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Roberto Fiore accusa... Trotsky per la strage di Bologna

Ma la vera notizia sono i buoni rapporti fra Forza Nuova e il governo

Nella conferenza stampa tenuta ieri a Bologna, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi hanno attribuito in ultima analisi a... Trotsky la strage di Bologna del 2 agosto del 1980. Non è uno scherzo, né una battuta. Lo si può constatare dalla puntuale registrazione della conferenza. La tesi di Fiore, se si può chiamare così, è molto semplice. “Trotsky teorizzava la rivoluzione permanente a carattere internazionale. Per questo voleva la destabilizzazione, il disordine, l'anarchia ovunque possibile. La STASI tedesco-orientale aveva rotto col KGB negli anni '70 per fomentare la destabilizzazione. La RAF tedesca era controllata dalla STASI. La STASI aveva in Emilia Romagna 250 agenti, e aveva infiltrato l'estrema sinistra italiana. Da qui la strage neotrotskista, coperta dal PCI e dai poteri forti che hanno depistato la verità per incolpare i fascisti”. Testuale.

Non replichiamo naturalmente alle farneticazioni teoriche di Forza Nuova. Attribuire a Trotsky la teoria della destabilizzazione attraverso il terrore, per di più stragista, è già di per sé un'idiozia troppo grottesca per meritare risposta. Rappresentare poi la STASI come agenzia trotskista della rivoluzione è puro delirio.

Ciò che invece ha rilievo nella conferenza stampa fascista è ben altro. Roberto Fiore ha candidamente rivelato le nuove relazioni tra Forza Nuova e la Presidenza del Consiglio. Forza Nuova ha chiesto a Conte gli incartamenti confezionati quarant'anni fa dagli stessi servizi segreti coinvolti nelle operazioni stragiste. Incartamenti che avvalorerebbero, secondo Fiore, guarda caso, la “pista neotrotskista” su Bologna. La Presidenza del Consiglio e il ministero degli Interni hanno risposto positivamente alla richiesta di Forza Nuova, che sentitamente ringrazia. Questa è l'unica vera rivelazione di Roberto Fiore.

Il fatto non è irrilevante. Nel nuovo contesto politico italiano, i fascisti ottengono entrature istituzionali. Non solo sul terreno quotidiano delle politiche xenofobe, dove agiscono sempre più spesso in tanti territori come i mazzieri di Salvini, ma anche sul terreno della revisione storica degli anni '70. Lo stesso governo che ha promosso la caccia alle streghe contro i cosiddetti “terroristi comunisti” di quarant'anni fa esibendo come trofeo la loro cattura, oggi apre alle sollecitazioni di capi fascisti già condannati per banda armata (Fiore e Adinolfi) offrendo loro la spazzatura che cercano sulla realtà di quegli anni. Il revisionismo storico è al lavoro: i fascisti erano innocenti, i colpevoli erano i comunisti. Fiore e Adinolfi ringraziano Conte e Salvini, Salvini vuole in cambio (anche) i voti dei fascisti. Più in generale, vuole accreditarsi come riferimento politico di garanzia di tutta l'estrema destra italiana. Questa è la vera partita di scambio che la conferenza di ieri ha rivelato.

Il PCL denuncia non solo le provocazioni grottesche dei fascisti, ma anche le coperture che il governo Conte offre loro. La battaglia contro il revisionismo storico sugli anni '70 non è meno importante della battaglia antirevisionista sulla Resistenza. Le classi dominanti non si limitano a colpire le conquiste dei lavoratori, vogliono anche riscrivere la loro storia. Vogliono capovolgere la verità per rimuovere le proprie responsabilità, sino ad attribuire i propri crimini alle loro vittime. Lo fanno su Bologna come sull'esperienza partigiana. I fascisti e le loro cialtronerie farneticanti sono solo uno strumento di questa operazione. Una ragione in più per combatterla, senza nessuna concessione.
30 gennaio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Provocazione fascista contro i trotskisti

La conferenza stampa di oggi promossa da Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi a Bologna per svelare «la pista neotrotskista» (!) sulla strage del 2 agosto 1980 è una provocazione infame e grottesca. Una provocazione infame, tenendo conto che si tiene a Bologna, la città colpita dall'atto più sanguinoso di stragismo che l'Italia abbia mai conosciuto per mano di servizi segreti e ambienti fascisti loro complici. Ma anche una provocazione farneticante e grottesca, perché rivolta contro i trotskisti, notoriamente estranei ad ogni forma di terrorismo, tanto più di tipo stragista. Evidentemente Fiore e Adinolfi pensano di sfruttare il nuovo contesto politico reazionario e l'attuale ministero degli Interni in mano a Salvini per imbastire nuove campagne di calunnie infamanti contro i comunisti rivoluzionari, a vantaggio dei propri amici stragisti. Le relazioni intercorse tra la Presidenza del Consiglio e Forza Nuova, rivelate dallo stesso Fiore, sono sotto questo profilo tanto eloquenti quanto inquietanti. Ma i trotskisti hanno la pelle dura: i fascisti troveranno pane per i loro denti.

29 gennaio 2019

Partito Comunista dei Lavoratori

No alla reazione filoimperialista in Venezuela!

