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25 aprile. Una rivoluzione per vendicare la resistenza tradita


1943/'45, la resistenza partigiana e la rivolta operaia presentarono il conto alla dittatura fascista. In quella rivolta, di cui fu prima protagonista la giovane generazione di allora, non viveva però solamente un'aspirazione democratica. Viveva la volontà di farla finita con la borghesia italiana che si era servita del fascismo. Viveva la volontà di rovesciare il capitalismo e di imporre il potere dei lavoratori. Era la speranza della “rossa primavera” delle canzoni partigiane.

UNA RESISTENZA TRADITA DA STALIN E TOGLIATTI

Quella volontà fu tradita. Stalin aveva pattuito con gli imperialismi vincitori una spartizione in zone d'influenza. L'Italia doveva restare nel campo capitalista, in Occidente, per il quieto vivere della burocrazia del Cremlino. Il PCI di Togliatti fu fedele esecutore della volontà di Mosca. La Resistenza partigiana fu dunque subordinata alla collaborazione con la DC e coi partiti borghesi dando a questi poteri di veto (CLN). I governi di unità nazionale tra DC e PCI nell'immediato dopoguerra furono lo sbocco di questa linea e la proseguirono: disarmarono i partigiani, restituirono le fabbriche ai capitalisti (Valletta), reinsediarono i vecchi prefetti, amnistiarono persino gli sgherri fascisti (amnistia del ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti del 1947). Fu il tradimento della Resistenza. La Costituzione del 1948, pattuita tra DC e PCI, declamando principi progressisti, serviva a mascherare questo tradimento. Come disse Piero Calamandrei: una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata. Intanto le classi capitaliste, restaurato il proprio potere, cacciarono il PCI all'opposizione (perché non ne avevano più bisogno) e passarono all'offensiva contro i lavoratori, le lavoratrici, i comunisti: reparti confino nelle fabbriche, repressione sanguinosa di manifestazioni sindacali, la lunga reazione degli anni '50.


L'AUTUNNO CALDO SVENDUTO AL COMPROMESSO STORICO

Quando vent'anni dopo la Resistenza una nuova generazione operaia rialzò la testa, con la grande ascesa dell'autunno caldo e le sue conquiste sociali e democratiche ('69-'76), fu nuovamente il PCI a sbarrarle la via con una seconda edizione del compromesso storico governativo con la DC ('76/'78): svolta sindacale di austerità e sacrifici (congresso dell'Eur della CGIL di Lama), subordinazione delle richieste operaie alle compatibilità del capitalismo, identificazione con lo Stato borghese. Il risultato fu una demoralizzazione di massa, un lungo ripiegamento, una diffusa passivizzazione. Cui seguì l'offensiva frontale della FIAT e del padronato contro il movimento operaio sul piano sociale (ottobre 1980) e l'ascesa del craxismo sul piano politico. La seconda Repubblica nata dal crollo del Muro di Berlino e dalle ceneri di Tangentopoli sarà lo sbocco di questa deriva reazionaria, nel segno della progressiva cancellazione delle conquiste operaie.


IL TRASFORMISMO A SINISTRA NELLA SECONDA REPUBBLICA

Molta acqua è passata sotto i ponti dalla Resistenza ad oggi, anche e soprattutto a sinistra. Ma in continuità, purtroppo, con l'opportunismo di allora. Il gruppo dirigente del PCI, che aveva tradito prima la Resistenza e poi l'autunno caldo, sciolse il proprio partito a ridosso del crollo dell'URSS per coronare in forma compiuta il proprio sogno proibito: entrare a pieno titolo nel governo del capitalismo italiano e gestirne le misure antioperaie. Fu ciò che avvenne, lungo una interminabile stagione trasformista - dal PCI al PDS ai DS sino al PD - che oggi ha conosciuto il suo epilogo: quel renzismo che apertamente persegue un disegno reazionario bonapartista di un uomo solo al comando al servizio di Marchionne, nel segno della rottura più clamorosa dello stesso patto
costituzionale. Parallelamente, Rifondazione Comunista, nata nei primi anni Novanta in reazione allo scioglimento del PCI come “il cuore dell'opposizione”, è stata condotta dai propri gruppi dirigenti nel compromesso di governo con i DS e il PD, sia nelle giunte locali, sia, ripetutamente, nei governi nazionali (governi Prodi), finendo col votare la precarizzazione del lavoro, le missioni di guerra, i tagli sociali. Tutto ciò contro cui formalmente era nata. Col conseguente suicidio. La risultante di tutto questo è molto semplice: la classe lavoratrice si trova priva di una propria rappresentanza politica proprio nel momento della più grande crisi capitalistica degli ultimi ottanta anni. Proprio nel momento della peggiore offensiva padronale nei luoghi di lavoro, e della peggiore aggressione reazionaria sul piano politico e istituzionale. Il dilagare, anche tra i lavoratori, delle forme più deteriori di populismo reazionario (Salvini, Grillo) è un effetto di questa deriva generale.


L'UNICO MODO DI ONORARE LA RESISTENZA: COSTRUIRE LA SINISTRA DI CLASSE

Se tutto questo è vero, la conclusione è una sola. Va ricostruito, controcorrente, un partito indipendente della classe lavoratrice. Ma può essere costruito solo attorno a un programma anticapitalista, fuori e contro quel trasformismo governista che ha corrotto la lunga storia della sinistra italiana. I lavoratori non hanno bisogno dell'ennesimo partito che chiede i voti operai per poi tradirli. Non hanno bisogno dell'ennesimo partito riformista, la cui unica ambizione sia governare il capitalismo, salvo poi una volta al governo gestire regolarmente le controriforme sociali che la crisi capitalista dispensa (Tsipras). Hanno bisogno finalmente di una sinistra che non tradisca: che riconduca ogni lotta di resistenza ad una prospettiva alternativa di società e di potere. L'unica reale alternativa al fallimento del capitalismo: una alternativa rivoluzionaria e socialista, in Italia e nel mondo.
Per questo, costruire il Partito Comunista dei Lavoratori è il modo migliore di onorare la memoria delle domande rivoluzionarie della Resistenza.

Partito Comunista dei Lavoratori

Volentieri diffondiamo: LA GUERRA NON ERA FINITA

Volentieri diffondiamo la seguente comunicazione.

L'Associazione culturale Victor Serge

 ( http://associazionevictorserge.blogspot.it/) organizza:


MARTEDI’ 25 APRILE 2017

ALLE ORE 11

Presso il locale

AL PRADEL Via del Pratello 96/a - BOLOGNA

PRESENTAZIONE DEL LIBRO


LA GUERRA NON ERA FINITA
I partigiani della Volante Rossa
“Milano, estate 1945.
In una città annichilita dai bombardamenti e dalla fame, un gruppo di partigiani riprende le armi. Sono giovani, giovanissimi: la maggior parte non ha nemmeno vent’anni. E sono pochi, non più di cinquanta. In meno di tre anni, tutti conosceranno il loro nome”

Sarà presente l’autore FRANCESCO TRENTO

Contro l'imperialismo guerrafondaio!

Testo del volantino nazionale mensile del PCL
18 Aprile 2017
L'intervento militare degli Stati Uniti in Siria con il bombardamento della base siriana di Shayrat, così come la dimostrazione muscolare con il bombardamento in Afganistan rappresentano la smentita nei fatti delle interpretazioni politiche che vedevano gli Stati Uniti pronti a ritirarsi da un ruolo di primo piano nello scenario mondiale sotto la leadership Trump, che in molti ambienti, persino di sinistra, veniva dipinto come il male minore, proprio nella convinzione che un ritorno isolazionista fosse una politica possibile e che questo avrebbe creato le condizioni per un diverso confronto internazionale.

La vittoria di Trump ha invece dimostrato una volta di più come in questa fase storica segnata dalla grande crisi del capitalismo, non solo si è esaurito lo spazio per ogni ipotesi riformista, ma che anche le vecchie forme della politica borghese conoscono una crisi senza precedenti. Trump ha vinto scalando il Partito Repubblicano e sulle macerie del Partito Democratico: la sconfitta di Hillary Clinton è anche il bilancio degli otto anni di Barack Obama e la misura del fallimento impietoso di tutte le illusioni riformiste che anche tanta sinistra internazionale aveva contribuito a creare intorno alla sua esperienza. Due mandati, quelli di Obama, in cui da un lato si sono salvate le banche con le risorse pubbliche e i capitalisti dell'auto con i tagli dei salari e dei diritti, mentre dall'altro milioni di proletari, studenti e giovani lavoratori conoscono il peggioramento delle loro condizioni di vita sotto forma del caro-polizze di assistenza medica lasciata alle assicurazioni private, di debiti d'onore a vita per sostenere le rette studentesche, nella cronicizzazione dell'alternanza tra disoccupazione e lavori sottopagati e senza tutele. La capitolazione di Bernie Sanders alla Clinton dopo le primarie ha vanificato la grande ricerca di una alternativa potenzialmente anticapitalista che il proletariato statunitense ha dimostrato, in controtendenza, in questi anni.

L'affermazione di Trump è dunque stata un'affermazione reazionaria, che si è nutrita della crisi di egemonia dell'establishment borghese tradizionale, ma che ha bisogno di dare continuità politica reale alla ferocia della sua campagna elettorale. L'utilizzo della bomba MOAB in Afghanistan e le minacce alla Corea del Nord sono la più recente conferma di questa direzione dell'amministrazione Trump.

La politica spericolata e cialtrona di Trump (si veda l'esito del tentativo di rimuovere la riforma sanitaria, dove si è trovato senza voti alla camera) tenta di affermare e concretizzare i suoi slogan elettorali di una rinascita di egemonia mondiale statunitense e le prove di forza con le grandi potenze rivali, a partire dalla Russia, rientrano in questo orizzonte. Gli ammiccamenti tra Trump e Putin dei mesi scorsi devono fare i conti con la cruda realtà della guerra civile siriana dove ciascuna potenza, imperialistica o locale, sfrutta la tragedia della Siria per sviluppare una propria opzione di controllo politico, militare ed economico, sul terreno del Medio Oriente o sul piano globale. La rivoluzione siriana, esplosa nel 2011 nel solco delle rivoluzioni arabe come contraddittoria ma genuina rivolta popolare contro un regime capitalista sanguinario e familistico, è progressivamente sprofondata nella spirale di una guerra civile senza più forze realmente progressive, anzi trasformandosi nell’esempio più eclatante dello scontro interborghese.

Da due angoli del mondo così apparentemente lontani, la guerra civile siriana e gli Stati Uniti a guida Donald Trump, che in quella stessa guerra civile intervengono con uomini e bombardamenti, la lezione che si deve trarre è la medesima:
Dentro la svolta d'epoca segnata dalla grande crisi del capitalismo e del riformismo, non c'è spazio storico duraturo per le vecchie forme della politica borghese né per soluzioni di compromesso. Il bivio di prospettiva storica che interroga il mondo è quello tra rivoluzione o reazione. Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri. La costruzione di un partito rivoluzionario internazionale che lavori ad elevare la coscienza della classe lavoratrice all'altezza di un alternativa globale di sistema è un compito quanto mai urgente e immediato.

Il Partito comunista dei lavoratori, con tutti i suoi militanti, è impegnato in ogni contesto, nazionale ed internazionale, a portare avanti questo progetto.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il dispotismo ha perso!

Prima dichiarazione del DIP sul referendum in Turchia

17 Aprile 2017
È giunto il momento che le masse lavoratrici dicano NO alla borghesia e all'imperialismo!
 
 In questo momento i risultati del referendum non sono ancora definitivi, e in tutta probabilità saranno al centro del dibattito nel prossimo futuro. La decisione estremamente controversa dell'Alta Commissione Elettorale ha gettato una lunga ombra sul referendum, in aggiunta ai metodi con cui si è svolta la propaganda prima del giorno del voto, con denaro pubblico e canali televisivi impiegati in favore del Sì in maniera sfrenata e con Erdogan che agiva già come un presidente di parte - ciò che sarebbe appunto l'oggetto del referendum (1) - mentre la campagna del No veniva attaccata sia dalle forze dello Stato e dai sicari politici vicini al AKP sia dal partito fascista MHP. E nonostante tutto questo, le masse lavoratrici hanno dimostrato che non accetteranno il dispotismo che si sta imponendo in Turchia. Almeno 24 milioni di persone hanno rifiutato il nuovo sistema.
La sconfitta del dispotismo è netta in molte aree. Il cambiamento è arrivato in Turchia, nell'ultimo mezzo secolo, inizialmente attraverso le grandi città. La fortuna politica di Bulent Ecevit (2) negli anni Settanta ebbe inizio proprio in tre grandi città, per poi raggiungere l'arretrata provincia. Lo stesso Erdogan arrivò al potere dopo aver conquistato Istanbul e Ankara già nel 1994, quasi un quarto di secolo fa. In questo referendum le grandi città, incluse le roccaforti dell'AKP Ankara ed Isanbul, si sono categoricamente rifiutate di dare il loro assenso alla modifica della costituzione.

Il fronte del dispotismo può aver vinto legalmente, ma ha perso politicamente. L'ultima volta che il popolo turco è stato chiamato alle urne, l'AKP di Erdogan ha ricevuto il 49,5 per cento dei voti, mentre il suo attuale alleato, il MHP, ha ottenuto il 12 per cento. Il loro appello congiunto alla modifica della costituzione ha ottenuto solo il 51 per cento, il che ovviamente significa una perdita di oltre 10 punti percentuali!

Il MHP [Partito del Movimento Nazionalista, braccio politico dei Lupi grigi] ha sofferto un duro colpo. Il suo leader Bahceli è giunto alla fine della sua corsa. Oltre alla sconfitta del suo unico alleato, e alla crescente inquietudine all'interno del suo partito, Erdogan si trova ad affrontare anche la pressione del TUSIAD [Confindustria turca], il principale organo dell'ala filo-occidentale e laica della borghesia, che al momento della chiusura dei seggi, prima che si sapessero i risultati, ha emesso una sorta di avvertimento nei suoi confronti, chiedendo la fine dello stato d'emergenza, l'indipendenza del sistema giudiziario, libertà d'espressione, così come "riforme nel mercato del lavoro" e allineamento alle politiche della NATO. Erdogan è poi anche sotto pressione degli USA, che stanno tenendo in ostaggio il magnate iraniano Reza Zarrab, re della corruzione con diversi altri ex ministri, per spingere Erdogan nella direzione da essi voluta.

La classe operaia e le masse lavoratrici della Turchia devono affrontare la minaccia di un arretramento di molte posizioni, su molti diritti e conquiste acquisiti nel passato. L'AKP promette al popolo turco il conflitto interno, persino la guerra civile. Il governo di Erdogan sta mandando i figli dei lavoratori e dei contadini a morire in guerre che non promettono nulla alle masse lavoratrici. Alla realtà delle guerre in Medio Oriente, l'AKP aggiunge l'aumento delle tensioni con entrambi i suoi vicini occidentali, la Grecia e la Bulgaria.

Non inchiniamoci né all'AKP né al TUSIAD. Non permettiamo agli USA di avere mano libera in Turchia solo perché Erdogan è minacciato da un ostaggio. In qualunque modo abbiano votato al referendum, i lavoratori della Turchia devono unirsi e dire NO al fratricidio, NO al dispotismo, NO allo sfruttamento, e NO all'imperialismo!

Il DIP continuerà a combattere il dispotismo, lo sfruttamento e l'imperialismo anche dopo il referendum, così come lo abbiamo fatto prima. Cercherà di stringere legami sempre più stretti con la classe operaia. E in questo sforzo, parlerà a tutti i compagni, i partiti vicini, a tutti i veri marxisti e a tutte le forze che combattono il capitalismo imperialista. Cercherà solidarietà internazionalista non per ricevere aiuto, ma per ottenere ed estendere la solidarietà contro i Trump e gli Erdogan e le Le Pen e gli Orban e i Duterte e i Modi del mondo!


16 aprile 2017


Note:

(1) La riforma prevede, tra l'altro, che il Presidente della repubblica possa mantenere legami con il suo partito di provenienza, abolendo il vigente obbligo sotto giuramento di assoluta imparzialità.

(2) Ex Primo ministro e leader del CHP, partito progressista storico erede del kemalismo.
DIP (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, Turchia)
 http://gercekgazetesi.net/english
 
 

Siria e Corea, il nuovo corso di Donald Trump

La “svolta” della politica estera di Trump è al centro dello scenario mondiale. L'attacco militare in Siria, la minaccia militare alla Corea del Nord, si pongono in evidente linea di continuità.
Larga parte del commentario borghese tradizionale, ma anche gli ambienti populisti reazionari europei, si erano rappresentati la figura di Trump come quella di un politico principalmente proiettato sul mercato elettorale americano, estraneo ai grandi temi della politica internazionale, orientato alla rottura isolazionista con la tradizionale politica estera dell'imperialismo USA (inclusa la tradizione repubblicana). Le cancellerie degli imperialismi alleati, in primo luogo europei e giapponese, vedevano tutto questo con comprensibile preoccupazione. I diversi ambienti del sovranismo nazionalista come esempio luminoso. Persino alcuni settori politici e culturali (particolarmente sciagurati) del “nazionalismo di sinistra” volevano vedere nel trumpismo un lato positivo nel segno di un supposto disimpegno dal vecchio imperialismo yankee.

I fatti si sono incaricati di dimostrare, nella forma più brutale, l'inconsistenza di queste rappresentazioni ideologiche. Da ogni versante.


I RISVOLTI POLITICI INTERNI DEL NUOVO CORSO. LA RISPOSTA ALLA CRISI DELL'IMPERIALISMO USA

Donald Trump ha sicuramente costituito un candidato outsider, estraneo al vecchio establishment USA. Proprio la sua estraneità al vecchio potere americano ha rappresentato la principale leva della sua vittoria. Ma se Trump poteva in un certo senso vincere “da solo”, certo non poteva e non può governare “da solo” gli Stati Uniti d'America. Può governare solamente trovando un punto di equilibrio con l'insieme dell'apparato statale americano in tutta la sua articolazione e complessità interna (Federal Reserve, Pentagono, corpo diplomatico, servizi segreti, Corte Suprema, Congresso...).

I primi mesi dell'amministrazione Trump dimostrano che il punto di equilibrio non è facile. La fronda del FBI , la diffidenza della banca centrale, l'ostilità di parte rilevante della magistratura hanno rappresentato ostacoli potenti al consolidamento interno del trumpismo. Il suo blocco sociale elettorale ancora regge fondamentalmente, nonostante lo sviluppo di forme diverse di opposizione politica di massa. Ma la sconfitta clamorosa in sede parlamentare sull'abolizione della riforma sanitaria di Obama, l'invalidazione giudiziaria dei suoi famigerati decreti sull'immigrazione, la campagna anti-Trump sui rapporti ambigui con la Russia condotta da settori dei servizi e della grande stampa, hanno dimostrato alla nuova presidenza USA che governare gli Stati Uniti è cosa ben più complessa di una campagna elettorale o di una somma di tweet.

Il nuovo corso della politica estera di Trump è anche parte della ricerca di un equilibrio nuovo. Il rilancio di una politica muscolare e l'ostentazione della forza rispondono infatti a obiettivi interni molteplici. Da un lato giocano sul richiamo del consenso popolare attorno al prestigio della Nazione e del suo comandante in capo, declinando in forme nuove quella petizione nazionalista ("America First") che ha rappresentato tanta parte dell'ascesa del trumpismo. Dall'altro lato sono funzionali a ricomporre una relazione con ambienti decisivi per l'esercizio della presidenza: con l'insieme del Partito Repubblicano, a partire dal Congresso, e con l'ambiente militare del Pentagono e dei suoi alti gradi, cuore della potenza imperialista degli USA. L'emarginazione dell'ideologo di estrema destra Bannon a favore di esponenti di alta estrazione militare (ministro della Difesa Mattis, consigliere McMaster, ex capo di Stato Maggiore Mullen) accompagna non a caso il nuovo corso.

Ma il nuovo corso vuole rispondere innanzitutto alla lunga crisi di direzione politica dell'imperialismo USA nel mondo. All'esigenza di una risposta nuova alla sfida dell'imperialismo russo e soprattutto, su scala globale, dell'imperialismo cinese. L'attacco in Siria e la minaccia alla Corea del Nord sui mari del Pacifico vogliono segnare un punto di svolta. La fine della “ritirata americana” e la rivendicazione dell'egemonia USA nel mondo.


L'ATTACCO IN SIRIA: IL RIEQUILIBRIO DELLE FORZE CON MOSCA

L'attacco in Siria ha voluto soprattutto marcare un segno di svolta della politica estera USA nello scenario mediorientale e internazionale, in rapporto all'imperialismo russo.

Il marcato indebolimento di peso e ruolo dell'imperialismo USA, dopo la disfatta delle guerre di Bush e la lunga paralisi dell'amministrazione Obama, aveva aperto il varco all'inserimento dell'imperialismo russo in Medio Oriente. Sia sul terreno della presenza militare, dove l'intervento russo ha segnato una svolta nella guerra siriana a favore di Assad (Aleppo), sia sul terreno dell'iniziativa politico-diplomatica, dove Putin aveva capitalizzato progressivamente a proprio vantaggio la crisi profonda delle tradizionali alleanze USA: ricostruendo una propria relazione diretta col regime di Erdogan, attivando un proprio rapporto diretto con lo Stato sionista d'Israele, gestendo un ruolo centrale di promozione e regia nel negoziato internazionale attorno alla “soluzione” politica della crisi siriana (negoziati di Astana).

L'attacco di Trump alla Siria esprime la volontà della nuova amministrazione USA di ribaltare questo scenario. L'attacco non prelude probabilmente ad una escalation militare americana in Siria, ma certo ha un significato politico enorme. Trump vuole dire alla Russia e a tutti gli attori della scena mediorientale che ora il gioco è cambiato; che gli USA non intendono più rassegnarsi ad una propria marginalizzazione a vantaggio di Putin; che gli USA vogliono riproporsi come grande potenza capace di ricomporre attorno alla propria forza (e alla propria determinazione ad usarla) la rete delle relazioni in Medio Oriente. A partire dall'asse speciale con lo Stato sionista e la sua attuale leadership, cui si lascia mano libera in Palestina, e che si vuole rassicurare contro l'Iran. Ma con la volontà di recuperare la relazione con l'Arabia Saudita, non a caso plaudente ai bombardamenti americani in funzione anti-iraniana; di ricostruire il rapporto con la Turchia di Erdogan, rapidamente collocatosi al fianco di Trump in funzione dei propri appetiti neo-ottomani (e dello scambio negoziale con garanzie anti-curde); di ostacolare l'avvicinamento in corso dell'Egitto alla Russia, riattivando una relazione diretta con Al-Sisi (per la prima volta ricevuto a Washington). Le ragioni dei bombardamenti USA sono rivelate in queste ore proprio dai primi effetti politici che hanno prodotto. Lo spiazzamento di Putin, che aveva realmente puntato sulla nuova amministrazione Trump, non poteva essere più clamoroso.


LA MINACCIA IMPERIALISTA ALLA COREA E IL CONTENIMENTO DELLA CINA

Ma l'attacco di Trump in Siria non ha avuto solo una finalità mediorientale. Ha voluto produrre un segno più ampio nella politica mondiale. Trump ha voluto ricordare che l'imperialismo USA resta la principale potenza militare su scala mondiale, e che è nuovamente disponibile a usare la propria forza, ovunque occorra, nel proprio interesse nazionale. È un segnale inviato non solo alla Russia ma anche (e per alcuni aspetti) soprattutto in Asia.

L'Asia e il Pacifico sono sempre più il terreno centrale di misurazione dei rapporti di forza imperialisti su scala mondiale. È l'area continentale di più elevato sviluppo economico del pianeta, il baricentro delle rotte commerciali, ma soprattutto il terreno di ascesa della grande potenza cinese e delle sue ambizioni espansioniste. Il confronto strategico centrale con l'imperialismo cinese segna da anni la politica estera americana. Il tentativo (fallito) dell'amministrazione Obama di disimpegnarsi dal teatro mediorientale era in funzione della concentrazione delle forze (economiche e militari) sul Pacifico. Il disegno (arenato) dei grandi accordi di libero scambio con la UE (TTIP) e in Asia (TPP) era in funzione dell'isolamento della Cina e di un nuovo bilanciamento delle forze. Trump rimpiazza gli accordi di libero scambio a favore di una politica protezionista, ma sempre in funzione della contrapposizione strategica alla Cina, vera costante della politica USA. Lo stesso ammiccamento iniziale di Trump a Putin, poi radicalmente rimosso, mirava all'indebolimento della Cina. Di certo l'imperialismo USA non può mollare la centralità del Pacifico: significherebbe abbandonare ogni Paese (dal Vietnam alle Filippine di Duterte) all'egemonia cinese e compromettere le relazioni decisive con l'imperialismo giapponese. Garantire i propri alleati asiatici e la loro “sicurezza” è dunque una necessità strategica irrinunciabile per gli USA. Il nuovo corso di Donald Trump mette al servizio di questa necessità la politica delle cannoniere.
La minaccia militare USA contro la Corea del Nord si pone in questo scenario generale.


LA POSSIBILITÀ REALE DI UNA GUERRA IN COREA

L'iniziativa militare USA non è ancora compiutamente definita. Ma non siamo in presenza di un bluff. Siamo in presenza realmente di una possibile dinamica di guerra tra USA e Corea, con eventuali riflessi di propagazione in Asia. Mai dagli anni '60 il rischio di un conflitto potenzialmente nucleare ha raggiunto una soglia tanto elevata.

Il nuovo corso dell'amministrazione Trump mira al disarmo nucleare della Corea del Nord, nel momento stesso in cui il regime dinastico nordcoreano usa e rivendica sempre più il proprio armamento nucleare come scudo protettivo e assicurazione sulla vita. Se il regime proseguirà, come annunciato, il lancio propagandistico dei propri missili nucleari, è assai probabile che l'imperialismo USA bombarderà la Corea. Se la flotta americana bombarderà la Corea, fosse pure con armi convenzionali, è possibile una replica militare coreana sulle basi militari americane dell'area, e sugli alleati asiatici degli USA (Corea del Sud e Giappone). Ciò che innescherebbe una dinamica di conflitto più ampia, potenzialmente incontrollabile. Sia dal punto di vista dei paesi coinvolti, sia dal punto di vista del livello militare del conflitto.

Naturalmente questo scenario non è l'unico possibile. L'imperialismo USA sta esercitando la massima pressione sulla Cina, grande protettore del regime nordcoreano, perché provveda a “risolvere il problema”. La Cina, dal canto suo, impegnata nella pacifica espansione della propria area d'influenza su scala mondiale, a partire dall'Asia, non ha alcun interesse a uno scontro militare in Corea. Da qui le molteplici pressioni cinesi sul regime di Kim Jong-un a favore di un suo passo indietro nel contenzioso apertosi. Ma gli strumenti di pressione di Pechino, notevoli sul piano economico (riduzione delle importazioni di carbone e delle esportazione di beni alimentari), sono limitati sul piano politico. La dinastia regnante coreana ha consolidato negli anni una propria autonomia politica dalla Cina, anche attraverso l'eliminazione fisica dei possibili interlocutori interni dell'”alleato” cinese. La Cina non sembra disporre ad oggi di proprie leve politiche con cui operare e imporre un cambio di leadership a Pyongyang. La politica interna di terrore da parte di Kim Jong-un non serve solo a proteggere il regime da ogni possibile ribellione di massa, ma anche a chiudere il varco ad ogni defezione d'apparato. La lunga resistenza alle sanzioni internazionali e alla stessa pressione cinese è la misura del successo (sinora) di questa politica.

Il regime di Kim Jong-un maschera tuttavia con le parate militari la debolezza delle proprie retrovie e le contraddizioni strutturali del paese (contraddizione tra economia pianificata e sviluppo delle venti zone speciali a economia di mercato, crescita di una nuova oligarchia interessata alla proprietà privata, espansione abnorme del mercato nero, collasso cronico della produzione agricola dopo le inondazioni degli anni '90, 41% della popolazione sotto il livello minimo di nutrizione). Sostenere i costi di una guerra con la più grande potenza del pianeta appare un impresa disperata. È possibile dunque che il regime scelga di evitare la guerra rinunciando a nuove esibizioni nucleari. Gli USA userebbero propagandisticamente questa eventualità come risultato della propria prova di forza. La Cina la sbandiererebbe come frutto della propria pressione rivendicando il primato di mezzi pacifici e l'insostituibilità del proprio ruolo diplomatico contro ogni unilateralismo USA.

Ma se la dinamica di guerra si aprirà, occorrerà misurare la sua ampiezza. Nel caso di un attacco militare americano limitato e “simbolico”, come avvenuto in Siria, non si può escludere una risposta unicamente politico-propagandista del regime in funzione della propria autoconservazione. In caso contrario, o nel caso di un'escalation dell'imperialismo USA che mettesse in gioco la sopravvivenza del regime, la Cina si troverebbe di fronte a un bivio drammatico: assistere passivamente alla sconfitta di un proprio alleato per mano americana, al rischio di una riunificazione americana delle due Coree, al mutamento dei rapporti di forza in Asia; o sostenere il proprio “alleato” al prezzo di un confronto militare potenzialmente incontrollabile, che può mettere a rischio l'intero progetto di ascesa Cinese? Di certo l'imperialismo USA non potrebbe subire passivamente ritorsioni coreane sui propri alleati asiatici, proprio nel momento in cui rivendica il proprio primato mondiale agli occhi innanzitutto della Cina.


PER UNA MOBILITAZIONE CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO

Vedremo gli sviluppi dello scontro nei prossimi giorni e settimane. Certo colpisce il divario drammatico tra il livello delle minacce di guerra e l'assenza di mobilitazione internazionale. È necessario da subito che tutte le forze del movimento operaio, in ogni Paese, sviluppino un'iniziativa di massa contro la guerra. Sul nostro versante, italiano ed europeo, una mobilitazione innanzitutto contro l'imperialismo USA, la più grande potenza militare del pianeta, e la sua pretesa intollerabile di riproporsi come il gendarme dell'ordine mondiale; una mobilitazione contro ogni forma di solidarietà e sostegno all'imperialismo USA da parte dell'imperialismo italiano e degli imperialismi europei. Che dopo aver fatto campagna ideologica anti-Trump sui propri fronti interni si sono tutti dichiarati “trumpisti” in occasione dell'attacco militare USA in Siria, nel nome del superiore interesse della NATO e della solidarietà atlantica.

Ma ciò che sta avvenendo in queste settimane assume un significato che va al di là del contingente. Chi credeva all'isolazionismo di Trump ha dimenticato che nessuna potenza imperialista può “isolarsi” dalla competizione mondiale. Tanto meno può farlo la più grande potenza imperialista del mondo, come del resto dimostra l'intera storia del Novecento. “America First” non solo non significa disimpegno USA dagli affari mondiali, ma rappresenta l'armatura ideologica di una nuova politica di potenza dell'imperialismo americano, la sua volontà di reagire ad ogni rischio di declassamento e alla sfida dei nuovi imperialismi. Il nuovo corso dell'amministrazione Trump, al di là delle sue motivazioni interne e dei suoi aspetti empirici, annuncia dunque una stagione nuova delle relazioni internazionali. Il rilancio dei nazionalismi imperialisti, delle guerre commerciali e valutarie, delle minacce e pratiche protezioniste, della contesa di vecchie e nuove aree di influenza, a partire dall'Asia, si accompagna al grande ritorno delle politiche di guerra. Con tutti i rischi di prospettiva, su scala storica, per il futuro stesso dell'umanità. Per questo, tanto più oggi, la mobilitazione contro la guerra è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo - di ogni imperialismo - e dalla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. L'unica vera alternativa alla barbarie.

Marco Ferrando

Solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori Electrolux. Il diritto di sciopero non si tocca!

Come Partito Comunista dei Lavoratori vogliamo esprimere tutta la nostra solidarietà alle/ai ventisei lavoratrici e lavoratori dell’Electrolux di Solaro che hanno ricevuto un provvedimento disciplinare per aver scioperato l’8 marzo durante la giornata di sciopero globale delle donne. Sono stati puniti dal padrone per aver aderito a una mobilitazione internazionale che denuncia la drammaticità della condizione femminile nella società contemporanea.
Innanzitutto denunciamo la gravità dell’attacco padronale al diritto di sciopero, un gesto antidemocratico che conferma ancora una volta che i padroni temono l’organizzazione dei lavoratori attraverso i loro strumenti di lotta.

Ma la vicenda Electrolux ci dice anche qualcos’altro; ci conferma tristemente ancora una volta che qualsiasi progetto di liberazione della donna dal giogo secolare del patriarcato non possa non mettere in discussione i rapporti di forza reali vigenti fra le classi sociali.

A questa ennesima provocazione del padronato dobbiamo rispondere con l’unità dei lavoratori e delle lavoratrici a prescindere dalla collocazione sindacale, e rivendicare la costruzione di una vertenza generale che prospetti l’abolizione di tutte le leggi di precarizzazione che mortificano i lavoratori e in particolar modo le lavoratrici, a partire dal Jobs Act e dalla riforma della Buona scuola, così come delle controriforme del sistema pensionistico, come punto di partenza (ma non ovviamente di arrivo) imprescindibile per l’emancipazione femminile.

Riteniamo che il lavoro assuma storicamente un compito centrale come strumento di autodeterminazione delle donne nei confronti della famiglia, con la conseguente partecipazione attiva alle dinamiche della lotta di classe come mezzo di conquista di un proprio ruolo politico nella società. La battaglia da perseguire deve essere quindi quella che crei le condizioni materiali per permettere alle donne di lavorare per se stesse ed essere autonome nella vita e nella definizione delle proprie relazioni, così che se costruiranno una famiglia, lo faranno da donne libere e per scelta, non per “destino”, per necessità o per mancanza di orizzonti. Quindi una vertenza per la redistribuzione del lavoro esistente fra tutti e tutte e la conseguente battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga. A tutto ciò va aggiunta la lotta per i diritti delle lavoratrici, a partire dall’introduzione dell’art. 18 esteso a tutti i lavoratori dipendenti, per poter garantir loro gli strumenti di autodeterminazione dentro gli stessi luoghi di lavoro senza che rischino di perdere il posto quando fanno sentire la propria voce e senza che debbano accettare di subire pratiche sessiste.

Partito Comunista dei Lavoratori

Alitalia: il nuovo capitolo di un'aggressione al lavoro

 Nuovo capitolo della vicenda Alitalia. Nuova operazione di ristrutturazione aziendale sulla pelle di chi lavora. Nuova regalia di soldi pubblici ai capitalisti.

Nel 2008, a seguito di un durissimo scontro sindacale, governo Berlusconi e burocrazie sindacali imposero la privatizzazione della compagnia di bandiera. Una parte della società (la bad company) fu accollata coi suoi debiti alla gestione commissariale, cioè all'erario pubblico. L'altra parte, liberata da una grande massa di lavoratori e lavoratrici e dei loro diritti sindacali (e contrattuali), fu venduta a una cordata di banchieri e capitalisti tricolori, capitanata da Roberto Colaninno (la Cai). Questa soluzione fu presentata da governo e burocrazie confederali come premessa del futuro rilancio. Una parte del sindacalismo di base (SdL, futura USB), pur critica, rinunciò alla lotta. Solo la CUB, e al suo fianco il nostro partito, ingaggiò una opposizione reale all'accordo, attorno alla parola d'ordine della nazionalizzazione dell'azienda sotto il controllo dei lavoratori. Ma il boicottaggio degli altri sindacati (e l'indifferenza delle sinistre) chiuse ogni varco.

I fatti hanno dimostrato che quel pesantissimo accordo antioperaio non solo comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi rimaneva, ma era del tutto incapace di “rilanciare” l'azienda. Tra il 2012 e il 2014 la crisi della cordata capitalistica italiana, nonostante il sostegno di enormi risorse pubbliche, precipitò ininterrottamente. La compagnia fu salvata dal capitale finanziario degli Emirati Arabi Uniti, attraverso l'ingresso della loro compagnia di bandiera (Etihad) col 49% delle azioni. Anche in questo caso nuove restrizioni e sacrifici per i lavoratori quale merce di scambio per l'ingresso del capitale arabo. Anche in questo caso mirabolanti annunci circa il salvataggio “definitivo” e il rilancio della compagnia. Il governo Letta e il PD furono i massimi alfieri dell'operazione di propaganda.

Ma i fatti ancora una volta hanno dimostrato l'ipocrisia degli attori. La nuova gestione Montezemolo si rivelò fallimentare. L'obiettivo di tornare in utile nel 2017 si tradusse nel passaggio da 199 milioni di perdite annue a ben 400 milioni di perdite. Da qui il nuovo intervento del governo Renzi e poi di Gentiloni per l'ennesimo salvataggio della compagnia, sotto la dettatura di creditori ed azionisti. Le grandi banche italiane di sistema - Banca Intesa e Unicredit - hanno condizionato il proprio "soccorso" al varo dell'ennesimo piano di lacrime e sangue contro i lavoratori: un nuovo pesante abbattimento di posti di lavoro (tra esuberi e mancato rinnovo dei contratti a termine) in una azienda che dal 2004 ad oggi è già passata da 22.000 dipendenti a 13.000; un nuovo aumento dei carichi di lavoro per il personale navigante; una ulteriore riduzione degli stipendi, incluse le indennità di missione; una riduzione delle ferie annuali; un salario dimezzato per i nuovi assunti. Il governo copre il tutto con una manciata di mini-ammortizzatori.

Come ogni volta, tutti i protagonisti, vecchi e nuovi, annunciano la buona novella (pasquale) della resurrezione di Alitalia. Come ogni volta mentono. Non a caso la stessa stampa borghese parla già di una soluzione ponte di due anni in attesa di una possibile vendita della compagnia a Lufthansa. La quale, inutile dirlo, porrà a sua volta le proprie condizioni d'acquisto in fatto di tagli al lavoro e ai salari. Sino a quando? Da qui il nostro no all'accordo siglato, nelle assemblee e nel referendum annunciato.

Ma la vicenda richiama considerazioni più generali, che vanno alla radice del problema. In realtà le vecchie compagnie tradizionali di bandiera sono vittima in tutto il mondo della liberalizzazione del mercato della mobilità aerea. La moltiplicazione delle compagnie low cost, che praticano tariffe stracciate anche grazie a privilegi fiscali e alla privazione dei diritti sindacali, ha trascinato una competizione selvaggia per l'abbattimento del costo del lavoro nelle compagnie aeree. Ciò che spesso si traduce (come nel sistema ferroviario) in riduzione di manutenzione e sicurezza anche per i viaggiatori. Ma l'aspetto meno noto è che questa libertà del mercato, celebrata come somma virtù dalla cultura dominante, è foraggiata da risorse pubbliche infilate nel portafoglio di tutti gli azionisti privati. Così, se lo Stato italiano, secondo calcoli di Mediobanca, avrebbe pagato quasi otto miliardi i ripetuti salvataggi delle compagnie private Alitalia negli ultimi dieci anni, le compagnie low cost come Ryanair ricevono complessivamente centinaia di milioni di risorse pubbliche da parte di Regioni e Comuni, attraverso le quali possono concorrere con Alitalia e piegarla. È il caso di dire che lo Stato borghese è davvero il rappresentante dell'interesse generale dei capitalisti, al di là dei confini di bandiera e di compagnia, nella loro guerra di tutti contro tutti per la massimizzazione dei profitti. Una guerra scaricata in primo luogo sui lavoratori.

Una volta di più si conferma che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'azienda Alitalia e di tutto il trasporto aereo è l'unica via per salvare le condizioni dei lavoratori (e degli utenti) dagli effetti del mercato capitalistico, riorganizzando alla radice il trasporto aereo come trasporto pubblico al servizio esclusivo della collettività, secondo un piano razionale.

Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà realizzare questa misura di svolta.

Partito Comunista dei Lavoratori

La crisi politica italiana

Tra incognite di prospettiva e contraddizioni del blocco dominante

 L'intera situazione politica è segnata dall'onda lunga del 4 dicembre.
Scissione del PD, indebolimento del renzismo, stabilizzazione relativa del governo Gentiloni, lavori di ricomposizione a sinistra e nel centrodestra, rilancio del M5S, stanno tutti per ragioni dirette o indirette, e in relazione intrecciata, all'interno di questa cornice d'insieme. Da cui non emerge alcuna prospettiva di soluzione politica stabile per la prossima legislatura.


INDEBOLIMENTO DI RENZI, STABILIZZAZIONE RELATIVA DI GENTILONI

Renzi concepiva il nuovo esecutivo Gentiloni come una propria protesi mascherata, con l'idea di liquidarlo in tempi brevi nella prospettiva di elezioni politiche anticipate. Ma lo stesso indebolimento del renzismo che ha partorito il nuovo governo ostacola la sua liquidazione.

L'indebolimento del renzismo si esprime in forme diverse.
Innanzitutto all'interno del PD.
Renzi vincerà naturalmente le primarie. E rilancerà la propria offensiva, sempre alla ricerca di un plebiscito. Ma il combinato del 4 dicembre e della scissione di MDP ha scosso gli equilibri interni. La candidatura di Orlando è emblematica. Rivela una frattura della vecchia maggioranza renziana, e lo smarcamento dal renzismo di un pezzo importante di apparato che ormai diffida del corso bonapartista-populista del capo e cerca la ricomposizione di un'alleanza di governo di centrosinistra. Il fatto che una parte importante del vecchio apparato DS (incluso Napolitano) e del mondo prodiano (incluso Prodi) sostenga Orlando ha un significato politico che va al di là degli esiti delle primarie. Riflette una ricollocazione politica di settori decisivi dell'establishment in fuga dal renzismo. Il fatto che Orlando sia ministro di Gentiloni aggiunge alla sua candidatura un significato ulteriore. La galassia franceschiniana del PD, che pur sostiene formalmente Renzi, approfitta del suo indebolimento per accrescere il proprio peso negoziale interno.

In secondo luogo nel rapporto col grande capitale.
Il grande capitale, interno ed europeo, non asseconda la tentazione renziana di elezioni politiche anticipate.
La Confindustria, che aveva investito sul referendum istituzionale con una proiezione politica inedita, ha subìto il 4 dicembre come propria sconfitta. Più in generale la vecchia linea dell'investimento politico nel renzismo, nella stagione del suo attacco frontale e vincente al movimento operaio (Jobs Act), è oggi disarmata dall'indebolimento di Renzi e dalla sua ritirata forzata (vedi vicenda voucher). La crisi interna a Confindustria - riflesso più generale della disarticolazione degli assetti capitalistici - è anche una risultante della sua crisi di linea.
Il potere bancario, a sua volta, è segnato dalla crisi irrisolta dei crediti deteriorati e da processi di profonda ristrutturazione o ricapitalizzazione (MPS, banche venete, Unicredit), che da un lato rafforzano la sua dipendenza dal quadro politico di governo e dalle sue relazioni negoziali in sede UE su tutti i terreni cruciali (assicurazione sui depositi, criteri della vigilanza, tetti consentiti di titoli di Stato nel patrimonio bancario...); dall'altro, proprio per questo, espongono le banche più di ieri a ogni rischio di crisi politica. Il fatto che Gentiloni abbia messo 20 miliardi a garanzia delle banche, mentre i gruppi parlamentari a trazione renziana del PD hanno votato con M5S e Lega per una commissione d'inchiesta parlamentare sulle banche (in una logica di pura concorrenza populistico elettorale) dà la misura delle contraddizioni del quadro politico rispetto alle ragioni di sistema del capitale finanziario.

In questo quadro l'idea renziana di liquidare Gentiloni alla vigilia della futura legge di stabilità, per scaricarne gli oneri impopolari sul governo successivo, è apertamente osteggiata dalla borghesia italiana e dalla grande stampa. Elezioni a settembre (in coincidenza con quelle tedesche) obbligherebbero a fare un nuovo governo in tempi rapidissimi per il varo della legge di bilancio proprio nel contesto in cui tutte le previsioni attendibili annunciano una probabile crisi di governabilità nel prossimo Parlamento. Il rischio di un intreccio esplosivo di crisi economica e istituzionale si farebbe altissimo. La borghesia non vuole porre a rischio i propri interessi generali per subordinarli al gioco di poker di un avventuriero dalle incerte fortune.

Il governo Gentiloni, per quanto precario, è il paradossale beneficiario passivo di questo scenario d'insieme. Beneficia dei suoi elementi politici: l'indebolimento di Renzi; il sostegno obbligato di MDP, che vorrebbe smarcarsi dal governo ma non può provocare la sua crisi; l'interesse di FI a guadagnare tempo anche in attesa di una sentenza di riabilitazione per Berlusconi. Ma beneficia anche del sostegno di una borghesia che si aggrappa all'attuale esecutivo come unico ancoraggio di stabilità, per quanto di breve durata, di fronte alle incognite del futuro.


LE CONTRADDIZIONI TRA GOVERNO E RENZISMO E LA MANOVRA ECONOMICA SUL 2018

Per questa stessa ragione, l'allungarsi dei tempi di durata del governo si combina con contraddizioni crescenti tra esecutivo e renziani.
La manovra economica di aggiustamento dei conti del 2017 e soprattutto la definizione del DEF e della prossima legge di stabilità ne sono la cartina di tornasole.
Dentro la cornice del fiscal compact, e dopo l'esaurimento dei famosi margini di flessibilità negoziale concessi al governo Renzi, la prossima legge di stabilità per il 2018 è zavorrata al piede di partenza dalla necessità di trovare 19,5 miliardi per la sola sterilizzazione degli aumenti dell'Iva. Cui si aggiunge l'”obbligo” di una riduzione del deficit dall'attuale 2,2% all'1,2%, e l'esigenza di invertire la dinamica del debito pubblico (salito a 2250 miliardi, il 133,1% del PIL).

I ministri economici chiave del governo (Padoan e Calenda) puntano a un'intesa in sede europea. Sanno che i margini negoziali sono molto ridotti, tanto più alla vigilia delle elezioni tedesche. Ma soprattutto sanno di non potersi permettere procedure d'infrazione. Con una crisi bancaria in pieno corso, e con la prospettiva dell'esaurimento del quantitative easing della BCE (decisivo in questi anni per la tenuta delle banche italiane e per la riduzione drastica degli interessi sul debito), una rottura in sede UE, o anche solo un braccio di ferro prolungato ed estenuante con la Commissione europea, potrebbero trascinare con sé effetti economici pesanti sui titoli di Stato (e dunque sulle banche che li detengono). Da qui il tentativo di trovare una via d'uscita in un mix di operazioni congiunte: rilancio delle privatizzazioni, incluse Ferrovie e Poste (con l'obiettivo di cassa di 8 miliardi), tagli di spesa orizzontali su ogni ministero (riduzione del 3%), estensione alle società partecipate dal Tesoro del meccanismo dello split payment (lo Stato trattiene l'Iva ai fornitori). Inoltre, per garantirsi un margine di manovra più certo, Padoan e Calenda vorrebbero tenersi aperta la possibilità di un aumento parziale dell'Iva, fortemente consigliato peraltro dalla Commissione europea (il famoso trasferimento del prelievo fiscale “dalle persone alle cose”), e oggi sostenuto da Confindustria contro Confcommercio.

Ma questa impostazione generale cozza significativamente con le ambizioni elettorali del renzismo. Renzi già ha posto un veto sull'aumento delle accise per la benzina in ordine alla manovrina di aggiustamento di primavera. A maggior ragione osteggia frontalmente l'aumento dell'Iva e chiede una nuova operazione di decontribuzione a vantaggio delle imprese sui nuovi assunti. La campagna d'immagine sulla cosiddetta diminuzione delle tasse, rivolta al blocco popolare piccolo borghese, non può essere compromessa dalla cosiddetta subordinazione a Bruxelles. Al contrario: il rilancio da parte di Renzi di una impostazione di sfida verso la UE e “le sue regole”, «anche a costo di subire una procedura d'infrazione», si configura come marchio della sua reinvestitura, e come terreno di concorrenza aperta con M5S e Lega.

Il punto di equilibrio all'interno del governo tra le pressioni opposte della Commissione europea e del renzismo non sarà semplice. Renzi userà la vittoria annunciata alle primarie per accrescere le pressioni sul governo, sino a minacciare nuovamente elezioni a settembre. Gentiloni prova a smussare preventivamente la pressione di Renzi, garantendogli una volontà negoziale e non remissiva verso la UE. Ma la mediazione letteraria è più facile di quella sui conti. E ancora una volta la grande stampa borghese milita con Gentiloni, non con Renzi.


LE INCOGNITE DI PROSPETTIVA GENERALE

Ma la preoccupazione centrale della borghesia italiana non riguarda le sorti di Gentiloni, che pure sostiene. Riguarda le prospettive più generali dello scenario italiano.
La sconfitta del referendum istituzionale del 4 dicembre ha non solo colpito il progetto del bonapartismo renziano, ma ha aggravato tutte le incognite di prospettiva in termini di governabilità.

Il bipolarismo dell'alternanza, già da tempo in crisi, è stato sepolto dal 4 dicembre. Il disegno di un populismo di governo (il renzismo) in grado di contenere il populismo di opposizione (M5S) e di sfondare nell'elettorato del centrodestra è definitivamente fallito. Il tripolarismo attuale configura uno scenario per molti aspetto opposto. Parallelamente, la spinta proporzionalista del 4 dicembre favorendo una nuova frammentazione politica (MDP sul versante del centrosinistra, Energie per l'Italia di Parisi al centro, il nuovo polo sovranista di Storace e Alemanno sul versante del centrodestra) introduce un fattore di ulteriore complicazione e disarticolazione interna ai poli tradizionali.

La paralisi della legge elettorale è un riflesso di questo scenario generale.

Nessuno dei tre poli è oggi in grado realisticamente di ambire alla soglia del 40% che consenta di incassare il premio di maggioranza alla Camera, secondo la legge elettorale scaturita dalla Consulta. Al tempo stesso, una rappresentanza proporzionale dei soggetti politici esistenti non configura alcuna maggioranza politica nel prossimo Parlamento. Neppure nella forma di una maggioranza PD-Forza Italia. Da qui l'invocazione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario che “consenta di governare” da parte di tutte le forze dell'establishment. Ma la stessa crisi politica che sospinge l'invocazione di una nuova legge elettorale ostacola pesantemente il varo della nuova legge.
Il Mattarellum - che peraltro rappresenterebbe una incognita nell'attuale quadro tripolare - è respinto sia da M5S sia da Forza Italia, e non ha i numeri per passare al Senato.
Il premio di maggioranza per le coalizioni invece che per le liste è ovviamente osteggiato dal M5S, ma oggi anche dalla maggioranza renziana del PD: Renzi avrebbe potuto concedere questa soluzione a Pisapia prima della scissione, in una logica di propria egemonia su un centrosinistra a propria immagine e somiglianza; non vuole concederla oggi a MDP, perché non vuole incoraggiare la spinta della scissione; e tutta la sua impostazione sembra riproporre la campagna elettorale per il 40% al PD contro Lega e M5S, per schiacciare lo spazio a sinistra nel nome del voto utile e riprovare a capitalizzare una quota di voto di centrodestra contro M5S. Una impostazione finalizzata a massimizzare il risultato per sé, e per il proprio controllo sul PD, ma che tanto più nelle condizioni date post-scissione non può offrire una soluzione di governo.
Parallelamente incide la disarticolazione interna al centrodestra. Berlusconi si tiene aperte tutte le porte. Un po' per calcolo, un po' per necessità. È sospinto dalla crisi del renzismo a un rilancio della coalizione di centrodestra. E al tempo stesso non sa se potrà ricomporla, dubita che possa vincere, e vuole tenersi libero lo spazio per ipotesi di governo col PD e altre forze di sistema, senza vincolarsi a un patto con la Lega. Anche per questo propone un proporzionale puro con soglia di sbarramento del 5% in entrambe le Camere. Per la stessa ragione è restio a concedere un premio di coalizione al PD, dubitando di poterlo utilizzare lui.
La terza soluzione è la cosiddetta armonizzazione della legge elettorale tra le due Camere, attraverso l'estensione dell'attuale “Consultellum” al Senato (con sbarramento unificato al 3%). Renzi punta a questa soluzione, perché gli permetterebbe sia di rispondere alle condizioni poste da Mattarella sia di salvaguardare una impostazione propagandistica di campagna elettorale maggioritaria (“per il 40%”), e i capilista bloccati, col relativo controllo dei gruppi parlamentari. Il M5S è interessato perché è la soluzione più congeniale per le proprie ambizioni, ma non vuole sottoscrivere per pure ragioni di immagine i capilista bloccati, essenziali per Renzi e Berlusconi. E senza i voti di M5S la soluzione si arena.
In ogni caso, neppure questa soluzione di legge elettorale, rispondente agli interessi del renzismo, configurerebbe una soluzione di governo.
In questo quadro di paralisi la possibilità che si vada al voto con l'attuale Consultellum, con la relativa difformità tra Camera e Senato, non può essere esclusa. Ma configurerebbe non solo il rischio di nessun vincitore, bensì quello (estremo) di due diversi vincitori nelle due Camere, con la crisi verticale di tipo istituzionale che questo scenario inevitabilmente aprirebbe.


LA PARTICOLARITÀ DELLA CRISI ITALIANA IN EUROPA

Lo scenario italiano si colloca nel quadro della crisi politica europea, ma con un tratto particolare.
Tutti i paesi imperialisti europei, a dieci anni dall'esposione della grande crisi capitalistica e dopo l'effetto di una doppia recessione (2008/2009 e 2011/2012), sono stati investiti in forme diverse da processi di polarizzazione politico-elettorale che hanno indebolito le basi d'appoggio dei partiti borghesi tradizionali, e in qualche caso destabilizzato il vecchio pendolo dell'alternanza.
Ma la maggior parte di essi sembrano ancora disporre o di strumenti politici o di meccanismi istituzionali che in qualche modo possano preservare, in varie forme, gli equilibri della governabilità borghese, o quantomeno ostacolare la loro rottura.

La Germania, principale imperialismo europeo, può ancora confidare sulla forza della CDU e della socialdemocrazia, che insieme contengono l'avanzata del nazionalismo populista. L'Olanda ha fermato la corsa di Wilders grazie alla forza del principale partito borghese di governo. La Gran Bretagna, segnata dalla Brexit, può contare sulla forza del Partito Conservatore e su un sistema maggioritario puro. La Spagna, segnata dalla crisi del vecchio bibartitismo e minacciata dalla pressione indipendentista catalana, continua a disporre nonostante tutto della forza centrale del Partito Popolare. La Francia, segnata dalla crisi verticale del Partito Socialista e dall'avanzata del lepenismo, si affida ai meccanismi istituzionali della Quinta Repubblica e alle ambizioni di Macron per fare argine alla deriva lepenista (seppur con un rischio davvero inedito, anche a livello di UE).

L'imperialismo italiano non dispone ad oggi di una prospettiva certa di “governabilità”. Né in termini di una forza di sistema capace di fare baricentro, né in termini di coalizioni di governo sperimentate o dotate di sufficiente consenso, né in termini di leggi elettorali e meccanismi istituzionali "di garanzia". A un anno (o forse meno) dalle elezioni politiche, la politica borghese procede a fari spenti, a fronte di una crisi bancaria immutata e della prospettiva di esaurimento del Quantitative Easing della BCE. Il M5S e le sue ambizioni di governo sono al momento i beneficiari della crisi politica borghese. E una nuova precipitazione della crisi di governabilità in Italia potrebbe avere ricadute pesanti sulla UE, nel momento della sua massima instabilità.

Difendere l'autonomia del movimento operaio dai tre poli reazionari (renzismo, salvinismo, grillismo), rilanciare e unificare l'opposizione sociale di massa attorno a un proprio programma indipendente, costruire la prospettiva di un'alternativa di classe alla crisi politica borghese, è tanto più oggi il compito dell'avanguardia.
Marco Ferrando

 

M5S e sindacato. La conferma di un programma reazionario


«Disintermediare» la relazione tra dipendente e impresa. Questo concetto è al centro del documento programmatico di governo del M5S in tema di lavoro. Ovviamente il concetto è avvolto dalla tradizionale nebulosa ideologica più o meno futuribile («nuove forme di partecipazione nei luoghi di lavoro», ecc.). Ma dentro la voluminosa confezione la merce è chiarissima: se “uno vale uno” che senso ha una rappresentanza di classe dei lavoratori con poteri di contrattazione?

La suggestione non è nuova. «Il sindacato è roba da '800» esclamava Beppe Grillo in un comizio a Reggio Calabria nel 2013. «Eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti, voglio uno Stato con le palle» gridava il comico guru a Brindisi nel gennaio 2013. «Ogni lavoratore si rappresenti da solo, il sindacato non serve a nulla» dichiarava un mese fa Luigi di Maio a proposito dei licenziamenti di Almaviva. Si potrebbe continuare a lungo. Non si tratta di esagerazioni oratorie. Si tratta della cifra profondamente antioperaia del M5S. Una ideologia che dissolve le classi e il loro conflitto in una massa indistinta di “cittadini” atomizzati, soli davanti al proprio computer nell'universo virtuale della rete, per quale ragione dovrebbe riconoscere una organizzazione collettiva dei salariati?

Non è una postura puramente “ideologica”. È un posizionamento politico. Una forza politica che assume la piccola e media impresa capitalistica come proprio referente sociale strategico, che offre alle imprese l'abolizione dell'Irap (con cui si finanzia la sanità pubblica) a vantaggio dei loro profitti, segnala semplicemente al proprio mondo di riferimento la propria avversità al sindacato, dentro una competizione nel corteggiamento dell'impresa che si fa particolarmente affollata. Negli stessi anni in cui Marchionne ha scatenato la propria offensiva antisindacale, in cui il padronato lavora a svuotare il contratto nazionale nel nome di “libere relazioni aziendali” (sfruttando la subalternità delle burocrazie sindacali), in cui le imprese si costruiscono il proprio welfare aziendale rafforzando il vincolo di subordinazione dei propri dipendenti, il programma di “disintermediazione” del rapporto tra lavoratore e impresa avanzato dal M5S è tutto tranne che casuale: da un lato esprime sintonia con le tendenze dominanti, dall'altro si pone in aperta concorrenza col renzismo e col centrodestra nella conquista del blocco piccolo-medio borghese proprietario. Di più. Proprio nel momento in cui l'indebolimento politico subìto ha costretto Renzi (e Gentiloni) a retrocedere dall'offensiva frontale contro i sindacati, il M5S gioca cinicamente allo scavalco del renzismo sul terreno della contrapposizione al sindacato. Proprio nel momento in cui il centrodestra fatica a ricomporre le proprie contraddizioni politiche nella rappresentanza del proprio blocco piccolo-medio borghese, il M5S si candida scopertamente a rappresentare quel mondo.

«Il M5S realizzerà ciò che voleva fare Berlusconi... che è stato un punto di riferimento per gli imprenditori» (La Stampa, 9/4): non lo ha detto un rozzo calunniatore del grillismo, ma Massimo Colomban, assessore della giunta Raggi, padrone del Nord-Est, mediatore nazionale dell'incontro tra M5S e l'organizzazione padronale Confapri, tra i principali organizzatori del convegno celebrativo di Ivrea a un anno dalla morte di Casaleggio. La proiezione del M5S verso la vecchia base sociale del berlusconismo nel Nord e nel Nord-Est ha rappresentato sin dall'inizio un assillo di Gianroberto Casaleggio. Ad oggi il Nord ed in particolare il Nord-Est è ancora il lato relativamente più debole dello sviluppo del grillismo. Ma proprio per questo l'attenzione politica del M5S verso il blocco delle imprese del Nord si farà sempre più insistente, in proporzione alle ambizioni nazionali di governo. Il convegno di Ivrea è stato un investimento anche e soprattutto in quella direzione.

Il grande capitale non punta oggi sul M5S. Diffida della sua improvvisazione, sente estranea la sua logica di setta, guarda con apprensione il suo possibile accesso al governo. A Ivrea, non a caso, la grande impresa era sostanzialmente assente (con l'unica eccezione di Google Italia). Ma parallelamente, la crisi congiunta del renzismo e del centrodestra rafforza il grillismo e la sua presa interclassista. E la setta dirigente del M5S sa che lo sviluppo della propria forza elettorale e il proprio radicamento nella piccola e media impresa è anche la via per lustrare la propria candidatura di governo agli occhi del grande capitale.
La borghesia non sposa mai di primo acchito le forze populiste reazionarie, preferendo i propri strumenti tradizionali. Ma se e quando le forze populiste dovessero apparire una carta vincente o un riferimento obbligato nella contrapposizione al lavoro, la borghesia non si farebbe scrupolo nell'usare la loro massa d'urto. È la lezione dell'esperienza storica.

Naturalmente ci sono ben presenti le contraddizioni del M5S, i suoi elementi di fragilità, la guerra per bande che l'attraversa nei territori, la sua difficoltà a selezionare un quadro dirigente della macchina statale borghese che sia al tempo stesso "capace" e fedele al comando della setta. L'esperienza di Roma (e non solo) è emblematica. Ma sono le contraddizioni di un movimento politico reazionario con influenza di massa. Non cogliere questo aspetto, e salutare il M5S come possibile sponda politica e sindacale per i lavoratori, significa disarmare l'avanguardia di classe di fronte a un nemico politico. Continuare ad affermare, con tono indulgente, che il M5S non è né di destra né di sinistra, e per questo permeabile alle ragioni del lavoro, significa avvallare la truffa del grillismo proprio nel suo aspetto ideologico: la rivendicazione di una rappresentanza dei cittadini fuori dalle vecchie ideologie è infatti esattamente la cifra di una cultura reazionaria in funzione del suo sfondamento interclassista. Non a caso è un tratto ideologico costante, seppur in forme diverse, di tutti i populismi reazionari in Europa e nel mondo. Il grillismo, sicuramente atipico, non fa eccezione.

La battaglia politica contro il grillismo è stata ed è in questi anni un aspetto importante della nostra battaglia controcorrente tra i lavoratori e nel confronto a sinistra. Tanto più lo è e lo sarà in un contesto politico nel quale l'accesso del M5S al governo del capitalismo italiano è una prospettiva che, per quanto difficile, non può più essere esclusa. La contrapposizione alle tre destre (renzismo, salvinismo, grillismo) è oggi più che mai la cartina di tornasole di una politica di classe.
Partito Comunista dei Lavoratori

No all'attacco militare dell'imperialismo USA In Siria

Ancora una volta l'imperialismo Usa interviene militarmente nel mondo. Noi non possiamo sapere chi è il responsabile del nuovo massacro sui civili con l'uso dei gas. Se cioè esso rappresenta un nuovo crimine del regime di Assad o se sono stati colpiti dei depositi di armi dei ribelli. Non è questo il punto. Gli Usa, i responsabili nel mondo e in Siria stessa dei peggiori massacri di civili, si ergono nuovamente a poliziotti del globo in funzione dei propri interessi reazionari. Trump cerca di affermare e rendere concreti i suoi slogan elettorali sulla rinascita di una egemonia totale Usa e vuole lanciare un messaggio alle grandi potenze concorrenti, in primis la Russia, con cui la "luna di miele" degli scorsi mesi entra in crisi, e alle potenze minori, nemici strategici, come Corea del Nord e Iran. In realtà le varie potenze imperialiste e i minori potentati locali, come Turchia e Arabia Saudita utilizzano la realtà tragica della Siria e della sua guerra civile per sviluppare le loro opzioni di controllo politico, militare ed economico, sul terreno del Medio Oriente o sul piano globale. 
La rivoluzione Siriana nata nel 2011 nell'ambito delle rivoluzioni arabe come genuina, anche se contraddittoria, progressiva ribellione popolare contro un regime capitalista familistico oppressivo e sanguinario, si è progressivamente trasformata in una guerra civile senza forze realmente progressive. Questo si è verificato in particolare nell'ultima fase. Se le forze islamiste radicali sono state fin dall'inizio una non-alternativa, se non un'alternativa peggiore, al regime di Assad, oggi l'Esercito Libero Siriano si è trasformato in uno strumento della politica turca e le Forze Democratiche Siriane (basate essenzialmente sui/lle combattenti curd@) hanno capitolato, sia pure per interesse proprio, all'imperialismo Usa, combattendo fianco a fianco coi suoi marines e forze speciali. Nessuna delle forze in campo merita il sostegno, fosse puro critico, come in passato, del proletariato internazionale.

Fermo restando il sostegno alle resistenze popolari locali nella difesa contro pulizie etniche e/o religiose i marxisti rivoluzionari non si schierano con nessuno dei contendenti nel macello siriano.
Solo la nascita di una direzione alternativa, basata su una prospettiva di pace con giustizia e rispetto per tutte le comunita, cioè una forza socialista e rivoluzionaria può creare le condizioni di uno sviluppo positivo della situazione siriana. Fino ad allora o se tale nascita non si verificherà la Siria resterà un mattatoio, utilizzato dalle grandi e piccole potenze per lo sviluppo dei loro rapaci interessi. Che sono la ragione reale dell'ultimo intervento militare imperialista degli Usa.
Partito Comunista dei Lavoratori

COMUNICATO STAMPA: Il "leghista" Merola colpisce ancora

Il Sindaco di Bologna, come un novello Fantomas, ha colpito ancora: ha imposto tali e tante "regole" e tali e tanti divieti da far rinunciare  all'effettuazione della manifestazione "Pratello r'esiste" gli organizzatori di una delle pochissime celebrazioni  sul 25 aprile non retoriche  rimaste in città.  

Soprattutto la richiesta di un'assicurazione di 1 milione di euro a copertura di eventuali danni arrecati a Piazza S. Francesco ha fatto recedere il comitato organizzatore. 
In 9 anni dal varo di questa manifestazione mai era successo che venisse chiesta una polizza assicurativa a copertura di eventuali danni, che peraltro non si sono verificati in alcuna occasione.

Evidentemente Merola ha già introiettato il decreto Minniti sui nuovi poteri che vengono dati ai sindaci, a tal punto da credersi il "podestà" della città,come ai tempi del ventennio mussoliniano! 
Chi votò Merola al ballottaggio durante le elezioni comunali dell'anno scorso come "male minore" per non far vincere la leghista Borgonzoni è servito : l'ineffabile Sindaco PD ex renziano, ma precedentemente bersaniano, ma precedentemente cofferatiano, è in realtà più leghista della Borgonzoni!

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
SEZ. DI BOLOGNA