diceva Eduard Bernstein oltre un secolo fa per liquidare Marx. Così oggi Potere al Popolo. Con una differenza. Bernstein si riferiva nonostante tutto al movimento della lotta di classe. Qui si rivendica il movimento del mutualismo solidale come somma di pratiche esemplari di aree di avanguardia, prefigurazione “comunitaria” dell'umanità liberata. Basta “fare”, il resto verrà.

Ma se la “rivoluzione” si riduce a questo, il capitale può dormire davvero sonni tranquilli. Questa logica di fondo ha infatti una ricaduta diretta sul programma della nuova lista. Non sul dire ma sul fare.

Invece di ricondurre le lotte reali a una prospettiva di rottura anticapitalista, invece di spiegare che “una società più libera, più giusta, più equa” è possibile solamente con il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo - per cui occorre legare le rivendicazioni immediate di resistenza sociale ad una prospettiva di alternativa socialista - il programma di Potere al Popolo compie l'operazione opposta. L'asse ispiratore dell'intero programma è testualmente «Il controllo pubblico democratico sul mercato». Non la rivendicazione del controllo operaio come programma rivoluzionario, ma il controllo “democratico” sul capitale come ricostruzione di un patto sociale progressista. Resti il capitalismo, ma sotto il controllo “democratico”. Davvero si può presentare come nuova la più vecchia illusione di tutti i riformismi da un secolo e mezzo a questa parte?

Non è un caso se la Costituzione pattuita tra De Gasperi e Togliatti, a tutela della ricostruzione “democratica” del capitalismo, è assunta come colonna d'Ercole del programma.


UN PROGRAMMA MINIMO, MA ANCHE EVANESCENTE.
LAVORO, DEBITO, BANCHE, PENSIONI


Ma la cosa curiosa è che siccome la realtà concreta del capitale in crisi non è compatibile con alcuna seria rivendicazione di "giustizia ed equità", il programma di Potere al Popolo finisce con l'annacquare inevitabilmente le stesse rivendicazioni immediate. Nessun obiettivo programmatico chiaro, rimozione di ogni nodo strategico, sommatoria confusa di obiettivi con equilibri letterari di incerta fortuna.
Vediamo alcuni esempi.

Vogliamo «serie politiche di contrasto alla disoccupazione» (Potere al Popolo. Una proposta di programma). Bene. Ma si tratta di una petizione astratta. È possibile contrastare la disoccupazione senza battersi per una radicale riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga? Ed è possibile battersi oggi per una drastica riduzione dell'orario di lavoro (32 ore settimanali) senza scontrarsi frontalmente con un sistema capitalista globalizzato che aumenta ovunque orari di lavoro e sfruttamento? Naturalmente no.Il programma di Potere al Popolo glissa non a caso sul nodo del rapporto tra ripartizione del lavoro e diritto al reddito. Il M5S li contrappone per contrapporre i disoccupati agli operai. Andrebbero invece coniugati, per ricomporre un blocco sociale alternativo. Ma coniugarli, attorno alla centralità della ripartizione del lavoro, presuppone una logica anticapitalista, non semplicemente antiliberista. E questo è troppo per Potere al Popolo.

Vogliamo «che venga anticipata l'età pensionabile», dichiara il testo programmatico. Benissimo. Ma una evocazione così generica verrebbe oggi sottoscritta da Bersani e persino da Salvini. "Anticipare a quando?", questo è il punto decisivo che determina la natura reale di ciò che si rivendica. Per azzerare le controriforme pensionistiche degli ultimi due decenni occorre rivendicare l'età pensionabile a 60 anni o con 35 anni di lavoro. Ma è possibile realizzare questa elementare rivendicazione di giustizia ed equità senza abolire l'enorme zavorra del debito pubblico verso le banche e le compagnie di assicurazione che costa 70 miliardi annui di soli interessi? Evidentemente no. Il piccolo particolare è che l'abolizione del debito pubblico - che Potere al Popolo ignora - significa la rottura col capitale finanziario, ciò che il programma di Potere al Popolo non prevede. Il problema è allora risolto nel modo più semplice: lasciando indeterminato l'anticipo della pensione, e dunque consentendo ogni interpretazione possibile. Incluso l'anticipo rispetto a quanto previsto dalla Fornero, ciò che può risolversi persino in un innalzamento più contenuto dell'età pensionabile attuale.

Vogliamo «una lotta seria alla grande evasione fiscale», dichiara genericamente il programma. Ma è possibile senza una nazionalizzazione delle banche, oggi tempio della grande evasione? Una nazionalizzazione delle banche, a sua volta, se non si vuole metterla a carico dei lavoratori, deve escludere ogni indennizzo ai grandi azionisti. Ma come si può realizzare un esproprio del capitale finanziario senza rompere con la Costituzione borghese che prevede in ogni caso l'obbligo dell'indennizzo? Potere al Popolo risolve il problema con contorsioni letterarie. Nella prima versione del programma combina la nazionalizzazione delle banche con la «separazione tra banche di risparmio e di affari», ciò che in realtà presuppone la rinuncia alla nazionalizzazione. Nella versione finale ogni riferimento alla nazionalizzazione sembra semplicemente rimosso. Resta dunque il capitale finanziario, con tanti saluti alla “seria lotta all'evasione”, per non parlare del... potere del popolo.


