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Farmaceutica e biotech: profitto privato, risorse pubbliche

La caccia al tesoro tra colossi privati per il vaccino contro il coronavirus

31 Marzo 2020
Abbiamo documentato come le grandi aziende farmaceutiche abbiano interrotto nel 2003 la ricerca sulla famiglia del coronavirus perché l'epidemia della SARS si era conclusa troppo in fretta per assicurare loro un adeguato mercato. Settecento morti su scala mondiale non valevano un investimento. Oggi tutti paghiamo il prezzo terribile di questa scelta.

L'attuale pandemia, con la rapidità della sua propagazione e le centinaia di migliaia di morti che prefigura, sembra configurare un mercato ben più appetitoso per le case farmaceutiche e la rete di interessi che le circonda. La ricerca non punta tanto sulle medicine per l'intervento immediato, che non offrono necessariamente un mercato duraturo, quanto sull'individuazione del vaccino, possibile investimento planetario per i prossimi decenni. Cinquanta sono i vaccini contro il coronavirus allo studio nel mondo, quarantotto in fase preclinica, rivela l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Si muovono le grandi aziende farmaceutiche del Big Pharma (Novartis, Roche, Glaxo, Janssen...), si muovono le grandi aziende biotech, si muovono i loro Stati nazionali di riferimento, a partire dagli USA, che in asse con Israele sperano di scoprire il vaccino prima della Cina per riequilibrare la competizione in corso e rimontare i propri insuccessi.

Si dirà: “Dopotutto è una competizione virtuosa, l'importante è che il vaccino lo trovino in fretta”. Ora, che sia competizione è indubbio, che sia virtuosa un po' meno.


LA RICERCA SCIENTIFICA E I CALCOLI DEGLI AZIONISTI

Interessante la documentazione fornita al riguardo dalla stampa confindustriale (Il Sole 24 Ore). Spiega che la concorrenza tra aziende farmaceutiche da un lato e le aziende biotech dall'altro è senza risparmio di colpi. Tuttavia la concorrenza tra i rispettivi cartelli non è solo su chi per primo scopre il vaccino, ma su chi riesce ad attrarre maggiori investimenti finanziari sul mercato azionario. E chi riesce ad attrarre maggiori investimenti è l'azienda o il cartello aziendale che dimostra di saper produrre il vaccino, non solo di scoprirlo; e di saperlo produrre su scala industriale, perché solo una produzione industriale su larga scala può assicurare l'agognato profitto di chi compra le azioni di borsa delle aziende in questione. Qui nascono i problemi.

Intendiamoci, nella grande recessione dell'economia mondiale che è iniziata l'industria farmaceutica e biotech, assieme a quella alimentare, è tra le poche che ha il vento in poppa. Le quotazioni di Wall Street, in particolare per il biotech, hanno fatto la parte del leone nelle ultime sedute. Ma Credit Suisse insinua il dubbio che possa trattarsi di una euforia a breve termine. Perché? Perché per produrre su scala industriale il vaccino bisogna fare un investimento al buio. Senza sapere quando il vaccino sarà scoperto, quale sarà l'azienda o il cartello che lo scoprirà, quale Stato gli coprirà le spalle, quale sarà l'azienda o le aziende capaci di produrlo su scala industriale. E se i miliardi investiti finissero gettati al vento? Nell'incertezza, dice Credit Suisse, meglio investire nell'industria militare, o nella produzione di grano, che hanno mercato sicuro e i prezzi in salita.

Ora, il punto per parte nostra non è valutare se le preoccupazioni di Credit Suisse sono fondate, perché non abbiamo ambizioni borsistiche. Il punto è che in ogni caso la ricerca scientifica è oggi affidata alle case farmaceutiche e/o biotech e alle loro convenienze di profitto. L'indirizzo della ricerca è solamente la variabile dipendente dei loro calcoli. Fu così per la SARS nel 2003, così è oggi per il coronavirus.


BILL GATES BATTE CASSA PRESSO I BILANCI PUBBLICI

C'è di più. Siccome l'investimento richiesto dalla ricerca è non solo incerto ma assai dispendioso, le aziende farmaceutiche e biotech battono cassa presso i bilanci pubblici. Volete la ricerca sui vaccini? Pagatecela. Bill Gates lo ha spiegato col suo proverbiale candore sulle colonne del New England Journal of Medicine, pubblicato da La Stampa (29 marzo):

«Occorrono miliardi di dollari in più per completare la sperimentazione della Fase III e garantire l'approvazione normativa per i vaccini contro il coronavirus, e saranno necessari ulteriori finanziamenti per migliorare il monitoraggio e la risposta alle malattie. Perché questo richiede finanziamenti pubblici? Il settore privato non può farcela da solo? I prodotti contro le pandemie sono investimenti straordinariamente ad alto rischio e le aziende farmaceutiche avranno bisogno di finanziamenti pubblici per mettersi subito al lavoro. Inoltre, i governi e altri donatori dovranno finanziare, come bene pubblico globale, strutture produttive in grado di assicurare la fornitura di vaccini nel giro di poche settimane. Queste aziende possono produrre vaccini per i programmi di immunizzazione di routine in tempi normali ed essere rapidamente riconvertite nel corso di una pandemia. Infine, i governi dovranno finanziare l'approvvigionamento e la distribuzione dei vaccini alle popolazioni che ne hanno bisogno.»

La ciccia del discorso, come si dice in gergo, è molto chiara: spesa pubblica, profitto privato. Il vaccino è un bisogno dell'umanità, ci spiega il campione del capitalismo “illuminato” del mondo. Lo avevamo capito da soli. Ma siccome i colossi privati non vogliono caricarsi sulle spalle investimenti costosi «ad alto rischio», siano i bilanci pubblici a farsi carico di tutto: ricerca, produzione, distribuzione del vaccino. Cosa resta ai privati? Il profitto naturalmente. A tasso altissimo, perché sgravato dal grosso dei costi. Gli azionisti sorridono felici, sempre nel nome dell'umanità.

Ma se industria farmaceutica e biotech hanno bisogno di ingenti sovvenzioni pubbliche «per mettersi subito al lavoro», come dice Bill Gates, perché non portarle sotto controllo pubblico, con una vera nazionalizzazione? Perché non ricondurre la ricerca scientifica sotto il controllo dello Stato, se è lo Stato in ogni caso ad assumersi i costi? Perché non scrollarci di dosso i mille condizionamenti del profitto sull'indirizzo stesso della ricerca, i suoi tempi, i suoi risultati? In una parola: perché non cancellare il parassitismo del profitto dall'intervento sulla salute umana?


NAZIONALIZZARE L'INDUSTRIA FARMACEUTICA!

Nazionalizzare l'industria farmaceutica, senza indennizzo per i grandi azionisti, sotto il controllo dei lavoratori: è una rivendicazione avanzata dall'avanguardia di classe in diversi paesi. Ed è attualissima in Italia.

L'Italia è alla testa, assieme alla Germania, della produzione farmaceutica in Europa. Tredici grandi aziende farmaceutiche si spartiscono il mercato facendo cartello sui prezzi, dettando il prontuario dei medicinali, incassando una montagna di finanziamenti pubblici: Menarini, Dompè, Molteni, Zambon, Abiogen Pharma, Angelini, Recordati, Chiesi, Italfarmaco, Mediolanum, IBN Savio, Kedrion, Alfa Sigma. Si tratta per lo più di grandi famiglie del capitalismo italiano. La loro produzione tra il 2009 e il 2018 è cresciuta del 38%, con un aumento esponenziale delle esportazioni (+17% nell'ultimo decennio). Si battono per prolungare il tempo dei brevetti a tutela dei propri profitti, contro l'esigenza della scienza e della salute. Gestiscono spesso interi rami della sanità privata (Angelini), anch'essi irrorati da risorse pubbliche.

Per quale ragione i lavoratori, le lavoratrici, i ricercatori scientifici non dovrebbero portare sotto il proprio controllo quello che in decenni, in un modo o nell'altro, hanno già pagato?

Un unico servizio sanitario, nazionale, pubblico, gratuito, ha bisogno di una produzione e ricerca farmaceutica finalmente liberate dal capitalismo. Nel mondo, in Europa, in Italia.
Partito Comunista dei Lavoratori

Emergenza povertà: sussidio e patrimoniale straordinaria

30 marzo 2020 - La situazione in Italia è tesa non solo per la paura del COVID-19, ma anche per le tasche degli italiani più poveri. Ieri, oltre al primo ministro Conte, che vedremo successivamente, anche Renzi ha proposto la sua via d'uscita a questa crisi, sanitaria ed economica: “Riapriamo. Perché non possiamo aspettare che tutto passi. Perché se restiamo chiusi la gente morirà di fame. Perché la strada sarà una sola: convivere uno o due anni con il virus”. Una proposta degna del più servile crumiro: inviare al macello tutta la classe operaia per soddisfare il profitto dei pochi. Semplicemente squallido. Una posizione che non ha nulla da invidiare alle politiche neofasciste di Bolsonaro. Una proposta semplicemente disgustosa tanto più che non l'abbiamo sentita da Confindustria, ma dal suo valletto politico Renzi.

Il problema è la salute e la sussistenza dei poveri.
Molte persone, molte famiglie si trovano in grande difficoltà. Il lavoro è fermo e le attività commerciali, ad esclusione di poche categorie essenziali, sono chiuse al fine di limitare il contagio. Conte non ha proposto che elemosine, solo briciole verso le fasce più disagiate della popolazione. In attesa di conoscere i criteri di selezione di chi potrà usufruire di questo aiuto, l’unico vero e concreto sostegno per chi dopo un mese è già in ginocchio non avendo nulla risiede nel sussidio economico: un sussidio di emergenza per le fasce più deboli, ovvero chi non lavora e non ha fonti di reddito. Un sussidio per chi rischia che il proprio reddito precipiti sotto la soglia di povertà, perché in questa fase più che in altre la priorità deve essere rappresentata da chi non ha nessuna garanzia.


