♠ in Contratto per il Governo del cambiamento,Di Maio,governo,Il Sole 24 Ore,Lega,Legge Fornero,M5S,quota 100,reddito di cittadinanza,salariati,Salvini,tasse,UE
Il 27 settembre, esattamente due mesi fa, il vicepremier Luigi Di Maio annunciava l'«abolizione della povertà» dai balconi di Palazzo Chigi, mentre il suo sodale-concorrente Matteo Salvini prometteva l'abolizione della Legge Fornero, opponendo alla UE il fatidico, e già sentito, “me ne frego”.
Due mesi dopo, il contrordine. Dopo la bocciatura della Commissione Europea, dopo l'impennata dei tassi di interesse sui titoli di Stato combinata con la diserzione delle aste, dopo le pressioni del capitale finanziario e di Confindustria, il governo SalviMaio pone all'ordine del giorno la “rimodulazione” della manovra economica. Il termine è aulico, la sostanza inequivoca: "quota 100" e reddito di cittadinanza saranno entrambe oggetto di revisione.
Intendiamoci, né la Lega né il M5S possono ammainare di colpo le rispettive bandiere, tanto più alla vigilia delle elezioni europee. La confezione d'immagine sarà dunque il più possibile salvaguardata. Ma sotto la confezione, il contenuto della merce sarà ulteriormente svuotato e impoverito, nella direzione richiesta dal capitale finanziario. Il gambero allunga il suo passo, naturalmente all'indietro.
C'ERA UNA VOLTA L'ABOLIZIONE DELLA FORNERO
L'abolizione della famigerata legge Fornero è durata solamente per la campagna elettorale. Già il contratto di governo trasformava l'abolizione della Fornero in "quota 100" (somma dell'età anagrafica e contributiva). Poi la stessa “quota 100” ha visto l'introduzione del vincolo dei 38 anni di contributi, ciò che inevitabilmente alza la quota richiesta per centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, con una forte penalizzazione delle donne; e inoltre comporta un'inevitabile riduzione dell'assegno, per via dei minori contributi, per tutti coloro che andranno in pensione anticipatamente rispetto ai 67 anni (il tetto della pensione di vecchiaia stabilito dalla Fornero che resta intatto).
Ora il nuovo negoziato con la Commissione Europea trascina una nuova corsa al ribasso. Da un lato si rinvia l'entrata in vigore della riforma e si dilatano i tempi di accesso al pensionamento (le cosiddette finestre, tre mesi nel settore privato, sei nel settore pubblico) con l'obiettivo dichiarato di ridurre la spesa. Dall'altro, si mira a ridurre ulteriormente la platea degli interessati, allungando sino a cinque anni il divieto di cumulo con altre fonti di reddito. Lo scopo complessivo dell'operazione è rivelato dal quotidiano di Confindustria: «traghettare da quota 100 ai 41 anni per tutti per il 2023, quando oltre il 65% dei nuovi pensionati avranno un calcolo misto (retributivo più contributivo) e il coefficiente di trasformazione del montante in pensione a 62 anni sarà più penalizzante rendendo naturale il contenimento delle future uscite» (27 novembre). Detto in linguaggio più semplice, si punta a ridurre il ricorso alla pensione anticipata attraverso la deterrenza della “naturale” riduzione degli assegni. In altri termini, una riforma che doveva “abolire” la Fornero punta a spingere i lavoratori il più possibile a “scegliere” di andare in pensione all'età di vecchiaia prevista dalla Fornero. Mentre, in ogni caso, i giovani d'oggi restano condannati dalla riforma a un immutato destino: chi mai maturerà 38 anni di contributi, col precariato dilagante, e a quanto ammonterà una futura pensione interamente contributiva?
SI CHIAMAVA REDDITO DI CITTADINANZA
Non va diversamente col cosiddetto reddito di cittadinanza.
Nel 2013 il M5S presentava una proposta di legge che prevedeva di stanziare 17 miliardi l'anno a favore di 9 milioni di poveri, attraverso un reddito minimo di 780 euro al mese. Il famoso contratto di governo recepiva questa proposta di legge, aggiungendovi la pensione di cittadinanza per i pensionati poveri.
Poi il disegno di legge di bilancio presentato dal governo, ed oggi all'esame della Camera, ha dimezzato al piede di partenza la proposta di legge originaria: i fondi stanziati passano da 17 a 9 miliardi, la platea dei destinatari passa da 9 milioni a 5 milioni. Più precisamente, in base all'indicatore della ricchezza familiare (Isee), assunto come parametro di riferimento della povertà assoluta, si tratterebbe di 1.800.000 famiglie cui destinare mediamente 370 euro al mese.
La riduzione di cifra e platea si è combinata non a caso con una progressiva moltiplicazione di vincoli: obbligo di otto ore settimanali di lavoro gratuito presso il comune, obbligo di partecipazione a corsi di formazione, obbligo di accettazione, entro il limite di tre, delle offerte di lavoro (anche precarie, e dalla seconda offerta senza limiti distanza geografica dalla residenza), esclusione degli stranieri con meno di cinque anni di residenza. Di fatto, un incentivo al lavoro precario, nella logica della concorrenza al ribasso dei salari.
Ora il negoziato con la UE, combinato con le pressioni di Lega e Confindustria, comporta un ulteriore passo indietro. Da un lato si sposta in avanti la data di partenza del reddito (di tre mesi, probabilmente) e si parla di una sua durata sperimentale di 18 mensilità. Dall'altro, si trasforma il reddito in un incentivo per l'impresa o per l'agenzia interinale che assume il disoccupato: tre mensilità intascate dall'impresa o dall'agenzia (Di Maio), o addirittura l'intera corresponsione all'impresa dei sussidi previsti (proposta di Armando Siri, Lega). Così, dopo i 18 miliardi di sgravi contributivi regalati da Renzi per tre anni alle imprese, queste verrebbero a intascare in tutto o in parte la posta equivalente del reddito “di cittadinanza”. È l'ennesima forma di assistenza alle imprese nel nome della lotta alla povertà. Il Sole 24 Ore del 27 marzo plaude alla nuova offerta: “Reddito di cittadinanza, sgravi alle aziende”, titola festoso. Così il presidente di 4.Manager Stefano Cuzzilla: «Se confermato è un cambio di passo positivo a favore delle politiche attive che auspichiamo siano ulteriormente incentivate». I padroni sentono l'inconfondibile profumo dei soldi, e non si sbagliano.
UN GOVERNO DEI CAPITALISTI COL CONSENSO (SINORA) DELLE LORO VITTIME
Vedremo in corso d'opera lo sbocco del negoziato con la Commissione Europea e all'interno dello stesso governo. Ma la direzione di marcia è tracciata. Il “governo del cambiamento” è la finzione scenica di un governo truffa. Si cambia tutto per non cambiare nulla. Si continua a detassare le imprese, mentre i salariati reggono sulle proprie spalle l'80% del carico fiscale. Si continua a pagare il debito pubblico alle banche, con tassi di interesse oltretutto in crescita, riducendo a elemosina le concessioni sociali.
Siamo in presenza di un governo dei capitalisti con sembianze mutate. Un governo che continua a ingrassare i padroni col consenso (sinora) delle sue vittime. Fino a quando?
Il 27 settembre, esattamente due mesi fa, il vicepremier Luigi Di Maio annunciava l'«abolizione della povertà» dai balconi di Palazzo Chigi, mentre il suo sodale-concorrente Matteo Salvini prometteva l'abolizione della Legge Fornero, opponendo alla UE il fatidico, e già sentito, “me ne frego”.
Due mesi dopo, il contrordine. Dopo la bocciatura della Commissione Europea, dopo l'impennata dei tassi di interesse sui titoli di Stato combinata con la diserzione delle aste, dopo le pressioni del capitale finanziario e di Confindustria, il governo SalviMaio pone all'ordine del giorno la “rimodulazione” della manovra economica. Il termine è aulico, la sostanza inequivoca: "quota 100" e reddito di cittadinanza saranno entrambe oggetto di revisione.
Intendiamoci, né la Lega né il M5S possono ammainare di colpo le rispettive bandiere, tanto più alla vigilia delle elezioni europee. La confezione d'immagine sarà dunque il più possibile salvaguardata. Ma sotto la confezione, il contenuto della merce sarà ulteriormente svuotato e impoverito, nella direzione richiesta dal capitale finanziario. Il gambero allunga il suo passo, naturalmente all'indietro.
C'ERA UNA VOLTA L'ABOLIZIONE DELLA FORNERO
L'abolizione della famigerata legge Fornero è durata solamente per la campagna elettorale. Già il contratto di governo trasformava l'abolizione della Fornero in "quota 100" (somma dell'età anagrafica e contributiva). Poi la stessa “quota 100” ha visto l'introduzione del vincolo dei 38 anni di contributi, ciò che inevitabilmente alza la quota richiesta per centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, con una forte penalizzazione delle donne; e inoltre comporta un'inevitabile riduzione dell'assegno, per via dei minori contributi, per tutti coloro che andranno in pensione anticipatamente rispetto ai 67 anni (il tetto della pensione di vecchiaia stabilito dalla Fornero che resta intatto).
Ora il nuovo negoziato con la Commissione Europea trascina una nuova corsa al ribasso. Da un lato si rinvia l'entrata in vigore della riforma e si dilatano i tempi di accesso al pensionamento (le cosiddette finestre, tre mesi nel settore privato, sei nel settore pubblico) con l'obiettivo dichiarato di ridurre la spesa. Dall'altro, si mira a ridurre ulteriormente la platea degli interessati, allungando sino a cinque anni il divieto di cumulo con altre fonti di reddito. Lo scopo complessivo dell'operazione è rivelato dal quotidiano di Confindustria: «traghettare da quota 100 ai 41 anni per tutti per il 2023, quando oltre il 65% dei nuovi pensionati avranno un calcolo misto (retributivo più contributivo) e il coefficiente di trasformazione del montante in pensione a 62 anni sarà più penalizzante rendendo naturale il contenimento delle future uscite» (27 novembre). Detto in linguaggio più semplice, si punta a ridurre il ricorso alla pensione anticipata attraverso la deterrenza della “naturale” riduzione degli assegni. In altri termini, una riforma che doveva “abolire” la Fornero punta a spingere i lavoratori il più possibile a “scegliere” di andare in pensione all'età di vecchiaia prevista dalla Fornero. Mentre, in ogni caso, i giovani d'oggi restano condannati dalla riforma a un immutato destino: chi mai maturerà 38 anni di contributi, col precariato dilagante, e a quanto ammonterà una futura pensione interamente contributiva?
SI CHIAMAVA REDDITO DI CITTADINANZA
Non va diversamente col cosiddetto reddito di cittadinanza.
Nel 2013 il M5S presentava una proposta di legge che prevedeva di stanziare 17 miliardi l'anno a favore di 9 milioni di poveri, attraverso un reddito minimo di 780 euro al mese. Il famoso contratto di governo recepiva questa proposta di legge, aggiungendovi la pensione di cittadinanza per i pensionati poveri.
Poi il disegno di legge di bilancio presentato dal governo, ed oggi all'esame della Camera, ha dimezzato al piede di partenza la proposta di legge originaria: i fondi stanziati passano da 17 a 9 miliardi, la platea dei destinatari passa da 9 milioni a 5 milioni. Più precisamente, in base all'indicatore della ricchezza familiare (Isee), assunto come parametro di riferimento della povertà assoluta, si tratterebbe di 1.800.000 famiglie cui destinare mediamente 370 euro al mese.
La riduzione di cifra e platea si è combinata non a caso con una progressiva moltiplicazione di vincoli: obbligo di otto ore settimanali di lavoro gratuito presso il comune, obbligo di partecipazione a corsi di formazione, obbligo di accettazione, entro il limite di tre, delle offerte di lavoro (anche precarie, e dalla seconda offerta senza limiti distanza geografica dalla residenza), esclusione degli stranieri con meno di cinque anni di residenza. Di fatto, un incentivo al lavoro precario, nella logica della concorrenza al ribasso dei salari.
Ora il negoziato con la UE, combinato con le pressioni di Lega e Confindustria, comporta un ulteriore passo indietro. Da un lato si sposta in avanti la data di partenza del reddito (di tre mesi, probabilmente) e si parla di una sua durata sperimentale di 18 mensilità. Dall'altro, si trasforma il reddito in un incentivo per l'impresa o per l'agenzia interinale che assume il disoccupato: tre mensilità intascate dall'impresa o dall'agenzia (Di Maio), o addirittura l'intera corresponsione all'impresa dei sussidi previsti (proposta di Armando Siri, Lega). Così, dopo i 18 miliardi di sgravi contributivi regalati da Renzi per tre anni alle imprese, queste verrebbero a intascare in tutto o in parte la posta equivalente del reddito “di cittadinanza”. È l'ennesima forma di assistenza alle imprese nel nome della lotta alla povertà. Il Sole 24 Ore del 27 marzo plaude alla nuova offerta: “Reddito di cittadinanza, sgravi alle aziende”, titola festoso. Così il presidente di 4.Manager Stefano Cuzzilla: «Se confermato è un cambio di passo positivo a favore delle politiche attive che auspichiamo siano ulteriormente incentivate». I padroni sentono l'inconfondibile profumo dei soldi, e non si sbagliano.
UN GOVERNO DEI CAPITALISTI COL CONSENSO (SINORA) DELLE LORO VITTIME
Vedremo in corso d'opera lo sbocco del negoziato con la Commissione Europea e all'interno dello stesso governo. Ma la direzione di marcia è tracciata. Il “governo del cambiamento” è la finzione scenica di un governo truffa. Si cambia tutto per non cambiare nulla. Si continua a detassare le imprese, mentre i salariati reggono sulle proprie spalle l'80% del carico fiscale. Si continua a pagare il debito pubblico alle banche, con tassi di interesse oltretutto in crescita, riducendo a elemosina le concessioni sociali.
Siamo in presenza di un governo dei capitalisti con sembianze mutate. Un governo che continua a ingrassare i padroni col consenso (sinora) delle sue vittime. Fino a quando?
Due mesi dopo, il contrordine. Dopo la bocciatura della Commissione Europea, dopo l'impennata dei tassi di interesse sui titoli di Stato combinata con la diserzione delle aste, dopo le pressioni del capitale finanziario e di Confindustria, il governo SalviMaio pone all'ordine del giorno la “rimodulazione” della manovra economica. Il termine è aulico, la sostanza inequivoca: "quota 100" e reddito di cittadinanza saranno entrambe oggetto di revisione.
Intendiamoci, né la Lega né il M5S possono ammainare di colpo le rispettive bandiere, tanto più alla vigilia delle elezioni europee. La confezione d'immagine sarà dunque il più possibile salvaguardata. Ma sotto la confezione, il contenuto della merce sarà ulteriormente svuotato e impoverito, nella direzione richiesta dal capitale finanziario. Il gambero allunga il suo passo, naturalmente all'indietro.
C'ERA UNA VOLTA L'ABOLIZIONE DELLA FORNERO
L'abolizione della famigerata legge Fornero è durata solamente per la campagna elettorale. Già il contratto di governo trasformava l'abolizione della Fornero in "quota 100" (somma dell'età anagrafica e contributiva). Poi la stessa “quota 100” ha visto l'introduzione del vincolo dei 38 anni di contributi, ciò che inevitabilmente alza la quota richiesta per centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, con una forte penalizzazione delle donne; e inoltre comporta un'inevitabile riduzione dell'assegno, per via dei minori contributi, per tutti coloro che andranno in pensione anticipatamente rispetto ai 67 anni (il tetto della pensione di vecchiaia stabilito dalla Fornero che resta intatto).
Ora il nuovo negoziato con la Commissione Europea trascina una nuova corsa al ribasso. Da un lato si rinvia l'entrata in vigore della riforma e si dilatano i tempi di accesso al pensionamento (le cosiddette finestre, tre mesi nel settore privato, sei nel settore pubblico) con l'obiettivo dichiarato di ridurre la spesa. Dall'altro, si mira a ridurre ulteriormente la platea degli interessati, allungando sino a cinque anni il divieto di cumulo con altre fonti di reddito. Lo scopo complessivo dell'operazione è rivelato dal quotidiano di Confindustria: «traghettare da quota 100 ai 41 anni per tutti per il 2023, quando oltre il 65% dei nuovi pensionati avranno un calcolo misto (retributivo più contributivo) e il coefficiente di trasformazione del montante in pensione a 62 anni sarà più penalizzante rendendo naturale il contenimento delle future uscite» (27 novembre). Detto in linguaggio più semplice, si punta a ridurre il ricorso alla pensione anticipata attraverso la deterrenza della “naturale” riduzione degli assegni. In altri termini, una riforma che doveva “abolire” la Fornero punta a spingere i lavoratori il più possibile a “scegliere” di andare in pensione all'età di vecchiaia prevista dalla Fornero. Mentre, in ogni caso, i giovani d'oggi restano condannati dalla riforma a un immutato destino: chi mai maturerà 38 anni di contributi, col precariato dilagante, e a quanto ammonterà una futura pensione interamente contributiva?
SI CHIAMAVA REDDITO DI CITTADINANZA
Non va diversamente col cosiddetto reddito di cittadinanza.
Nel 2013 il M5S presentava una proposta di legge che prevedeva di stanziare 17 miliardi l'anno a favore di 9 milioni di poveri, attraverso un reddito minimo di 780 euro al mese. Il famoso contratto di governo recepiva questa proposta di legge, aggiungendovi la pensione di cittadinanza per i pensionati poveri.
Poi il disegno di legge di bilancio presentato dal governo, ed oggi all'esame della Camera, ha dimezzato al piede di partenza la proposta di legge originaria: i fondi stanziati passano da 17 a 9 miliardi, la platea dei destinatari passa da 9 milioni a 5 milioni. Più precisamente, in base all'indicatore della ricchezza familiare (Isee), assunto come parametro di riferimento della povertà assoluta, si tratterebbe di 1.800.000 famiglie cui destinare mediamente 370 euro al mese.
La riduzione di cifra e platea si è combinata non a caso con una progressiva moltiplicazione di vincoli: obbligo di otto ore settimanali di lavoro gratuito presso il comune, obbligo di partecipazione a corsi di formazione, obbligo di accettazione, entro il limite di tre, delle offerte di lavoro (anche precarie, e dalla seconda offerta senza limiti distanza geografica dalla residenza), esclusione degli stranieri con meno di cinque anni di residenza. Di fatto, un incentivo al lavoro precario, nella logica della concorrenza al ribasso dei salari.
Ora il negoziato con la UE, combinato con le pressioni di Lega e Confindustria, comporta un ulteriore passo indietro. Da un lato si sposta in avanti la data di partenza del reddito (di tre mesi, probabilmente) e si parla di una sua durata sperimentale di 18 mensilità. Dall'altro, si trasforma il reddito in un incentivo per l'impresa o per l'agenzia interinale che assume il disoccupato: tre mensilità intascate dall'impresa o dall'agenzia (Di Maio), o addirittura l'intera corresponsione all'impresa dei sussidi previsti (proposta di Armando Siri, Lega). Così, dopo i 18 miliardi di sgravi contributivi regalati da Renzi per tre anni alle imprese, queste verrebbero a intascare in tutto o in parte la posta equivalente del reddito “di cittadinanza”. È l'ennesima forma di assistenza alle imprese nel nome della lotta alla povertà. Il Sole 24 Ore del 27 marzo plaude alla nuova offerta: “Reddito di cittadinanza, sgravi alle aziende”, titola festoso. Così il presidente di 4.Manager Stefano Cuzzilla: «Se confermato è un cambio di passo positivo a favore delle politiche attive che auspichiamo siano ulteriormente incentivate». I padroni sentono l'inconfondibile profumo dei soldi, e non si sbagliano.
UN GOVERNO DEI CAPITALISTI COL CONSENSO (SINORA) DELLE LORO VITTIME
Vedremo in corso d'opera lo sbocco del negoziato con la Commissione Europea e all'interno dello stesso governo. Ma la direzione di marcia è tracciata. Il “governo del cambiamento” è la finzione scenica di un governo truffa. Si cambia tutto per non cambiare nulla. Si continua a detassare le imprese, mentre i salariati reggono sulle proprie spalle l'80% del carico fiscale. Si continua a pagare il debito pubblico alle banche, con tassi di interesse oltretutto in crescita, riducendo a elemosina le concessioni sociali.
Siamo in presenza di un governo dei capitalisti con sembianze mutate. Un governo che continua a ingrassare i padroni col consenso (sinora) delle sue vittime. Fino a quando?