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Il negoziato fra imperialismi si riversa sui salariati

 

Significato e ricadute dell'accordo sui dazi fra USA e UE. Per un'alleanza internazionale dei salariati contro tutti gli imperialismi. Solo una rivoluzione socialista può dare all'Europa una prospettiva storica nuova

31 Luglio 2025

L'imperialismo USA scarica il proprio declino sugli imperialismi concorrenti, a partire dagli imperialismi “alleati”. L'accordo sui dazi fra Trump e von der Leyen rientra in questo quadro generale.

Il rilancio del protezionismo su larga scala da parte della nuova amministrazione americana mira a obiettivi combinati: incassare nuove risorse con cui detassare i capitalisti USA; e soprattutto riportare negli USA l'industria manifatturiera che aveva battuto altri lidi negli anni d'oro della globalizzazione.
Si tratta di un piano di rilancio delle basi materiali dell'imperialismo americano a fronte dell'ascesa della concorrenza imperialistica della Cina. “Fare di nuovo grande l'America” trova nel protezionismo il proprio credo.

La politica protezionista USA si muove a raggiera sull'intero globo, secondo una logica negoziale spregiudicata. Spazia non solo in America attraverso Canada e Messico – nel nome dell'antico motto ”l'America agli americani” – ma persino in Asia, dove non risparmia neppure gli alleati tradizionali degli USA, come il Giappone e la Corea del Sud, nonostante l'interesse strategico USA al contenimento della Cina (ciò che pone qualche interrogativo, tuttora irrisolto, sul codice di priorità delle scelte trumpiane).

È certo tuttavia che sul tavolo da gioco planetario l'Unione degli imperialismi europei ha subito, se così si può dire, un trattamento particolare da parte di Trump. Simile a quello riservato all'imperialismo giapponese. Più oneroso di quello offerto al vecchio imperialismo britannico.

L'accordo è ancora oggetto di interpretazioni fluttuanti, ma la sua natura appare evidente a occhio nudo: un accordo clamorosamente squilibrato a vantaggio dei capitalisti USA e del governo americano. Il dazio di riferimento del 15% riguarderà il 70% delle merci europee esportate negli USA (che ammontano complessivamente a 531 miliardi di euro); e si somma al “dazio informale” della svalutazione del dollaro del 15%.
Parallelamente la UE si impegna nei tre anni rimanenti dell'amministrazione Trump a comprare prodotti energetici USA per 750 miliardi di dollari (essenzialmente gas e petrolio), ad investire negli USA 600 miliardi di dollari delle imprese europee, ad accrescere i rifornimenti militari presso l'industria bellica americana, i cui titoli azionari non a caso sono esplosi in Borsa.
L'unica contropartita per la UE è la (temporanea) rinuncia degli USA ad elevare i dazi al 30%.

Larga parte del commentario borghese europeo è sconsolato: “per evitare la guerra abbiamo accettato la resa”. In particolare la postura remissiva esibita durante il negoziato dalla Presidente della Commissione Europea è spesso oggetto di critica o di scherno. Comprensibile. Ma al di là della superficie scenica, occorre andare alla sostanza di quanto è avvenuto.


LA CRISI DELL'UNIONE EUROPEA

La debolezza contrattuale dell'Unione Europea è il riflesso della sua base materiale. Esiste un imperialismo americano, un imperialismo cinese, un imperialismo russo. Non esiste un imperialismo europeo. Esiste un'unione di stati imperialisti nazionali, di diversa taglia, da tempo penalizzati nella competizione globale, separati da interessi tra loro divergenti e conflittuali. Imperialismi nazionali che si contendono gli investimenti esteri attraverso la corsa al ribasso della tassazione sui profitti; che dispongono di sistemi energetici differenziati; che si disputano il mercato dell'acciaio, dell'industria farmaceutica, dell'industria bellica continentale; che si spartiscono in una lotta al coltello i fondi europei all'agricoltura e all'industria; che si contendono le aree di influenza in Europa, nei Balcani, in Nord Africa, in Medio Oriente, così come le proiezioni di mercato in Cina, India e America Latina.