UNA PATRIMONIALE STRAORDINARIA

Una tassa patrimoniale straordinaria a carico delle grandi ricchezze (per esempio di almeno il 10% dei beni posseduti nella misura di oltre 2 milioni di euro di patrimonio individuale o di 4 milioni di euro di patrimonio familiare) non è altro che una manovra equa di redistribuzione della ricchezza, ciò che significa reperire le risorse laddove sono state ingiustamente accumulate, ossia nelle tasche di ricchi e padroni che devono restituire ciò che hanno tolto in questi anni a salari, pensioni, stato sociale e servizi. L'unico metodo corretto per arginare una situazione di per già drammatica e potenzialmente esplosiva. Inoltre, vanno immediatamente requisite e poste sotto gestione pubblica le strutture sanitarie private (comprese quelle di proprietà del Vaticano), nonché le proprietà immobiliari da adibire ad uso sanitario per fronteggiare l'emergenza.

Il capitale ha sempre lucrato sulla povera gente, anteponendo il profitto ai reali bisogni della popolazione. È ora che cominci a saldare il conto.

Partito Comunista dei Lavoratori

Unione Europea, malata sintomatica

La UE alla sua prova tampone

29 Marzo 2020
La borghesia liberale ha idolatrato per trent'anni l'Unione Europea, col sostegno dei tanti a sinistra che sognavano l'”Europa sociale”. Le destre sovraniste denunciano invece l'Europa matrigna nel nome del primato della nazione, contando sul seguito di sventurati ambienti sinistrorsi a caccia di di plausi presso i media reazionari.
Gli uni e gli altri nascondono ai lavoratori la realtà della UE: quella di una unione continentale di imperialismi nazionali, legati da reciproche convenienze e al tempo stesso segnati da insuperabili contraddizioni. Contraddizioni e convenienze messe sul conto del proletariato europeo.

Il dramma del coronavirus è da questo punto di vista un'ottima cartina di tornasole.


UNA CRISI PROFONDA INVESTE L'UE

L'Europa è colpita da una crisi sanitaria senza paragoni nel secondo dopoguerra e dal rischio di una depressione continentale. I sistemi sanitari nazionali, saccheggiati per trent'anni da parte di tutti i governi (inclusi i Prodi e gli Tsipras) hanno fatto bancarotta sotto la pressione dell'epidemia, sino a scivolare nei fatti verso forme di medicina di guerra. La crisi sanitaria ha tracimato ovunque in una crisi economico-sociale devastante. La recessione, già prima annunciata, ha preso la china di un precipizio. In Italia, in Francia, in Spagna, in Germania, ovunque. Da qui la domanda che i circoli dominanti si pongono: come fronteggiare la valanga?

Ogni Stato nazionale della UE, a partire dagli stati imperialisti, ha una drammatica esigenza di risorse finanziarie nel momento stesso in cui non sa dove prenderle. Tutti gli Stati imperialisti vogliono soccorrere le proprie banche e le proprie imprese, pena la propria ulteriore marginalizzazione sul mercato mondiale in tempesta. Ma non possono prendere i soldi dalle tasche dei padroni, con ipotesi di patrimoniali o tassazioni dei profitti, perché sarebbe una partita di giro per i propri assistiti, e perché la concorrenza tra capitalisti su scala mondiale avviene da trent'anni (anche) sulla detassazione dei profitti, e quindi sui colpi alle protezioni sociali. Al tempo stesso, i governi nazionali dopo la grande crisi del 2008 e il lungo ciclo di austerità attraversano tutti una grave crisi di credibilità e di consenso che rende più problematiche nuove politiche di tagli sociali, tanto più nel momento in cui lo scandalo pubblico agli occhi di tutti è proprio lo sfascio dei sistemi sanitari. Allora che fare? Questo è il cuore del negoziato in corso tra i governi europei.


COME FRONTEGGIARE LA VALANGA?

Il nodo è tanto più spesso perché ogni governo nazionale, spaventato dall'emergenza, ha già annunciato in casa propria una mobilitazione straordinaria di risorse. Gli stessi partiti che in anni recenti inserivano il pareggio di bilancio in costituzione per blindare la tosatura di sanità e pensioni scoprono di punto in bianco che i bilanci si possono e si debbono sfondare quando si tratta di soccorrere i capitalisti. La Germania annuncia un investimento di 550 miliardi, la Spagna una spesa aggiuntiva di 200 miliardi, l'Italia una manovra di 50 miliardi e passa. Sotto la pressione degli Stati nazionali, la stessa Commissione Europea ha fatto di necessità virtù. I parametri di Maastricht, il tetto del deficit al 3%, la progressione prevista da Fiscal Compact per la riduzione del debito, tutti i riferimenti biblici del passato decennio, sono stati archiviati o sospesi con la stessa fretta con cui erano stati varati.

Ma il problema sta proprio qui: nel fatto che le cifre ambiziose garantite ai propri capitalisti – in una corsa frenetica al rialzo per non sfigurare nella concorrenza – non si sa ancora su quali spalle si appoggiano. I bilanci degli Stati nazionali, con la parziale eccezione tedesca, sono gravati da un debito pubblico molto più alto di quello di dieci anni fa, cresciuto proprio per aiutare con risorse pubbliche i bilanci privati di banche e imprese. Il loro margine di manovra è dunque più limitato di allora, mentre la crisi è probabilmente più grave. L'aumento degli interessi sui titoli di stato, il famoso spread, è un segnale d'allarme significativo.


CHI PAGA COSA, E A CHI

Per questo Italia, Francia, Spagna hanno finito col battere cassa presso la BCE, chiedendo una nuova mole di miliardi. La BCE è attraversata a sua volta da contraddizioni nazionali, con la Bundesbank tedesca che ha mal digerito la politica monetaria espansiva di Mario Draghi perché ha abbattuto i tassi di interesse danneggiando le banche tedesche. Ciononostante, il crollo delle Borse ha spinto la nuova Presidente Christine Lagarde ad un aiuto finanziario su scala continentale di 750 miliardi per l'acquisto dei titoli pubblici (ma anche di obbligazioni private delle imprese) in continuità con le politiche di Draghi. Una cifra apparentemente imponente, ma in realtà ancora poca cosa se spartita tra gli stati nazionali. All'Italia toccherebbero ad esempio “appena” una settantina di miliardi, quando deve piazzare sul mercato 400 miliardi di titoli pubblici, coi tassi già oggi in rialzo, e in piena recessione. Lo stesso vale per Francia e Spagna. La coperta, insomma, si è rivelata troppo corta.

Ecco allora la nuova richiesta corale di nove Stati nazionali europei, con in testa gli imperialismi mediterranei di Italia, Francia, Spagna, per aggiungere un nuovo strumento finanziario che offra una coperta larga per tutti: un "eurobond" emesso da una entità europea (o BCE o BEI o MES) da vendere sul mercato finanziario, per distribuire il ricavato ai diversi padronati di casa propria e dunque sostenere le spese annunciate. Ma l'imperialismo tedesco si mette di traverso nel nome del proprio interesse nazionale: il bond tedesco è oggi il dominus europeo sul mercato finanziario, al punto da finanziarsi a tasso zero o negativo; un bond continentale farebbe insomma una concorrenza ostile. Da qui l'impasse. Una vera e propria crisi dell'Unione, non ancora in terapia intensiva, ma fortemente sintomatica.

Vedremo nei prossimi giorni il prosieguo e l'epilogo del negoziato in corso sotto la frusta della crisi. Ma l'unica cosa certa in questo tiro alla fune nel groviglio di interessi nazionali contrastanti è che nessuno di questi interessi ha a che vedere con quelli dei lavoratori. Al contrario. Tutte le operazioni che vengono fatte e pattuite, su scala nazionale e continentale, sono per lo più fatte a debito. Gli Stati, o altre entità europee, si indebitano col capitale finanziario che compra i titoli. Che i titoli siano nazionali o europei per i lavoratori non cambia molto: i debiti dovranno essere rimborsati in ogni caso, prima o poi, con un tasso d'interesse più alto o più basso, a chi li ha comprati. A intascare saranno comunque le banche, a pagare sarà chiamato il lavoro.

La verità è che dentro la UE o fuori di essa, tutto il mondo è capitale. Dentro la UE o fuori di essa, come ad esempio negli USA o in Gran Bretagna, i governi nazionali sono solo i comitati d'affari dei propri capitalisti, nel caso dei propri imperialismi, quelli che sotto l'euro, o sotto il dollaro, o sotto la sterlina, hanno distrutto il servizio sanitario.
La vera gabbia non è la UE ma il capitale. Rompere con la UE è parte di un programma di alternativa socialista, in ogni paese europeo e su scala continentale. Ma ridurre l'alternativa alla rottura con la UE significa mettersi a rimorchio del nazionalismo. Contro le ragioni dei lavoratori e delle lavoratrici, che oggi più di ieri “non hanno patria”, come diceva Marx, perché la loro patria è il mondo.
Partito Comunista dei Lavoratori

I portuali di Genova contro la guerra. Intervista a un lavoratore del CALP

In mezzo alla rassegnazione generalizzata della maggioranza della classe lavoratrice e ai venti populisti e sovranisti che si radicano tra le masse, a Genova il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali (CALP) si è reso protagonista di una battaglia esemplare, che ha saputo coniugare classismo, internazionalismo, antimperialismo e antimilitarismo. Una battaglia che assume ancor più valore perché nasce e si sviluppa dall'iniziativa di lavoratori di un settore strategico. La loro battaglia ha assunto un'eco internazionale, sia per il suo significato sia per il riverbero della mobilitazione, che ha toccato porti in tutta Europa: Anversa, Bilbao, Marsiglia, Tilbury, Le Havre.
La scintilla che ha fatto avviare questa mobilitazione è stata la contrapposizione ai traffici di armi e materiale per scopi bellici della flotta saudita Bahri, che per conto della petromonarchia dell'Arabia Saudita, rifornisce eserciti regolari e milizie islamiste impegnate nei conflitti della Siria del Nord (contro i curdi e il regime di Assad), del Kashmir e nella sporca guerra in Yemen. Tutte guerre che stanno provocando tremende e disumane conseguenze per le popolazioni e le classi lavoratrici, vittime di giochi di potere e profitto delle rispettive classi dirigenti e borghesi.
L'ultimo atto di questa lotta si è tenuto al varco Etiopia lunedì 16 Febbraio, di nuovo contro l'attracco della Bahri Yambu al terminal GMT, con un presidio che ha visto la solidarietà di diverse realtà associative, di movimento, sindacali (ma non di quelle con un peso nel Porto come la CGIL) e politiche – compreso il nostro partito e il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione.
Facciamo qualche domanda a Ricki, un compagno del CALP.

Non vi siete opposti solo all'attracco della flotta Bahri ma avete denunciato anche i traffici che hanno coinvolto la Bana, che riforniva armi per conto della Turchia di Erdogan alle milizie libiche di al-Sarraj, e avete denunciato in generale le guerre e i conflitti. La solidarietà ricevuta indica una certa attenzione alla vostra battaglia. Continuerete la vostra lotta? Partiti, sindacati e associazioni come possono fornire una solidarietà attiva?

"Ci siamo opposti a diversi traffici di armi. Quello della flotta Bahri è solo uno dei più impressionanti. Inoltre sappiamo che dal 23 marzo le navi Bahri non toccheranno più i porti europei, per andare direttamente dagli USA alla Turchia e portare forniture all'esercito di Erdogan e alle milizie qaediste e jihadiste che operano nella Siria del Nord. Probabilmente, quelle armi, munizioni ed equipaggiamenti verranno utilizzati contro il progetto rivoluzionario del Rojava.
Sì! Abbiamo denunciato i traffici della flotta Bana, che svolge queste operazioni da sempre. Ma consideriamo l'opposizione alla Bahri centrale, emblematica, perché mette in mostra gli intrecci di interessi sulla guerra contro popolazioni inermi, esemplificando la pericolosità dei traffici di armi. Per questo continueremo con la nostra battaglia e ci auguriamo di continuare ad avere la solidarietà e la vicinanza di tutti i soggetti politici e sociali che ci hanno dato sostegno attraverso la partecipazione e la risonanza alla nostra lotta."


Il 20 maggio 2019 la vostra mobilitazione e il vostro lavoro di inchiesta costrinse la burocrazia FILT-CGIL a dichiarare lo sciopero della CULMV (Compagnia Unica fra i Lavoratori delle Merci Varie) e del terminal GMT per impedire il carico di generatori per scopi militari sulla Bahri Yanbu. Questa volta la CGIL, nonostante le pressioni di altre realtà politiche e associative e il sostegno di tanti delegati FILT e di altre categorie CGIL, non ha convocato alcuno sciopero in vostro sostegno. Secondo voi come mai, e quali conseguenze ha avuto?

"Lo sciopero del 20 maggio è stato costruito tutti assieme e ha visto il sostegno della Compagnia Unica e di tutta la CGIL, è stata una battaglia vincente e importante che ci siamo conquistati tutti, tutti siamo stati protagonisti.
Il 16 febbraio, invece, i soggetti che ci hanno sostenuto nella mobilitazione passata, contribuendo anche alla vittoria, si sono tirati indietro e ci hanno lasciati soli. Le motivazioni crediamo di averle abbastanza chiare nella nostra testa. Sono argomento di discussione e riflessione tra noi del Collettivo e saranno sicuramente oggetto di confronti e discussioni, anche delicate, tra noi e i soggetti che crediamo non ci abbiano sostenuto a sufficienza e con coerenza.
L'ultima mobilitazione è stata costruita dal Collettivo, dall'Assemblea contro la Guerra, da associazioni, partiti e dalle tante persone che hanno condiviso le nostre parole d'ordine, le ragioni della nostra mobilitazione e la presenza al varco portuale in un giorno difficile, lavorativo e di pioggia."


C'è chi insinua che la vostra battaglia sia pericolosa per i lavoratori delle aziende che producono, progettano e trafficano armi e che lucrano sull'economia di guerra. Voi però avete scritto delle lettere proprio ai lavoratori di queste aziende e avete co-organizzato un corteo contro Leonardo, ribadendo come la lotta contro la guerra e i traffici di armi riguardi tutti.

"Sì, noi crediamo che il problema delle armi, di chi le produce e della sua logistica sia una questione che i lavoratori si devono porre. Devono farlo perché è anche una questione sindacale, perché i lavoratori e le lavoratrici devono sapere quello che fanno e per cosa lo fanno, devono essere a conoscenza dell'utilizzo finale di quello che producono e trasportano. Infatti ci sono lavoratori che producono o trasportano materiale per scopi civili e che, ad un certo punto, si sono ritrovati a eseguire lavori per commesse militari, anche inconsapevolmente. Poi è chiaro che siano scelte difficili, che comportano problemi che non si possono risolvere in poche battute. Sta di fatto che a questa filiera ci si può opporre, si possono praticare forme di disobbedienza o anche solo di denuncia, e il nostro interesse, con quelle lettere, era per lo meno informare quei lavoratori e quelle lavoratrici della filiera in cui erano inseriti e di renderli partecipi che c'era chi si opponeva non a loro e al loro posto di lavoro, ma per mettere in discussione per cosa si lavora. Per quel che riguarda il Porto, per esempio, siamo convinti che possa andare avanti anche senza i traffici di armi. Per quanto siano commesse remunerative, fanno lavorare poche persone, e crediamo che i porti non debbano essere utilizzati per traffici di morte, ma per ciò che è necessario alle persone e alla loro vita, non per distruggerla."


Il vostro collettivo si è reso protagonista anche di molte altre lotte, a partire dalle vertenze in porto fino alle manifestazioni di Genova Antifascista. Non ultima, la battaglia di Piazza Corvetto del 23 maggio 2019 contro il comizio di CasaPound, per cui sono arrivati ben 50 avvisi di garanzia contro diversi manifestanti. Purtroppo questa consapevolezza e conflittualità sono rare nella classe lavoratrice. Come mai questo vostro protagonismo e questa vostra sensibilità?

"Credo che i valori dell'antifascismo, della Resistenza, della solidarietà e dell'antirazzismo siano valori che il Porto di Genova ha intrinsecamente e a prescindere da noi. Sono nelle banchine, nei suoi discorsi, nei suoi bar, tra le persone che lo vivono e che lo hanno vissuto. Noi li abbiamo avuti in eredità da chi ha lavorato prima di noi, da chi ha vissuto la rivolta di piazza del 30 giugno del 1960, le lotte dei portuali, i valori e le esperienze della Resistenza e dell'opposizione al regime. Quindi un po' tutti i lavoratori del porto, chi più chi meno, sentono queste cose. Ed è dimostrato anche dai più giovani, infatti dopo essere entrati in poco tempo parlano con noi di antifascismo, di diritti, di questioni legate al mondo del lavoro e alle sue lotte. Credo sia il destino dei portuali genovesi essere in prima fila in tante battaglie. I compagni del Collettivo sono pieni di denunce ma ne andiamo fieri. Le battaglie che noi facciamo per i lavoratori, per la nostra città, per i nostri compagni e per chi vive con noi le lotte, per noi sono medaglie, e le conseguenze non sono certo un problema. Vogliamo andare avanti con intelligenza, determinazione, combattività e coerenza."


Anche in questo breve scambio si mette in evidenza la forza della classe lavoratrice quando è consapevole e determinata e quando riesce a connettersi con le migliori tradizioni di lotta e resistenza del passato, per tradurle nelle necessità dell'oggi.
Noi non possiamo che dare il pieno sostegno a questa lotta e utilizzare le reti di militanti e quadri politici e sindacali per megafonare le loro parole d'ordine e per promuovere l'emulazione e la generalizzazione di queste battaglie, ribadendo che i lavoratori e le lavoratrici devono rivendicare il controllo delle scelte su produzione, lavoro e società. Questa è la base per la prospettiva di un sistema differente, in cui il potere deve essere strappato agli sfruttatori e agli speculatori e assunto dalla classe lavoratrice organizzata, nell'interesse di tutta la società al di là di ogni confine e nazione.
Solo queste lotte possono bloccare i progetti di atomizzazione della classe e del suo disciplinamento, e mettere in discussione i traffici di morte e l'alimentazione di guerre devastanti, per pretendere una riconversione di tutta l'industria bellica per finalità sociali e per dirottare le masse di capitali, impegnate in quel settore, in favore della spesa sociale, per rifinanziare e rafforzare sanità, istruzione, trasporti, case e servizi pubblici. Una rivendicazione più che mai urgente oggi, nel mezzo di una pandemia mondiale, se si pensa che un F-35 corrisponde a oltre 7.000 respiratori, con cui fornire assistenza a chi sviluppa complicazioni gravi. Una rivendicazione sempreverde se si pensa alla miseria e alla crisi sanitaria perenne vissuta da larghissimi strati della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi vittime dell'imperialismo.
Ma è all'ordine del giorno anche perché, come detto, i traffici contro cui si scontrano i portuali genovesi sono gli stessi che producono milioni di profughi e sfollati, come le persone che in questi giorni vengono usati come carne da macello e merce di scambio tra Erdogan e l'Europa ai confini della Grecia.
Ribadiamo quindi che i traffici di armi e l'economia di guerra devono essere bloccati, e che va posta all'ordine del giorno la costruzione di un sistema socio-economico e politico alternativo, internazionale, fondato su una economia pianificata e sotto controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, da mettere al servizio dei bisogni e delle necessità di tutti e tutte, e non solo dei profitti di pochi.

Basta guerre e basta traffici di armi!
Porti e confini chiusi alle armi! Porti e confini aperti alle persone!
Cristian Briozzo

La condizione degli eroi

I lavoratori e le lavoratrici della sanità e il cinismo ipocrita dei capitalisti

27 Marzo 2020
Medici, infermieri, barellieri, personale di cucina e delle pulizie, un popolo. Il popolo della sanità, oggi al fronte. C'è un naturale sentimento di ammirazione e ringraziamento da parte di tutti per il lavoro del personale sanitario sul fronte di guerra del coronavirus. C'è in quel lavoro una componente di generosità e di coraggio, la consapevolezza di un ruolo sociale e solidale verso altri esseri umani, che è merce rara dopo tanti anni di reazione politica e culturale. Una merce che invece è assente ai piani alti della società borghese. Ciò che più indigna infatti è il trattamento cinico che le classi dirigenti riservano proprio ai lavoratori e alla lavoratrici della sanità.

Tutti conoscono ormai gli orari di lavoro massacranti cui questi lavoratori sono oggi costretti, dalle dodici alle quindici ore giornaliere: un carico “obbligato” non solo dal numero dei ricoveri e degli assistiti, ma anche e soprattutto dal taglio di decine di migliaia di posti di lavoro negli ospedali italiani nel corso degli ultimi 30 anni, sotto i governi di ogni colore, per pagare il debito pubblico alle banche ed elargire miliardi alle imprese. Incluse ovviamente le imprese della sanità privata.

Così tutti sanno della mancanza di dispositivi di sicurezza adeguati per il personale, con operatori costretti a indossare per diversi giorni la stessa mascherina o gli stessi guanti persino nei reparti della terapia intensiva, proprio dove l'esposizione al contagio è più diretta. Ciò che spiega l'altissima percentuale di morti tra medici e infermieri, non solo in Italia, ma anche in Spagna e in Francia.

Invece non tutti conoscono altri aspetti della loro condizione. Un numero esorbitante di contratti a termine, stipendi miserabili, mancato rinnovo contrattuale (nella sanità privata da ben 13 anni!), pochissime ore di formazione professionale per tagliare i costi aziendali, divieto di congedo parentale, impossibilità di denunciare pubblicamente la propria condizione di servizio senza incorrere nel reato di procurato danno all'azienda, ciò che significa licenziamento certo. Insomma, una situazione di ricatto e di impotenza, resa oggi ancor più pesante non solo dal numero delle ore di lavoro, ma dallo stress emotivo della relazione quotidiana con persone in pericolo di vita, disperatamente sole, per le quali il medico e l'infermiere non è solamente tale ma diventa spesso l'unica presenza affettiva disponibile. Solo se si guarda complessivamente a questa situazione di lavoro si comprendono le conseguenze gravi che a volte ne discendono: la scelta delle dimissioni, in qualche caso estremo persino il suicidio.

Ora, di fronte a tutto questo, fa veramente ribrezzo che la grande stampa borghese, quella che ha predicato per decenni i tagli alla sanità, riservi a questi lavoratori la patente di “eroi”. Tanto più se viene affibbiata, come ieri è accaduto, dal presidente di Confindustria lombarda (Bonometti), primo responsabile della strage quotidiana di Bergamo e di Brescia, escluse per sua volontà dalle misure di Codogno per non turbare produzione e profitti delle imprese metalmeccaniche. Quanto al governo, il prezzo attribuito ai lavoratori della sanità, come ad altri, è un premio di 100 euro in più in busta paga. Un eroismo davvero a basso costo, non c'è che dire. Nulla a confronto dei grassi dividendi di oltre 5 miliardi che le grandi banche tricolore (Intesa Sanpaolo, Banco BPM, UBI, BPER, Unicredit) riservano proprio nella giornata di oggi ai rispettivi grandi azionisti. Respingendo oltretutto l’invito della Federazione bancaria europea (EBF) a rinviare la spartizione degli utili a un momento più “consono”.

Sì, siamo in guerra. Una grande guerra. Coi generali che mandano la truppa a crepare in trincea mentre loro si spartiscono il bottino. Ma i dopoguerra riservano a volte spiacevoli sorprese agli stati maggiori. Così è stato nel secolo scorso, così potrebbe succedere domani.
Partito Comunista dei Lavoratori

Profitti privati sulla salute di tutti

Le bugie di Carlo Cottarelli al servizio del capitalismo sanitario

26 Marzo 2020
“Perché avete un pregiudizio ideologico verso la sanità privata?”. È un interrogativo retorico in cui tante volte ci siamo imbattuti. Un interrogativo che vola sulle labbra dei liberal borghesi benpensanti, dei reazionari cattolici, ma anche di tanti dirigenti della sinistra riformista in Italia, sia essa politica che sindacale. La risposta è nei fatti. Nulla come la tragedia del coronavirus illustra la verità delle cose con la dovuta semplicità.

La sanità privata in Italia ha raggiunto un volume di affari pari a 35,2 miliardi annui (dato aggiornato al 2015). Il suo baricentro è l'attività ospedaliera. La spesa pro capite annua per le cure private è passato da 484 euro del 2012 ai 580 attuali, grosso modo 2000 euro a famiglia. Complessivamente si tratta del 40% della spesa sanitaria su scala nazionale. Bene: quante sono le postazioni di terapia intensiva nelle strutture private? L'1% (uno). La famosa grande collaborazione della sanità privata nella cura dell'epidemia in corso ammonta all'1% del totale. Poi, certo, la drammatica emergenza ha costretto i governi locali e nazionale a premere sulle strutture private perché concedessero qualche spazio (con indennizzo al 100%). Ma il dato strutturale di partenza è questo: l'1% delle prestazioni.

Questo dato non è uno dei tanti. È la chiave di lettura della sanità privata. I privati si sono accaparrati gli affari più lucrosi: diagnostica, visite specialistiche, riabilitazioni, analisi di laboratorio, interventi di alta specializzazione. Al pubblico hanno lasciato le cure meno remunerative. La terapia intensiva è tra queste.


L'ASSISTENZA PUBBLICA AL CAPITALISMO SANITARIO

“Però la sanità privata offre indiscutibili eccellenze”, si obietta frequentemente. Certo, coi soldi pubblici, e a scapito della sanità pubblica, quindi della salute di tutti.

In primo luogo, il privato si espande dove il pubblico si ritira, e il pubblico si ritira per dare spazio al privato. I tagli alla sanità pubblica nel corso degli ultimi trent'anni, ma con un particolare accanimento dopo il 2008, si sono combinati ovunque con l'aumento dei costi per i pazienti e il peggioramento del servizio. Il risultato è che il servizio sanitario pubblico ha di fatto espulso dalle cure circa 12 milioni di persone, il 20% della popolazione italiana. È avvenuto anche in altri paesi (in Francia il 6,3%, in Germania il 5,4%), ma in Italia con particolare crudeltà. Dodici milioni di persone devono rinunciare a curarsi presso le strutture pubbliche o perché non possono affrontare i costi (l’intramoenia ha spesso costi superiori a privato), o per le liste infinite di attesa prodotta dal taglio del personale sanitario, o perché il presidio sanitario territoriale limitrofo è stato soppresso, o perché un certo tipo di cura non è più fornita. Il 43% dei migranti della sanità, che si spostano dal Sud al Nord, sono malati oncologici che non hanno sul proprio territorio un servizio pubblico di riferimento. Gli imprenditori privati della salute pubblica si sono allargati in questo spazio.

E si sono allargati in questo spazio grazie alle enormi sovvenzioni pubbliche pagate da tutti, e principalmente, attraverso il fisco, dai lavoratori salariati. Questo è il secondo aspetto, tutt'altro che secondario. Il grosso della sanità privata è convenzionato con lo Stato. I privati incassano non solo i soldi dell'assistito, ma la copertura finanziaria dello Stato, che paga una parte rilevante delle prestazioni fornite. Spesso peraltro gonfiate a dismisura con sovra fatturazioni e truffe. Ma anche tralasciando questo ultimo aspetto, di cui si occupa (spesso) la cronaca giudiziaria, la questione di fondo è quella di un capitalismo sanitario assistito con risorse pubbliche sottratte al servizio pubblico. In altri termini, non abbiamo privati che investono soldi propri ma uomini d'affari che investono i soldi di tutti, sottratti alla sanità di tutti. È il segreto dell'altissimo tasso di profitto nel campo della sanità privata, e delle sue fortune in Borsa.


COTTARELLI E IL GIOCO DELLE TRE CARTE

Il famoso Carlo Cottarelli, già funzionario del Fondo Monetario, massimo fiduciario del governo Monti e massimo teorico della spending review, ha cercato in questi giorni di raccontare a suon di dati che non è vero che la sanità pubblica è stata tagliata, perché anzi sarebbe cresciuta. Purtroppo, i dati sono falsi.

In primo luogo, perché la spesa sanitaria è sempre in rapporto ai bisogni. E i bisogni di assistenza crescono con la crisi demografica e l'invecchiamento della popolazione. Se la spesa assoluta rimane la stessa o anche si accresce ma in misura inferiore alle necessità di assistenza questo è a tutti gli effetti un taglio della spesa sanitaria. È il vecchio trucco con cui Renzi vantava l'incremento del fondo sanitario nazionale mentre in realtà lo tagliava.

Ma soprattutto il calcolo di Cottarelli nasconde ciò che è essenziale: dentro una spesa sanitaria complessiva in relativa decrescita abbiamo una crescita delle risorse sanitarie regalate ai privati. Il peso percentuale della spesa pubblica per i privati si è accresciuto persino negli anni dei massimi tagli alla sanità. E calcolare come spesa pubblica il soccorso al profitto privato è un giochetto da prestigiatore del circo di periferia, obiettivamente indecoroso. Tanto più in tempo di coronavirus.

Al fondo di tutto emerge tutta l'irrazionalità inumana del capitalismo. Mai come oggi la scienza medica consentirebbe di estendere la cura delle patologie della specie umana e di supportare un sistema sanitario universale. Mai come oggi si tagliano le cure del servizio pubblico per offrire un mercato al profitto privato. Nella società borghese anche la salute è merce. Sempre più cara e sempre più rara. Ricordiamoci anche di questo quando “tutto sarà finito”. Quando dovremo presentare il conto.
Partito Comunista dei Lavoratori

Sanità privata con i soldi pubblici

L'assurdità di un sistema sociale che lucra sulla salute di tutti

25 Marzo 2020
Il commentario quotidiano dei media documenta lo stato pietoso della sanità pubblica a fronte dell'epidemia: mancanza di letti, di personale medico e paramedico, di ventilatori, di ambulanze, di servizi di assistenza domiciliare per i non ospedalizzati, di presidi sanitari territoriali, di laboratori. Di tutto. L'alto tasso di decessi prima ancora di arrivare in terapia intensiva è il riflesso di questa condizione, come lo è l'improvvisa scoperta in una grande metropoli di 1800 malati all'interno delle proprie abitazioni, fuori dal raggio di ogni ricognizione e assistenza.

Tutto ciò è il prodotto dei tagli portati alla sanità pubblica degli ultimi vent'anni. Colpisce che questo massacro sociale sia emerso alla cronaca al prezzo di migliaia di morti. Ma tant'è. Ciò che invece non emerge ancora sufficientemente, ed anzi viene rimosso, è la ragione sociale di quei tagli. Che direzione hanno preso i 37 miliardi sottratti al servizio sanitario pubblico? Quale classe ha intascato il malloppo? È un interrogativo che non si può più ignorare. Perché inchioda il mandante del crimine in corso.


CHIUDERE OSPEDALI PER PAGARE I BANCHIERI
Per rispondere a questo interrogativo è sufficiente leggere le motivazioni che hanno accompagnato ogni legge finanziaria, già prima della grande crisi del 2008 e a maggior ragione dopo: la necessità di tagliare la spesa in ragione del contenimento del debito pubblico. In realtà in ragione del pagamento del debito pubblico e degli interessi sul debito: 60 o 70 miliardi di soli interessi ogni anno. Una cumulazione di interessi che ha concorso oltretutto ad espandere proprio quel debito pubblico che si doveva “contenere”. Ma a chi è andata ogni anno questa gigantesca mole di risorse sottratte ai servizi sociali, sanità inclusa? Naturalmente a chi ha comprato i titoli pubblici, cioè ai detentori del debito italiano. Principalmente le banche. Non le banche tedesche o straniere, come vorrebbe la propaganda sovranista un tanto al chilo. Ma principalmente, più di ogni altro, le grandi banche italiane, assieme alle compagnie di assicurazione. Cioè le stesse banche italiane che controllano coi propri pacchetti azionari buona parte di quella grande stampa che documenta... il disastro della sanità. Curioso no? È la misura della pubblica ipocrisia.


I CAPITALISTI DELLA SALUTE INGRASSANO IN BORSA

C'è tuttavia un altro soggetto che ha beneficiato largamente dei tagli alla sanità pubblica. È la sanità privata. Privata ma coi soldi pubblici.
Nel 2000 la sanità privata convenzionata assorbiva un esborso di 15,8 miliardi. Nel 2016 l'esborso arrivava a 31,5 miliardi, praticamente un raddoppio. Proprio in quel quindicennio, guarda caso, dilagava la soppressione degli ospedali pubblici, e con essi di 30.000 posti letto, incluse le postazioni di terapia intensiva. Già nel 2004 il convegno internazionale di Trieste sulla medicina d'urgenza denunciava la drammatica carenza dei posti di terapia intensiva negli ospedali italiani, che stavano al di sotto del 3%, un terzo della media europea. Nei tredici anni successivi quella soglia è stata ulteriormente tagliata al ribasso.

Parallelamente, la sanità privata ha conosciuto, nello stesso periodo, un autentico sfondamento, in un rapporto di complicità (e corruzione) coi governi regionali di ogni colore (Formigoni docet). I margini di profitto garantiti ai capitalisti della salute sono stati ingenti.
Più si tagliava lo spazio della sanità pubblica, più si ampliava il mercato di quella privata, e più saliva il drenaggio dei privati sulle risorse pubbliche attraverso il sistema delle convenzioni. Grazie a queste risorse diversi gruppi capitalistici della sanità privata hanno accumulato enormi fortune, investendole a loro volta in lucrosi affari immobiliari e finanziari. Basti pensare al gruppo Tosinvest, agli Angelucci, ai Rotelli, ai Rocca. Nuove dinastie della borghesia italiana si sono fatte largo per questa via, sino a fare nel 2018 il proprio ingresso in borsa, dove i titoli della sanità privata hanno conosciuto in soli due anni una crescita di valore del 56,9%. Un autentico record.

Ecco, quando parliamo ogni giorno del dramma sanitario in atto, delle morti silenziose e terribili senza il conforto delle persone care, teniamo anche uno sguardo d'insieme sulla natura della società capitalista. Perché la radice di tutto sta lì. Ripartire dai bisogni dei malati e della salute significa chiamare in causa l'intero ordine sociale, ben al di là di un virus. Ricordiamocelo per quando tutto sarà finito. Quando dovremo presentare il conto.
Partito Comunista dei Lavoratori

Chi lavora per un governo Draghi

Il grande capitale manovra per il dopo coronavirus

25 Marzo 2020
Nel momento stesso in cui chiedono agli operai di lavorare senza condizioni di sicurezza, i circoli dominanti iniziano a interrogarsi sulla prospettiva politica. Il Corriere della Sera, controllato da Banca Intesa, è all'avanguardia: «Da destra a sinistra tutti evocano Draghi per guidare l'Italia finita l'emergenza» (25 marzo). E fa filtrare in virgolettato le ipotesi che circolano al ministero dell'Economia: «un crollo del Pil per il 2020 tra il 5 e il 7% [sono ipotesi] da ritenersi ottimistiche: "Bisognerà prepararsi a una manovra choc, che non si potrà fare senza un patto nazionale"».
Il richiamo della Presidenza della Repubblica all'unità nazionale del dopoguerra non è casuale. De Gasperi e Togliatti si unirono al governo per ricostruire il capitalismo italiano uscito malconcio dalla guerra. Agli operai si imposero sacrifici enormi mentre ai padroni che avevano sostenuto il fascismo si restituirono fabbriche e profitti. Fu il tradimento della Resistenza.

Oggi, di fronte alla recessione annunciata e ai suoi effetti catastrofici, si recupera lo stesso canovaccio dell'unità nazionale. Contesti diversi, protagonisti diversi, ma la stessa filosofia di fondo.
I capitoli della manovra choc non sono difficili da indovinare: una pioggia di miliardi alle imprese per la “ricostruzione”, un'altra più estesa copertura finanziaria alle banche per consentire loro di far credito alle imprese e acquistare i titoli del debito pubblico, pagamento del debito pubblico alle banche coi relativi interessi in un quadro di difficoltà sul mercato finanziario. Ai lavoratori e alle lavoratrici si presenterà il conto della spesa nel nome della solidarietà patria.

Il Corriere dà informazioni utili sul retroscena di questo lavorio e sui diversi attori coinvolti: una parte del gruppo dirigente del PD che giudica insufficiente per la prospettiva un semplice tavolo di collaborazione tra governo Conte e opposizioni; e il regista politico della Lega, Giorgetti, che rilascia una dichiarazione significativa: «[...] il debito italiano salirà fino al 140-160% di rapporto con il Pil. E dovremo trattare con i mercati e con l'Europa per non affondare. Con tutto il rispetto, mi chiedo: è possibile che questo governo possa affrontare la più grave crisi del dopoguerra?».

La risposta è nel nome di Mario Draghi, il nome già suggerito e avallato in tempi recenti sia da Salvini che da Renzi. L'uomo che avendo coperto e sospinto alla guida della BCE il lungo ciclo di austerità negli anni della grande crisi è perciò stesso la massima garanzia agli occhi degli industriali e dei banchieri. Ecco il candidato naturale a salvatore della Nazione, colui che potrebbe gestire un secondo ciclo di austerità contro i lavoratori e le lavoratrici. Non il “commissario di Bruxelles”, come recita un certo spartito sovranista, ma l'uomo del grande capitale tricolore di cui rappresentare al meglio gli interessi anche in sede europea. Quello stesso capitale tricolore, per capirsi, che con Banca Intesa e Unicredit ha ieri annunciato che distribuirà agli azionisti lauti dividendi, mentre i pazienti muoiono per la mancanza dei letti d'ospedale.

Questa prospettiva politica non è certa, e dovrà affrontare contraddizioni e resistenze da parte di diversi ambienti, da Conte a Meloni, che avrebbero tutto da perdere in fatto di ruolo all'interno di quello scenario. Ma questo è il canovaccio di lavoro che si è iniziato ad imbastire dietro le quinte. Gli stessi capitalisti che hanno massacrato per trent'anni le condizioni del lavoro e la sanità pubblica si candidano a gestire il dopo coronavirus.
La nostra opposizione a ogni unità nazionale tra sindacati e Confindustria nel nome dell'emergenza è anche l'opposizione a questa prospettiva politica.
Partito Comunista dei Lavoratori

Si allargano gli scioperi operai

Scricchiola l'unità nazionale fra sindacati e padronato

24 Marzo 2020
Gli scioperi operai riprendono e si allargano, contro la pretesa di Confindustria e governo di imporre la continuità della produzione e del lavoro, a prescindere da ogni condizione di sicurezza per chi lavora, da ogni rapporto con la distribuzione territoriale del contagio, da ogni attinenza reale con le esigenze essenziali sanitarie e alimentari.
Gli scioperi hanno investito un'ampia gamma di grandi aziende, da Nord a Sud, dal gruppo Leonardo a DEMA, il cuore del proletariato industriale in produzione. È un fatto che impatta sulle relazioni industriali tra burocrazie sindacali e padronato, e al tempo stesso riflette la loro impasse.


LA LINEA DELLE BUROCRAZIE SINDACALI

La politica di collaborazione con Confindustria perseguita in queste settimane dalle direzioni sindacali conosce una crisi profonda. Basta ricostruire le tappe dell'ultimo mese.

A fine febbraio e a inizio contagio i vertici di CGIL, CISL e UIL firmavano un testo congiunto con le organizzazioni padronali all'insegna del “basta allarmismo”, "l'Italia non si ferma”. Erano gli stessi giorni in cui Confindustria lombarda imponeva l'esclusione di Bergamo e Brescia da ogni “soluzione Codogno”, nel nome della continuità produttiva. Una responsabilità criminale.

Esploso il contagio, di fronte agli scioperi operai sul tema sicurezza, le direzioni sindacali si affrettavano a firmare in piena notte un Protocollo di intesa col padronato (14 marzo) obiettivamente truffaldino, che non poneva alcun vincolo reale agli industriali mentre imponeva comportamenti vincolanti agli operai. Una soluzione talmente grottesca da lasciare basita la stessa FIOM.

Una settimana dopo, di fronte alla continuità degli scioperi (nonostante il protocollo di accordo), le direzioni sindacali, a partire dalla segreteria CGIL, hanno proposto a padroni e governo di sospendere provvisoriamente la produzione per «evitare che la paura dei lavoratori si trasformi in rabbia» (Landini): una sorta di disinnesco concordato della miccia, nel segno della “comune responsabilità” di fronte all'emergenza sanitaria. Una chiusura produttiva di unità nazionale.


CONFINDUSTRIA TIRA LA CORDA

Qui però l'operazione conosce un clamoroso incidente. Confindustria prima condivide l'accordo che formalmente sanciva la sospensione della produzione per due settimane nei settori produttivi non essenziali (sanitario e alimentare), pur chiedendo contropartite finanziarie ingenti. Ma poche ore dopo attiva dietro le quinte un lavoro di pressione sul governo, e direttamente sul Presidente del Consiglio, per ottenere l'allargamento a dismisura dei settori produttivi da mantenere aperti (tessile, aero-spazio, difesa...), obiettivamente estranei all'emergenza. Di più: pretende che siano i prefetti a decidere in ultima istanza quali sono le fabbriche da tenere aperte, in quanto “strategiche”. Conte annuisce, e allarga l'elenco delle produzioni aperte sotto dettatura telefonica di Confindustria, come lui stesso in qualche modo riconosce. Il tutto ha un solo significato politico: governo e padronato scaricano le burocrazie sindacali dopo aver abusato della loro collaborazione.

Le burocrazie, ed in particolare la CGIL, si sono trovate dentro una morsa. Da un lato, un governo cui hanno garantito sin dall'inizio un sostegno politico aperto e una Confindustria con cui non vogliono rompere. Dall'altro, il rischio concreto di vedersi scavalcate da quella rabbia dei lavoratori che si voleva disinnescare. Da qui una duplice operazione: un comunicato di protesta con la minaccia di uno sciopero generale – che non si vuole – quale strumento di pressione sul governo per ottenere un nuovo incontro e recuperare un accordo minimamente presentabile; parallelamente la copertura degli scioperi di fabbrica subito annunciati nei territori, a partire dai metalmeccanici, per evitare di perdere il controllo sulla dinamica di conflitto e quindi cercare di pilotarlo.

Questa è la partita aperta. Ogni attore in commedia ha un margine di manovra limitato, a fronte di una situazione obbiettivamente drammatica sotto il profilo sociale e sanitario.
Confindustria ha il fiato sul collo di una pletora di padroni e padroncini che temono la propria catastrofe.
La burocrazia sindacale è sotto la pressione sociale di un conflitto di cui non vuole perdere il controllo, nell'interesse stesso del padronato.
Il governo non può e non vuole rompere né con Confindustria, da cui riceve il mandato, né con la burocrazia sindacale, su cui si appoggia.
Tutti vogliono la ricomposizione di un equilibrio, nessuno controlla il terreno su cui realizzarla. La situazione resta dunque fluida e instabile.


IL COMPITO DELL'AVANGUARDIA

Tanto più in questo quadro, il compito dell'avanguardia e di tutte le forze classiste è quello di lavorare alla più ampia unità di classe sul terreno della massima chiarezza.

La dinamica degli scioperi in corso conferma la proposta di sciopero generale che il nostro partito ha posto, controcorrente, a partire dal primo sciopero di FCA Pomigliano. Landini offre copertura sindacale agli scioperi territoriali e di fabbrica, premurandosi di precisare che non propone un'azione in senso generale. L'esigenza dell'avanguardia di classe è esattamente opposta: promuovere gli scioperi, generalizzarli, trasformarli in uno sciopero generale.

Parallelamente, la pressione del contagio a partire dalla Lombardia conferma la centralità delle rivendicazioni indicate: chiusura di ogni attività, ad eccezione ovviamente del servizio sanitario, nelle situazioni di massima intensità del contagio, a partire da Bergamo, Brescia, Lombardia; controllo dei lavoratori sulle condizioni della sicurezza in ogni luogo di lavoro, in ogni settore, e su scala nazionale, inclusa la produzione alimentare e il lavoro negli ospedali: condizioni che solo i lavoratori possono accertare, non certo i padroni né tanto meno i prefetti; copertura salariale piena al 100% per tutti i lavoratori e le lavoratrici esentati dalla produzione, in tutti i settori.

I militanti e le militanti del PCL portano e porteranno questa proposta in ogni lotta e iniziativa sindacale. Per un fronte unico di classe e di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Coronavirus, bufale e complotti

Piccola rassegna di virali assurdità

24 Marzo 2020
La storia dell’umanità è storia di lotte di classe, non di complotti
La situazione è drammatica nel mondo ed in Italia. Il coronavirus sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale e mietendo vittime in tutto il mondo. Tutto questo però non può e non deve essere spiegato semplicemente con frasi del tipo “vi è stata la diffusione di un agente patogeno” o “ci deve essere una sorta di ordine massonico mondiale che ha voluto diffondere questo virus”.
Il Covid-19, meglio conosciuto con il nome di coronavirus, si è diffuso tramite zoonosi. Le zoonosi conosciute nel mondo sono numerose. Secondo l’OMS sono oltre 200 e comprendono un gruppo molto diverso d’infezioni o di infestazioni, che possono essere di natura batterica, virale, parassitaria e da agenti non convenzionali. Negli ultimi anni, a causa dell’intensificarsi degli scambi commerciali di animali e prodotti d’origine animale tra i vari paesi del mondo, il passaggio dall’agente patogeno da un animale all’uomo è aumentato e si verifica più frequentemente. Insomma, se vi è una concausa della diffusione di questo virus, sta nel poco rispetto da parte dell’uomo per l’ambiente e il mondo animale (“Più broccoli, meno McDonald!”).

Tutto questo però non è sufficiente come spiegazione per la forma mentis del grillino medio e dello stalinista duro (complottisti). I complotti, come sappiamo, sguazzano in questo contesto sui generis. Troppi morti e troppo repentino è stato il cambiamento della società, e come un virus nelle mucose, il complotto trova il suo terreno fertile di “contagio” per avanzare teorie assurde. Teorie che nei fatti ripropongono il vecchio concetto, di terribile memoria, del “complotto demo-pluto-giudaico-massonico”. Del resto, per questa gente quasi tutti (compresi noi trotskisti, perché non appoggiamo vari tiranni come Assad o i bonaparte come Putin) sono agenti del “grande vecchio” Soros, concentrato in un'unica persona del suddetto complotto.

I marxisti rivoluzionari, da buoni materialisti dialettici, rifuggono queste sciocche, semplicistiche e surreali letture della società.

Andiamo con ordine:

1. Circola un video che racconta il coronavirus come una sorta complotto creato dagli Stati Uniti per distruggere la Cina. Una cagata pazzesca, per usare la citazione cinematografica di Paolo Villaggio in uno dei suoi Fantozzi, oltre ad essere naturalmente anche poco logica. Ora gli USA sono in pieno panico, con la borsa crollata verticalmente, mentre la Cina sembra aver superato la crisi del Covid-19. Insomma, gli Stati Uniti si sarebbero sparati nei coglioni. Chapeau!

2. La Cina, va ricordato, non ha mai accusato gli Stati Uniti di aver scatenato l'epidemia. I cinesi, visto che l'amministrazione Trump non perde occasione di accusare la Cina di aver infettato il mondo, hanno solamente sollevato il dubbio che non è assolutamente certo che il virus (o il paziente uno) sia di origine cinese (possibile, ma poco probabile), viste le morti, semplicemente ascritte ad una generica influenza, che si sono susseguite nel mondo prima della comparsa ufficiale del coronavirus.

3. L'idea che a volere l'epidemia siano stati circoli della finanza internazionale, in una sorta di stanza dei bottoni, è da romanzo di Tom Clancy. Per far implodere le maggiori potenze imperialiste mondiali ci vuole un po’ di più che un manipolo di borsisti e biologi.

4. Il Covid-19 è stato creato in laboratorio. Questa è una delle migliori bufale. Non è così, e a dirlo è la biologia molecolare. Sull’ultimo numero della rivista Nature Medicine si può leggere un articolo molto chiaro dove sono rappresentati i coronavirus umano (una forma dell’attuale agente virale del Covid-19), tre coronavirus di pipistrello e un coronavirus di pangolino. Il risultato è chiaro: il virus attuale è strettamente imparentato con gli altri virus del passato, appartenenti alla stessa famiglia. Le differenze sono piccole ma significative, originatesi probabilmente per mutazione spontanea. Non c’è nessuna evidenza che possano essere state prodotte in laboratorio.

5. Le truppe USA (ci riferiamo all’esercitazione delle truppe USA in Europa), affermano i complottisti, “sono venute in Europa per diffondere il virus”. Qui siamo di fronte a teorie surreali, e la dimostrazione sta nella quarantena del generale Christopher Cavoli, comandante di US Army Europe, che è stato esposto al contagio in una riunione d’alto livello.

6. Infine, il meglio ce lo fornisce la nota attrice Eleonora Brigliadori. La star della TV è convinta che a ordire questo complotto su scala mondiale sarebbero stati gli USA. “Che ci fosse l'America dietro tutto questo – scrive convinta sui social – era già chiaro a molti di noi!". L’epidemia di Covid-19, secondo la showgirl, è puro e semplice "terrorismo mediatico". E spiega ai followers complottisti come lei: "Il terrorismo ha un effetto, e questo è quello di cui hanno bisogno probabilmente quelli che sono diventati materialisti e si fidano ancora dei medici ma soprattutto respirano male nella vita sociale... la polmonite viene alle persone che hanno indebolita la loro sfera morale nel Respiro.” (sic)

Da marxisti, materialisti dialettici, dobbiamo buttare le teorie del complotto nella pattumiera della storia. Come affermavano Marx ed Engels, la storia dell’umanità è storia della lotta di classe, e non di oscuri complotti di templari e rosacroce vari. La borghesia, è ovvio, complotta contro il proletariato e anche contro i suoi nemici parziali o avversari tra i vari briganti capitalisti, ma le sue azioni rientrano nell’ambito della realtà.

Difendere queste concezioni marxiste significa difendere la centralità della lotta di classe e della rivoluzione del proletariato contro il complotto permanente del capitalismo, dei suoi servi e dei rinnegati del movimento operaio e della sinistra: il quotidiano sfruttamento dei proletari ed oppressione e massacri di ogni genere contro la grande maggioranza dell’umanità.

Per questo, per noi, anche con il coronavirus la lotta di classe continua, e la sola soluzione per rispondere alle future inevitabili epidemie e pandemie è costruire un mondo socialista. Questo è il nostro compito, non quello di sostenere teorie assurde in compagnia di nemici della rivoluzione, fascisti, qualunquisti o stalinisti duri (complottisti) che siano.
Partito Comunista dei Lavoratori

Morire di posta ai tempi del coronavirus

Due dipendenti postali a Bergamo, uno a Lecce e uno a Merate sono morti per il contagio da Covid-19. La dirigente sindacale dell'SLC-CGIL Bergamo ha chiaramente denunciato la connessione tra il contagio e le condizioni di lavoro di portalettere e impiegati degli uffici postali.
In perfetta sintonia con i vertici di Confindustria, anche i vertici di Poste Italiane SpA sono pronti a sacrificare la vita e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici nel nome della quadratura dei bilanci, della difesa degli imponenti utili e della concorrenza con le altre aziende private per difendere le proprie quote di mercato.
Una schifosa competizione mortifera nel nome del profitto, che mette in mostra come questa tragica pandemia sia diventata disvelatrice di tutte le inaccettabili contraddizioni di questa società.

Non è quindi un caso che, come per la gran parte della classe lavoratrice d'Italia, la salute e la sicurezza dei lavoratori sia considerata come inevitabilmente e inderogabilmente sacrificabile, ben più della garanzia dei profitti dei loro padroni e delle loro amministrazioni.
Così, nei vari decreti, si è molto dettagliati nel fornire garanzie, benefici fiscali e blocchi dei pagamenti – finanziati con le contribuzioni e le tasse della grande massa di salariati, gli unici che non possono evadere il fisco con le stesse gabole finanziarie dei loro padroni – ma non si è altrettanto precisi e dettagliati nel garantire misure di sicurezza, DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) e le loro caratteristiche minime (come le mascherine, il gel igienizzante e i guanti), pieno salario per i contagiati e a chi rimane a casa per il fermo delle lavorazioni a causa dell'emergenza e così via.
Per cui, padroni, ministri e burocrazie sindacali fanno riunioni e conferenze Skype, dal comfort sicuro delle loro regge, con cui decidono che i salariati devono continuare a lavorare senza tutele minime reali, senza contare tutta quella enorme fetta di lavoratori in nero, spesso e volentieri giovani e/o immigrati senza diritti e sotto ricatto, che non sono neppure sfiorati dai ragionamenti delle trattative.


LA RACCOMANDATA VAL BEN UN CONTAGIO: DOV'È' LA SICUREZZA?

Ma non serve andare così distante, perché anche l'azienda misto pubblico-privato più grande d'Italia, con 130.000 dipendenti – che hanno appena subito pesanti ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali in cambio di miseri aumenti salariali e riduzione di diritti e garanzie – e oltre 1,5 miliardi di utili in un anno, triplicati rispetto ai 500 milioni del 2018, sempre grazie ai sacrifici di quei lavoratori che ne sono ossatura e muscolatura, manda al macello tutti i giorni chi gli garantisce dividendi e fatturato.

Così Poste Italiane dà vita a un tragicomico valzer di fasulle misure di precauzione, dichiarate sulla carta, applicate a singhiozzo e col contagocce nei vari uffici postali, di recapito, centri di smistamento e produzione e negli uffici impiegatizi.
L'azienda ha ovviamente aspettato gli “obblighi” di un governo compiacente per cominciare a muovere i primi passi, e anche quando l'emergenza – dell'epidemia prima e della pandemia poi – era evidente e acclarata, le misure sono rimaste insufficienti, tardive e applicate a spizzichi e bocconi, spesso delegate direttamente all'autorecupero sul mercato locale dei singoli direttori e capisquadra.

Poste ha così la pretesa di far credere ai suoi dipendenti che basti mantenere un metro di distanza tra lavoratori e con gli utenti, incuranti del fatto che non si sta parlando di uffici statici e chiusi al pubblico, e giustificando così la mancanza della necessità di mascherine FFP2 o di quelle chirurgiche, guanti e gel igienizzanti, nonostante le disposizioni di Istituto Superiore di Sanità e Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nonostante questo alibi di carta, l'azienda ha fornito a ogni dipendente una maschera FFP2 con valvola – con un periodo di usura di 8 ore di utilizzo, ergo poco meno di un turno di lavoro, con la clausola che quella sarebbe dovuta bastare a tempo indefinito e che, per essere sicuri, sarebbe stato sufficiente “igienizzarla” con dell'alcol ogni giorno.
Passata una settimana, alle prime rimostranze dei vertici nazionali dei principali sindacati – CISL, CGIL, UIL, FAILP, UGL – le FFP2 vengono sostituite con cosiddette “mascherine” composte da due strisce sovrapposte di tessuto non tessuto – una sorta di panno cattura polvere con due buchi per le orecchie. Sostanzialmente inutili, perché dopo qualche ora di utilizzo si usurano, filtrano a malapena polveri e batteri, e non riescono a coprire contemporaneamente bocca e naso.

Queste farse sono ampiamente coperte dal decreto “Cura Italia”, che sembra curare principalmente tasche e interessi dei padroni ma non la salute pubblica e dei lavoratori. Infatti, mentre le mascherine chirurgiche vengono definite DPI, con un comma si permette di derogare sulle certificazioni senza stabilire caratteristiche minime da garantire, e si legittima la mancata fornitura ai lavoratori in caso di impossibilità di reperirle sul mercato, senza per questo prevedere il blocco delle lavorazioni.
In più, l'azienda, per rassicurare i lavoratori ha fatto nel giro di settimane e con estrema lentezza una sanificazione sola per ufficio, come se i lavoratori degli uffici di recapito non uscissero tutti i giorni per entrare a contatto con centinaia di persone e migliaia di portoni, ambienti e superfici potenzialmente contaminanti, per poi raggrupparsi nuovamente nell'ufficio. O come se gli uffici postali, a maggior ragione chiudendone qualcuno, non vedessero centinaia di persone entrare e uscire ogni giorno, per quanto scaglionate.

Negli uffici (postali e di recapito), intanto, si genera il caos con indicazioni sulle modalità di lavorazione dei prodotti a firma, quelli più a rischio perché richiedono il diretto contatto con l'utente. Un caos dovuto, appunto, ad una sconclusionata e parziale chiusura degli uffici postali in cui ritirare i prodotti giacenti, con cambiamenti quotidiani. Per fare un esempio, nel giro di qualche giorno si è passati dal blocco della consegna degli atti giudiziari all'obbligo di mettere l'avviso in cassetta (ergo facendo fare al postino un giro a vuoto, poi un secondo giro per la seconda comunicazione di giacenza il giorno dopo, e poi costringendo l'utente a recarsi all'ufficio postale, che magari nel frattempo è stato chiuso, per ritirare un atto di un procedimento giudiziario che probabilmente è stato sospeso o prorogato, sempre a causa dell'emergenza), e infine alla possibilità di immetterli in cassetta, come viene fatto per le raccomandate normali. Anche per l'immissione in cassetta delle raccomandate ordinarie si è passati dal mantenimento della consegna a mano per ditte e uffici alla "postalizzazione" anche per quei destinatari, accorgendosi che anche quei luoghi sono frequentati da persone potenzialmente contagiose.

Rimane che non sempre è possibile per il portalettere garantire di non trovarsi a meno di un metro da un utente o di entrare in contatto con un locale o una superficie potenzialmente contaminante, soprattutto dopo la conferma che il virus può rimanere attivo fino a 72 ore su plastica e metalli.

A tutto questo si aggiunge anche il mancato rispetto dei normali accordi sindacali e del limitato protocollo d'intesa siglato tra sindacati, governo e Confindustria. Infatti dapprima Poste si è accordata con le OOSS per una riduzione del 25% del personale in servizio attraverso una rotazione settimanale del personale, lasciando intendere l'utilizzo degli ammortizzatori sociali e in particolare della cassa integrazione all'80% del salario. Poi viene rimandato l'incontro per definire la remunerazione e l'inquadramento regolamentare di questa turnazione. Infine l'azienda ha deciso, unilateralmente e improvvisamente, di sospendere qualsiasi turnazione e di far tornare in servizio la totalità dei dipendenti in barba alle disposizioni finalizzate alla rarefazione delle presenze negli uffici di recapito.
Nonostante questo caos e l'emergenza sanitaria, non si sono mai interrotte le pressioni alla massimizzazione della consegna, con la consueta tiritera dei ricatti nei confronti dei precari, spingendo alla consegna dei prioritari anche delle zone spente per compensare la riduzione dei prodotti postali in consegna (con una mano tolgono carico lavorativo, con l'altra lo aumentano da dietro) e, comunque, continuando a far arrivare ai portalettere prodotti che non sono affatto urgenti, indispensabili, improrogabili o essenziali (come le pubblicità, le réclame, rendicontazioni, cartoline, etc.) nonostante gli impegni presi.


PICCOLE E TIMIDE REAZIONI. BISOGNA GENERALIZZARE LA LOTTA!

In risposta a tutto questo si sono sviluppate piccole e timide rimostranze tra alcuni portalettere.
Di fronte al blocco degli scioperi e alla definizione di servizio essenziale, in un settore non particolarmente noto negli ultimi anni per la sua combattività, lo spauracchio di ritorsioni anche pesanti ha dato il colpo di grazia a qualsiasi possibilità di vedere scintille di mobilitazione particolarmente conflittuali. A questo va anche aggiunto un abile lavoro dei vertici sindacali e della ramificata struttura sindacale della CISL – egemone in Poste Italiane – nel frenare qualsiasi spirito bollente, giustificare l'azienda, ridimensionare i timori sui rischi e quant'altro potesse venire comodo per buttare acqua sul fuoco.
Le uniche reazioni un po' più consistenti sono state astensioni dal lavoro in contestazione all'assenza di DPI e igienizzazioni, con lavoratori che hanno presentato rimostranze scritte o autodichiarazioni, facendo appello in particolare al Testo Unico sulla sicurezza (Decreto legislativo 81/08), tornando a casa o rimanendo nei piazzali a distanza di sicurezza attendendo la fine del turno di lavoro. Reazioni però a macchia di leopardo, spesso individuali e solo raramente capaci di coinvolgere i lavoratori di tutto un ufficio.
Tutti i sindacati di base – CUB Poste, SLG-CUB Poste, SI Cobas Poste, Cobas Poste – hanno fin da subito posto la rivendicazione del blocco del servizio, ma sono presenze assolutamente marginali e prive di reale influenza in questa azienda.
Anche settori territoriali particolarmente combattivi della SLC-CGIL, però, si sono lanciati fin da subito nella pretesa del blocco del servizio (fatte salve le reali lavorazioni essenziali e improrogabili, come i pagamenti delle pensioni e le consegne urgenti), come quello ligure e quello lombardo.

Anche con il decreto del 22 marzo, con cui viene intimato il blocco di una piccolissima parte della produzione, e a cui Confindustria si è opposta apertamente ottenendo un ulteriore affievolimento al primo elenco di attività da fermare, il governo non prevede nulla di diverso per il settore postale, delle consegne e della logistica. Considerandoli a pieno titolo servizi essenziali, non viene previsto alcun blocco temporaneo, nessuna particolare imposizione ai datori di lavoro e alle amministrazioni per quanto riguarda la fornitura di dispositivi di protezione individuali, nessuna particolare indicazione di quali merci, prodotti e servizi siano indispensabili e quali no.

Tutto questo mette in evidenza una cosa che era già chiara da principio, ma che viene sempre di più a galla: se il profitto, le rendite e i fatturati vengono prima della salute e della vita dei lavoratori e delle lavoratrici, per imporre condizioni e misure di sicurezza necessarie per la salute pubblica e per i lavoratori stessi non rimangono che i rapporti di forza dati dalla lotta di classe e dalla combattività della classe lavoratrice.
E in questo diviene altrettanto evidente come le burocrazie sindacali, in particolare quelle confederali della triade CGIL-CISL-UIL, si presentino come incapaci, o peggio complici del padronato. Incapaci di difendere gli interessi della classe lavoratrice nel suo complesso e di organizzarla in termini sufficienti a porre la propria forza nella società per determinare scelte politiche, sociali ed economiche.

Per fare questo diviene oggi più che mai necessario coordinare in maniera autorganizzata tutte le realtà lavorative e gli uffici che hanno espresso forme di conflittualità; tutti i delegati e le delegate sindacali attivi nell'opporsi a questo stato di cose, a prescindere dalla loro appartenenza sindacale; tutti e tutte le lavoratrici e i lavoratori combattivi disposti ad attivarsi per pretendere il blocco delle operazioni postali per almeno quindici giorni e, laddove non sia possibile, la garanzia di condizioni igienico-sanitarie di lavoro e forniture di DPI per ridurre al minimo il rischio contagio o, altrimenti, fermare anche lì il lavoro.

Questo nel quadro e nella prospettiva di una unificazione di tutti i fronti del lavoro che si stanno mobilitando per pretendere che anche i lavoratori e le lavoratrici di tutti i settori non essenziali e emergenziali possano stare a casa per proteggersi e proteggere dal contagio, contro i decreti farsa del governo PD-M5S, contro le pretese sporche di sangue di Confindustria, e in alternativa alla linea morbida delle burocrazie sindacali nazionali.
Cristian Briozzo
I Dispositivi di Protezione Individuale forniti da Poste Italiane

Video: È il momento dell'unità nella lotta! - Marco Ferrando - 23/03/2020



Non c'è nessuna unità nazionale da celebrare! Organizzare ed estendere gli scioperi, per uno #sciopero generale vero!
La #lotta deve continuare in tutte le forme possibili, per unire il fronte dei lavoratori attorno alle proprie rivendicazioni indipendenti.
È il momento dell'#unità: ma nella chiarezza della lotta e della contrapposizione frontale al padronato e alle classi dirigenti!
1) A Bergamo, a Brescia, in Lombardia, e in situazioni similari di focolaio eccezionale del contagio in altre parti d'Italia, va attuata la “soluzione Codogno”. Un blocco totale di tutte le attività, ad eccezione ovviamente della sanità: l'unica via per contrastare il contagio e proteggere la popolazione. È una misura che andava presa congiuntamente a Codogno e che invece si è voluto evitare solo per compiacere #Confindustria e Federmeccanica lombarde e i loro interessi, come ha denunciato persino il sindaco PD di Brescia. Tanto più oggi va applicata senza esitazioni. E va ben al di là dei provvedimenti assunti dal governo nazionale e lombardo.
2) Nei luoghi di produzione e lavoro tenuti aperti, che vanno ben oltre il recinto della produzione alimentare e farmaceutica, vanno rivendicate condizioni di reale sicurezza, perché il protocollo di accordo tra sindacati e imprese non ha garantito un bel nulla. Senza condizioni di #sicurezza non si lavora. Gli #scioperi devono continuare sino alla conquista di queste condizioni. Le RSU e le RLS verificheranno in piena autonomia le condizioni del lavoro. Il #controllo operaio indipendente sulla sicurezza resta un terreno centrale di conflitto.
3) Va impedito che dietro la copertura del blocco delle attività e della sospensione della produzione vi siano padroni che preparano la chiusura delle fabbriche e il trasferimento di soppiatto di macchinari e impianti. I discorsi di marca padronale secondo cui “purtroppo molte aziende non riapriranno più” servono a preparare il terreno per queste pratiche. Nelle forme possibili va esercitata una vigilanza sindacale tesa a bloccare sul nascere queste operazioni, già attuate in tempi normali e oggi coperte dallo stato di eccezione.
4) I lavoratori e le lavoratrici dispensati dalla produzione e dal lavoro in ragione del blocco delle attività debbono avere una copertura salariale piena, ossia il 100% del #salario. Milioni di lavoratori e lavoratrici non possono subire la decurtazione di un salario già modestissimo, impoverito negli anni e spesso colpito dal mancato rinnovo contrattuale, tanto più a fronte della mole di miliardi che in varie forme vengono dati a imprese e banche. La rivendicazione del 100% del salario, a carico del padronato, ha valore unificante per tutto il mondo del lavoro.
A pagare il conto del coronavirus siano i capitalisti, non i lavoratori e le lavoratrici!

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI