Tra incognite di prospettiva e contraddizioni del blocco dominante
L'intera situazione politica è segnata dall'onda lunga del 4 dicembre.
Scissione del PD, indebolimento del renzismo, stabilizzazione
relativa del governo Gentiloni, lavori di ricomposizione a sinistra e
nel centrodestra, rilancio del M5S, stanno tutti per ragioni dirette o
indirette, e in relazione intrecciata, all'interno di questa cornice
d'insieme. Da cui non emerge alcuna prospettiva di soluzione politica
stabile per la prossima legislatura.
INDEBOLIMENTO DI RENZI, STABILIZZAZIONE RELATIVA DI GENTILONI
Renzi concepiva il nuovo esecutivo Gentiloni come una propria
protesi mascherata, con l'idea di liquidarlo in tempi brevi nella
prospettiva di elezioni politiche anticipate. Ma lo stesso indebolimento
del renzismo che ha partorito il nuovo governo ostacola la sua
liquidazione.
L'indebolimento del renzismo si esprime in forme diverse.
Innanzitutto all'interno del PD.
Renzi vincerà naturalmente le primarie. E rilancerà la propria
offensiva, sempre alla ricerca di un plebiscito. Ma il combinato del 4
dicembre e della scissione di MDP ha scosso gli equilibri interni. La
candidatura di Orlando è emblematica. Rivela una frattura della vecchia
maggioranza renziana, e lo smarcamento dal renzismo di un pezzo
importante di apparato che ormai diffida del corso
bonapartista-populista del capo e cerca la ricomposizione di un'alleanza
di governo di centrosinistra. Il fatto che una parte importante del
vecchio apparato DS (incluso Napolitano) e del mondo prodiano (incluso
Prodi) sostenga Orlando ha un significato politico che va al di là degli
esiti delle primarie. Riflette una ricollocazione politica di settori
decisivi dell'establishment in fuga dal renzismo. Il fatto che Orlando
sia ministro di Gentiloni aggiunge alla sua candidatura un significato
ulteriore. La galassia franceschiniana del PD, che pur sostiene
formalmente Renzi, approfitta del suo indebolimento per accrescere il
proprio peso negoziale interno.
In secondo luogo nel rapporto col grande capitale.
Il grande capitale, interno ed europeo, non asseconda la tentazione renziana di elezioni politiche anticipate.
La Confindustria, che aveva investito sul referendum istituzionale
con una proiezione politica inedita, ha subìto il 4 dicembre come
propria sconfitta. Più in generale la vecchia linea dell'investimento
politico nel renzismo, nella stagione del suo attacco frontale e
vincente al movimento operaio (Jobs Act), è oggi disarmata
dall'indebolimento di Renzi e dalla sua ritirata forzata (vedi vicenda
voucher). La crisi interna a Confindustria - riflesso più generale della
disarticolazione degli assetti capitalistici - è anche una risultante
della sua crisi di linea.
Il potere bancario, a sua volta, è segnato dalla crisi irrisolta dei
crediti deteriorati e da processi di profonda ristrutturazione o
ricapitalizzazione (MPS, banche venete, Unicredit), che da un lato
rafforzano la sua dipendenza dal quadro politico di governo e dalle sue
relazioni negoziali in sede UE su tutti i terreni cruciali
(assicurazione sui depositi, criteri della vigilanza, tetti consentiti
di titoli di Stato nel patrimonio bancario...); dall'altro, proprio per
questo, espongono le banche più di ieri a ogni rischio di crisi
politica. Il fatto che Gentiloni abbia messo 20 miliardi a garanzia
delle banche, mentre i gruppi parlamentari a trazione renziana del PD
hanno votato con M5S e Lega per una commissione d'inchiesta parlamentare
sulle banche (in una logica di pura concorrenza populistico elettorale)
dà la misura delle contraddizioni del quadro politico rispetto alle
ragioni di sistema del capitale finanziario.
In questo quadro l'idea renziana di liquidare Gentiloni alla vigilia
della futura legge di stabilità, per scaricarne gli oneri impopolari
sul governo successivo, è apertamente osteggiata dalla borghesia
italiana e dalla grande stampa. Elezioni a settembre (in coincidenza con
quelle tedesche) obbligherebbero a fare un nuovo governo in tempi
rapidissimi per il varo della legge di bilancio proprio nel contesto in
cui tutte le previsioni attendibili annunciano una probabile crisi di
governabilità nel prossimo Parlamento. Il rischio di un intreccio
esplosivo di crisi economica e istituzionale si farebbe altissimo. La
borghesia non vuole porre a rischio i propri interessi generali per
subordinarli al gioco di poker di un avventuriero dalle incerte fortune.
Il governo Gentiloni, per quanto precario, è il paradossale
beneficiario passivo di questo scenario d'insieme. Beneficia dei suoi
elementi politici: l'indebolimento di Renzi; il sostegno obbligato di
MDP, che vorrebbe smarcarsi dal governo ma non può provocare la sua
crisi; l'interesse di FI a guadagnare tempo anche in attesa di una
sentenza di riabilitazione per Berlusconi. Ma beneficia anche del
sostegno di una borghesia che si aggrappa all'attuale esecutivo come
unico ancoraggio di stabilità, per quanto di breve durata, di fronte
alle incognite del futuro.
LE CONTRADDIZIONI TRA GOVERNO E RENZISMO E LA MANOVRA ECONOMICA SUL 2018
Per questa stessa ragione, l'allungarsi dei tempi di durata del
governo si combina con contraddizioni crescenti tra esecutivo e
renziani.
La manovra economica di aggiustamento dei conti del 2017 e
soprattutto la definizione del DEF e della prossima legge di stabilità
ne sono la cartina di tornasole.
Dentro la cornice del fiscal compact, e dopo l'esaurimento dei
famosi margini di flessibilità negoziale concessi al governo Renzi, la
prossima legge di stabilità per il 2018 è zavorrata al piede di partenza
dalla necessità di trovare 19,5 miliardi per la sola sterilizzazione
degli aumenti dell'Iva. Cui si aggiunge l'”obbligo” di una riduzione del
deficit dall'attuale 2,2% all'1,2%, e l'esigenza di invertire la
dinamica del debito pubblico (salito a 2250 miliardi, il 133,1% del
PIL).
I ministri economici chiave del governo (Padoan e Calenda) puntano a
un'intesa in sede europea. Sanno che i margini negoziali sono molto
ridotti, tanto più alla vigilia delle elezioni tedesche. Ma soprattutto
sanno di non potersi permettere procedure d'infrazione. Con una crisi
bancaria in pieno corso, e con la prospettiva dell'esaurimento del
quantitative easing della BCE (decisivo in questi anni per la tenuta
delle banche italiane e per la riduzione drastica degli interessi sul
debito), una rottura in sede UE, o anche solo un braccio di ferro
prolungato ed estenuante con la Commissione europea, potrebbero
trascinare con sé effetti economici pesanti sui titoli di Stato (e
dunque sulle banche che li detengono). Da qui il tentativo di trovare
una via d'uscita in un mix di operazioni congiunte: rilancio delle
privatizzazioni, incluse Ferrovie e Poste (con l'obiettivo di cassa di 8
miliardi), tagli di spesa orizzontali su ogni ministero (riduzione del
3%), estensione alle società partecipate dal Tesoro del meccanismo dello
split payment (lo Stato trattiene l'Iva ai fornitori). Inoltre, per
garantirsi un margine di manovra più certo, Padoan e Calenda vorrebbero
tenersi aperta la possibilità di un aumento parziale dell'Iva,
fortemente consigliato peraltro dalla Commissione europea (il famoso
trasferimento del prelievo fiscale “dalle persone alle cose”), e oggi
sostenuto da Confindustria contro Confcommercio.
Ma questa impostazione generale cozza significativamente con le
ambizioni elettorali del renzismo. Renzi già ha posto un veto
sull'aumento delle accise per la benzina in ordine alla manovrina di
aggiustamento di primavera. A maggior ragione osteggia frontalmente
l'aumento dell'Iva e chiede una nuova operazione di decontribuzione a
vantaggio delle imprese sui nuovi assunti. La campagna d'immagine sulla
cosiddetta diminuzione delle tasse, rivolta al blocco popolare piccolo
borghese, non può essere compromessa dalla cosiddetta subordinazione a
Bruxelles. Al contrario: il rilancio da parte di Renzi di una
impostazione di sfida verso la UE e “le sue regole”, «anche a costo di
subire una procedura d'infrazione», si configura come marchio della sua
reinvestitura, e come terreno di concorrenza aperta con M5S e Lega.
Il punto di equilibrio all'interno del governo tra le pressioni
opposte della Commissione europea e del renzismo non sarà semplice.
Renzi userà la vittoria annunciata alle primarie per accrescere le
pressioni sul governo, sino a minacciare nuovamente elezioni a
settembre. Gentiloni prova a smussare preventivamente la pressione di
Renzi, garantendogli una volontà negoziale e non remissiva verso la UE.
Ma la mediazione letteraria è più facile di quella sui conti. E ancora
una volta la grande stampa borghese milita con Gentiloni, non con Renzi.
LE INCOGNITE DI PROSPETTIVA GENERALE
Ma la preoccupazione centrale della borghesia italiana non riguarda
le sorti di Gentiloni, che pure sostiene. Riguarda le prospettive più
generali dello scenario italiano.
La sconfitta del referendum istituzionale del 4 dicembre ha non solo
colpito il progetto del bonapartismo renziano, ma ha aggravato tutte le
incognite di prospettiva in termini di governabilità.
Il bipolarismo dell'alternanza, già da tempo in crisi, è stato
sepolto dal 4 dicembre. Il disegno di un populismo di governo (il
renzismo) in grado di contenere il populismo di opposizione (M5S) e di
sfondare nell'elettorato del centrodestra è definitivamente fallito. Il
tripolarismo attuale configura uno scenario per molti aspetto opposto.
Parallelamente, la spinta proporzionalista del 4 dicembre favorendo una
nuova frammentazione politica (MDP sul versante del centrosinistra,
Energie per l'Italia di Parisi al centro, il nuovo polo sovranista di
Storace e Alemanno sul versante del centrodestra) introduce un fattore
di ulteriore complicazione e disarticolazione interna ai poli
tradizionali.
La paralisi della legge elettorale è un riflesso di questo scenario generale.
Nessuno dei tre poli è oggi in grado realisticamente di ambire alla
soglia del 40% che consenta di incassare il premio di maggioranza alla
Camera, secondo la legge elettorale scaturita dalla Consulta. Al tempo
stesso, una rappresentanza proporzionale dei soggetti politici esistenti
non configura alcuna maggioranza politica nel prossimo Parlamento.
Neppure nella forma di una maggioranza PD-Forza Italia. Da qui
l'invocazione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario che
“consenta di governare” da parte di tutte le forze dell'establishment.
Ma la stessa crisi politica che sospinge l'invocazione di una nuova
legge elettorale ostacola pesantemente il varo della nuova legge.
Il Mattarellum - che peraltro rappresenterebbe una incognita
nell'attuale quadro tripolare - è respinto sia da M5S sia da Forza
Italia, e non ha i numeri per passare al Senato.
Il premio di maggioranza per le coalizioni invece che per le liste è
ovviamente osteggiato dal M5S, ma oggi anche dalla maggioranza renziana
del PD: Renzi avrebbe potuto concedere questa soluzione a Pisapia prima
della scissione, in una logica di propria egemonia su un centrosinistra
a propria immagine e somiglianza; non vuole concederla oggi a MDP,
perché non vuole incoraggiare la spinta della scissione; e tutta la sua
impostazione sembra riproporre la campagna elettorale per il 40% al PD
contro Lega e M5S, per schiacciare lo spazio a sinistra nel nome del
voto utile e riprovare a capitalizzare una quota di voto di centrodestra
contro M5S. Una impostazione finalizzata a massimizzare il risultato
per sé, e per il proprio controllo sul PD, ma che tanto più nelle
condizioni date post-scissione non può offrire una soluzione di governo.
Parallelamente incide la disarticolazione interna al centrodestra.
Berlusconi si tiene aperte tutte le porte. Un po' per calcolo, un po'
per necessità. È sospinto dalla crisi del renzismo a un rilancio della
coalizione di centrodestra. E al tempo stesso non sa se potrà
ricomporla, dubita che possa vincere, e vuole tenersi libero lo spazio
per ipotesi di governo col PD e altre forze di sistema, senza vincolarsi
a un patto con la Lega. Anche per questo propone un proporzionale puro
con soglia di sbarramento del 5% in entrambe le Camere. Per la stessa
ragione è restio a concedere un premio di coalizione al PD, dubitando di
poterlo utilizzare lui.
La terza soluzione è la cosiddetta armonizzazione della legge
elettorale tra le due Camere, attraverso l'estensione dell'attuale
“Consultellum” al Senato (con sbarramento unificato al 3%). Renzi punta a
questa soluzione, perché gli permetterebbe sia di rispondere alle
condizioni poste da Mattarella sia di salvaguardare una impostazione
propagandistica di campagna elettorale maggioritaria (“per il 40%”), e i
capilista bloccati, col relativo controllo dei gruppi parlamentari. Il
M5S è interessato perché è la soluzione più congeniale per le proprie
ambizioni, ma non vuole sottoscrivere per pure ragioni di immagine i
capilista bloccati, essenziali per Renzi e Berlusconi. E senza i voti di
M5S la soluzione si arena.
In ogni caso, neppure questa soluzione di legge elettorale,
rispondente agli interessi del renzismo, configurerebbe una soluzione di
governo.
In questo quadro di paralisi la possibilità che si vada al voto con
l'attuale Consultellum, con la relativa difformità tra Camera e Senato,
non può essere esclusa. Ma configurerebbe non solo il rischio di nessun
vincitore, bensì quello (estremo) di due diversi vincitori nelle due
Camere, con la crisi verticale di tipo istituzionale che questo scenario
inevitabilmente aprirebbe.
LA PARTICOLARITÀ DELLA CRISI ITALIANA IN EUROPA
Lo scenario italiano si colloca nel quadro della crisi politica europea, ma con un tratto particolare.
Tutti i paesi imperialisti europei, a dieci anni dall'esposione
della grande crisi capitalistica e dopo l'effetto di una doppia
recessione (2008/2009 e 2011/2012), sono stati investiti in forme
diverse da processi di polarizzazione politico-elettorale che hanno
indebolito le basi d'appoggio dei partiti borghesi tradizionali, e in
qualche caso destabilizzato il vecchio pendolo dell'alternanza.
Ma la maggior parte di essi sembrano ancora disporre o di strumenti
politici o di meccanismi istituzionali che in qualche modo possano
preservare, in varie forme, gli equilibri della governabilità borghese, o
quantomeno ostacolare la loro rottura.
La Germania, principale imperialismo europeo, può ancora confidare
sulla forza della CDU e della socialdemocrazia, che insieme contengono
l'avanzata del nazionalismo populista. L'Olanda ha fermato la corsa di
Wilders grazie alla forza del principale partito borghese di governo. La
Gran Bretagna, segnata dalla Brexit, può contare sulla forza del
Partito Conservatore e su un sistema maggioritario puro. La Spagna,
segnata dalla crisi del vecchio bibartitismo e minacciata dalla
pressione indipendentista catalana, continua a disporre nonostante tutto
della forza centrale del Partito Popolare. La Francia, segnata dalla
crisi verticale del Partito Socialista e dall'avanzata del lepenismo, si
affida ai meccanismi istituzionali della Quinta Repubblica e alle
ambizioni di Macron per fare argine alla deriva lepenista (seppur con un
rischio davvero inedito, anche a livello di UE).
L'imperialismo italiano non dispone ad oggi di una prospettiva certa
di “governabilità”. Né in termini di una forza di sistema capace di
fare baricentro, né in termini di coalizioni di governo sperimentate o
dotate di sufficiente consenso, né in termini di leggi elettorali e
meccanismi istituzionali "di garanzia". A un anno (o forse meno) dalle
elezioni politiche, la politica borghese procede a fari spenti, a fronte
di una crisi bancaria immutata e della prospettiva di esaurimento del
Quantitative Easing della BCE. Il M5S e le sue ambizioni di governo sono
al momento i beneficiari della crisi politica borghese. E una nuova
precipitazione della crisi di governabilità in Italia potrebbe avere
ricadute pesanti sulla UE, nel momento della sua massima instabilità.
Difendere l'autonomia del movimento operaio dai tre poli reazionari
(renzismo, salvinismo, grillismo), rilanciare e unificare l'opposizione
sociale di massa attorno a un proprio programma indipendente, costruire
la prospettiva di un'alternativa di classe alla crisi politica borghese,
è tanto più oggi il compito dell'avanguardia.
Marco Ferrando