L'ACROBAZIA LETTERARIA SULLA UNIONE EUROPEA. TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTO

L'acrobazia letteraria sull'Unione Europea completa il quadro. Vi si afferma tutto ma anche il suo contrario.

Il programma di Potere al Popolo sostiene che «l'Unione Europea ha agito come uno strumento delle classi dominanti». Ma la Unione Europea È uno strumento delle classi dominanti, in quanto unione degli Stati capitalisti del continente. Potrebbe forse “agire” diversamente da quello che è?
Si dichiara di voler «rompere l'Unione Europea dei trattati». Dunque si rivendicano altri trattati tra gli Stati capitalisti dell'Unione?
Si afferma di voler «ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo». Ma di quale spazio europeo stiamo parlando, quello di un'Europa socialista o quello della Unione Europea capitalistica?
«Vogliamo che le classi popolari siano chiamate ad esprimersi su tutte le decisioni prese sulle loro teste a qualunque livello – comunale, regionale, statale, europeo - pregresse o future». Bene. Ma, nell'attesa, perché Potere al Popolo... non “si esprime” con chiarezza sul fatto di rompere o meno con l'Unione Europea? Le classi popolari di cui si parla non hanno diritto di sapere qual è la posizione di Potere al Popolo sulla UE?

In realtà questi contorti equilibrismi sull'Unione Europea non sono casuali. Una prospettiva anticapitalista implica la nettezza della rottura con l'Unione degli Stati capitalistici europei, in direzione di una federazione socialista continentale. Il rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria trascina invece con sé un confuso balbettio che legittima ogni libera interpretazione del programma. Che non è solo un modo per tener dentro ogni soggetto e posizione (dalla linea europeista filo-Varoufakis di De Magistris alle posizioni Eurostop). È anche perciò stesso una forma obiettiva di inganno, molto politicista, ai danni del popolo cui ci si rivolge.


IL SILENZIO SULLA BUROCRAZIA SINDACALE

L'enfasi posta da Potere al Popolo sui movimenti di lotta cozza col silenzio totale sulla burocrazia sindacale e le sue responsabilità. Si denunciano giustamente lo strapotere padronale e le politiche dominanti. Ma si tace sul fatto che lo sfondamento padronale nei luoghi di lavoro è stato consentito dal sistematico disarmo del movimento operaio per mano delle burocrazie CGIL, CISL, UIL, che per trent'anni hanno negoziato non su un programma dei lavoratori ma sul programma di Confindustria, dei governi borghesi, della UE: dalla precarizzazione del lavoro, alla legge Fornero, al cosiddetto welfare aziendale. Potere al Popolo non ha nulla da dire su queste responsabilità?

Non si tratta di una questione “sindacale”, ma di una questione politica. Gli effetti della concertazione delle politiche padronali non si misurano solo in termini di conquiste sociali distrutte. Ma anche in termini di sfiducia, rassegnazione, arretramento dei livelli di lotta e di mobilitazione. Ciò che ha spianato la strada anche tra i lavoratori e gli sfruttati a sentimenti politici regressivi, populisti, xenofobi. A tutto danno dell'unità tra gli sfruttati.

Peraltro ricostruire un'opposizione sociale di massa (il “fare”, non il “dire”) significa contrapporsi alla passività della burocrazia sindacale sul terreno delle indicazioni di lotta: in ordine a piattaforme alternative, contestazione organizzata di contratti bidone, proposta di svolta unitaria e radicale nelle forme di lotta e di organizzazione (scioperi prolungati, casse di resistenza...). Senza la ricostruzione della forza di classe ogni rivendicazione progressiva è destinata a restare una parola vuota. Ma non c'è ricostruzione della forza senza assunzione della centralità di classe e senza costruzione di una direzione alternativa della classe. E non c'è direzione alternativa senza lotta aperta alla burocrazia sindacale.
Per questo il silenzio di Potere al Popolo sulla burocrazia sindacale non è un incidente casuale. È la misura dell'evanescenza del suo programma. Ma anche della subordinazione alla burocrazia sindacale dei partiti della sinistra che si sono imboscati nella lista.


LA FILOSOFIA DEL POTERE POPOLARE

L'intera filosofia del programma è peraltro riassunta con chiarezza nel capitolo finale del programma:

«[...] la questione centrale [è] la necessità di costruire il potere popolare. Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario. Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo: quello che noi – ma non solo noi – abbiamo provato a mettere in campo lo abbiamo chiamato controllo popolare. Il controllo popolare è, per noi, una palestra dove le classi popolari si abituano a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi, riprendendo innanzitutto confidenza con le istituzioni e i meccanismi che le governano».

Seguono gli esempi del cosiddetto controllo popolare: «la sorveglianza che abbiamo fatto sulla compravendita dei voti alle ultime elezioni amministrative a Napoli», «le visite che facciamo ai Centri di Accoglienza Straordinaria», «le apparizioni all'Ispettorato del Lavoro», «la battaglia per il diritto alla residenza e all'assistenza sanitaria per i senza fissa dimora. [...]».