L'autoproclamazione come Presidente del Venezuela da parte di Juan Guaidò - presidente dell'Assemblea nazionale venezuelana - apre uno scenario nuovo nel paese. La destra venezuelana riprende la marcia della mobilitazione del 2017 per la conquista del potere, con l'appoggio immediato dell'imperialismo USA e dell'amministrazione Trump. La minaccia di un eventuale intervento militare imperialista in Venezuela, a supporto della destra interna, è esplicita. La bandiera della democrazia, quale principio guida dell'operazione, è contraddetta dalla natura stessa dei suoi promotori e dai loro scopi. I capi di Voluntad Popular e della destra venezuelana, tra cui Juan Guaidò, sono gli eredi politici dei tentativi golpisti del 2002. Hanno l'appoggio dei governi più reazionari del continente latinoamericano, a partire dal governo Bolsonaro. Hanno un programma economico-sociale ispirato agli interessi dell'imperialismo (privatizzazione integrale dei settori strategici) e della borghesia (abolizione dei sussidi sociali, vendita delle case popolari, abbattimento della spesa pubblica nel nome del libero mercato). La vittoria di questa operazione reazionaria non sarebbe né l'affermazione della “democrazia” né l'uscita del Venezuela dalla profonda crisi che l'attanaglia, ma un'ulteriore aggravamento della crisi sociale per i lavoratori e la popolazione povera a esclusivo vantaggio dei capitalisti e dell'imperialismo.

La precipitazione della crisi venezuelana è tuttavia inseparabile dal fallimento del regime chavista.
Il nazionalismo bolivariano ha cercato di stabilizzare un compromesso sociale con l'imperialismo e la borghesia venezuelana: da un lato le missiones popolari a beneficio degli strati sociali più poveri, dall'altro il pagamento del debito pubblico al capitale finanziario, i lauti indennizzi alle proprietà imperialiste “nazionalizzate”, la tutela delle banche private, la libertà di arricchimento di una borghesia affaristica e corruttrice (boliborghesia). Questo precario equilibrio sociale ha retto ai tempi dell'alto prezzo del petrolio, e ha franato irrimediabilmente col suo crollo, connesso alla crisi capitalistica mondiale. La recessione drammatica dell'economia, l'inflazione incontrollabile, la penuria dei beni di prima necessità, hanno precipitato le condizioni di vita dei lavoratori e del popolo. La caduta del consenso sociale attorno a Maduro è il riflesso di questa realtà, come lo è l'emigrazione di massa dal paese. Il governo nazionalista ha prima reagito alla propria crisi moltiplicando le concessioni ai capitalisti, irregimentando il movimento operaio, restringendo diritti e libertà sindacali (blocco delle elezioni sindacali nelle aziende e forti limitazioni del diritto di sciopero). Poi ha moltiplicato, senza successo, i tentativi di mediazione con le destre attraverso i canali della diplomazia internazionale (Zapatero) e del Vaticano. Infine è ricorso ad una soluzione bonapartista, attraverso l'elezione farlocca di una Assemblea costituente sotto controllo dell'esecutivo, e la massima concentrazione dei poteri nelle proprie mani. Ma nessuna di queste politiche ha potuto allargare la base di sostegno del governo. Al contrario, l'insieme di queste politiche ha finito col consegnare alla destra l'appoggio di strati popolari favorendo lo sviluppo delle operazioni reazionarie e filoimperialiste oggi in corso.

Non c'è soluzione possibile dalla crisi drammatica del Venezuela fuori dalla rottura col capitalismo e l'imperialismo, e dalle misure che questa rottura richiede: sospensione del pagamento del debito pubblico, nazionalizzazione delle banche e del commercio con l'estero, controllo dei lavoratori sulla produzione e la distribuzione dei beni alimentari e di prima necessità. Solo uno sviluppo indipendente del movimento operaio, in contrapposizione al governo Maduro e alla reazione, può porre in agenda queste misure di svolta. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulle strutture di autorganizzazione di massa e sulla loro forza, può realizzarle. È la prospettiva di un'alternativa socialista al nazionalismo bolivariano, basata sul potere dei consigli dei lavoratori. Fuori da questa prospettiva socialista, la crisi venezuelana continuerà ad avvitarsi con esiti drammatici sul terreno sociale e democratico per i lavoratori stessi, sia che vinca la reazione filoimperialista sotto false sembianze "democratiche", sia che il regime chavista sviluppi ulteriormente la propria spirale bonapartista dando vita a una versione venezuelana della dittatura di Ortega in Nicaragua.

Solamente l'irruzione sul campo della classe lavoratrice, con le sue ragioni di classe indipendenti, può spezzare la morsa di questo bivio mortale, e aprire dal basso una prospettiva nuova.
Ma questa prospettiva passa per la sconfitta, qui e ora, della minaccia della destra e dell'imperialismo, dei Trump e dei Bolsonaro. Per questo, con questa impostazione indipendente, il PCL parteciperà alle iniziative di mobilitazione contro le minacce dell'imperialismo in Venezuela.
25 gennaio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Ipocrisia nazionalista a cinque stelle

“La Francia è colonialista in Africa ed è causa della fuga dei migranti in Italia” esclamano Di Battista e di Maio, per contendere i voti a Salvini. Fratelli d'Italia plaude entusiasta, reclamando un primato nazionalista. Anche Stefano Fassina, di Patria e Costituzione, si allinea al coro contro “le politiche neocoloniali della Francia”.

Quanta sudicia ipocrisia in questa recita elettorale!

Che l'imperialismo francese difenda in Africa la propria area di influenza non c'è alcun dubbio. Che lo faccia con l'arroganza propria della vecchia potenza grandeur è altrettanto vero. Era vero anche quando Di Maio un anno fa scriveva compunto a Macron esaltando il suo successo elettorale e rivendicando una assonanza tra M5S e En Marche. Ma lasciamo perdere. Il punto è un altro: l'imperialismo italiano dove lo mettiamo?

Già, perché nella migliore tradizione nazionalista, il colonialismo è sempre quello degli altri, in particolare quello delle potenze concorrenti. Anzi, nel nome della denuncia dell'imperialismo altrui si nasconde il proprio imperialismo nazionale e le sue ambizioni di potenza. La storia italiana è emblematica. Prima il giolittismo in Libia, poi il fascismo in Etiopia giustificarono le peggiori gesta dell'imperialismo patrio nel nome della contrapposizione ai vecchi imperi coloniali e del diritto dell'Italia a un posto al sole. In forme certo molto diverse oggi si ripropone proprio quel vecchio spartito.

Di Maio e "Dibba" si diffondono nella denuncia delle pratiche di sfruttamento condotte dalla Francia contro la “sovranità” dei paesi del Sahel. Bene. Ma le pratiche di sfruttamento condotte dal capitalismo tricolore di casa nostra non sono meno ciniche e brutali. ENI è la principale azienda operante in Africa, traffica col regime assassino di al-Sisi in Egitto, si accaparra giacimenti in Nigeria a suon di mazzette, contende alla Total (guarda caso francese) il controllo del petrolio libico e dunque il controllo politico della Libia. La Salini Impregilo estende il proprio raggio d'azione in Corno D'Africa, erige dighe che affamano i contadini di Etiopia, espande i propri affari in Eritrea a braccetto col regime reazionario che la domina, sbarca in Kenya a rimorchio di ENI e delle sue tre piattaforme offshore. I grandi marchi italiani dell'industria tessile (Moncler, Tod's, Armani, Prada, Gucci, Dolce & Gabbana) sfruttano migliaia di proletari africani in condizioni di lavoro e di vita invivibili, magari attraverso aziende collegate come il caso della Sonoma in Madagascar, grande fornitrice di capi di lusso per i vari marchi del made in Italy, che paga gli operai 30 dollari al mese per 12 ore di lavoro giornaliere. Per non parlare, in Asia, dello sfruttamento delle operaie del Bangladesh, che oggi si ribellano con scioperi di massa anche a padroni italiani. Potremmo continuare a lungo.

Si dirà che tutto questo riguarda i capitalisti italiani ma non l'Italia come Stato e governo. Sbagliato. È vero l'opposto. Lo Stato e i governi italiani (tutti) si muovono proprio a supporto dei capitalisti tricolore. Se i capitalisti italiani fanno affari, contendendoli ai propri concorrenti (magari francesi) è proprio perché interviene lo Stato italiano. È nata non a caso l'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, che interviene con una dotazione finanziaria pubblica (soldi presi dalle tasche dei lavoratori italiani) in ventidue paesi di cui ben nove nel cuore dell'Africa (Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mozambico). Tra questi paesi, guarda caso, figurano le vecchie colonie italiane. In cosa consiste l'intervento italiano? Semplice. È la politica dei prestiti condizionati: si fa prestito ai governi e regimi locali perché predispongano commesse per le aziende italiane, o acquistino prodotti italiani, o concedano terreni semigratuiti a investitori italiani, o privatizzino beni e servizi a vantaggio di acquirenti italiani. Una normale politica di saccheggio. Per ingrassare i capitalisti tricolori il paese in questione si indebita e poi rincorre senza fine il pagamento del debito e i relativi interessi alla madrepatria italiana, in una dinamica di spoliazione progressiva. I flussi migratori, anche verso l'Italia, sono il prodotto, diretto o indiretto, di questa rapina. Non solo italiana, ma anche italiana. In alcuni paesi soprattutto italiana.

“L'Africa avrà il suo futuro quando la Francia se ne andrà a casa sua” esclama il Dibba. Così ci sarà posto per l'Italia: questo è il sottotraccia dello slancio anticoloniale contro la Francia. Quanto a Giuseppe Conte, è appena tornato da un viaggio in Africa presso tutti i paesi contesi alla Francia e ai suoi affari col solito codazzo di amministratori delegati e creditori. Il governo del cambiamento non ha cambiato in nulla neppure in questo.

Quanto a noi, siamo e restiamo contro gli imperialismi di tutti i colori, a partire innanzitutto dal nostro. A fianco degli sfruttati di ogni colore, contro i capitalisti di ogni bandiera.
21/01/2019
Partito Comunista dei Lavoratori

La manovra del governo del cambia niente

Avevano annunciato "la Manovra del Popolo” nel nome della “sfida ai poteri forti”. Hanno finito con l'accordarsi col capitale finanziario, italiano e europeo, contro la maggioranza del popolo.
È stato il passo del gambero.