Il crollo del muro di Berlino, poi la grande crisi del 2008, infine la concorrenza combinata e agguerrita delle altre potenze imperialiste (USA e Cina in primis) hanno indotto gli imperialismi nazionali europei prima a creare e poi a preservare la propria unione. Ma mai come oggi i diversi interessi degli Stati nazionali appaiono conflittuali.
Il contenzioso tra Germania e Francia sul primato in Europa, il conflitto latente tra Francia e Italia in Nord Africa, la concorrenza fra Italia e Germania nei Balcani, le infinite controversie sulle politiche di bilancio (sia nazionale che comunitario) ne sono un riflesso. La cosiddetta “costruzione federale” della UE non ha superato la soglia della moneta comune (2000), ed è di fatto bloccata da più di vent'anni. Il ricorso eccezionale all'indebitamento comune in risposta alla pandemia (2020) non ha avuto seguito. Lo stesso piano di riarmo recentemente varato risponde prevalentemente, non a caso, alle capacità di bilancio dei diversi Stati nazionali, e per questo approfondisce la loro divaricazione (a partire da quella franco-tedesca).


NEGOZIATO EUROPEO, INTERESSI NAZIONALI

Il negoziato commerciale tra UE e USA, e il suo esito, non potevano essere estranei a questo quadro d'insieme. Da un punto di vista formale, era ed è l'Unione Europea, attraverso la sua Commissione, la titolare del negoziato commerciale. Ma dietro il paravento di un negoziato continentale si agitano le diverse pressioni nazionali.
Berlino ha cercato principalmente di salvaguardare la propria industria automobilistica. Roma ha provato a tutelare la propria industria agroalimentare e farmaceutica. Parigi si sente minacciata da un accordo che la penalizza nei comparti chiave della propria industria bellica ed energetica, e protesta (“l'ora buia della sottomissione”).
Von der Leyen ha trattato per tutti e per nessuno. Così ora tutte le diverse filiere nazionali e/o di settore lamentano lo scarto tra i risultati e le attese. Tra il risultato e il proprio “mandato”, per lo più nazionale.

Peraltro, un negoziato commerciale non è mai solo commerciale, tanto più nel contesto attuale. Pesano i rapporti di forza complessivi sul piano della potenza imperialista. L'imperialismo USA in questi mesi ha messo sul piatto della bilancia il proprio primato indiscusso sul piano militare (NATO), la forza del proprio comparto energetico, il peso dei grandi monopoli tech. Gli impegni europei ad acquistare armi, gas, petrolio USA, e ad investire massicciamente negli Stati Uniti, sono il sottoprodotto della pressione materiale dell'imperialismo americano, e oggi soprattutto della svolta nazionalista della sua nuova direzione politica.

Certo colpisce un “impegno” europeo a spendere 750 miliardi in gas e petrolio USA quando l'intero export USA in petrolio e gas ammonta a 141 miliardi, come stupisce l'impegno a investire negli USA 600 miliardi delle imprese europee quando si tratta di investimenti privati, difficilmente prevedibili e quantificabili.
È possibile che la cifra comprenda in realtà l'impegno a comprare i titoli di Stato americani, oggi in evidente difficoltà anche perché minacciati da un parziale disinvestimento cinese. Ma al di là di incognite e contraddizioni, resta il dato di fondo: l'unione degli imperialismi europei si è piegata alle pressioni dell'imperialismo USA.


PER L'INDIPENDENZA DI CLASSE DEI SALARIATI EUROPEI

Ora tutte le borghesie del continente battono cassa chiedendo “compensazioni”. In altri termini, una nuova montagna di miliardi da girare ai capitalisti europei per indennizzarli dai dazi americani. Gli stessi capitalisti che magari, in risposta ai dazi, stanno valutando se trasferire negli USA le loro produzioni.
Da un lato le organizzazioni padronali chiedono soldi ai propri governi, presentando il conto del danno subito (22,6 miliardi, secondo la sola Confindustria italiana), e invocando deroghe alla normativa europea in fatto di aiuti di stato. Dall'altro, battono cassa direttamente presso l'Unione Europea, chiedendo la sospensiva del Patto di stabilità e persino un nuovo ricorso al debito continentale (cui la Germania continua a opporsi).

In ogni caso si sventola la bandiera dell'interesse comune fra padroni e lavoratori. Sia esso il ritrovato interesse nazionale contro l'Europa matrigna, secondo lo spartito sovranista, sia esso l'interesse europeo contro la protervia americana di Trump. secondo la narrativa liberal-europeista.

Questa operazione truffaldina va respinta. Non debbono essere i salariati a pagare il conto della concorrenza tra i capitalisti, i loro Stati, le loro unioni.
Contro le delocalizzazioni annunciate va rivendicata la nazionalizzazione senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori, delle aziende interessate. Contro nuove operazioni a debito va rivendicata la tassazione straordinaria e progressiva dei grandi profitti e patrimoni, assieme alla cancellazione del debito pubblico verso le banche. Contro nuovi tagli alle spese sociali (magari per finanziare le spese in armamenti, siano essi europei o americani) va rivendicato un vasto piano di investimenti pubblici nella sanità, nell'istruzione, nei servizi sociali, nel risanamento ambientale e riconversione energetica – oggi rinnegata persino formalmente con l'impegno assunto verso gas e petrolio USA – a spese dei capitalisti. Contro ogni pretesa di interesse comune tra le classi, va rivendicata e perseguita l'alleanza internazionale tra i salariati europei, e tra questi ultimi e i proletari americani, che sono e saranno colpiti dal mix micidiale di inflazione e tagli sociali.


PER UNA FEDERAZIONE SOCIALISTA EUROPEA

Al tempo stesso, quanto avvenuto richiama una riflessione più generale sulla prospettiva strategica dell'Europa e sul suo ruolo nel mondo.

Negli anni Trenta Trotsky scrisse che l'ascesa storica dell'imperialismo USA avrebbe messo all'angolo gli imperialismi europei, e che l'unico futuro storico progressivo per il vecchio continente avrebbe potuto delinearsi solo su basi socialiste. Oggi uno scenario per molti aspetti opposto produce lo stesso esito: è il declino storico degli Stati Uniti che viene messo a carico dell'Europa, sempre più vaso di coccio nella morsa delle grandi potenze planetarie.

I circoli borghesi liberali che invocano l'urgenza di una unità europea su basi federali, nel nome di una replica dell'antica federazione americana, ignorano le contraddizioni nazionali insuperabili tra i diversi stati imperialisti del vecchio continente: la loro unione non solo è stata edificata contro i lavoratori europei, ma rappresenta un progetto arenato e fallito.

Gli ambienti sovranisti che invocano la dissoluzione dell'Unione Europea e/o l'alleanza dei paesi europei con l'imperialismo russo e cinese, chiedono di fatto una nuova subordinazione dell'Europa, diversamente declinata, verso nuove potenze imperialiste emergenti. Nulla che corrisponda agli interessi dei salariati europei.

Solo una rivoluzione socialista può unificare l'Europa su basi progressive. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, in ogni paese, e su scala continentale, può dare all'Europa una prospettiva storica nuova.
Per una federazione socialista europea! Per gli Stati uniti socialisti d'Europa! È questa la parola d'ordine della Lega Internazionale Socialista, di cui il PCL è sezione italiana.

Partito Comunista dei Lavoratori

Gaza. Per l'immediata liberazione degli attivisti della nave Handala!

 


Il sequestro della nave Handala della Freedom Flotilla compiuto da parte delle forze armate sioniste rivela una volta di più l'arroganza di uno Stato coloniale disposto a violare persino ogni straccio di legalità formale pur di affermare la propria volontà di dominio.


Chi sta massacrando e affamando il popolo di Gaza con la complicità di tutti gli imperialismi intende impedire ogni azione di soccorso, persino di carattere umanitario, della popolazione palestinese colpita.

Non bastano le chiacchiere ipocrite del governo italiano, che si ostina a coprire Israele.

Esigiamo l'immediata e incondizionata liberazione di tutti gli attivisti sequestrati e della loro imbarcazione! Ora!
Ogni rapporto di collaborazione con lo Stato sionista, sia esso diplomatico, economico, militare, va totalmente e definitivamente troncato.

Partito Comunista dei Lavoratori

Capitalisti a Milano. Il dito e la luna


 Lo “scandalo” di Milano, al pari a suo tempo dello scandalo Toti, è tutt'altro che un caso giudiziario: è l'ennesima cartina di tornasole dell'amministrazione corrente delle città e delle sue regole del gioco nell'ordinaria democrazia borghese. Il vero scandalo sta nella normalità che rivela.


Negli ultimi dieci anni, a partire da Expo, Milano ha visto investimenti immobiliari per 35 miliardi. Tanti quanti Piemonte e Toscana tra loro sommate. Il 10% delle volumetrie di tutta Italia. Nel 2015 fu il colosso americano Blackstone a dare il via, comprando l'ex Palazzo delle Poste di Piazza Cordusio. Da lì un effetto domino incontenibile. Una valanga di investimenti in sontuosi grattacieli, ristrutturazioni di edifici bancari, progetti per hotel e club privati per clientela di alto bordo, con incassi faraonici per i grandi gruppi immobiliari coinvolti. Solo un fatto giudiziario, e solo Milano? No, occorre guardare la luna, non solo il dito.

Il dito della magistratura borghese ha indicato la commistione di interessi privati e pubblica amministrazione milanese: una Commissione Paesaggio guidata da fiduciari dei gruppi immobiliari e dei loro architetti incaricati (Marinoni, Scandurra); un assessore all'urbanistica che gestiva le pratiche della Commissione Paesaggio (Tancredi), sottratte per questa via al consiglio comunale; un sindaco Sala – già amministratore di una delle maggiori imprese milanesi, già city manager della giunta di centrodestra di Letizia Moratti, poi scelto da Renzi per il centrosinistra milanese nel 2016 – che metteva il timbro e la faccia su (quasi) ogni pratica che l'assessore all'Urbanistica e la Commissione Paesaggio (da lui nominati) gli passavano. Il tutto, a quanto pare, per ciò che riguarda assessore e Commissione, lubrificato dalla donazione di sontuose consulenze (complessivamente milioni di euro) offerte dai gruppi immobiliari beneficiati: la nuova veste delle vecchie mazzette note alle cronache di Tangentopoli, 1992.

Ma sotto la superficie della vicenda giudiziaria stanno i fondamenti strutturali della vicenda. Che vanno ben al di là del caso Milano.
La rendita immobiliare è divenuta dopo la grande crisi del 2008 un investimento di prim'ordine del capitale in ogni parte del mondo, una misura del suo parassitismo. Non è un caso se le stesse fortune di Trump nascono in questo ambiente. Le grandi metropoli sono il luogo prescelto dell'investimento immobiliare. Tutte le grandi amministrazioni metropolitane, indipendentemente dalla loro latitudine e colore politico, si contendono l'una contro l'altra gli investimenti dei grandi gruppi.

Due sono i terreni, tra loro intrecciati, su cui avviene una concorrenza spietata.
Il primo è la velocità delle decisioni: ciò che implica scavallare le formalità dei dibattiti istituzionali, del confronto pubblico, a maggior ragione delle opinioni delle popolazioni. Fare in fretta è la prima necessità. Matteo Renzi, già sindaco di Firenze e sicuro esperto della materia, è esplicito nel sostenere le ragioni della giunta Sala: «Nei processi di trasformazione delle metropoli la velocità è un fattore chiave per attrarre gli investimenti necessari ed essere competitivi con le altre città. Per chi mette i capitali c'è la necessità di avere strumenti rapidi...» (Corriere della Sera, 18 luglio). E se gli interessi di «chi mette i capitali» sono la bussola di riferimento, la questione è chiusa.
Peraltro i sindaci-podestà della Seconda Repubblica, voluti da centrosinistra e centrodestra, sono figure ideali per “velocizzare”, dati i poteri di cui dispongono.

In secondo luogo, gioca un ruolo la corsa al ribasso degli oneri di urbanizzazione: ciò che gli investitori pagano all'amministrazione pubblica in cambio delle licenze di costruzione. La gara tra amministrazioni sta nel ridurre sempre più gli oneri di urbanizzazione, pur di soffiare i capitali ai concorrenti. Una forma di ulteriore riduzione delle tasse sul capitale. Il risultato è massimizzare i profitti per gli immobiliaristi riducendo le capacità di spesa delle amministrazioni in fatto di servizi sociali.
Il “caso” Milano è una sintesi perfetta di queste dinamiche generali.

Il risvolto sociale della faccenda è sotto gli occhi di tutti. A Milano si paga sino a 2000 euro per un affitto. Cinquemila al metro quadro per una casa, e non in centro, ma in periferia. Se trovi lavoro a Milano devi andare a vivere fuori, a volte addirittura fuori regione. Per duecentomila studenti universitari, il 50% fuori sede, sono disponibili novemila alloggi: il nulla. Centinaia di migliaia di milanesi nel tempo sono stati espulsi di fatto dalla propria città, per loro di fatto invivibile. Senza parlare degli effetti ambientali dell'ondata di cemento che ha soffocato la metropoli.

In questo quadro generale, la corruzione è solo la patologia incancellabile della dittatura del profitto. Una società per i ricchi costruita sull'oppressione dei poveri, una società in cui comandano i capitalisti e pagano i salariati, contabilizza vecchie e nuove mazzette come normale voce di bilancio. Nella Seconda Repubblica come nella Prima.
Non a caso il vecchio Engels, già nel secondo '800, indicava nella corruzione una forma organica di vita della democrazia capitalista, assieme ai rapporti fra governo e Borsa (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Da questo punto di vista possiamo dire che nulla è cambiato, se non il volume enormemente accresciuto sia degli affari che delle mazzette.

Quanto alle inchieste giudiziarie, faranno il loro corso come quelle di trent'anni fa, peraltro allora ben più estese di oggi. Ma come allora, la soluzione non è e non sarà la magistratura borghese. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che rompa col capitalismo e riorganizzi la società su basi nuove, potrà realizzare una svolta vera. Anche in fatto di etica pubblica.

Partito Comunista dei Lavoratori

Repressione e cariche contro i disoccupati a Napoli

 


Solidarietà alle compagne e ai compagni del SICobas colpiti

10 Luglio 2025

Questa mattina a Napoli la polizia ha colpito a manganellate una protesta dei disoccupati. Una protesta sacrosanta nel giorno del cosiddetto click day per l'avviamento al lavoro, contro i criteri discriminatori usati nei confronti dei disoccupati organizzati e delle loro lotte. Una compagna dirigente del SICobas, Mimì Ercolano, è stata arrestata. Il compagno Peppe D'Alesio, tra i massimi esponenti nazionali del SICobas, è stato ferito ed è finito in ospedale.

Il fatto è molto grave. Si tratta dei riflessi annunciati del famigerato Decreto sicurezza. Il governo a guida postfascista incoraggia la repressione poliziesca delle proteste di piazza, tanto più quando le iniziative di lotta rompono le righe del puro dissenso d'opinione per trasformarlo in mobilitazione e organizzazione diretta dei proletari interessati.

Come Partito Comunista dei Lavoratori diamo la piena solidarietà ai compagni colpiti e alla loro organizzazione, e chiediamo l'immediata libertà per Mimì Ercolano.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il protocollo sul caldo fra governo, padroni e sindacati

 


La logica di un'intesa colabrodo

8 Luglio 2025

Nella primavera del 2020 l'accordo fra governo Conte, Confindustria e sindacati per gestire l'irruzione travolgente della pandemia nei luoghi di lavoro non prevedeva sanzioni per chi lo avesse violato. La sua unica funzione fu quella di stoppare l'onda di scioperi dal basso di centinaia di migliaia di lavoratori (marzo 2020) che chiedevano misure di sicurezza sanitaria nelle fabbriche contro il cinismo padronale. Quel cinismo capitalista che poco prima in Val Brembana aveva posto il veto su misure di recinzione sanitaria, come a Codogno, per consentire la continuità di produzione e profitti (“Bergamo is running”), col risultato di moltiplicare le morti per Covid a livelli di record (mondiale).

Il protocollo di accordo fra governo, sindacati, organizzazioni padronali, dei primi di luglio 2025 sulla gestione del lavoro durante l'ondata di caldo – in un quadro certo meno drammatico ma non meno serio – ricalca, in forma diversa, la stessa logica del 2020. Una somma di buoni proponimenti: l'invito ai padroni a consultare il bollettino meteo, il suggerimento di eventuali flessibilizzazioni concordate degli orari, la disponibilità del governo a coprire con la cassa integrazione eventuali sospensioni del lavoro imposte dal caldo, l'appello alle parti sociali a contemperare la tutela dei lavoratori con la continuità del lavoro a partire dai “lavori di pubblica utilità”, l'invito alle Regioni a predisporre apposite ordinanze dentro lo spirito dell'accordo, l'immancabile retorica sulla collaborazione fra le parti.
L'elemento centrale del protocollo siglato è l'assenza di ogni impegno vincolante per i padroni, e dunque la sostanziale assenza di misure sanzionatorie. Nella sostanza, un liberi tutti.

Il governo Meloni ha naturalmente esultato presentando l'accordo come proprio successo politico (“avete visto, anche Landini ha firmato, altro che governo antioperaio”); Confindustria e tutte le organizzazioni padronali hanno applaudito il governo e la “responsabilità” sindacale (anche a futura memoria, in vista dei contratti); le burocrazie sindacali CGIL-CISL-UIL, unite, hanno esaltato la collaborazione fra le parti come paradigma di nuove possibili relazioni con padronato e governo, nel segno di quel riconoscimento di ruolo che è l'unica vera aspirazione delle burocrazie.

Ma il risultato per i lavoratori? È quello documentato dalla cronaca delle giornate successive: nessuna reale garanzia di protezione del lavoro. Le ordinanze regionali, quando vi sono state, sono state non solo le più diverse – sancendo la disparità dei diritti a parità di condizioni – ma anche per lo più inosservate. Nei cantieri edili la “salvaguardia delle opere di pubblica utilità” ha significato quasi ovunque continuità di lavori massacranti nelle fasce orarie più torride, spesso nelle regioni più calde, come la Sicilia. Nelle campagne, come nell'Agro Pontino, il lavoro è continuato come sempre nelle ore di punta, condannando in particolare i lavoratori immigrati a condizioni insostenibili. La logistica (trasporti, magazzini, rider) è stata a volte persino ignorata dalle ordinanze, come in Veneto e Toscana, mentre altre volte le relative ordinanze sono state inevase dai padroni. Altrettanto può dirsi per l'industria, in particolare per la piccola e media impresa: gli scioperi operai in Elettrolux di Forlì, e in alcune aziende del milanese e del mantovano, hanno denunciato le condizioni del lavoro in fabbrica, ed anche, di fatto, la natura truffaldina dell'intesa nazionale fra le parti.

Sulla base di un elementare criterio classista, la rivendicazione sindacale unificante avrebbe dovuto e dovrebbe concentrarsi su una misura semplice di valenza generale: una legge che dica che in presenza di temperature superiori a 30 gradi e con un tasso di umidità superiore al 70% il lavoro viene interrotto. Ovunque e senza deroghe (se non quelle legate a prestazioni sanitarie urgenti), con un potere di controllo e di veto degli RSL, e con piena garanzia di salario. Punto. Ma una rivendicazione così chiara richiede una logica opposta a quella delle burocrazie. Una logica che contrapponga le ragioni del lavoro a quelle del capitale. Una logica da vertenza generale e di reale mobilitazione.
È la logica con cui il PCL si batte in ogni luogo di lavoro e in ogni sindacato di classe.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il pride di Budapest e il suo significato

 


Diversi media italiani hanno parlato del gay pride tenutosi a Budapest il 28 giugno scorso e della sua importanza. In effetti, l’importanza di questo evento non è certo stata il fatto che quest’anno ricorresse il suo trentesimo anniversario, ma dal fatto che si sia svolto sfidando una legge appositamente fatta da Orbán per impedirlo.


Diamo un po’ di contesto: poco prima della data del gay pride, Orbán aveva approvato una legge che lo vietava esplicitamente, con la motivazione di proteggere i bambini (esattamente quella usata dall’alleato Putin in Russia da molto più tempo), ma che introduceva anche pene più severe per i partecipanti a manifestazioni non autorizzate, che potevano essere filmati anche in mancanza di comportamenti aggressivi (a differenza da quanto stabilito in precedenza).

Eppure, la legge anti-pride di Orbán non ha avuto l’effetto sperato, grazie alla sfida presentata dal sindaco di Budapest, il liberale Karácsonyi, recentemente rieletto con una piccolissima differenza di voti rispetto ai suoi avversari. Mentre qualunque manifestazione dichiarata da terzi necessita del permesso della polizia, come in Italia, Karácsonyi ha deciso di organizzare il pride come evento comunale, in quanto tale esente da questo requisito. Ciò è stato fatto nonostante le esplicite minacce del governo e della polizia, che hanno paventato multe salate e anni di galera non solo per gli organizzatori, ma anche per gli eventuali partecipanti (notare che si minacciava di utilizzare anche il famigerato riconoscimento facciale per identificare i manifestanti).

Il risultato è certamente stato un grande smacco simbolico per Orbán: mentre negli anni passati il pride registrava una media di 30.000 presenze, quest’anno ce ne sono state 200.000, con decine di migliaia provenienti dall’estero. È evidente che questa enorme partecipazione non è stata limitata alla comunità LGBTQ+: moltissime persone dall’Ungheria e dall’estero hanno partecipato per principio, per difendere la libertà di espressione e di manifestazione, per dire che sono stanchi del semi-regime di Orbán che dura ormai dal 2010. E per quanto riguarda le minacce della polizia, può darsi che non possano concretizzarsi per una serie di motivi: a parte la difficoltà a identificare e multare 200.000 persone, pare che i software di riconoscimento facciale a disposizione della polizia ungherese siano ancora pionieristici e non facili da usare. Insomma, gli sbirri devono ancora studiare un po’ per poterli usare come si deve, e saremo molto curiosi di seguire i loro progressi.

Nonostante questo enorme smacco simbolico, però, alcune considerazioni si impongono. In primis, è poco probabile che questo evento rappresenti l’inizio della fine di Orbán. Il perverso sistema elettorale ungherese, infatti, fa si che al caudillo magiaro basti una maggioranza relativa dei voti per ottenere i due terzi del parlamento (alle ultime elezioni ha ottenuto poco più del 50% dei voti), ed è assai improbabile che i suoi elettori fidelizzati e indottrinati lo lascino (e in ogni caso, 200.000 persone sono ben poca cosa rispetto ai 3 milioni circa che regolarmente votano Orbán). Anzi, essi sono certamente d’accordo con lui sulla pericolosità del “gender” in quanto corruttore dei minori ecc. (con una mezza battuta, verrebbe da dire che il leader del Paese europeo che produce più pornografia potrebbe avere altre preoccupazioni).

In secundis, la lotta per l’uguaglianza di genere è importante, ma può essere poca cosa o risultare addirittura ipocrita se essa non viene coerentemente accompagnata dalla lotta antirazzista e da quella di classe (questo lungi dai rossobruni, che mettono in contraddizione queste tre lotte, mentre è proprio la loro unione che è necessaria). Purtroppo, nella cosiddetta opposizione ungherese non risulta che nessuno voglia approvare leggi meno vessatorie verso i lavoratori (nuove recenti norme approvate nell’indifferenza generale mettono a rischio l’assistenza sanitaria ai lavoratori precari, per dirne una), in un Paese che ha già sindacati debolissimi o inesistenti, dove le lavoratrici sono costantemente lasciate indifese e intimidite, ecc.

Lo stesso dicasi sulla questione del razzismo: nessuno dei cosiddetti oppositori propone niente di concreto per discriminare di meno gli immigrati (al di là di qualche chiacchiera generica), anzi si chiarisce che il muro costruito al confine della Serbia verrà mantenuto in caso di loro vittoria. Più nello specifico il sindaco Karácsonyi, che si è esposto in prima persona per il gay pride, è d’accordo con il divieto governativo delle manifestazioni in favore della Palestina, considerate un sostegno al terrorismo. Insomma, per il sindaco liberale la libertà di espressione e manifestazione va difesa (giustamente) per la comunità LGBTQ+ ungherese, ma non per un popolo vittima di genocidio (con sostegno attivo del governo Orbán). Contraddizioni e ipocrisie che è bene sottolineare, al di là dei commenti trionfalistici della grande stampa straniera.

Elia Spina

Imperialismo russo e stato sionista. Le lezioni della crisi iraniana

 


Perché USA, Israele, Russia hanno votato all'ONU contro la condanna dell'invasione dell'Ucraina? Ciò che il campismo non vuole vedere

30 Giugno 2025

English version

La vicenda della guerra contro l'Iran illumina diversi aspetti dello scenario mondiale. Anche quelli che magari non sono immediatamente evidenti. O quelli che la cecità ideologica del campismo si rifiuta di vedere. È il caso del rapporto fra l'imperialismo russo e lo stato sionista. Ma andiamo con ordine.

Il primo fatto inoppugnabile che è emerso è stato il rifiuto di ogni assistenza militare russa e cinese all'Iran, quando si trovava sotto attacco. Dichiarazioni “preoccupate”, peraltro molto prudenti, ma solo parole. Nessun impegno di protezione militare, fosse pure declinato al futuro, fosse pure come minaccia deterrente, tanto meno un aiuto militare diretto. La potenza di fuoco sionista (e poi a supporto i bombardieri americani) ha potuto dispiegarsi per dodici giorni nei cieli di Teheran, dopo aver distrutto la sua contraerea, senza che nessun grande alleato dell'Iran si muovesse a sua difesa. Putin ha sentito il bisogno di precisare che il partenariato fra Russia e Iran – celebrato con squilli di tromba alcuni mesi prima – non prevede formalmente l'impegno vincolante ad un aiuto militare all'Iran in caso di attacco ostile, ma solo quello di non aiutare l'aggressore. Resta in ogni caso la scelta politica russa di rifiutare l'assistenza, persino come minaccia.
Un paradosso: il regime teocratico iraniano ha fornito alla Russia fior di droni con cui sventrare le città ucraine, ma non ha ottenuto neppure uno spicciolo di contraerea nel momento drammatico del bisogno. Non l'ha ottenuta né da Putin né dal regime nord-coreano (non certo avaro di aiuti alla Russia) né dalla Cina, che pur si serve del petrolio iraniano. Niente.
Anche l'area BRICS è dominata al suo interno da relazioni imperialiste: Russia e Cina sono al comando, il resto è un loro utile magazzino.

Di più. Tutte le dichiarazioni “preoccupate” della diplomazia russa e cinese, che proponevano la ripresa del negoziato fra USA e Iran, partivano da un presupposto comune: la volontà di rassicurare in ogni caso la cosiddetta comunità internazionale (cioè innanzitutto gli stati imperialisti ed Israele) sul fatto che l'Iran non avrebbe costruito la sua bomba. La stessa disponibilità russa ad acquisire e controllare in proprio l'uranio iraniano si proponeva come forma di garanzia da offrire a USA e Israele circa il disarmo dell'Iran.
Ma per quale ragione avallare l'arrogante veto sul nucleare iraniano da parte della principale potenza nucleare del pianeta (USA) e dallo stato nucleare sionista? La Russia e la Cina, a capo dei BRICS, non si presentano forse come gli araldi di un nuovo ordine mondiale, che porti finalmente equità e giustizia? Non è questa la narrazione ideologica ripresa a gran voce da tutta la propaganda campista ad ogni latitudine del mondo?

La verità è che l'imperialismo russo e l'imperialismo cinese coltivano esclusivamente i propri interessi, esattamente come fanno l'imperialismo USA, gli imperialismi europei, e lo stato sionista. Il nuovo ordine mondiale di cui parlano Russia e Cina è solamente il proprio diritto a negoziare con gli imperialismi concorrenti una nuova spartizione del mondo.
Oggi Donald Trump si presenta come loro interlocutore a nome dell'imperialismo USA, proprio per la più aperta disponibilità negoziale rispetto al passato. L'idea di una trattativa planetaria fra le tre grandi potenze (USA, Russia, Cina) per la spartizione delle rispettive aree di influenza, scavalcando ed emarginando gli imperialismi europei, è infatti la linea della nuova amministrazione americana. Chi non ha capito questo non ha capito l'essenziale del nuovo scenario mondiale. Gli imperialismi europei oggi si riarmano non semplicemente “perché glielo ha chiesto Trump”, ma soprattutto perché temono di essere scaricati da Trump. Solo riarmandosi, a carico dei propri salariati, possono sperare di recuperare potere negoziale, e dunque un posto a tavola nella nuova spartizione del mondo.

Un riflesso di questo scenario l'abbiamo visto negli stessi giorni della crisi iraniana. Trump ha ottenuto da Putin una pressione diplomatica sull'Iran perché si limitasse ad una reazione simbolica al bombardamento americano, di fatto concordata con gli stessi USA. In cambio, ha offerto a Putin la propria apertura sull'Ucraina, ciò di cui Putin ha bisogno.

Ma non c'è solo questo. Nella postura defilata della Russia sulla partita iraniana c'è anche la relazione dell'imperialismo russo con lo stato sionista. Una relazione profonda, dissimulata in parte, ma prolungata nel tempo. Il voto congiunto in sede ONU tra USA, Russia e Israele il 24 febbraio 2025 contro la condanna dell'invasione russa dell'Ucraina (nel terzo anniversario dell'invasione) è solo l'emersione di questa verità inconfessabile.
Le relazioni speciali dello stato sionista sono due: la prima con gli Stati Uniti, la seconda con la Russia. Durante tutta la guerra russa in Ucraina, lo stato sionista ha tenuto una posizione neutrale. Israele si è chiamata fuori dalle sanzioni occidentali contro la Russia, come la Russia si è ben guardata dal rompere con Netanyahu sulla questione palestinese. La presenza russa in Israele è testimoniata da Roman Abramovich, il secondo uomo più ricco di Israele, e dall'origine russa di larga parte dei geni dell'hi tech israeliana.
Quando crollò l'URSS, un milione di russi emigrò in Israele: avrebbero preferito andare in America, ma Israele ottenne dagli USA il blocco dei visti, per dirottare il flusso in direzione di Tel Aviv. In molte città israeliane si parla solo russo. La componente ebraica di estrazione russa è oggi uno dei bastioni della destra israeliana. Peraltro, la storia stessa della colonizzazione sionista dal 1904 al 1914 si fondò in larga misura sull'immigrazione russa.
Anche dopo la fine della guerra fredda, l'intesa fra Israele e Russia non è mai venuta meno. Ai tempi di Bashar al Assad, Mosca controllava lo spazio aereo della Siria alleata. Ciò nonostante, l'aviazione israeliana aveva licenza di colpire il traffico d'armi tra Iran e Libano, senza che la Russia reagisse (neppure quando un aereo russo fu abbattuto per sbaglio dagli israeliani).

Il campismo è cieco. Il marxismo rivoluzionario no. Nessun popolo oppresso del Medio Oriente può contare su imperialismi amici. Perché non esistono imperialismi amici dei popoli oppressi .Un nuovo ordine del mondo o sarà socialista o non sarà. Solo la rivoluzione può cambiare le cose.

Partito Comunista dei Lavoratori