Naturalmente nessuno di noi si sogna di contestare queste pratiche. Ma il punto è la prospettiva cui vengono finalizzate e da cui traggono spunto. Qui cade il castello retorico delle parole. Il "potere del popolo" non travalica le istituzioni borghesi dello Stato, con cui anzi occorrerebbe «riprendere confidenza». I «passaggi intermedi» del “controllo popolare” si riducono alla pratica delle iniziative di denuncia, contestazione e propaganda da parte di Je so' pazzo (e di una piccola avanguardia di movimento) all'interno dell'attuale quadro sociale e istituzionale. Nulla che riconduca alla necessità di un altro potere, che spezzi l'ossatura dello Stato borghese, che si fondi sull'autorganizzazione democratica e di massa di un'altra classe sociale. Nulla che riconduca al potere alternativo degli sfruttati, l'unico possibile potere del popolo. La giunta De Magistris, con l'appoggio di Je so' pazzo, è in fondo la metafora del potere popolare che si rivendica. Con buona pace delle privatizzazioni delle municipalizzate partenopee.

È la riprova che se rimuovi la prospettiva del governo dei lavoratori, quindi di una rottura rivoluzionaria, resta solo la subordinazione all'ordine esistente. A livello locale, nazionale, europeo. La confezione di belle frasi (il “dire”) non cambia la realtà delle cose.


TSIPRAS, MELENCHON, PODEMOS. I RIFERIMENTI INTERNAZIONALI SFORTUNATI DI POTERE AL POPOLO

L'incontro tra masse e istituzioni borghesi è stato peraltro celebrato da Je so' pazzo in occasione della vittoria elettorale di Tsipras e della formazione del suo governo, esaltato con toni enfatici «Abbiamo visto [...] i ministri scendere in mezzo al popolo, e persone di ogni età abbracciarli. [...] quando mai i poveri hanno abbracciato un governante?» (intervento di apertura dell'assemblea cittadina del 3 ottobre a Napoli, all'Ex OPG Je so' pazzo). Disgraziatamente sono passati due anni, e Tsipras ha realizzato passo dopo passo il programma della troika contro il suo popolo. Nessuna lezione da trarre?

I riferimenti internazionali di Potere al Popolo non sono fortunati.
Podemos, tramite Iglesias, ha dato la propria pubblica benedizione a Nicola Fratoianni (e Bersani) dopo aver voltato le spalle al diritto di autodeterminazione della Catalogna (vedi Il Manifesto del 16 dicembre). L'ex ministro Mélenchon, con la sua "Francia ribelle”, ha mandato il saluto a Potere al Popolo nel momento stesso in cui chiede ai propri sostenitori di sostituire la bandiera rossa con il tricolore, perché il confine tra sinistra e destra sarebbe superato da quello tra “oligarchia e popolo”: «Dobbiamo dialogare con il sovranismo della destra... Dobbiamo parlare della grandezza della Francia e del suo posto nel mondo...» dichiara a Le Monde il 23 ottobre.
Intanto il PCI, membro ufficiale della nuova lista popolare, rivendica la Cina come “grande paese socialista”, e onora le gesta di Kim Jong-Il alla testa della Corea del Nord. Mentre il suo principale referente europeo (il Partito Comunista Portoghese) vota in Portogallo una legge finanziaria che taglia del 30% gli investimenti pubblici per rispettare le direttive della UE.
È davvero il caso di dire: cosa non si fa nel nome del “popolo”.


FUTURO E PASSATO

I promotori della lista Potere al Popolo annunciano che la «follia andrà oltre la data del voto» (Il Manifesto 19/12), forse alludendo a una sorta di nuovo soggetto politico che unisca partiti e movimenti ispiratori della lista. Vedremo. Di certo non è una idea nuova. Quasi vent'anni fa il bertinottismo si nutrì esattamente della stessa cultura: mutualismo, movimentismo, superamento della forma partito e della centralità di classe, primato del “fare” sul “dire”... etc. Un'intera generazione di militanti di Rifondazione si formò su questo immaginario, sullo sfondo del movimento No global e dei social forum. Ma l'esito non fu felice. Il movimentismo coprì la rinegoziazione del centrosinistra, all'ombra di sottosegretariati e ministeri. Il prezzo del trauma lo paghiamo tutt'oggi, in termini di abbandoni, demotivazione, riflusso.

È vero, vi sono differenze profonde tra allora e oggi. Allora esisteva un movimento reale di settori giovanili, intrecciato con la dinamica di opposizione del movimento operaio e del movimento contro la guerra. Oggi l'intero scenario ha conosciuto un arretramento profondo, proprio a partire dal tradimento politico e sindacale di quella stagione.
Ma forse è una ragione in più per evitare di riconsegnare nuove passioni e generazioni ai responsabili politici di quel disastro (o ai loro eredi) e alle loro culture.
Per questo c'è bisogno tanto più oggi di una sinistra rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori