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Contronatura è solo il capitalismo

Scendiamo in piazza contro l'oscurantismo clericale e neofascista

27 Marzo 2019
Testo del volantino che distribuiremo a Verona
In questi giorni un consesso di forze reazionarie, neofasciste, estremisti religiosi e attivisti contro i diritti delle persone LGBTQI, con il sostegno del governo, si radunano per riconfermare la naturalità della famiglia. Una famiglia che si vuole sancita dai dettami religiosi.
In tutte le religioni la famiglia è una gabbia necessaria per stabilire gerarchie, garantire diritti di proprietà e servizi di cura e assistenza. Il sentimento ha ben poco a che fare con questo, è la concezione della famiglia come referente sociale centrale per le donne, dove poter risolvere le esigenze di liberazione di posti di lavoro per gli uomini e tornare a incorporare il lavoro di cura in un processo senza valore e sostitutivo dei servizi sociali che vengono progressivamente ridotti.

Si vuole rendere assoluta la sessualità eteronormata, che nasconde come è sotto gli occhi di tutte e tutti solo violenza, aggressioni, lesioni dei diritti dei soggetti più fragili: bambini, adolescenti e donne cresciute nell'insicurezza e nell'oppressione.
Si ripropone la tutela della maternità come progetto di ripopolazione razzista, reazionaria e nazionalista, di una polverosa concezione della riproduzione come baluardo della difesa della patria, anticipando la futura propaganda militarista e guerrafondaia.
Ed ancora, la negazione dei diritti delle persone LGBTQI è un mero strumento di oppressione delle differenze, così da schiacciare la società su un unico modello, allo scopo di poterla meglio controllare e reprimere. Un modello sociale ed economico fondato sull'alleanza tra capitalismo e patriarcato.

Contro tutto questo vogliamo la fine di tutti i privilegi politici ed economici della Chiesa e lottare contro tutte le forme religiose di oppressione delle donne e delle persone LGBTQI.

Rivendichiamo l'abolizione dell'obiezione di coscienza negli ospedali e lo stop dei finanziamenti statali alle scuole, alle strutture sanitarie e ai Centri antiviolenza di matrice religiosa.

Rivendichiamo il diritto di autodeterminazione nelle scelte di vita, che si ottiene a partire dall'autonomia economica e dalla garanzia di avere un lavoro.

Lavorare meno, lavorare tutti! La libertà dei soggetti della famiglia deve essere tanto nell'unione quanto nella disunione e scioglimento del vincolo familiare. Ciò è possibile solo se le persone sono economicamente autonome e indipendenti. Pertanto, la rivendicazione che il lavoro esistente venga redistribuito fra tutti e tutte a parità di salario e la cancellazione di tutte le leggi che hanno precarizzato il lavoro sono il primo passo per permettere che la famiglia si realizzi come libera unione.

Rivendichiamo un welfare interamente pubblico che liberi le donne dal peso del lavoro di cura nella prospettiva della sua socializzazione. No ai sussidi per le madri, ma difesa dei servizi sociali legati alla maternità: assistenza medica, no alla chiusura dei reparti di maternità di prossimità, asili, servizi di cura socializzati per i figli.
Rivendichiamo una scuola pubblica e senza stereotipi di genere. No all'educazione sessista, sì all'educazione sessuale nelle scuole.

Rivendichiamo la necessità di abbattere i confini e unire le lotte di tutti gli sfruttati attraverso l’accoglienza e la tutela delle/dei migranti e l’istituzione dello Ius soli. La nostra deve essere una lotta permanente sulle direttrici dell’internazionalismo, oltre che dell’anticapitalismo, anticlericalismo e antifascismo.
Difendiamo tutte le leggi frutto delle lotte del movimento delle donne e delle persone LGBTQI: aborto libero e gratuito, divorzio, unioni civili. Contrastiamo le modifiche proposte da questo governo e le nuove leggi sulla ripartizione dei beni dopo le separazioni, sull'affidamento dei/delle figli/e. Rivendichiamo la possibilità di adozione per tutte e tutti: dai singoli individui alle famiglie omosessuali, così come il diritto del matrimonio civile per le coppie omosessuali.
Lottiamo contro la riapertura delle case chiuse, contro lo sfruttamento della prostituzione e per il contrasto alla tratta.
Vogliamo una società nuova, liberata dal capitalismo e dal patriarcato, che non riconoscerà più nella famiglia monogamica la sua casamatta, ma che attraverso l'instaurazione di nuovi rapporti sociali liberi anche l'affettività delle persone.

QUESTA SOCIETÀ DOMINATA DALL'IDEOLOGIA BORGHESE DEL PROFITTO NON PUÒ GARANTIRCI QUESTE COSE. DOBBIAMO ABBATTERE IL CAPITALISMO E TUTTE LE FORME DI CONTROLLO SOCIALE CHE CI IMPONE.
DOBBIAMO RIVOLUZIONARE TUTTA LA SOCIETÀ SE VOGLIAMO CAMBIARE LA VITA DELLE DONNE E DI TUTTI I SOGGETTI OPPRESSI.
Partito Comunista dei Lavoratori

Comunisti e guerra in Kosovo. I crimini non vanno taciuti

20 anni fa la NATO aggrediva la Jugoslavia bombardando Belgrado, con la complicità dell’Italia e del Governo D’Alema. La maschera di una alleanza “difensiva” cadeva definitivamente, dinanzi all'evidenza di una aggressione criminale voluta dai grandi monopoli ma giustificata con il pretesto dei “diritti umani”, come poi sarebbe avvenuto in Iraq, Afghanistan, Libia, ecc. L’Italia non sia mai più complice di una guerra imperialista. Fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall'Italia.” 

Il Fronte della Gioventù Comunista (FGC), organizzazione giovanile del Partito Comunista di Marco Rizzo, con queste parole il 24 marzo ha ricordato l’inizio dei bombardamenti contro la Jugoslavia ad opera della NATO. Vent'anni fa Belgrado veniva bombardata, con aerei italiani che partivano dalla base italiana di Aviano. Un crimine imperialista che i rivoluzionari denunciarono allora e denunciano oggi. 

L’opposizione dei comunisti agli interventi dell’imperialismo è una questione di principio, e non è nostro interesse quindi polemizzare con questa giusta presa di posizione del FGC in merito a quei drammatici eventi. Anzi, siamo perfettamente d’accordo con la dichiarazione delle compagne e dei compagni. 

Tuttavia, ci pare necessario ricordare quale è stata la natura del governo D’Alema: un governo di cui faceva parte, con tanto di ministri, il Partito dei Comunisti Italiani, nato nel 1998 come scissione (di destra!) dal Partito della Rifondazione Comunista, con l’esplicita volontà di continuare a sostenere il primo governo Prodi, al quale Bertinotti era stato costretto a togliere la fiducia. 

Ebbene Marco Rizzo, oggi segretario del Partito Comunista, fu tra i principali organizzatori della scissione del Partito dei Comunisti Italiani, e all'epoca era deputato e coordinatore della segreteria nazionale del PdCI. 

A nulla possono valere i tentativi di giustificazione o rimbalzo di responsabilità riguardo ai fatti di vent'anni fa. La storia parla chiaro. Cossutta, Diliberto, Rizzo hanno rappresentato in Italia la peggiore deriva governista di uno stalinismo italiano che, nell'ottica delle “alleanze contro la destra” e dell’unità con il centrosinistra, è passato dai compromessi storici alla partecipazione criminale ai governi della guerra. 

C’è chi, come Marco Rizzo vent’anni fa, ha rotto con il PRC per appoggiare un governo di centrosinistra che ha bombardato Belgrado, e chi invece, come il Partito Comunista dei Lavoratori, è nato contro i governi di centrosinistra, contro i governi di guerra, per l’opposizione a tutti i governi borghesi. 

Si obietterà: “oggi Rizzo è cambiato, ha ammesso i suoi errori, il PC è alleato del grande KKE greco”. Tralasciando per un istante quali furono i veri motivi della “svolta a sinistra” che Marco Rizzo fece nel 2009, il punto è un altro: non è cambiato il bilancio che è necessario fare riguardo a tutta la storia dello stalinismo internazionale, perché è in questo che risiede l’origine degli errori. Non è forse vero che il KKE greco, oggi partito fratello del PC di Marco Rizzo, dall’alto della fraseologia pseudorivoluzionaria, ben dieci anni prima di Rizzo partecipò al governo di unità nazionale del 1989, a braccetto della socialdemocrazia e della destra postfascista? Può essere, questo, semplicemente un errore di percorso? 

Perché allora il FGC tace sulle responsabilità del segretario del Partito Comunista? Se sostenere un governo borghese è di per sé imperdonabile per i comunisti, sostenere e partecipare ad un governo di guerra non è un semplice errore o una svista, ma un crimine. 

Chiamare i propri dirigenti alle loro responsabilità, riscoprire il marxismo rivoluzionario e studiare con spirito libero la storia del movimento operaio e comunista: è questo l’invito e l’augurio che facciamo alle giovani compagne e compagni del FGC.
Partito Comunista dei Lavoratori

La Cina è vicina. Le capriole del sovranismo

“La Cina è vicina”, gridavano i maoisti di casa nostra cinquant'anni fa, nel nome della cosiddetta rivoluzione culturale. In realtà presentavano l'operazione burocratica stalinista della frazione di Mao contro la frazione di Liu come elisir del socialismo da indicare a modello. Ma nonostante tutto si riferivano a una Cina che era allora uno Stato operaio, seppur burocraticamente deformato, entro un quadro mondiale ancora segnato dal confronto tra imperialismi d'Occidente e blocco staliniano ad Est.

Ripetere oggi “la Cina è vicina” è cosa diversa, a fronte della realtà capitalistica e imperialistica della Cina attuale, restaurata dalla stessa burocrazia stalinista. Eppure è la cantica che si leva in questi giorni da diversi ambienti intellettuali e politici dell'area sovranista, in occasione degli accordi tra Italia e Cina.
«Accordo Italia-Cina: un'occasione storica per la difesa degli interessi del nostro popolo», scrive Mauro Gemma (Associazione Marx XXI). «Il PCI è per l'adesione italiana al progetto delle Nuove Vie della Seta» dichiarano Mauro Alboresi e Fosco Giannini, a nome del proprio partito. Ma anche l'area di Contropiano, seppur con toni meno enfatici, presenta l'accordo come «ossigeno puro per un'economia [italiana] asfissiata dalla austerità teutonica» (Francesco Piccioni).

La base di partenza è duplice. Da un lato, la caratterizzazione della Cina come paese socialista. Dall'altro, la rappresentazione dell'Italia come paese oppresso dalla Germania e dalla UE “tedesca”. Se queste sono le premesse, cosa c'è di meglio per “il nostro paese” dell'abbraccio liberatorio con Xi Jinping? L'accordo con la Cina diventa la celebrazione della “sovranità” riconquistata dell'Italia. Le obiezioni dell'imperialismo USA, le resistenze di Germania e Francia, non provano forse la bontà dell'accordo?

C'è davvero da stropicciarsi gli occhi di fronte a una rappresentazione tanto grottesca.
L'imperialismo USA fa i propri interessi, e dunque teme l'espansione della potenza imperialista cinese, sua rivale strategica. L'imperialismo tedesco fa i propri interessi, e dunque vuole tutelare la primazia dei propri affari con la Cina, e in Cina contro la concorrenza italiana. L'imperialismo francese fa i propri interessi, ha con l'Italia un contenzioso aperto su vari tavoli, e per questo osteggia l'operazione. Ma l'imperialismo italiano? Già, perché anche il “nostro” paese è un paese imperialista, che ha i suoi propri interessi. Più precisamente, l'Italia è la settima potenza mondiale e la seconda manifattura d'Europa. È alleata degli USA e della Germania, ma non è una loro colonia. Contende alla Germania l'egemonia nei Balcani, contende alla Francia l'egemonia nel Nord Africa, contende alla Spagna un'area di influenza in Sud America. Per questa stessa ragione oggi l'imperialismo italiano mira ad allargare il proprio bacino d'affari con la Cina e verso la Cina, il più grande mercato di merci e capitali esistente al mondo, e al tempo stesso la più grande potenza imperialista emergente.

La natura concreta dell'accordo è evidente per entrambi i contraenti. L'imperialismo cinese attraverso i porti italiani, Trieste in primis, allarga il canale di espansione in Europa, sbocco importante dei propri capitali in eccesso. L'imperialismo italiano attraverso l'accordo mira a contropartite altrettanto appetitose: l'apertura degli appalti pubblici in Cina per i costruttori italiani, l'allargamento delle esportazioni italiane nell'enorme mercato cinese, la compartecipazione italiana agli investimenti cinesi in Africa. La nomenclatura delle imprese italiane coinvolte negli accordi Italia-Cina è significativa: Ansaldo, SNAM, CDP, ENI, Intesa, Danieli... tutti i più grandi capitalisti italiani, nessuno escluso. Non meno significativo è l'appoggio della grande stampa padronale all'accordo italo-cinese. Persino la stampa borghese liberale, oggi all'opposizione del governo giallo-bruno, ha coperto e sostenuto l'accordo, sino ad offrire pagine intere, un lungo e largo tappeto rosso, all'intervento cerimonioso del leader cinese (Corriere della Sera). Per non parlare della Presidenza della Repubblica, grande sponsor istituzionale dell'intesa. Del resto il significato dell'accordo è stato illustrato nel modo più semplice da Du Fei, presidente della cinese CCCC, azienda gigantesca di costruzioni con 70 miliardi di dollari di fatturato e 118 mila dipendenti: “La torta è grande, mangiamola insieme” (testuale!). Questo è “l'ossigeno puro” dell'intesa: riguarda i profitti, non altro.

Il problema, allora, non è essere “a favore” o “contro” l'intesa tra l'imperialismo cinese e l'imperialismo italiano, ma di avere un angolo di sguardo indipendente sulla faccenda. Un angolo di sguardo che muova dall'interesse indipendente dei lavoratori, italiani e cinesi, e da una prospettiva socialista contro ogni imperialismo (USA, UE, Cina...), a partire dall'imperialismo nazionale di casa nostra. L'unica intesa Italia-Cina che ci può interessare è quella che passa per la costruzione di un'alleanza internazionale tra operai italiani e operai cinesi contro i rispettivi capitalisti e imperialismi. “Proletari di tutti i paesi, unitevi” significa questo. L'”unitevi” rivolto all'imperialismo italiano e cinese muove da una logica opposta: subalterna verso l'imperialismo di casa nostra e verso la realtà dell'imperialismo mondiale. Subalterna verso gli sfruttatori della classe lavoratrice, verso i nemici della causa socialista.
Partito Comunista dei Lavoratori

“Ogni tempesta comincia con una singola goccia”

Lorenzo Orsetti è morto combattendo da antifascista contro l’ISIS nella Siria orientale.
La sua scelta di essere un combattente del popolo curdo ha accompagnato parte della sua giovinezza fino al 18 marzo, quando è rimasto ucciso in uno degli ultimi scontri contro i miliziani dello stato islamico nella battaglia di Deir Ez-Zor.
Combatteva nelle YPG, le unità di difesa del popolo curdo, per quella rivoluzione del Rojava che aveva fatto propria ma mai abbandonando i suoi ideali di anarchico. Credeva nel confederalismo democratico: un’unione di popoli con un nuovo modello che unisce insieme curdi, arabi, cristiani, laici, islamici. Con questa visione ha cercato di battersi per i più deboli in una parte di mondo contesa da diversi interessi imperialistici. Non solo per il popolo curdo ma in difesa dell’umanità e contro la barbarie in un modo che solo i rivoluzionari conoscono e che a volte porta fino alle estreme conseguenze.
Aveva scritto un testamento ideale, nel caso fosse arrivato il suo momento:

«Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà. Quindi nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo, e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio. Vi auguro tutto il bene possibile, e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto, e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza, e di infonderla nei vostri compagni. E’ proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi quella goccia. Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole.»

Le sue parole sono rivolte a tutti, ma in particolare a chi crede ancora nella lotta di classe e nell’antifascismo. È un invito a non cedere mai, anche nei momenti più bui e difficili. Ci implora a non cadere nell’individualismo e di continuare organizzati insieme ai compagni di lotta. Un testamento che ci parla di tempi difficili di una fase dove i più deboli sono sacrificati in nome del profitto. In questa situazione anche la barbarie della reazione, il fascismo e razzismo fermentano dentro la cultura delle classi dominanti, che diventa anche parte della mentalità degli sfruttati, in uno scontro di esclusi contro esclusi, dove anche il ruolo della donna viene sottomesso in modo drammatico agli interessi di classe.
Lorenzo credeva in qualcosa di diverso, che la particolare “rivoluzione del Rojava” aveva creato. Il ruolo della donna, in particolare all’interno di un'idea di governo basata sul confederalismo democratico formulata da Abdullah Öcalan, con un municipalismo libertario ed un'ecologia sociale multi-culturale, antimonopolistica, ed orientati verso il secolarismo, il femminismo e l'ecologismo come pilastri centrali.
Questo modello di società non è privo di contraddizioni, ma è comunque ad un livello avanzato e progressivo rispetto a tutta l’area medio-orientale, ed è forse l’unico argine anche militare in questa fase contro lo Stato nazi-islamico.
Le scelte della “rivoluzione del Rojava” che Lorenzo ha difeso fino all’ultimo istante della sua vita sono ora schiacciate nella morsa di interessi imperialistici contrapposti. Una morsa fatta anche da alleanze incrociate e ambigue. Tra tutte, quella tra gli USA e la Turchia, con quest’ultima spinta verso l’annientamento della "rivoluzione del Rojava” dei curdi, nei suoi interessi nazionalistici e apertamente sostenitrice dello Stato Islamico.
Ma gli USA appoggiano anche militarmente le YPG, le unità di difesa del popolo curdo nell’interesse imperialistico nell’area contro le ingerenze di Russia e Iran. Contraddizioni che sono alla base dello stallo nel quale sono immersi i curdi.
Solo la precisa spinta della rivoluzione del Rojava verso la lotta di classe, l’antimperialismo e l’anticapitalismo potrebbe risolvere questo stallo. Uno tra i limiti principali della dirigenza curda è quello di aver agito troppo limitatamente dentro la classe operaia turca e di non aver chiesto il suo sostegno in una lotta comune. Solo il socialismo e la sua rivoluzione possono distruggere la barbarie ed essere esempio per tutto il Medio Oriente.

La morte di Lorenzo va comunque al di là di tutto questo. È l’esempio universale che deve crescere dentro ogni rivoluzionario, dove tutti gli interessi personali sono lasciati alle spalle con un amore anche estremo rivolto verso gli sfruttati e gli oppressi generati dal capitalismo. L’Europa, l’Italia e la stessa sua terra d’origine, la Toscana, non sono lontane dal quel pezzo di terra siriana. Il suo internazionalismo e quello di tutti i combattenti che come lui sono ancora in quei campi di battaglia è anche il nostro.

22 marzo 2019

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Dal sito www.retekurdistan.it:

Le YPG hanno rilasciato una dichiarazione sull’internazionalista italiano Lorenzo Orsetti caduto in Siria orientale. L‘ufficio stampa delle Unità di Difesa del Popolo YPG ha rilasciato una dichiarazione su Lorenzo Orsetti (Tekoser Piling). L’internazionalista proveniente dall’Italia è caduto ieri nella battaglia contro IS ad al-Bagouz.
Nella dichiarazione le YPG fanno sapere:
Lorenzo Orsetti (Tekoser Piling) si è unito alla resistenza nel Rojava nel 2017 e con la sua identità internazionalista-rivoluzionaria ha partecipato attivamente alla lotta di liberazione. Era organizzato nelle unità internazionaliste all’interno delle strutture delle YPG e ha combattuto per libertà in ogni condizione con grande determinazione. Anche nella resistenza contro l’occupazione di Efrîn da parte dello Stato turco ha combattuto sul fronte più avanzato.
Nell’offensiva ‚Tempesta di Cizîrê‘ contro IS a Deir ez-Zor ha mostrato un impegno grande e generoso. Era attivo nella regione anche nelle unità internazionaliste del TKP/ML-TIKKO e mostrava un atteggiamento sostanziale e determinato rispetto ai valori universali del socialismo. Con il suo legame con la rivoluzione ha vissuto una vita esemplare.
Tekoser Piling è caduto il 18 marzo in uno scontro nell’operazione contro l’ultimo territorio occupato da IS. Ricordiamo tutte le internazionaliste e tutti gli internazionalisti caduti nella rivoluzione del Rojava. Esprimiamo le nostre condoglianze alla famiglia e a tutte e tutti coloro che lo hanno amato.“
Nome in codice: Tekoser Piling
Nome e cognome: Lorenzo Orsetti
Nome della madre: Annalisa
Nome del padre: Alessandro
Luogo e data di nascita: Italia, 1986



Luogo e giorno della morte: Deir ez-Zor, 18 marzo 2019


Ruggero Rognoni

Fridays for future e climate strike: fuori dai social la gioventù si mobilita

123 paesi al mondo, 2052 città, 235 iniziative e manifestazioni solo in Italia, da Nord a Sud. Decine di migliaia di persone nelle piazze, in prevalenza giovani e studenti. Queste le cifre delle mobilitazioni del “Fridays for future”, lo sciopero studentesco di venerdì 15 marzo in difesa dell’ambiente e contro i cambiamenti climatici, organizzato sull’onda dell’iniziativa lanciata a livello mondiale dalla sedicenne svedese Greta Thunberg.
Piazze giovani, “internazionaliste” e combattive che, insieme alle manifestazioni studentesche del 22 febbraio e allo sciopero dell’8 marzo, evidenziano le potenzialità di una possibile ripresa di un movimento di massa che si oppone, in un modo o nell’altro, allo “stato di cose presenti”.

Seguiremo con attenzione i possibili sviluppi di queste iniziative e mobilitazioni. Come Partito Comunista dei Lavoratori abbiamo partecipato alle manifestazioni, distribuendo il nostro volantino e rivendicando la necessità della connessione delle lotte ambientaliste alla prospettiva anticapitalista.


IN PIAZZA ANCHE MOLTI COMPLICI E RESPONSABILI DELLA DISTRUZIONE AMBIENTALE

La composizione delle piazze è stata eterogenea, come accade per tutte le piazze di “massa”. Al fianco dei tantissimi giovani e meno giovani che domandavano a gran voce risposte serie alla crisi ambientale, c’era anche chi ha governato o ambisce a governare il capitalismo (e la distruzione ambientale), a livello locale e nazionale. Dal PD al Movimento 5 Stelle, da Mattarella a Conte, tutti sono saltati sul carro dell’ecologia. Non è un caso che tutta la borghesia e la stampa sedicente “progressista” (in particolare Repubblica), abbia appoggiato, sponsorizzato e visto di buon occhio queste iniziative. L’apertura al dialogo con il movimento da parte del ministro Di Maio (mentre tradisce i sostenitori NO TAP e tentenna sul TAV) è la cartina di tornasole di come tutti gli attori politici cerchino e tenteranno in tutti i modi di strumentalizzare a fini elettorali queste importanti manifestazioni, per poi continuare a portare avanti politiche di distruzione ambientale.


DENTRO IL MOVIMENTO: INDIPENDENZA DI CLASSE E DIREZIONE RIVOLUZIONARIA

Tuttavia, come rivoluzionari non possiamo non prendere atto che moltissimi giovani, in prevalenza alle prime esperienze politiche e di mobilitazione, abbiano trovato nella tematica della difesa dell’ambiente uno stimolo per interrogarsi sul loro futuro, invadere piazze, prendere parola e urlare a gran voce che a cambiare deve essere il “sistema” e non il clima. A questi giovani i marxisti rivoluzionari non possono e non devono voltare le spalle: il PCL non lo farà.

Non si tratta di guardare con sufficienza e settarismo queste mobilitazioni, per quanto contraddittorie ed eterogenee possano essere, timorosi magari di difendere il proprio steccato organizzativo, confondendone la direzione con la reale composizione. Né tantomeno di affidarsi spontaneamente alla dinamica di un movimento che finalmente, dopo l’assenza negli ultimi anni di reali movimenti di massa nel nostro paese, potrebbe risvegliare coscienza, attivismo e combattività di un largo strato di gioventù, in Italia e nel mondo.

Se è vero che il capitalismo è un sistema economico fallito che distrugge l’ambiente, la consapevolezza della lotta per un altro “sistema”, indicando chiaramente “quale” sistema, non è qualcosa che spontaneamente il movimento può acquisire.

Intervenire nelle mobilitazioni con una politica di indipendenza di classe, spiegare il legame criminale tra capitalismo e distruzione ambientale, mostrare con pazienza la necessità del collegamento delle lotte per la difesa ambientale alla ripresa delle lotte del movimento operaio, conquistare quanti più giovani possibile alla consapevolezza che bisogna battersi per l’opposizione a tutti i governi del capitale, per la messa in campo di un’opposizione di massa e di classe, per la prospettiva di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici: questo è il compito dei marxisti rivoluzionari, nel movimento ambientalista e in tutti i movimenti progressisti.

Perché solo un governo che rompa con le “compatibilità” del capitalismo e riorganizzi la società su basi socialiste potrà mettere in campo soluzioni serie e non estemporanee alla crisi ambientale. Solo il socialismo può opporsi alla barbarie.
Partito Comunista dei Lavoratori - commissione studenti

Il capitalismo distrugge l'ambiente: distruggiamo il capitalismo!

Le politiche del governo Salvini-Di Maio si configurano in continuità con le politiche di distruzione ambientale dei governi precedenti. Il M5S ha tradito i sostenitori No TAP e viviamo in questi giorni una possibile capitolazione sul TAV. Di Maio ha sbandierato ai quattro venti come un successo, con la complicità della maggior parte delle burocrazie del sindacato, l’accordo dell’Ilva, un accordo contro il lavoro e l’ambiente. Nel Decreto di Genova si inserisce l’ennesimo condono edilizio e si consente lo scarico nei campi di fanghi contenenti idrocarburi ed altre sostanze tossiche come la diossina. Tutto ciò dimostra, ancora una volta, che chi si candida a governare il capitalismo si candida a governare la distruzione ambientale.

Il capitalismo in crisi non si fa scrupoli a speculare sui territori e la salute, contro gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari. Non si tratta di stabilire se sia più importante la salute, la difesa dell’ambiente o la difesa dei posti di lavoro, tutte questioni importanti e sempre ignorate da chi governa lo Stato e dai capitalisti. Bisogna dire chiaramente che occupazione e salvaguardia dell’ambiente devono essere coniugati tra loro.

Per questo il PCL si batte per la costruzione di un fronte unico di massa e di classe di opposizione al governo, che unifichi tutti i movimenti progressivi che si battono per la salvaguardia dell’ambiente e si intersechi con il mondo del lavoro: No Grandi Navi, No TAV, No TAP, Zero PFAS etc.

È necessario avanzare iniziative e proposte nella prospettiva di cambiare i rapporti di forza, attivare il protagonismo di massa, far crescere la consapevolezza collettiva, costruire gli strumenti dell’autorganizzazione dei lavoratori e delle masse popolari. Rifiutiamo le compatibilità stabilite dalla classe dominante, che vuole conservare lo stato di cose presenti e i profitti derivati dalla distruzione dell’ambiente e dallo sfruttamento nei luoghi di lavoro.

- Per un piano nazionale di riassetto idrogeologico del territorio

- Per l’abbattimento degli eco-mostri e riqualificazione delle aree degradate

- No alle grandi opere inutili, per un trasporto pubblico efficiente e gratuito

- Per la nazionalizzazione, senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori, di tutte le aziende che inquinano o licenziano 


Non può esistere una “coscienza della specie”, un’etica ecologica di validità universale capace di proporre modelli di vita sostenibili, condivisibile dall’operaio e dal capitalista, dal fabbricante di cannoni e dal contadino del Terzo Mondo. Non basta affidarsi ai progressi della conoscenza scientifica per salvare il pianeta dalla distruzione ambientale. È più che mai necessario un completo capovolgimento del modo di produzione. Ciò che oggi orienta la produzione è la ricerca ostinata del profitto, e non la soddisfazione dei bisogni umani, individuali e sociali. È quindi sui discrimini di classe che intersecano i problemi ambientali e sulle condizioni politiche della loro risoluzione che deve intervenire la nostra iniziativa programmatica. Chi decide? Chi paga? Chi controlla? Ecco le domande con cui fare i conti.

L’unico governo del cambiamento che realmente si interesserà delle questioni ambientali sarà un governo dei lavoratori, basato sulla loro forza e organizzazione, in Italia e nel mondo. Un governo che rompa con le compatibilità del capitalismo e costruisca una nuova società. L’unico governo in grado di mettere in primo piano le questioni della riconversione ecologica dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti; di strategie energetiche fondate sull’efficienza, l’uso appropriato delle risorse, lo sviluppo delle fonti rinnovabili; dell’insostenibilità del modo di vita contemporaneo, delle città sommerse dalle auto e dai veleni.
Il PCL si batte in ogni lotta per questa prospettiva: per una rivoluzione, contro il capitalismo, per una società eco-socialista. Unisciti a noi!
Partito Comunista dei Lavoratori

Algeria, tra rivoluzione e inganno

Il passo indietro del Presidente algerino Bouteflika segna un passaggio cruciale dello scontro apertosi in Algeria. L'autentica sollevazione popolare levatasi contro il potere ha bruciato la quinta candidatura di Bouteflika alla presidenza della Repubblica. Le elezioni presidenziali, previste per il 18 aprile, sono state annullate e rinviate a data da destinarsi. Il primo ministro Ouyahia, odiato dalle masse non meno di Bouteflika, ha dovuto lasciare il proprio incarico. Sono gli effetti di una mobilitazione di massa di proporzioni enormi.

Ma il potere non si rassegna a sgombrare il campo. Il rinvio sine die delle elezioni presidenziali significa paradossalmente la continuità del quarto mandato di Bouteflika. Il nuovo primo ministro, Noureddine Bedoui, appartiene alla stessa scuderia di Ouyahia. La “conferenza nazionale aperta ed inclusiva” chiamata a convocare nuove elezioni e a definire un progetto di nuova Costituzione sarebbe di fatto controllata dal vecchio clan presidenziale, senza alcuna garanzia democratica. Nei fatti il clan presidenziale cerca di guadagnare tempo e di nascondere sotto mutate spoglie la permanenza in carica del vecchio regime.
Questo è il nodo di fondo.


LA SOLLEVAZIONE POPOLARE 

La mobilitazione di massa ha assunto nelle ultime settimane proporzioni enormi. È impossibile comprendere i fatti d'Algeria senza partire da questo dato. Le manifestazioni del 22 febbraio coinvolsero 800.000 algerini. Le manifestazioni dell'8 marzo hanno mobilitato più di due milioni di manifestanti. In ogni città e nei centri minori la massa popolare si è riversata nelle strade attorno ad una precisa parola d'ordine: “Via Boutef”. Gli studenti e le donne sono stati la colonna vertebrale della mobilitazione. Attorno ad essi i disoccupati, i piccoli commercianti, le professioni liberali, gli intellettuali, le associazioni dei vecchi combattenti dell'indipendenza algerina. Nel tentativo di bloccare la dinamica di allargamento della protesta, il governo aveva decretato vacanze straordinarie nelle scuole e nelle università, ma la mossa è stata talmente spudorata da contribuire alla radicalizzazione ulteriore delle masse. Questa radicalizzazione ha finito col trascinare con sé i lavoratori salariati, in un primo momento passivi. Nell'ultima settimana sono scesi in sciopero operai e impiegati delle grandi aziende energetiche Sonatrach e Sonelgaz, delle telecomunicazioni, dei metrò, delle poste, degli hotel. Il sindacato di regime vicino al potere, Unione Nazionale dei Lavoratori Algerini, è stato contestato da significativi settori dei suoi stessi iscritti, che hanno chiesto le dimissioni del suo presidente Sidi-Saïd. L'ingresso sulla scena della classe lavoratrice ha certo moltiplicato l'impatto sociale e politico della lotta, mettendo il regime con le spalle al muro.


SI INCRINA L'UNITÀ INTERNA AL REGIME 

La sollevazione ha incrinato l'unità interna al regime. La soluzione repressiva inizialmente promossa dal primo ministro Ouyahia si è rivelata presto impraticabile. I gesti di solidarietà intercorsi tra manifestanti e poliziotti hanno allarmato le gerarchie militari, inducendole a un cambio di passo. È il capo dell'esercito, non a caso, ad aver salutato l'unità tra le forze armate e il popolo, sconfessando la politica di Ouyahia e spingendolo di fatto al ritiro. Ed è la gerarchia militare che oggi si intesta l'apertura istituzionale alle “domande del popolo” e l'accantonamento del quinto mandato di Bouteflika. Ma la matrice militare dell'operazione è anche la chiave di lettura del suo vero significato. La gerarchia militare è il bastione dello Stato algerino. La sua centralità è il portato della lunga guerra contro il panislamismo stragista degli anni '90. La ramificazione dei suoi interessi, diretti o indiretti, pervade l'insieme dell'economia algerina e della vita pubblica del paese. Se la gerarchia militare oggi mima l'apertura al popolo, accantonando nell'immediato uno scontro frontale ingestibile, è solo per salvare in altra forma la continuità del proprio potere, e con esso l'intreccio con gli interessi dell'imperialismo, innanzitutto francese ma non solo. Lo straordinario silenzio delle diplomazie imperialiste - a partire da Macron - sugli avvenimenti algerini nasce da qui. L'imperialismo trattiene il fiato per non sbagliare mossa. Non può benedire Bouteflika perché sospingerebbe così facendo la rivolta stessa e la sua radicalizzazione antimperialista. Ma nello stesso tempo non può sconfessarlo, perché non saprebbe (ancora) con chi rimpiazzarlo, e perché Bouteflika è il custode tradizionale dei suoi affari (e segreti). I comandi militari cercano così di occupare il vuoto presentandosi agli ambienti imperialisti come garanti dell'ordine e al popolo come garanti della democrazia. Mentre la Confindustria algerina, che ha già scaricato Bouteflika, punta le proprie carte su Lakhdar Brahimi, inviato dell'ONU per la crisi libica: un cambio di cavallo in piena corsa pur di restare in sella.

Vedremo se l'operazione maquillage riuscirà nel suo intento. Vedremo se l'ascesa algerina assumerà il carattere di rivoluzione o se ripiegherà. Di certo la storia delle rivoluzioni arabe ripropone la necessità di una direzione cosciente contro ogni illusione sulla dinamica spontanea degli avvenimenti.


L'UNICA SOLUZIONE È RIVOLUZIONARIA 

La parola d'ordine immediata è il rifiuto della soluzione truffaldina offerta. Le masse non si sono mobilitate contro il quinto mandato di Bouteflika per prolungare a tempo indefinito il suo quarto mandato, ma per cacciarlo. Ogni soluzione cosmetica è un inganno. Nessuna conferenza nazionale apparecchiata dal vecchio regime può rispondere alla domanda di svolta che il movimento di massa ha espresso. Alla conferenza nazionale apparecchiata da Bouteflika va contrapposta la parola d'ordine di una vera assemblea costituente.

A sua volta, non si può confinare la sollevazione algerina in un ambito esclusivamente democratico. Nel rivendicare la cacciata di Bouteflika le masse non hanno chiesto solamente la fine di corruzione, privilegi, dispotismo. Hanno chiesto anche un cambio radicale della propria condizione sociale, di lavoro e di vita. Non si può realizzare questo cambio senza rompere con l'imperialismo e con la borghesia nazionale ad esso asservita, senza nazionalizzare le banche, senza abolire il debito pubblico verso il capitale finanziario e recuperare il controllo delle risorse del paese. Misure che solo un governo operaio e popolare può realizzare.

È questa l'unica soluzione che può dare garanzie reali alle stesse rivendicazioni democratiche delle masse. Nessuna fiducia può essere posta nelle gerarchie militari e nelle loro finzioni sceniche. Il generale al-Sisi si presentò in Egitto come garante del popolo e della democrazia, salvo poi rinverdire il vecchio regime di Mubarak. I liberali progressisti che inizialmente lo sostennero, o lo coprirono, sono finiti in galera. È un esperienza che non si può rimuovere. La classe lavoratrice algerina, i giovani, le donne, i protagonisti di queste settimane straordinarie, possono fidarsi unicamente della propria forza e della propria capacità di organizzarla. L'autorganizzazione democratica e di massa della classe lavoratrice e delle masse oppresse è la condizione decisiva per condurre in avanti tutte le loro rivendicazioni, democratiche e sociali.
Partito Comunista dei Lavoratori

Zingaretti e le illusioni di sinistra sul PD

L'incoronazione di Luca Zingaretti a nuovo segretario del PD è stata celebrata da tanta stampa liberale, Repubblica in testa, come il segno di una svolta attesa. Un settore significativo della borghesia liberale, rimasta orfana di una rappresentanza politica diretta, saluta con entusiasmo una possibile ripresa del PD. È la speranza del ritorno al “normale” bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, che rimpiazzi l'attuale governo dei parvenu e ripristini l'agognata alternanza, il pendolo che per vent'anni ha incardinato in Italia il corso delle politiche borghesi di austerità.

È una via che non appare in discesa. Le destre (diversamente) reazionarie che governano l'Italia hanno ancora un capitale di consenso complessivamente maggioritario, grazie al tappeto che i governi del PD hanno loro offerto. E il vento europeo non promette nulla di buono. Tuttavia è vero che la crisi del blocco sociale del M5S e il capovolgimento dei rapporti di forza nella maggioranza possono minare la tenuta politica del governo, tanto più a fronte di un compito temerario: varare una legge di stabilità zavorrata in partenza da 23 miliardi per le clausole Iva sullo sfondo di una possibile recessione economica. Quale alternativa di governo in caso di frana dell'attuale esecutivo? Questo è l'interrogativo che la borghesia liberale si pone. La speranza di una rinascita del PD si pone in questo orizzonte.

Ma cosa c'entra tutto questo con la sinistra? Una parte di popolo della sinistra appare risucchiata dall'illusione di ritorno nel PD. Un tempo fu l'illusione per Bersani, dopo la stagione liberal di Veltroni. Oggi è l'illusione per Zingaretti, dopo (e contro) la stagione del renzismo. Ogni volta si cerca nel PD il volto amico di una possibile sinistra rediviva, ma ogni volta si prende una inevitabile facciata. La natura politica e sociale di un partito non dipende dal nome del segretario, ma dalle sue relazioni materiali con le classi sociali e la loro lotta. Certo, la fisionomia del gruppo dirigente non è irrilevante, e sicuramente il renzismo ha incarnato, coi suoi tratti populisti e bonapartisti di consorteria di provincia, un corso politico particolarmente reazionario del partito. Ma quel corso politico potè farsi strada nel PD grazie alla natura borghese del partito, ai suoi legami organici col capitale, alla sua vocazione antioperaia. Questa natura cambia forse con Zingaretti segretario? No. Cambia il corso politico del partito, subentra una gestione più collegiale e meno pirotecnica, si confeziona un'immagine pubblica meno respingente e più attenta in apparenza alle ragioni sociali; ma il cambio d'abito di stagione non cambia la natura del partito che l'indossa. E i primi fatti lo documentano eloquentemente.

Il primo atto di Nicola Zingaretti è stato osannare il TAV. Il secondo è stato applaudire al manifesto europeo di Macron. Non si tratta di scelte casuali. Il nuovo segretario del PD ha voluto segnalare al capitale italiano ed europeo che il partito non ha cambiato la propria ragione sociale; ha voluto assicurare la borghesia che può ancora affidarsi al PD. Del resto: Gentiloni presidente del PD mette un timbro inconfondibile di continuità, non meno del sostegno a Zingaretti dell'area Franceschini e di Minniti, o del corteggiamento di Calenda. Lo stesso programma del nuovo segretario ne fa fede: nessuna revisione delle misure antioperaie del renzismo (l'articolo 18 resta soppresso), nessuna revisione delle politiche di Minniti sull'immigrazione, a parte il richiamo rituale ai valori democratici e progressisti. Sarebbe questa... la svolta?

Certo, Luca Zingaretti non è così ingenuo da ripercorrere i sentieri suicidi di Bersani. Se dopo le europee il governo Conte cadrà non offrirà (probabilmente) i voti del PD a un nuovo governo Monti chiamato a varare lacrime e sangue, né spenderà precocemente la carta incauta di un'apertura al M5S. Chiederà probabilmente elezioni politiche, proverà a rilanciare il PD, rifare i suoi gruppi parlamentari (oggi prevalentemente renziani), ricostruire un campo di centrosinistra con chi a sinistra gli farà da stampella. Con quale obiettivo? Quello di sempre: riconquistare il governo del capitalismo italiano, amministrare i suoi interessi, riverniciare il tutto con un po' di salsa progressista. Con chi governare lo vedrà in base agli equilibri del nuovo Parlamento, e senza escludere nessuna soluzione, neppure quella di un governo con il M5S.

Il movimento operaio e le sue ragioni sociali non hanno nulla da spartire col PD, oggi come ieri. 
La demarcazione dal PD di un campo di classe dei lavoratori e delle lavoratrici resta una necessità inaggirabile, che l'esperienza dei fatti confermerà ogni giorno, contro ogni illusione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Difesa legittima

Contro la "legittima" difesa (dei padroni) di Salvini, rivendichiamo la legittima difesa dei lavoratori contro governo e padroni

Il Ministro degli interni celebra la nuova legge sulla legittima difesa. Peggio dell'art.52 del codice penale Rocco-Mussolini del 1930. Quello riconosceva formalmente il principio della proporzionalità tra offesa e difesa, la nuova legge invece la abroga: la difesa è sempre legittima. Non è passata la proposta leghista di evitare persino l'indagine del magistrato. Ma il “sempre” serve a promettere l'assoluzione di chi spara e eventualmente uccide.
Colpisce lo scarto tra realtà ed effetto propagandistico della legge. Nella realtà, i casi di legittima difesa sono pochissimi. Appena 2 nel 2016. Normalmente i relativi processi si chiudono con l'archiviazione del magistrato. Dov'è dunque la strombazzata emergenza delle persecuzioni giudiziarie contro “i cittadini che si difendono”? Il vero effetto annuncio della legge è un altro: da un lato assicurare a Salvini un tornaconto elettorale, che è la sua vera preoccupazione, dall'altro legittimare preventivamente chi uccide a tutela della proprietà, anche chi uccide per vendetta.

Un'esagerazione polemica? No, ed è Salvini che lo conferma. Il Ministro degli interni, con telecamera al seguito, ha abbracciato un certo Angelo Peveri, vittima di un furto di gasolio, che ha sparato a freddo al ladro rumeno dopo averlo pestato e fatto inginocchiare. Neppure i suoi difensori avevano invocato la legittima difesa, è Salvini che l'ha rivendicata. Il messaggio è inequivocabile. La giustizia privata, l'esecuzione sul posto, sono benedetti dal ministero degli interni, contro ogni principio elementare di civiltà giuridica.

La proprietà è più importante della vita: questo è il sottotesto della nuova legge. Il decreto sicurezza ha trasformato il blocco stradale e il blocco delle merci in reato penale, contro i diritti di lotta dei lavoratori e a tutela dei proprietari. Sempre a tutela dei proprietari si muove la nuova legge. Se lavoratori in lotta irrompono negli uffici aziendali della proprietà, o occupano gli stabilimenti, i padroni e le loro guardie private si sentiranno legittimati a far fuoco, magari a causa del “grave turbamento”?
Di certo la nuova legge, e soprattutto il nuovo Ministro degli interni, possono coprire e incoraggiare le pratiche più reazionarie, anche al di là dei termini formali del dispositivo approvato.
L'aggressione compiuta ieri contro i facchini in sciopero dell'azienda Zara a Roma da parte di quindici vigilantes armati di pistole elettriche e tubi di ferro, prova che non si tratta di fantascienza. I lavoratori occupavano il magazzino per chiedere stipendi arretrati e applicazione del contratto. I vigilantes sono intervenuti a tutela della proprietà, e su suo mandato. La nuova legge sarà usata e abusata proprio a difesa di questi metodi.

Lo Stato borghese che sgombera con le ruspe gli accampamenti di cartone dei migranti di San Ferdinando gettandoli su una strada è lo stesso che tutela i proprietari che li sfruttano per 12 ore a 2 euro all'ora. È lo stesso Stato che tutela degrado ed emarginazione delle periferie metropolitane, brodo di coltura di criminalità e delinquenza.
Strizzare l'occhio al fai da te della giustizia privata è solo l'altra faccia dell'ingiustizia pubblica. L'ingiustizia di una società basata sullo sfruttamento, che sacrifica tutto alla legge del profitto. L'ordine pubblico che lo Stato difende è solo l'ordine di questa legge. Contro questa legge, contro questo ordine, rivendichiamo la difesa legittima di tutti i lavoratori e lavoratrici, nelle loro lotte di resistenza, nel loro diritto alla rivoluzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sale la marea in Algeria

Per una soluzione anticapitalista della crisi. 

L'Algeria è segnata da un'importante ascesa di massa che scuote alle fondamenta il potere di Bouteflika.

La crisi capitalistica internazionale ha avuto ricadute profonde in Algeria. Il capitalismo algerino si è fondato sull'esportazione di gas e di petrolio. La rendita petrolifera ha ingrassato per decenni il regime nazionalista, nato dal ceppo del vecchio Fronte di Liberazione Nazionale. Ha nutrito le sue ramificazioni clientelari e il suo apparato statale, in particolare i privilegi delle gerarchie militari, ed ha anche assicurato per lungo tempo al regime il sostegno della classe media urbana, grazie a elargizioni e sussidi. Un sostegno decisivo nello scontro frontale, politico e militare, con le forze dell'integralismo islamico negli anni '90. Per la stessa ragione, la caduta del prezzo del petrolio, connesso alla crisi internazionale, ha tagliato l'erba sotto i piedi del regime; spesa sociale e assistenza sono state tagliate. Corruzione, nepotismo, militarismo, per lungo tempo accettati con malcelata rassegnazione in cambio della stabilità sociale, sono diventati sempre più insopportabili agli occhi di ampi settori di massa della popolazione urbana.

L'ascesa della rivoluzione araba nel 2010-2011, che travolse Ben Alì e Mubarak, risparmiò Bouteflika. La controrivoluzione in Egitto, prima per mano dei Fratelli Musulmani e poi dell'esercito, spense rapidamente le potenzialità di contagio di Piazza Tahrir in Algeria. La tragica deriva confessionale e reazionaria della rivoluzione siriana, dopo il 2014, contribuì alla tenuta del regime laico algerino: nulla di più comprensibile in un paese segnato negli anni '90 dal terrorismo islamista. Da qui un commentario borghese internazionale che lodava la stabilità algerina come esempio virtuoso nella nazione araba. Ma questa stabilità veniva celebrata nel momento stesso in cui deperivano le basi materiali su cui si reggeva. L'esplosione sociale di massa dell'ultima settimana è la risultante di questa dinamica.

È ancora prematuro avanzare una previsione certa sulla dinamica in corso, ma i suoi caratteri sono ben delineati. La mobilitazione non è stata espressione di un processo graduale di ascesa. Ha avuto i caratteri di una brusca svolta, di una esplosione sociale concentrata e radicale. L'annuncio della presentazione alle elezioni di un presidente decrepito, simbolo provocatorio della conservazione, ha costituito il suo fattore di innesco. Le manifestazioni di massa hanno assunto in pochi giorni grandi proporzioni, nonostante la censura delle televisioni del regime. Ottocentomila persone sono scese in strada, secondo i dati ufficiali della polizia algerina, un numero imponente. Le rivendicazioni centrali sono di carattere democratico (giustizia, dignità, democrazia), com'è naturale in un contesto simile nella fase di ascesa. La mobilitazione è stata trainata dagli studenti e dall'intellighenzia delle libere professioni (avvocati, giornalisti...), ma si è allargata rapidamente agli strati popolari delle città. La massa dei giovani laureati disoccupati, in un paese in cui il grosso della popolazione è giovanissima, segna le manifestazioni con la propria presenza centrale. Altrettanto importante la presenza femminile: la prima manifestazione contro Bouteflika si è tenuta a Orano, seconda città del paese, promossa da un gruppo di donne. La classe lavoratrice algerina non ha ancora fatto un ingresso significativo sulla scena, a differenza di quanto accadde in Tunisia ed Egitto, ma il varco aperto dalle manifestazioni di massa potrebbe trascinarla nello scontro, come mostra l'adesione alle proteste di alcuni settori del sindacato UGTA. Di certo una sua irruzione allargherebbe in modo decisivo la crisi del regime.

Le elezioni presidenziali sono indette. Le forze dell'opposizione islamista sono ai margini. Altre opposizioni di sua maestà, cuscinetto protettivo del regime, sono ridicolizzate dall'esplosione dell'opposizione di massa a Bouteflika. Il regime non sa bene che fare. Il muro della censura mediatica non ha retto, la repressione militare è un'arma a doppio taglio: può contare sulla fedeltà degli alti ufficiali, compromessi e corrotti, ma non necessariamente sulla truppa. Bouteflika ha cercato di guadagnare tempo annunciando che dopo le elezioni presidenziali terrà a distanza di un anno elezioni politiche in cui non si candiderà, ma la domanda del movimento di massa è “Boutef vattene!”. Non domani, ora.

Analizzeremo lo sviluppo degli avvenimenti in Algeria. A differenza delle scuole campiste e staliniste già schieratesi dall'inizio con i Ben Alì, i Mubarak, e gli Assad, nel nome del loro presunto antimperialismo e progressismo, il nostro posto è al fianco delle mobilitazioni di massa contro regimi reazionari e filoimperialisti, e dunque oggi contro il regime reazionario di Bouteflika. Un regime che ha servito gli interessi imperialisti in Algeria, a partire da quelli francesi. Al tempo stesso, a differenza di tutte le scuole movimentiste che si affidano alla dinamica spontanea dei movimenti, diciamo che la sollevazione algerina, come ogni sollevazione popolare, pone la questione decisiva della direzione e del programma. Senza una direzione di classe, anticapitalista e rivoluzionaria, nessuna ribellione di massa può portare a successo reale e duraturo le proprie ragioni progressive, ed anzi è esposta a derive controrivoluzionarie, siano esse laiche o confessionali. È accaduto in Egitto, è accaduto in Siria, può nuovamente accadere in Algeria. È la grande lezione delle rivoluzioni arabe del 2010-2011.

Non è sufficiente rovesciare Bouteflika, come non fu sufficiente rovesciare Ben Alì e Mubarak. È necessario legare le rivendicazioni democratiche della ribellione di massa a un programma di rottura con l'imperialismo e la borghesia algerina che lo serve: ripudiare il debito algerino verso le potenze imperialiste, nazionalizzare le compagnie imperialiste in Algeria, nazionalizzare le banche e il commercio con l'estero. Senza queste misure non vi può essere svolta reale per i lavoratori e le masse popolari algerine. Solo un governo operaio e popolare può realizzare queste misure. Lavorare all'irruzione della classe operaia sulla scena, raccogliere le sua forze attorno a questo programma, portare nel movimento di massa la battaglia per l'egemonia di questo progetto anticapitalista è la ragione dei marxisti rivoluzionari in Algeria.
Partito Comunista dei Lavoratori


Costo del lavoro o costo del capitale?

Il governo giallo-bruno taglia le spese per la sicurezza sul lavoro

La “sicurezza” è la bandiera che Salvini e Di Maio agitano contro gli immigrati e contro i delinquenti. Ma la bandiera si abbassa quando si parla del lavoro. Il "governo del cambiamento" ha tagliato le spese per la sicurezza sul lavoro per regalare soldi alle imprese. Più precisamente: ha tagliato del 32% i premi assicurativi pagati dalle imprese sugli infortuni sul lavoro, finanziando l'operazione con un taglio di oltre 100 milioni sugli interventi in materia di formazione antiinfortunistica. “Mettiamo molti soldi per alleggerire gli oneri delle imprese” dichiara soddisfatto al Corriere (28/2) il sottosegretario leghista Garavaglia. “Abbattiamo il costo del lavoro” afferma Di Maio, col solito sorriso stampato, sul quotidiano di Confindustria. Ma il termine “costo del lavoro” significa cose diverse ed opposte se si parla dei capitalisti o se si parla degli operai. Per i capitalisti, che vanno all'incasso, il costo del lavoro si riduce. Per gli operai, che cadono dalle impalcature o lasciano una mano nella pressa, il costo del lavoro s'impenna e mette in gioco la vita. Il governo giallo-bruno, che taglia le spese sull'infortunistica per ingrassare il portafoglio dei padroni, difende al meglio il sistema capitalista. Il vero costo che va abbattuto è il costo del capitale per il lavoro. Solo un governo dei lavoratori lo può fare.

1 Marzo 2019 
Partito Comunista dei Lavoratori