Dovevano “abolire la Fornero”. Poi sono scesi a quota 100. Poi l'hanno vincolata ai 38 anni di contributi, discriminando moltissime donne, e trasformandola in quota 101, 102... Poi hanno dilazionato gli accessi di sei mesi per i pubblici, di tre per i privati. Poi hanno ridotto questa pseudo quota 100 alla parentesi di un triennio, promettendo i 41 anni per il 2023, quando il montante pensionistico ridurrà gli assegni. Il risultato è che la legge Fornero non è stata toccata: si sono solo aggiunte delle temporanee finestre di uscita. Centinaia di migliaia di lavoratori o dovranno accettare pensioni da fame o saranno costretti a restare al lavoro. Sino a quando? Sino ai 67 anni, come vuole la Legge Fornero. Mentre i giovani non raggiungeranno mai 41 anni di contributi.

Avevano promesso “il reddito di cittadinanza”. Ma i 17 miliardi della campagna elettorale si sono prima ridotti a 9, poi sono diventati 7. Mentre gli aventi diritto sono passati da 10 milioni a 5. E i conti non tornano: con la cifra stanziata o si taglia l'assegno promesso o si taglia la platea di chi ne ha diritto. L'unica cosa certa è che il sussidio è solo temporaneo, il lavoro (eventualmente) offerto sarà precario, si offriranno alle aziende e ai loro profitti nuovi sgravi (mentre si tagliano 4 miliardi sulla scuola). Altro che “abolizione della povertà”.

Non è tutto. Queste stesse elemosine sociali sono coperte da una gigantesca cambiale: 23 miliardi di aumenti Iva nel 2020, 29 miliardi nel 2021. Dunque, saranno pagate o da un colpo pesante ai salari, o da un taglio corrispondente di spese sociali. Mentre si bloccano le assunzioni in larga parte della pubblica amministrazione (dai ministeri alle università), si dà il via libera a un nuovo aumento delle tasse locali, si taglia l'indicizzazione delle pensioni poco sopra i 1200 euro netti (in pratica, quelle maturate con uno stipendio medio), come volle il governo Monti-Fornero. E, dulcis in fundo, non si prevedono le risorse per i contratti pubblici (segnano così, come nel decennio passato, la dinamica salariale di tutti).

Nel contempo, in fretta ed in silenzio, il governo ha approvato il 21 dicembre il percorso che avvia le autonomie rafforzate, frantumando così i diritti sociali a seconda della residenza: regionalizzando fondi di finanziamento, funzioni, concorsi e contratti; rendendo più ricchi i territori già ricchi e più deprivati quelli già deprivati.

Perché tutto questo? Per rassicurare, come sempre, gli interessi del capitale. Per continuare pagare il debito pubblico alle banche (70 miliardi annui di soli interessi). Per continuare a ridurre le tasse alle imprese. Per tagliare salari e diritti sociali. Per continuare a spendere miliardi nell'acquisto di aerei da guerra. Per continuare a ingrassare i profitti, che ammontano a 41 miliardi nel 2018 solo per le società quotate in Borsa.

Doveva essere “il governo del cambiamento”, è stato solo un cambiamento di governo.

È necessaria una ribellione sociale di massa, l'unica che può strappare risultati. In Francia Macron è arretrato, non a caso, solo per paura di una rivoluzione. 17 milioni di lavoratori e lavoratrici sono una forza enorme. La forza in grado di imporre l'unico possibile cambiamento vero: un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, dei precari, dei disoccupati, della maggioranza del popolo. Il governo che può far piazza pulita del capitalismo e costruire un'altra società, a misura dell'uomo e non del profitto. Quando i salariati prenderanno coscienza della propria forza nulla li potrà fermare.
Costruire questa coscienza è la ragione del nostro partito.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il caso Battisti, i marxisti rivoluzionari e il terrorismo

Il caso Battisti riempie i notiziari. Il terrorista catturato all'altro capo del mondo sbarca a Fiumicino accolto da un'autentica parata di regime. Presenti i vertici militari e istituzionali al gran completo. I ministri Salvini e Bonafede, sguardo trionfante e al tempo stesso compunto, si contendono il primo piano ad uso delle telecamere, in un tripudio di toni solenni: “fatto storico”, “giorno indimenticabile per tutti gli italiani”, “il grande momento atteso dall'Italia per 37 anni”, l'”Italia che ottiene finalmente il rispetto del mondo” contro “un maledetto assassino comunista”... un autentico delirio senza pudore ben oltre i confini del grottesco. Le opposizioni liberali si allineano alla parata come un sol uomo, salvo qualche distinguo estetico. La sinistra parlamentare si genuflette al coro.

Di cosa stiamo parlando, in realtà? Di un fatto povero e semplice. Due governi reazionari, uno europeo, l'altro brasiliano, celebrano il proprio successo d'immagine. Il primo con un ministro degli interni in uniforme poliziesca notte e giorno, indifferente alla vita stessa dei migranti in mare, impegnato a respingerli ovunque possibile nelle galere libiche, tra torture, stupri, omicidi. Il secondo nelle vesti del governo più reazionario che il Brasile abbia mai conosciuto da mezzo secolo, guidato da un uomo che difende le gesta della vecchia dittatura militare e che vuole “estirpare dal paese tutti i socialisti, dal primo all'ultimo” (testuale). Questi sono i governi che a braccetto tra loro esibiscono oggi Battisti come trofeo nel nome del... diritto.

La denuncia di questa ipocrisia rivoltante è il primo dovere di ogni organizzazione di classe.


CONTRO IL TERRORISMO, MA DA UN PUNTO DI VISTA RIVOLUZIONARIO

Ciò non ci esime da un pronunciamento chiaro sul merito della questione Battisti, a partire da considerazioni di fondo che si legano alla nostra tradizione storica.

Da marxisti rivoluzionari siamo da sempre radicalmente ostili al terrorismo, e proprio in quanto rivoluzionari. Il terrorismo confligge infatti con la prospettiva della rivoluzione socialista, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista politico.

Ideologicamente, il terrorismo rimpiazza l'azione di massa per rovesciare la classe dominante con una "azione esemplare" diretta contro suoi singoli esponenti, reali o presunti. Come se il dominio della borghesia e del capitalismo fosse un problema di singoli ruoli e persone, e non di struttura di classe della società. Così facendo il terrorismo si rende paradossalmente subalterno all'ordine costituito che formalmente denuncia. Il suo programma reale non è rivoluzionario, ma riformista, al di là di ogni autorappresentazione ideologica delle formazioni terroriste o delle intenzioni di loro militanti. Lenin definiva non a caso i terroristi russi come “i liberali con la bomba”.

Politicamente, il terrorismo è un disastro per le ragioni e le prospettive della classe lavoratrice. Gli apparati dello Stato usano le azioni terroriste per giustificare leggi repressive a scapito dei diritti dei lavoratori. Le burocrazie dirigenti del movimento operaio le usano per giustificare la solidarietà subalterna con lo Stato e i governi borghesi. L'esperienza degli anni '70 in Italia è stata emblematica. Le azioni delle Brigate Rosse, di Prima Linea, e infine dei PAC di Battisti (la peggiore delle organizzazioni terroriste dell'epoca) furono funzionali al compromesso storico e alla solidarietà nazionale contro la grande ascesa del movimento di massa (1969-'76). Nei sindacati e nelle fabbriche chi si opponeva alle politiche di austerità e dei sacrifici veniva intimidito con l'accusa o il sospetto di fiancheggiamento dei terroristi, mentre la legislazione d'emergenza con il pretesto del terrorismo restringeva le libertà democratiche. DC e PCI usarono questa dinamica per isolare l'avanguardia di classe a vantaggio dell'unità nazionale attorno allo Stato del capitalismo italiano.

La rappresentazione degli anni '70 come un periodo di guerra civile che spiegava il terrorismo è dunque una mistificazione ideologica, alimentata o avallata da ambienti diversi. La verità è opposta. La lotta armata delle organizzazioni terroriste militò contro la lotta di classe, contro la mobilitazione di massa, contro lo sviluppo della coscienza anticapitalista dei lavoratori, contro la prospettiva di una rottura rivoluzionaria. Mentre il compromesso storico da un lato e soprattutto la disgregazione dell'estrema sinistra centrista dei primi anni '70 dall'altro, sullo sfondo del ripiegamento del movimento operaio, fornirono al terrorismo un bacino di reclutamento di centinaia di giovani. Per questo, e da questo angolo di visuale, i marxisti rivoluzionari combatterono il terrorismo nelle fila della classe operaia, dei movimenti di lotta, e della loro avanguardia.


NON STIAMO DALLA PARTE DELLO STATO

Ma combattere il terrorismo dal versante del movimento operaio e di una prospettiva di rivoluzione è l'opposto che combatterlo dal versante dell'ordine costituito e della conservazione. Critichiamo il terrorismo e i terroristi senza la minima attenuante politica, ma non partecipiamo alla loro persecuzione giudiziaria e poliziesca da parte dello Stato borghese. Per il semplice fatto che noi stiamo dall'altra parte della barricata. La rivendicazione dell'amnistia ha qui la sua ragione.

Potremmo limitarci a dire che l'ergastolo per Cesare Battisti dopo quarant'anni dai fatti commessi o imputati è l'esercizio di una vendetta, non l'esercizio della “giustizia”. Uno Stato che nel suo cuore profondo ha coperto stragi fasciste o se n'è reso complice negli anni '70, lasciando impuniti i responsabili, invoca la giustizia contro Battisti? Lo Stato che varò una legislazione d'emergenza che negava i diritti di difesa che qualunque codice penale garantisce all'imputato (secondo il giudizio della stessa magistratura francese) invoca il diritto? Lo Stato che coprì pratiche di tortura nelle carceri, con decine di denunce (ignorate) di confessioni estorte, invoca la democrazia? Persino da un punto di vista coerentemente democratico, e della civiltà del diritto, non possiamo avallare la vendetta giudiziaria dello Stato.

Ma la nostra angolazione non è esclusivamente democratica, è di classe. Non esistono uno Stato e una giustizia al di sopra delle classi. Nella cosiddetta democrazia borghese lo Stato è e resta uno strumento di difesa e riproduzione della dittatura dei industriali e banchieri sulla maggioranza della società. Ogni giorno milioni di lavoratori, lavoratrici, precari, disoccupati sperimentano la natura di classe di questo Stato e della sua giustizia. Ogni rafforzamento di questo Stato e dei suoi poteri polizieschi è un rafforzamento dell'ordine capitalistico della società. Per questo non abbiamo mai sostenuto e non sosterremo mai la sua repressione e le sue cacce alle streghe contro esponenti o formazioni della sinistra, anche le più distanti da noi. Esprimemmo questa posizione di principio, controcorrente, quando era infinitamente più difficile di oggi; di certo non la sconfessiamo quarant'anni dopo di fronte a un ex terrorista imprigionato da Salvini.





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Riportiamo in seguito alcune note di agenzie stampa sulla posizione del PCL in tema dell'arresto di Battisti:


"SALVINI VUOLE ESIBIRLO COME TROFEO" - «Da parte del governo - dice Ferrando - c'è il tentativo di sfruttare questa cosa come occasione propagandistica. Noi siamo sempre stati ferocemente contrari, da un punto di vista anticapitalistico e rivoluzionario, a ogni teoria e pratica del terrorismo, che porta acqua alle classi dominanti e disorienta la classe operaia. Detto questo, per fatti di quarant'anni fa, la soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio». E ha aggiunto: «Noi non abbiamo nulla a che spartire con la collaborazione tra un governo ultrareazionario come quello di Bolsonaro e quello di Salvini. Entrambi vogliono esibire Battisti come trofeo.»

Huffington Post Italia



«Per fatti di quaranta anni fa, la soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia per Cesare Battisti», dichiara all'Adnkronos Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, commentando l'arresto di Battisti.
«Da parte del governo c'è il tentativo di sfruttare questa cosa come occasione propagandistica», rimarca Ferrando, che si dice «contrario all'estradizione di Battisti», e aggiunge: «Noi non abbiamo nulla a che spartire con la collaborazione tra un governo ultrareazionario come quello di Bolsonaro e quello di Salvini. Entrambi vogliono esibire Battisti come trofeo.»

Adnkronos
Partito Comunista dei Lavoratori

Caso Carige: bugie a 5 stelle

Il caso Carige documenta una volta di più l'ipocrisia a 5 Stelle.

Dopo il voltafaccia sulla TAP, l'apertura agli aerei da guerra F-35, il plauso al decreto Salvini contro i migranti, la capitolazione al Fiscal compact, la progressiva trasformazione del reddito di cittadinanza in un incentivo alle imprese, la cancellazione delle promesse sulla limitazione del lavoro festivo nella grande distribuzione... il M5S ricalca le orme del passato anche in fatto di banche. L'intervento a sostegno di Banca Carige è emblematico.

Luigi di Maio grida che “non è vero”, “non abbiamo messo un euro di soldi pubblici in Carige, e se mai dovessimo farlo la nazionalizzeremo”, “non sarà come Banca Etruria perché noi salviamo tutti gli obbligazionisti”... ecc. ecc. Solo che l'arte teatrale della sceneggiata napoletana meriterebbe un migliore interprete.

“Non abbiamo messo un euro di soldi pubblici” è un falso. Il governo ha messo una pubblica garanzia di tre miliardi come copertura sui nuovi bond della banca. Cosa sono se non soldi pubblici? Se i bond non ottenessero soddisfazione sul mercato finanziario, il governo si impegna a coprire le perdite col ricorso al bilancio pubblico, oltretutto attingendo dai fondi stanziati a favore delle banche dal precedente governo Gentiloni. Inoltre, il fatto stesso della garanzia pubblica mira a favorire il successo di mercato dei bond in questione, incoraggiando il loro acquisto (altrimenti assai difficile quando i tassi di interesse sui bond Carige sono saliti al 16% e il ritorno del prestito assai dubbio). Dunque la garanzia pubblica è a vantaggio degli azionisti, a partire dai grandi azionisti che hanno portato la banca sulla soglia del collasso. Soldi pubblici, profitti privati, proprio come in passato. Non a caso il commissario Modiano ha dichiarato: “La garanzia statale è molto utile, molto gradita”. Non c'è ragione di dubitarne.

“Se mai mettessimo dei soldi pubblici, nazionalizzeremmo la banca” è un altro falso. Naturalmente non si può escludere che la garanzia pubblica offerta sui bond si riveli insufficiente e sia necessario ricapitalizzare la banca. E non si può escludere in quel caso che il governo partecipi con risorse pubbliche alla ricapitalizzazione, cioè che il governo possa comprare azioni entrando direttamente nel capitale della banca. Sarebbe questa una nazionalizzazione? No, sarebbe rimborsare azionisti fallimentari con soldi pubblici, per salvare altri azionisti privati con cui condividere la gestione della banca. La cosiddetta nazionalizzazione è solo una socializzazione delle perdite a carico del bilancio pubblico e a vantaggio dei profitti privati: un'operazione fatta centinaia di volte negli ultimi dieci anni di crisi capitalistica a tutte le latitudini del mondo. Per di più, in base alla normativa della UE, lo stesso ingresso dello Stato nel capitale della banca può essere solo provvisorio, in attesa di rivendere le azioni pubbliche agli azionisti privati (Monte dei Paschi ad esempio dovrà cedere ai privati le partecipazioni del Tesoro nel 2021). Che i liberali borghesi, inorriditi, denuncino tutto questo come “nazionalizzazione statalista” fa parte di una lunga tradizione. Che Luigi Di Maio ne approfitti per presentarsi come nemico dei banchieri fa parte invece più semplicemente della truffa.

“Noi salveremo in ogni caso tutti gli obbligazionisti” è infine semplicemente una battuta.
Carige non ha infatti obbligazioni subordinate da due anni, a differenza di altre banche, e solo gli obbligazionisti subordinati sono penalizzati in caso di salvataggio pubblico. Quindi Di Maio si vanta di proteggere... nessuno. La verità è che i piccoli azionisti Carige sono già stati affondati dai grandi azionisti della banca, la famiglia Malacalza in testa, con il valore di un'azione crollato a 0,0015 euro. Ma ai grandi azionisti della banca ligure (Malacalza al 27,55%, Volpi al 9,09%, Mincione al 5%) poco importa. Loro contano di continuare a galleggiare o rilanciarsi, grazie al prestito di 320 milioni recentemente sottoscritto dal sistema bancario italiano (una sorta di cassa di resistenza dei banchieri), sempre sgomitando gli uni contro gli altri per la difesa delle rispettive quote. Non a caso Malacalza non ha esitato a opporsi alla trasformazione del prestito interbancario (i 320 milioni) in nuova capitalizzazione, per paura di perdere la propria quota di controllo sulla banca e di vederla precipitare (dal 27% al 5%).

L'attuale commissariamento BCE impone semplicemente una tregua forzata tra i grandi azionisti pescecani per salvare la loro nave dai marosi. Il governo SalviMaio ha offerto a questo salvataggio i soldi pubblici, come tutti i governi del passato. Se infine la banca fallirà, il costo sarà scaricato su ciò che resta di piccoli risparmiatori e correntisti, sopra i 100.000 euro, secondo la regola immutata del bail in, e sui lavoratori e le lavoratrici di Carige. E magari le ossa spolpate della banca saranno svendute a qualche grande banca concorrente, com'è accaduto con le banche venete fallite regalate a 1 (uno) euro a Banca Intesa.

Solo la nazionalizzazione delle banche senza indennizzo per i grandi azionisti, e la loro unificazione in una sola banca di Stato, può sottrarre il credito ai pescecani del profitto, proteggere i correntisti e i piccoli risparmiatori, difendere i lavoratori delle banche, destinare i soldi pubblici a finalità sociali.
E solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà realizzare questa misura.
10 gennaio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Salvini applaude Rizzo sui migranti

Marco Rizzo ha espresso a Coffee Break, su La7, l'opinione del proprio partito circa la vicenda dei migranti e del loro diritto d'accesso nei porti italiani.
Alla domanda se riteneva giusto o meno aprire i porti per consentire lo sbarco dei migranti sequestrati in mare, Marco Rizzo non solo non ha risposto, ma ha dato sponda ai peggiori argomenti della destra, sul filo di un'ambiguità calcolata e non nuova.

Rizzo ha criticato «le politiche della pseudosinistra contro il lavoro» (giusto) e «l'indifferenza dei sindaci del PD sul problema della casa» (giusto); ha rivendicato l'importanza della redistribuzione del lavoro tra tutti consentita dalla tecnologia e dalla scienza (giusto). Ma ha concluso testualmente che «i diritti civili sono diritti della borghesia, sono cose che vengono dopo», e che difenderli fa il gioco di Salvini. In altri termini, Rizzo ha contrapposto di fatto i diritti del lavoro ai diritti dei migranti.

Questa conclusione è francamente indecente.

I comunisti, se sono tali, difendono i diritti di tutti gli sfruttati. La centralità della classe operaia in un progetto di liberazione dell'umanità passa per la sua capacità di porsi alla testa delle rivendicazioni di tutti gli oppressi, contro tutti i soprusi e tutte le ingiustizie che il capitale infligge loro. I diritti alla vita e alla dignità dei migranti sono sicuramente tra questi. Non sono “i diritti civili della borghesia” (che oltretutto se sono diritti democratici andrebbero comunque difesi dalla reazione), sono i diritti elementari di chi è condannato alla fuga dalle proprie terre dallo sfruttamento dell'imperialismo e dalle sue guerre. Sono i diritti oggi colpiti nel modo più infame da un governo reazionario M5S-Lega che scavalca a destra le peggiori misure di Minniti. Può essere che difendere questi diritti non sia “popolare” presso ampi settori di lavoratori italiani, calpestati da trent'anni da tutti i governi del capitale (inclusi quelli che Rizzo ha appoggiato) e oggi aizzati contro i migranti. Ma i comunisti, se sono tali, non barattano una questione di principio con la ricerca di popolarità. Tanto meno fanno da sponda alla campagna reazionaria contro i migranti di un ministro degli Interni forcaiolo. Semmai combattono per liberare la propria classe di riferimento da tutti i pregiudizi reazionari e da chi li fomenta.

Contrapporre i diritti sociali su casa e lavoro ai diritti degli immigrati è oggi il cuore della campagna di Salvini, con Di Maio perfettamente complice. Sentire Marco Rizzo che a nome dei “comunisti” liscia il pelo a questa campagna, e le fa il verso, è davvero scandaloso. Ma non ci sorprende: la cultura stalinista non conosce ragioni di principio ma solo di opportunità.

Certo è comprensibile che tutta la peggiore stampa reazionaria, incluso il Secolo d'Italia e Il Primato Nazionale (giornale legato a Casapound!), abbia dato ampia pubblicità alle dichiarazioni di Rizzo, con un plauso convinto. A noi spetta il dovere di chiarire che i comunisti non hanno nulla a che fare con questo cinismo.
6 gennaio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Una legge truffa per i lavoratori e le lavoratrici

Ora che la Legge di stabilità è stata approvata, possiamo aggiungere alle considerazioni già espresse un giudizio d'insieme. Doveva essere "la manovra del popolo", è invece una legge truffa.

La Legge Fornero rimane, con la sola parentesi di tre anni della cosiddetta “quota 100” (che quota 100 non è per via del vincolo dei 38/62 anni). Una parentesi che sarà finanziata in parte, oltretutto, dal blocco parziale dell'indicizzazione delle pensioni, voluto proprio dal governo Monti-Fornero. Peraltro moltissimi lavoratori e (soprattutto) lavoratrici interessati saranno esclusi persino dalla “parentesi”, per via del numero insufficiente dei contributi maturati o, di fatto, per la penalizzazione legata al minor numero dei contributi stessi.

Il cosiddetto reddito di cittadinanza, che attende ancora il decreto attuativo, assomiglia sempre più a un incentivo all'assunzione rivolto alle imprese. Lo stesso quotidiano di Confindustria ha commentato con compiacimento: «Le imprese entrano a pieno titolo nell'operazione reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza inizia ad avere sempre più la veste di vera politica attiva» (Il Sole 24 Ore, 28 dicembre). Siamo al punto che persino Matteo Renzi sulle colonne del Corriere della Sera, ha rivendicato la versione annunciata del reddito di cittadinanza come continuità degli incentivi del Jobs act.

Ma soprattutto il punto è: chi paga? Per poter sventolare sotto elezioni il drappo di due bandiere elemosina e al tempo stesso mediare con la UE e rispettare il Fiscal compact - cioè il patto col capitale finanziario - i due imbroglioni Di Maio e Salvini hanno fatto l'operazione più semplice. Hanno spostato il carico di spesa sul 2020 e il 2021 con una gigantesca clausola di salvaguardia sull'Iva: 23 miliardi sul 2020 e 28,8 miliardi sul 2021. Le elemosine sdrucite di oggi sono messe sul conto futuro dei “beneficiari”, o attraverso un aumento massiccio delle imposte indirette ammazzasalari o attraverso un taglio corrispondente delle spese sociali. Semplicemente, ai “beneficiari” questo non viene detto. A loro si comunica la «svolta storica», l'«abolizione della povertà», l'«orgoglio ritrovato dell'Italia» e altre idiozie spazzatura.

Peraltro, l'anticipo del conto è già in parte scritto, nero su bianco, nella manovra approvata. La scuola subisce un taglio triennale di 4 miliardi, dal taglio al sostegno al taglio dell'edilizia scolastica. Le privatizzazioni e dismissioni di beni pubblici previsti sul solo 2019 ammontano a 19 miliardi, mentre nello stesso anno diminuiscono in assoluto gli investimenti pubblici. Le assunzioni vengono bloccate nel 2019 in larga parte della pubblica amministrazione, con la mancata sostituzione di chi andrà in pensione e una pesante ricaduta su servizi già collassati, in particolare nella sanità. Vengono sbloccate le tasse locali, con un via libera ai Comuni per nuovi rincari di Irpef, Imu, Tasi. Si tagliano verticalmente, com'è noto, le spese per l'assistenza e l'integrazione dei migranti (dai famosi 35 euro ne vengono decurtati da 18 a 24, su affitto, pasti, biancheria, formazione).

All'altro capo della società le cose vanno diversamente. Le imprese incassano la deducibilità dell'Imu sui capannoni al 40% (Di Maio puntava al 50%), l'ulteriore abbattimento della tassa sugli utili reinvestiti, anche in contratti a termine, dal 24% al 15% (Ires), la riduzione del 32% dei contributi per gli “infortuni” sul lavoro (Inail), la liberalizzazione degli appalti senza gara entro i 150.000 euro. Le piccole imprese e i liberi professionisti incassano la flat tax al 15% sul fatturato sino ai 65.000 euro nel 2019, e ai 100.000 nel 2020. Le banche e le assicurazioni che pagano un obolo triennale di 5 miliardi, prevedibilmente scaricato sui conti correnti e sulla clientela, intascano i 70 miliardi ordinari di soli interessi annui sul debito pubblico, per di più prevedibilmente maggiorati, di due miliardi, per via dell'aumento intervenuto dello spread (divario del tasso d'interesse tra titoli pubblici italiani e tedeschi) e della fine del Quantitative Easing della BCE.

Quanto ai salariati pubblici e privati, continueranno a reggere sulle proprie spalle l'intero edificio della società borghese. Nulla muterà per loro. Continueranno a pagare l'80% del carico fiscale. Continueranno a subire la vacanza contrattuale nel settore pubblico. Continueranno a subire il Jobs act di Renzi, rimasto intatto in tutti gli aspetti essenziali, a partire dall'abolizione dell'articolo 18. Continueranno a subire il precariato (il famoso decreto dignità che doveva “abolirlo” ha esteso l'uso dei contratti a termine dal 20% al 30% dell'organico aziendale). Continueranno a lavorare nei giorni festivi nella grande distribuzione e nel commercio, visto che la promessa di cancellarli è rimasta tale. Mentre sotto la pressione delle Regioni a guida leghista, Veneto in testa, il governo ha avviato un progetto di autonomie regionali che tratterrà al Nord il grosso del residuo fiscale a scapito del Mezzogiorno, e mirerà a differenziare prestazioni e condizioni giuridiche e contrattuali del lavoro su basi territoriale. Un colpo frontale ai lavoratori e alle lavoratrici di tutta Italia.

Sino a quando? Sino a quando non si produrrà una grande ribellione sociale, di classe e di massa, che ponga l'interrogativo su quale classe governerà l'Italia: se i padroni o i lavoratori.
2 gennaio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori