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SINISTRA UNITA PER BOLOGNA: OVVERO IL SOCIALISMO IN UN SOLO QUARTIERE

 


Sinistra Unita a Bologna è nata per apporre, accanto all’opposizione al governo centrale (sic!) … una serie di rivendicazioni sociali di declinazione locale.

Così recita l’articolo a firma Michele Terra e Agostino Giordano comparso sull’edizione de il Manifesto il 9 settembre 2021.

Insomma, uno dei punti fermi, pare di capire, sia l’opposizione al governo centrale.

Ora accade che, in uno dei momenti più drammatici della vicenda politica e sociale del paese, che ha portato alla schiacciante vittoria delle destre e del partito post fascista di Giorgia Meloni, SU non riesca a proferire parola riguardo alla propria proposta e posizionamento politico in merito.

Questa afasia è clamorosa ma non sorprendente. Come si sarebbe dovuta schierare SU in queste elezioni?

La domanda è semplice. Purtroppo non lo è altrettanto la risposta.

I due maggiori azionisti di questa operazione politica, limitata al territorio bolognese, sono il Partito della Rifondazione Comunista e Partito Comunista Italiano.

Quando nacque SU in vista delle elezioni comunali di Bologna, vide la concorrenza all’ultimo voto di Potere al Popolo in un gioco al massacro che impedì ad entrambe le liste di ottenere un rappresentante nel consiglio comunale di Bologna. Non male per la sinistra “radicale” (ma non rivoluzionaria) che si professa un giorno si e l’altro pure unitaria e tesa solamente alla tutela delle istanzi sociali dei movimenti e delle masse popolari.

Possiamo dire che un certo vizio settario fu galeotto?

Com’è ben risaputo la realtà ha più fantasia dell’immaginazione e si diverte continuamente a scherzare con i destini delle imprese umane e a rimescolarne le carte.

Oggi infatti PRC e PaP, allora impegnate in singolar tenzone, si ritrovano a promuovere insieme Unione Popolare di De Magistris, mentre il PCI ha presentato una propria lista alle elezioni politiche.

Si può ben capire come sia difficile per SU rispondere alla domanda di cui sopra e contribuire alla costruzione di una forza che abbia una qualche base politica.

Il lavoro svolto dalle compagne e compagni eletti da SU nei quartieri è indubbiamente utile a portare alla attenzione della cittadinanza alcune questioni di carattere locale che coinvolgano gli interessi degli strati popolari di quelle zone.

A volte, occorre dirlo, queste rivendicazioni hanno un ambito estremamente limitato al territorio e a nostro parere quasi marginali nell’ordine degli interessi della popolazione. In ogni caso si tratta di un lavoro che dimostra un impegno profuso all’insegna di un onesto civismo.

Si, ma che fine fa la lotta di classe? Carovita, vertenze, licenziamenti, repressione, colpiscono duramente la classe lavoratrice. Anche quella che abita i quartieri così ben presidiati, per altro, dalle suddette compagne e compagni. Tuttavia, proprio nel momento in cui lavoratrici e lavoratori sono disposti a prestare attenzione ad argomenti che riguardino da vicino le loro condizioni di vita, SU perde la parola, non sa che dire!

Ciò che fa difetto a SU non è l’abnegazione delle e dei propri militanti, ma la base politica stessa su cui si sono aggregati, la chiarezza di posizioni, i principi che li tengono uniti: il progressismo civico riformista di De Magistris, o il riformismo nostalgico dei simboli del vecchio PCI stalinista? O cosa?

Il 9 aprile 2021 alcune compagne e compagni di diversa provenienza partitica e politica firmano un appello comune per fare “qualcosa di sinistra” per Bologna. Potremmo oggi ribadire loro la stessa richiesta, dite qualcosa di sinistra (!), rispetto all’avvento delle destre al governo ed il magro risultato delle liste di sinistra che si sono presentare alle elezioni.

Ma non sentiamo nulla. In attesa di qualche parola aggiungiamo noi una domanda. Qual è la base politica di questo appello? Le parole dell’appello erano piene di buona volontà: “Non bastano le belle parole vuote dei nuovisti di turno, che comunque non muovono masse di voti (al massimo di preferenze), e un linguaggio da slang post moderno (dalla rivoluzione e transizione green alla resilienza), mentre si dimentica ogni discorso politico che abbia come perno il mondo del lavoro, gli studenti, i pensionati, l'ambiente sottratto alla speculazione, i diritti sociali e civili; quelli che una volta erano i temi centrali del popolo della sinistra, ovvero del blocco sociale che si era costruito nei decenni del secondo dopoguerra.

In altro punto leggiamo: “…sarebbe positivo il rilancio di una politica larga di unità d’azione, come è stata la manifestazione del 18 febbraio 2021), a Roma, in occasione della fiducia al governo e che ha visto insieme Prc, Pap, Pcl, Pci e tanti altri ancora.”

I propositi sono condivisibili, ancora oggi. Tuttavia non ci pare che a queste intenzioni abbiano seguito fatti conseguenti.

Infatti attendiamo dalle compagne e compagni di SU, e anche da quelli di PaP, una risposta alla nostra lettera aperta del 26 ottobre 2022 significativamente intitolata: LETTERA APERTA ALLE COMPAGNE E AI COMPAGNI DI SINISTRA UNITA E POTERE AL POPOLO COSTRUIAMO L’UNITA D’AZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI CHE FANNO RIFERIMENTO ALLA CLASSE LAVORATRICE (https://pcl-bologna.blogspot.com/2021/10/lettera-aperta-alle-compagne-e-ai.html),

L’abbiamo spedita loro all’indomani delle elezioni comunali che non hanno visto purtroppo nessun eletto nel consiglio di Bologna da parte di entrambe le forze politiche (che hanno finito inspiegabilmente per sottrarsi reciprocamente i voti).

Questo silenzio, questa mancata risposta, allora era sconcertante, oggi è assordante.

Possiamo fare delle ipotesi sui motivi sperando di essere clamorosamente smentiti: distrazione, supponenza, gelosia di organizzazione che sconfina nel settarismo? Soprattutto SU non si proponeva, fin dal nome di essere una forza che almeno sul territorio bolognese, era capace di aggregare attivisti e simpatizzanti di diversa esperienza?

Se andiamo a guardare i firmatari dell’appello notiamo che tra di essi figurano compagni attivi oggi nel PCL, compagni che hanno scelto di militare solo in ambito sindacale e compagni che sono per così dire “tornati a casa”. Proprio sul terreno su cui si è costruita SU c’è stato lo smottamento!

Questo esito, tuttavia non è casuale.

Quell’esperienza è stata costruita da compagne e compagni che in una campagna elettorale (quella per le comunali) hanno combattuto l’altra lista della sinistra all’opposizione al PD, e nella successiva, le elezioni politiche del 25 settembre 2022, si sono divisi per allearsi una parte con i vecchi concorrenti (PRC e PaP insieme in Unione Popolare) e l’altra parte nella presentazione di una lista loro concorrente a livello nazionale, il PCI.

Questi continui sbandamenti, queste vertiginose oscillazioni che costringono al silenzio imbarazzato, sono proprio ciò è quello che succede a organizzazioni che si formano senza basi politiche reali.

Da parte nostra rilanciamo come sempre la necessità della massima unità d’azione tra le forze che si richiamano al movimento operaio, nella prospettiva della costruzione del fronte unico della classe lavoratrice sulla base di una vertenza generale unificante, l’unico in grado di fronteggiare l’attacco di destre e padronato, la crisi del capitalismo, l’economia di guerra e aprire la possibilità dell’alternativa anticapitalista.

Aspettiamo fiduciosi una risposta, sulle stesse basi politiche che esprimemmo un anno fa nella nostra lettere aperta.

Arrivederci a presto compagne e compagni

Partito comunista dei Lavoratori

Sez. di Bologna

Il PCL nelle elezioni per il Senato in Liguria

 


Di fronte a una normativa elettorale particolarmente antidemocratica per i tempi imposti, e considerando l'importanza di una presenza dei marxisti rivoluzionari alle elezioni su scala nazionale, avevamo proposto a diverse sinistre classiste (Fronte della Gioventù Comunista, Sinistra Anticapitalista, SCR, Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria) un'alleanza elettorale capace di garantire tale presenza. La nostra proposta unitaria è stata purtroppo respinta. Di conseguenza, nei tempi previsti, il PCL ha potuto presentarsi al voto solamente in Liguria al Senato.


Il bilancio di questa esperienza per il partito ligure è stato positivo. In contrapposizione ai partiti borghesi, e a differenza di Sinistra Italiana e di Unione Popolare, abbiamo posto al centro della nostra campagna l'esigenza di una rappresentanza politica indipendente dei salariati e un programma apertamente anticapitalista per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. Non è un programma “elettorale”, è il programma per cui ci battiamo ogni giorno in ogni lotta. Semplicemente, a differenza di altri, non rinunciamo a presentarlo anche alle elezioni. Non disertiamo questo terreno di propaganda di massa. Non rinunciamo a usare la tribuna borghese, fosse pure nelle condizioni più sfavorevoli, per presentare una prospettiva rivoluzionaria. È l'insegnamento elementare del leninismo.

Sotto il profilo strettamente elettorale abbiamo registrato in Liguria un netto progresso rispetto alle elezioni politiche del 2018. Nel 2018, in alleanza con Sinistra Classe Rivoluzione nella lista “Per una sinistra rivoluzionaria”, prendemmo 1500 voti a livello regionale (0,17%). Nel 2022 come Partito Comunista dei Lavoratori, con la piena riconoscibilità del nostro simbolo, abbiamo preso 4380 voti (0,66). Abbiamo cioè triplicato. Ovviamente resta un risultato molto modesto, nel quadro complessivo della perdurante crisi della sinistra politica che le elezioni hanno confermato. Ma resta la sua positività.

L'aspetto più importante, al di là del risultato, ha riguardato la campagna condotta, sia in termini di proiezione mediatica sulle tv e radio locali, con contenuti dichiaratamente di classe, sia soprattutto in termini di volantinaggio sulle fabbriche. Pur con forze molto piccole, il partito ha coperto tutte le principali fabbriche della regione (ex Ilva e Ansaldo a Genova, gli stabilimenti di Fincantieri a Riva Trigoso e a La Spezia, la Oto Melara di La Spezia, la Bombardier di Savona, la Piaggio di Albenga, le vetrerie della Val Bormida). È un intervento al quale daremo stabilità e continuità mensile con la diffusione del volantino periodico nazionale.

La campagna elettorale ci ha consentito di guadagnare alcune nuove adesioni al PCL e diversi nuovi contatti, anche a livello operaio (Oto Melara), che cercheremo di far aderire al partito. In altri termini, nel nostro piccolo, con le difficoltà che ben conosciamo, la campagna elettorale è stata un fattore di costruzione e consolidamento del nostro partito in Liguria. È la conferma una volta di più del metodo leninista: non rinunciare mai, battersi sempre per le proprie idee su ogni terreno.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il significato del 25 settembre

 


La vittoria della destra reazionaria postfascista. La necessità di un partito indipendente della classe lavoratrice

27 Settembre 2022

A fronte di un salto dell'astensione, particolarmente marcata nel Sud e nelle periferie urbane, la destra è l'indiscussa vincitrice delle elezioni del 25 settembre. La sua coalizione amplia considerevolmente la percentuale del 2018 (dal 37% al 44%) e consegue la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere. Dunque si prepara a governare l'Italia.
Il fatto che a un secolo esatto dalla marcia su Roma gli eredi postfascisti di quella storia assumano le redini del governo è tristemente significativo. Non allude alla prossimità di un regime ma certo introduce una netta torsione reazionaria, contro diritti civili, democratici, sociali.

Fratelli d'Italia (26%) capitalizza il proprio ruolo di opposizione nel decennio, la presunta novità di Giorgia Meloni, le crescenti contraddizioni del blocco sociale leghista, ma soprattutto il vuoto dell'opposizione di classe negli anni cruciali della pandemia e della crisi sociale (per responsabilità preminente della burocrazia sindacale).
All'interno del centrodestra regge la ridotta di Berlusconi, nonostante la scissione dei ministri uscenti, mentre Salvini paga il prezzo del proprio coinvolgimento di governo. La pressione dei governatori del Nord per l'ingresso della Lega nel governo Draghi ha presentato il conto al segretario della Lega, che dentro la vittoria del centrodestra è il grande sconfitto di queste elezioni (8,9%). Il fatto che Fratelli d'Italia abbia doppiato la Lega in Veneto misura simbolicamente l'entità della frana e la sua valenza politica. Vedremo se questo avrà ricadute nella vita interna della Lega.

Il Partito Democratico (19%) torna elettoralmente nei pressi del minimo storico del 2018, pagando la continuità del proprio ruolo di partito centrale dell'establishment nell'ultimo decennio. La linea ondivaga e indecifrabile della sua leadership, tra campo largo col M5S e asse draghiano con Calenda, ha ulteriormente appannato la sua immagine. L'impostazione bipolare della campagna elettorale (“O noi o la Meloni”) si è scontrata con l'assenza di una coalizione larga, mentre lo sventolio dell'agenda Draghi si è arenato nella rottura di Calenda.
È rimasto il profilo di un partito (formalmente) attento ai diritti civili ma sprovvisto di ogni proposta sociale appetibile, o anche semplicemente decifrabile, agli occhi della larga massa popolare. Un liberalismo borghese senza popolo, per di più gravato dall'eredità di tutto il peggio delle politiche di austerità e sacrifici. Ora la sconfitta elettorale ricadrà pesantemente sul PD, prevedibilmente diviso tra l'opzione di rilancio dell'asse liberale progressista col M5S e quella di un asse liberalconfindustriale col "terzo polo". Il ritiro annunciato di Letta in vista del prossimo congresso è solo l'inizio della valanga.

Il Movimento 5 Stelle (15,6%) ha realizzato una rimonta indubbia negli ultimi due mesi, rispetto al tracollo vissuto durante la legislatura. Il 32% del 2018 è naturalmente un ricordo lontano, ma il M5S ha riguadagnato il 15% su scala nazionale, il primato in diverse regioni del sud d'Italia, un pacchetto di collegi uninominali.
Conte ha capitalizzato diversi fattori tra loro combinati. Ha occupato lo spazio liberato a sinistra del PD dal corso draghiano di Letta, rivendicando la rappresentanza delle istanze sociali (reddito di cittadinanza, salario minimo). Ha investito nella propria riconoscibilità popolare di ex Presidente del Consiglio, a fronte del profilo algido e aristocratico di Mario Draghi. Ha beneficiato della scissione di Di Maio, rilanciando il mito di un ritorno alle origini, seppur corretto da una curvatura “di sinistra”. Ha soprattutto per questa via conquistato il M5S, marginalizzando progressivamente il ruolo di Grillo e assumendo la tolda di comando, ormai indiscusso, del Movimento.
Ora la sconfitta del PD e le sue contraddizioni laceranti offrono al M5S uno spazio di consolidamento del proprio risultato e della nuova collocazione, peraltro agevolato non solo dal PD ma dalla crisi della sinistra politica e della sua subalternità a un approccio civico democratico.

Il risultato complessivo delle sinistre politiche registra il perdurare della loro crisi, riflesso di una crisi del movimento operaio cui hanno concorso e concorrono in modo determinante.

Sinistra Italiana ha guadato la soglia del 3% ma dentro una coalizione col PD liberale, confermando il cordone ombelicale che la subordina a quel partito. Il suo ruolo parlamentare sarà quello di rilanciare il campo largo coi liberali e col M5S in chiave di “fronte popolare democratico”.
Sul versante opposto, il blocco di Rizzo con organizzazioni sovraniste reazionarie nell'illusione di un possibile approdo istituzionale ha conosciuto una netta sconfitta. Dell'operazione tricolore di Italia Sovrana e Popolare resta la destrutturazione del PC.
Unione Popolare, com'era prevedibile, ha mancato largamente l'obiettivo del quorum (1,4%). Attribuire l'esito esclusivamente ai tempi brevi delle elezioni significa mettere la testa sotto la sabbia. La verità è che tutta l'operazione è stata costruita lungo un cliché abbondantemente sperimentato: la vecchia illusione di poter riguadagnare una presenza parlamentare nascondendo la propria identità sotto i panni di una lista civica di cittadini democratici. La figura di De Magistris, come a suo tempo quella di Ingroia, ha simboleggiato l'operazione, dandole un carattere personalistico in questo caso ancor più marcato. La proposta insistita di un accordo col M5S era figlia di questa stessa impostazione. La suggestione di replicare l'operazione Mélenchon, al netto di ogni considerazione su quest'ultimo, prescindeva totalmente dalla diversità della dinamica di classe nei due paesi, affidandosi a un richiamo retorico privo di basi materiali.
Il tentativo ora di rilancio di Unione Popolare da parte di De Magistris per una «alternativa etica, culturale, sociale, economica e politica nelle istituzioni» nel nome di «una forza credibile e vera di sinistra, pacifista, ambientalista, per i diritti civili, che operi con rigore l’attuazione della Costituzione antifascista» conferma la continuità di una logica cittadinista, estranea alla centralità della lotta di classe e della rappresentanza del lavoro salariato.

Il nodo centrale resta questo, tanto più oggi: la costruzione di un partito della classe lavoratrice, indipendente da tutti i partiti borghesi, capace di ricondurre le lotte di resistenza a una prospettiva anticapitalista. È il partito che manca, l'unico di cui i lavoratori e le lavoratrici hanno bisogno.
La stessa astensione dal voto di ampi settori di salariati è la registrazione indiretta di un vuoto di rappresentanza. È questo il tema che il PCL ha posto in questa stessa campagna elettorale, anche laddove abbiamo potuto essere presenti, cioè alle elezioni del Senato in Liguria. Naturalmente non potevamo riempire noi con le nostre forze il vuoto enorme di rappresentanza del movimento operaio, tanto più in una sola regione. Siamo un piccolissimo partito, che in Liguria ha riportato un risultato assai modesto (anche se triplicato rispetto al 2018, passando da 1500 voti a 4380), ma siamo stati e siamo l'unica organizzazione che pone al centro della propria azione e proposta la ricostruzione di un partito del lavoro su un programma anticapitalista. E che da oggi rilancerà questa proposta nel vivo delle lotte contro l'annunciato governo a guida postfascista. Per la preparazione di un vero sciopero generale.

Solo un'irruzione sul campo della classe lavoratrice, con un ampio fronte unitario di massa, può alzare un argine contro il nuovo governo, allargare le contraddizioni del blocco sociale reazionario, capovolgere i rapporti di forza, aprire dal basso uno scenario nuovo. Il PCL sarà come sempre in prima fila nella ricostruzione di una opposizione di classe e di massa, per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Partito Comunista dei Lavoratori

Donne, vita, libertà


Un vento di rivolta delle donne attraversa le città iraniane

25 Settembre 2022

“Donne, vita, libertà” è la parola d'ordine che percorre in questi giorni decine di città iraniane contro il regime teocratico. La scintilla della ribellione è stata l'omicidio di Mahsa Amini da parte della polizia religiosa del regime, un corpo repressivo preposto alla vigilanza della legge islamica, particolarmente accanito contro le donne.

Il velo islamico in Iran non solo è un obbligo di legge, ma deve essere indossato in modo tale da coprire interamente i capelli. Mahsa Amini ha pagato con la vita a 22 anni la ciocca di capelli che fuoriusciva dal velo. Trascinata su un cellulare della polizia, è stata bastonata selvaggiamente al capo, sino a causare prima l'emorragia celebrale e poi la morte dopo tre giorni di agonia. Il padre non ha ottenuto il diritto di vedere il corpo della figlia, né peraltro è stata condotta alcuna autopsia sul cadavere.

Il velo islamico è uno strumento di oppressione, ma anche un simbolo della dittatura dei mullah. Una dittatura odiosa particolarmente misogina. Ad esempio le donne non hanno neppure il diritto di bagnarsi in costume sul Mar Caspio, laddove gli uomini possono esibire il torso nudo. L'indottrinamento islamico procede sin dalla tenera età attraverso specifiche scuole coraniche rivolte in primo luogo alle donne. “Una donna che porta il velo è come una perla nella sua conchiglia” recita la dottrina di regime. Come dire che il velo avrebbe la funzione di proteggere la femminilità, altrimenti violata dallo sguardo altrui. Ogni religione è al fondo misogina. Ma quando si trasforma nel fondamento del potere politico assume caratteri particolarmente ipocriti e odiosi.

La ribellione in atto nelle città vede protagoniste assolute della piazza proprio le donne, le donne della giovane generazione. Chiedono la punizione degli assassini di Masha e lo scioglimento della polizia religiosa. Chiedono soprattutto la caduta del regime.
Non si tratta della prima ribellione che attraversa l'Iran dei mullah. Nel 2009 un movimento di massa ( la cosiddetta “onda verde”) guidato da forze liberali rivendicò la democratizzazione del regime. Dieci anni dopo, nel 2019, si levò una mobilitazione popolare contro l'aumento della benzina e il carovita. In entrambi i casi il regime teocratico scagliò contro i manifestanti i propri apparati di sicurezza, a partire dai cosiddetti Guardiani della rivoluzione, facendo centinaia di morti. Il fatto nuovo della ribellione attuale è che non chiede riforme, né è incanalata dall'ala borghese liberale della politica iraniana. È una rivolta che cozza frontalmente col regime in quanto tale, sfida proiettili, lacrimogeni, arresti, in qualche caso assalta le stazioni di polizia e prende il controllo di cittadine o quartieri, come a Oshnavieh, città di confine a prevalenza curda, da due giorni controllata dai rivoltosi.

La Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità religiosa, e il governo conservatore di Raisi, hanno denunciato i manifestanti come agenti degli USA e della UE, secondo il registro propagandistico abituale, rivendicando un trattamento senza pietà dei manifestanti da parte dei corpi speciali, e mobilitando la propria base militante attraverso le moschee, con tanto di centinaia di donne coperte dal velo e vestite di nero che gridavano “morte all'America”.

Nessuna meraviglia. Ogni regime reazionario di massa, a maggior ragione se teocratico, ricorre alla mobilitazione attiva delle proprie forze contro “il nemico”, identificando con quest'ultimo ogni ribellione al proprio dominio.
Inutile aggiungere che diverse forze e correnti campiste in Occidente, anche di "estrema sinistra", credono alle favole della teocrazia iraniana vedendo ovunque le marionette USA e negando ogni autenticità alle rivolte di massa. Sino magari ad attribuire al velo islamico un'espressione di emancipazione e libertà. Perché pure questo si è dovuto ascoltare.

Ma la ribellione delle donne iraniane non c'entra nulla con gli imperialismi d'Occidente, e con le loro possibili speculazioni. È semplicemente una ribellione per la libertà e contro l'oppressione. Sta alla classe operaia iraniana, anch'essa duramente repressa dal regime, prendere la testa della ribellione, allargare la sua base di massa, indirizzarla verso il rovesciamento del regime in direzione di un governo operaio e popolare. Sta al movimento operaio d'Occidente fornire la propria solidarietà alla rivolta delle donne iraniane.

Partito Comunista dei Lavoratori

 

La casa e l'incendio

 


L'emergenza delle bollette e il balbettio delle sinistre

22 Settembre 2022

“Fuori la casa brucia, e nessuno riesce a spegnere l'incendio” (Il Sole 24 Ore). È una descrizione esatta dell'impasse borghese sul fronte bollette

LA RISSA IN EUROPA TRA I DIVERSI INTERESSI NAZIONALI

I governi capitalistici dell'Unione Europea si azzuffano a difesa dei rispettivi interessi nazionali. L'esatto opposto della rappresentazione sovranista di una UE onnipotente e compatta. Il famoso prezzo massimo del gas, imprudentemente annunciato con squilli di tromba, si arena sulla paura tedesca di una completa cessazione del rifornimento russo, sull'interesse della Norvegia a massimizzare l'incasso delle proprie forniture sempre più determinanti, sulla volontà dell'Olanda di preservare la centralità del mercato finanziario e della libertà di speculazione. Né si capisce a chi verrebbe applicato il tetto, se solo al gas russo o all'insieme dei fornitori. Nel primo caso, una nuova sanzione che può bloccare totalmente l'importazione dalla Russia, con grande scorno di Bonn. Nel secondo, l'incognita delle reazioni sul mercato globale dell'energia, col rischio di compromissione di tanti accordi nazionali di rifornimento sostitutivo, in Nord Africa e in Medio Oriente.

La risultante europea del braccio di ferro che si va profilando è al tempo stesso fumosa e indicativa. Sembra che i produttori di elettricità con altre fonti rispetto al gas avranno la possibilità di incassare sino alla quota di 200 euro a megawatt, devolvendo il resto a un fondo comune di “solidarietà”, non si capisce ancora da chi controllato e amministrato e con quale meccanismo di funzionamento. Fermo restando che i consumatori continueranno a pagare il prezzo pieno. I produttori gas oil (gas, carbone, petrolio, raffinerie) dovranno pagare solamente il 33% della quota dei loro profitti che eccede del 20% il tasso di profitto medio dell'ultimo triennio, quale “contributo temporaneo”.
In altri termini, i sovraprofitti giganteschi delle compagnie resteranno intatti almeno per due terzi, nel momento in cui precipita la crisi sociale e s'alza il vento di una recessione annunciata (senza contare il fatto che persino questa minimisura potrebbe saltare per via del principio dell'unanimità decisionale al posto della cosiddetta maggioranza qualificata).

In compenso gli stessi governi che non riescono a imporre un tetto ai prezzi prospettano misure concordate di razionamento. I lavoratori e le lavoratrici del continente pagheranno dunque due volte: con la perdita secca e ulteriore del proprio salario, e con la nuova austerità dei consumi. Nei fatti vengono chiamati a pagare l'intreccio inestricabile della dipendenza capitalistica dalle energie fossili; degli effetti della guerra economica tra imperialismi NATO e imperialismo russo, con l'inevitabile trascinamento delle controsanzioni; della speculazione del capitale finanziario sulle fonti energetiche liberalizzata dalle nuove regole del 2013 (che allineano al prezzo più alto le altre fonti). È il cappio che l'Unione dei capitalismi europei stringe al collo dei proletari del continente.


IL FRONTE INTERNO DELLE BOLLETTE. CHI PAGA?

L'impasse della “soluzione europea” si riverbera sul fronte interno italiano, con le complicazioni aggiuntive della crisi politica e della campagna elettorale.

Tutti gli attori politici evocano oggi un blocco nazionale delle bollette, ma si guardano dal dire a chi presentano il conto dell'operazione.

La tassa del 25% sugli extraprofitti è stata semplicemente respinta dalle grandi compagnie. Persino sul terreno legale. I dieci miliardi contabilizzati per finanziare la miseria della riduzione di 30 centesimi sulla benzina e l'elemosina dei 200 euro una tantum si sono ridotti a un miliardo. Nel migliore dei casi potranno raddoppiare o forse triplicare. Ma almeno due terzi del gettito verranno mancati.
Un alto funzionario dello Stato, naturalmente anonimo, confida a La Stampa (14 settembre) che le imprese in questione «hanno pagato un prezzo in Borsa» per questa vicenda e che dunque non si può torchiarle ulteriormente, se si vuole tutelare la libertà del mercato e della concorrenza. Un dolore davvero commovente per chi ha intascato 40 miliardi di extraprofitti in sei mesi.
Quanto all'indagine della Procura di Roma a seguito dell'esposto (elettorale) di Sinistra Italiana, l'unica cosa certa è... la richiesta di informativa rivolta alla Guardia di Finanza. «Non ci sono indagati e il procedimento non prevede un reato», precisa La Stampa. L'evasione fiscale dichiarata dei grandi gruppi capitalistici resterà dunque impunita, a differenza di quella dei poveracci. Oltre al fatto che l'accordo di Sinistra Italiana col PD (che Bonelli chiarisce “è di governo”) condanna al binario morto l'operazione pubblicitaria.

Dunque? Se bisogna bloccare le bollette, e gli extraprofitti sono di fatto risparmiati, la coperta davvero si fa corta. E investe la natura stessa dell'operazione.
Le organizzazioni padronali chiedono al governo di provvedere a coprire i propri costi energetici: se le risorse sono poche siano destinate alle imprese, in particolare del settore energivoro. Alle famiglie si penserà in futuro. Confindustria si è coperta su quel fronte con la proposta dell'abbattimento del cuneo fiscale, subito recepita da tutti i partiti borghesi (e non solo). Una mensilità in più in busta paga attraverso il taglio dei contributi previdenziali... scaricata sulla fiscalità generale o sul taglio delle spese sociali. In entrambi i casi sui lavoratori. È il modo con cui i padroni vogliono scongiurare le rivendicazioni salariali trascinate dal caro bollette. Il fatto che tutti a sinistra convergano sul “taglio del cuneo”, rimuovendo la battaglia salariale, misura la loro subalternità non solo al sistema capitalista ma all'operazione truffaldina del padronato. Oltre che alla burocrazia sindacale.

Detto questo, i partiti borghesi non sanno come conciliare la propria fedeltà al padronato con la logica delle promesse elettorali, e le proprie promesse elettorali con lo scenario drammatico d'autunno. Tutti propongono un'ulteriore detassazione dei redditi da capitale. Le destre annunciano la flat tax (al 15%, al 23%, sul reddito incrementale...), il M5S l'abolizione totale dell'Irap (che finanzia la sanità pubblica), il PD la continuità delle decontribuzioni per i nuovi assunti... Con quali risorse allora finanziare il blocco bollette?


LA TRUFFA DELLO SCOSTAMENTO DI BILANCIO O DELL'EXTRAGETTITO IVA

La Lega e il M5S propongono uno scostamento di bilancio, cioè un nuovo indebitamento pubblico col capitale finanziario da ripagare alle banche con tanto di interessi (oggi assai maggiorati). Si tratta non di una misura sociale, come provano a rappresentarla, ma di un nuovo carico sul lavoro salariato, su pensioni, sanità, istruzione, lavoro. Il fatto che Sinistra Italiana e persino Unione Popolare aprano allo scostamento di bilancio dimostra la loro incapacità di uscire da una logica di governo borghese dell'economia capitalista.

Ma fare oggi nuovo debito pubblico è un problema paradossalmente per lo stesso Stato borghese. Nel momento del rialzo dei tassi, di un arresto dell'acquisto titoli da parte della BCE, del negoziato sul nuovo Patto di stabilità, del minacciato tetto massimo di titoli di Stato nel portafoglio delle banche, dell'annunciato rientro dall'enorme indebitamento aggiuntivo accumulato a partire dalla pandemia, fare nuovo debito rappresenta obiettivamente un'incognita per il capitalismo italiano. Se i creditori, non sentendosi garantiti, cominciassero a disfarsi dei titoli italiani o semplicemente cessassero di acquistarli, lo Stato dovrebbe offrire alle banche interessi sempre più alti alimentando una spirale rischiosa. Da qui la ritrosia di Draghi e, a rimorchio, della stessa Meloni, a imboccare questa strada. Chi governa oggi, chi probabilmente domani, non vuole avventurarsi in un mare ignoto.
Peraltro Meloni sa bene che fare uno scostamento di bilancio al piede di partenza della legislatura significherebbe bruciare ogni spazio residuale di manovra per finanziare le promesse elettorali. Meglio non sparare tutte le cartucce al primo colpo. Il nuovo debito resta dunque l'ultima ratio in caso di necessità. La conclusione cui pervengono non a caso PD, Calenda e... De Magistris.

Ma allora chi paga? Due sono le voci reclamizzate.

La prima è il cosiddetto extragettito fiscale, cioè i maggiori incassi dell'IVA grazie all'inflazione. Che è come dire che l'inflazione ammazzasalari diventa la fonte di finanziamento del blocco tariffe. Una sorta di partita di giro. E siccome il blocco riguarderà soprattutto i costi energetici delle imprese, si tratterà di un nuovo trasferimento di ricchezza a vantaggio dei profitti e a spese dei salariati, mentre le imposte indirette, per loro natura regressive (paga di più chi ha di meno) resteranno intatte e semmai verranno accresciute.

La seconda è inevitabilmente la spesa sociale. Lo è ovunque. In Francia Macron finanzia le misure anti-inflazione col rilancio dell'attacco alle pensioni. In Gran Bretagna il grande investimento sul fronte bollette (per un valore di 180 miliardi di euro) è finanziato sia col nuovo indebitamento pubblico sia col taglio verticale delle protezioni ambientali. In Italia? Entrano nel mirino il misero reddito di cittadinanza, la spesa sanitaria (che cala da qui al 2026 in relazione al PIL), il sistema pensionistico (dove nessun partito borghese mette in discussione il ritorno secco alla legge Fornero, salvo forse definire una finestra di uscita anticipata con la pensione tagliata). Mentre si riapre la stagione della spending review a caccia di detrazioni e deduzioni da eliminare, non a caso falcidiate da tutte le ipotesi di flat tax.


PER UN PROGRAMMA D'EMERGENZA DELLA CLASSE OPERAIA

È necessario allora contrapporre alle “soluzioni” borghesi una soluzione proletaria del problema. Inevitabilmente anticapitalista e basata sulla mobilitazione.

Il blocco delle tariffe di gas luce benzina dev'essere immediato, ed esteso ai beni alimentari.
Va finanziato con la requisizione forzosa, immediata, integrale, dei 40 miliardi degli extraprofitti delle compagnie energetiche, che vanno nazionalizzate senza indennizzo e poste sotto controllo sociale; con la requisizione degli extraprofitti non meno sostanziosi accumulati dalle banche, dalle assicurazioni, dall'industria farmaceutica, dall'industria militare, dalla stessa industria alimentare; con una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco (quattromila grandi patrimoni finanziari sopra il milione di euro) che procurerebbe 400 miliardi, il doppio di quanto offerto a debito dal Recovery plan.

Va aperta una grande battaglia per l'aumento dei salari, che si metta sulla scia delle lotte salariali emergenti in Gran Bretagna, in Francia, negli Stati Uniti, con la richiesta di un aumento netto di 300 euro, e la riconquista della scala mobile dei salari. Oggi siamo in presenza della rincorsa tra prezzi e profitti: va spezzata col recupero dei salari.

Va sviluppato un grande piano di investimento nelle energie rinnovabili, non affidato al libero gioco degli incentivi di mercato ai privati ma programmato dallo Stato. L'investimento pubblico concentrato nell'enorme potenziale dell'eolico e del solare garantirebbe oltretutto tempi più brevi e certi di qualsiasi alternativa fossile, e contrasterebbe la logica suicida del puro rimpiazzo del fossile col fossile, lungo una china distruttiva. La cancellazione del debito pubblico verso le banche, con la loro relativa nazionalizzazione, assieme all'abbattimento delle spese militari, darebbe alla svolta ecologica il necessario sostegno finanziario. Altro che scostamento di bilancio.

Queste misure non sono compatibili con l'attuale ordine borghese. Ma sono al tempo stesso necessarie se si vuole realizzare una svolta vera. Per questo vanno incorporate alla battaglia d'autunno che si prepara. All'emergenza invocata dal padronato va contrapposto un programma di emergenza della classe operaia.

La lotta per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici è l'unica vera risposta alla crisi delle bollette. Oltretutto l'unica via per strappare, cammin facendo, risultati parziali. Rinunciare a questa prospettiva anticapitalista significa rassegnarsi alla logica dei rattoppi, che serve solo a preservare il vecchio mondo proprio nel momento della sua rovina.

Partito Comunista dei Lavoratori

Gli armatori non pagano tasse

 


Quando la legge promuove l'evasione fiscale dei capitalisti

21 Settembre 2022

La denuncia dell'evasione fiscale infiocchetta le campagne elettorali. L'attuale non fa eccezione. Tuttavia occorre intendersi quando si parte di evasione fiscale. Se si intende la grande evasione in senso proprio, quella che coinvolge gli oltre 100 miliardi l'anno, essa passa attraverso i normali canali dell'economia capitalista: imboscamento dei capitali grazie a banche compiacenti, sfruttamento del lavoro nero, intrecci con criminalità e malavita, in particolare nella giungla degli appalti e dei subappalti... Questa evasione è una branca dell'economia borghese di ogni tempo, particolarmente fiorente in epoche di crisi.

Ma esiste un'evasione fiscale a norma di legge, e anzi promossa dalla legge. È quella che domina il capitalismo italiano (e non solo) degli ultimi trent'anni. Mentre tutta la grande stampa parla di “insostenibile pressione fiscale” e tutti i partiti borghesi fanno a gara nel promettere la riduzione delle tasse, la tassazione dei redditi da capitale è in picchiata da venti anni, e quella sui redditi di lavoratori e pensionati è in salita.

Lavoratori e pensionati reggono sulle proprie spalle più dell'80% del carico fiscale complessivo. Il gettito dell'Irpef è in costante crescita dal 2008, sia in termini di prelievo nazionale che di addizionali regionali. In compenso le tasse sui profitti (Ires e Irap) hanno conosciuto una riduzione progressiva. I profitti delle grandi imprese (con oltre 500 dipendenti) passano dal 28,5% di imposta nel 2008 al 22,7% nel 2016. Quelle delle imprese medie (tra i 100 e i 500 dipendenti) passano dal 38% di tassazione del 2008 al 31,7 del 2016. In entrambi i casi il calo è proseguito negli anni successivi, in particolare con l'abbattimento dell'Irap.

Non solo. Le flat tax, promessa scandalosa della destra, sono un regime diffuso da decenni quando si parla di profitti e rendite. L'Ires, passata in un primo tempo dal 34% al 27,5% (nella legge finanziaria del 2007 di Romano Prodi e Paolo Ferrero), e successivamente portata al 24%, è una tassa piatta. L'aliquota è fissa indipendentemente dall'entità del profitto su cui applica. Così la tassa del 12,5% sugli interessi dei titoli di Stato, un'altra tassa piatta. Il prelievo è lo stesso sui BTP di un povero pensionato e sulla rendita finanziaria miliardaria di grandi banche. Non è un caso se tutti i redditi di capitale sono sottratti all'Irpef. Ed è significativa la complicità al riguardo di tutti i partiti borghesi, sia di quelli che vogliono un'estensione del privilegio fiscale dei ricchi a scapito del lavoro sia di quelli che a parole lo contestano ma difendono nei fatti il sistema vigente.

Ma c'è di più. I più grandi gruppi capitalisti che superano il fatturato di 10 miliardi hanno un regime fiscale separato. Negoziano direttamente con lo Stato le tasse da pagare. La cifra pattuita è forfettaria, e normalmente assai generosa. Il gruppo Campari e le grandi industrie alimentari del made in Italy sono al riguardo casi di scuola.

Poi ci sono settori capitalistici particolari che godono di vere e proprie esenzioni fiscali. È il caso degli armatori. L'Europa capitalista ha un ruolo guida in fatto di navi mercantili. Per garantirsi questo ruolo concede agli armatori l'ambito privilegio di non pagare le tasse. Si tratta della cosiddetta tonnage tax. La tassa è calcolata esclusivamente sul tonnellaggio netto delle navi, ed è tanto più bassa quanto più è alto il tonnellaggio. Per dare l'idea, la tonnage tax in Italia è di 0,0090 euro per tonnellata sino a mille tonnellate, si abbassa a 0,0020 euro a tonnellata sopra le 25000 tonnellate. Come si vede, cifre irrisorie, praticamente inesistenti, per di più inversamente proporzionali al volume della proprietà.

Questo regime fiscale scandaloso (difeso in Grecia dal governo Tsipras) diventa un furto sociale gigantesco nel contesto attuale.
Il 90% dei beni scambiati nel mondo viaggia su nave. L'accumulo di tonnellate di merci nei porti ha gonfiato i noli delle compagnie che non avevano stiva sufficiente per stare dietro alla domanda, passando da una media di 1200 dollari per trasporto di un container di fine 2019 ai 10,997 del settembre 2021. Le compagnie europee hanno realizzato 110 miliardi di utili netti su cui non hanno pagato alcuna tassa. Mentre i lavoratori e le lavoratrici non sanno come pagare bollette, mutui e alimenti.

La società borghese è un verminaio. Solo una rivoluzione può cambiare le cose.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il vento di Gran Bretagna

 


Il culto della monarchia e gli scioperi operai

20 Settembre 2022

English translation

«Il re conquista tutti: si lascia baciare dai sudditi». Così un commosso Gianni Riotta, giornalista di punta di Repubblica, ha descritto l'incedere regale di Carlo III tra ali di folla osannante (10 settembre). La descrizione di un fatto? Piuttosto una sua rappresentazione incantata, quella che domina la narrazione nazionalpopolare a reti unificate attorno alla morte della regina e alla sua successione.

Ogni principio di realtà scolora nell'immaginario della leggenda.

La realtà è quella di una casta monarchica plurisecolare, segnata dal lusso di corte, dal parassitismo sociale più ostentato, dalle risse familiari esibite o taciute, dal passaggio ereditario di 15 miliardi di sterline come patrimonio intoccabile della famiglia. Segnata dal lascito di sangue e di orrori che ha percorso la storia dell'impero britannico alle più diverse latitudini del mondo, in Africa, in Asia e ovunque.

La leggenda è quella di una monarchia amica del popolo, al servizio del popolo, al di sopra delle diatribe politiche. Non una parola, per stare alla storia recente, sulla repressione della nazione irlandese, sul plauso fornito alla cavalleria della Thatcher contro i minatori, sulla guerra coloniale per le isole Malvinas, su tutto ciò che la monarchia britannica ha difeso e coperto a tutela della propria borghesia.

Perché la celebrazione di un'icona trascende volutamente la dimensione terrena. Il decesso della regina e l'avvento del nuovo re assurgono piuttosto a una dimensione mistica, al di là del tempo e dello spazio.
“Dio salvi la regina”, “Dio salvi il re” dipingono il re e la regina come emissari della volontà divina, secondo la tradizione dell'assolutismo. È la celebrazione dell'autorità terrena come appendice di un'autorità superiore, dunque sottratta per definizione alla volontà del popolo, ridotto a massa anonima i sudditi. Magari plaudenti, ma sudditi.

«La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re, non si rende conto che in realtà è il re che è Re perché essi sono sudditi» scriveva con parole magnifiche Karl Marx. Nulla di più appropriato, e non solo per la Gran Bretagna.

Se non che i guai cominciano quando la sudditanza si mescola a sentimenti nuovi. Nella Gran Bretagna di questi giorni non c'è solo la commozione per la regina. Ci sono anche gli scioperi operai contro il carovita, per forti aumenti salariali. Portuali, camionisti, ferrovieri, lavoratori dei trasporti cittadini, operai di Amazon, insegnanti, infermieri, postini, impiegati di banca... Decine di migliaia di lavoratori e di lavoratrici hanno incrociato le braccia come non avveniva da mezzo secolo. Non sappiamo quanti di loro hanno versato lacrime per Elisabetta. Sappiamo che tutti sfidano il nuovo governo thatcheriano di Miss Truss.

La borghesia inglese ha campato a lungo sull'effetto traumatico della sconfitta del grande sciopero del 1984-'85 nelle miniere. Ma la generazione demoralizzata da quell'evento è ormai per lo più in pensione. E si affaccia una generazione nuova nel lavoro salariato, che non sembra disposta a portare la croce troppo a lungo. Darle una coscienza politica anticapitalista, ed anche di conseguenza antimonarchica, è il compito dei marxisti rivoluzionari in Gran Bretagna.

Partito Comunista dei Lavoratori

L’alluvione nelle Marche. Né eccezione né maltempo, ma cambiamenti climatici e mancata prevenzione

 


Se è piovuto in tre ore la quantità d’acqua di sei mesi, significa che siamo di fronte a un evento naturale di eccezionale forza. Un evento – per di più – tragico, nel quale a oggi i morti accertati sono 11, oltre cento i feriti, imprecisato il numero degli sfollati. Da Pianello di Ostra a Cantiano, da Senigallia a Sassoferrato. Dunque colpita la provincia di Ancona e Pesaro-Urbino, dal mare all’entroterra. Se è piovuto – ripetiamo – un quantitativo d’acqua tale per cui di solito ne occorrono sei mesi, si tratta sì di un evento di eccezionale forza ma che non è in sé un’eccezione. Questo è il punto fondamentale da capire, poiché trattasi di un evento estremo sì ma tipico nel contesto dei cambiamenti climatici.


L’aumentare dei fenomeni naturali estremi è infatti appurato con chiarezza. Per restare in Italia, i dati di Legambiente riportano che gli impatti più rilevanti dei fenomeni naturali estremi si sono verificati in 602 comuni italiani, 95 in più rispetto allo scorso anno. Dal 2010 al 2021, questo tipo di fenomeni sono stati 1.118 e 133 nell’ultimo anno, in aumento del 17,2% rispetto alla precedente rilevazione (1).

Nelle Marche si è trattato, nello specifico, di un temporale autorigenerante. Consiste in un temporale che si autoalimenta grazie al contributo dell'umidità rilasciata dal mare. Fattore aggiuntivo, poi, il clima caldo, in quanto aumenta la quantità di vapore in atmosfera e quindi la quantità di acqua che può diventare pioggia. Un ulteriore ruolo aggravante lo ha giocato anche il cosiddetto Atmosferic River, corrente calda e umida di vapore acqueo proveniente dalle zone sub-tropicali del Pianeta (2).

Si fa fatica a vedere i video e le immagini diffuse in queste ore: borghi storici alluvionati dalle piogge e dall’inondazione dei fiumi, la cui bellezza di solito ignorata dal turismo di massa, ora frutto della consueta e morbosa attenzione dei media. Per qualche giorno, certo: poi, rimane il ricordo in qualcuno, poi più nulla.
Il copione è già scritto; basti guardare all’alluvione che colpì già Senigallia nel 2014, causando anche lì vittime e danni per 180 milioni di euro. Il processo per il reato di inondazione colposa è iniziato solo pochi mesi fa, lo scorso 9 giugno; mentre due mesi prima, in aprile, la Regione ha firmato la consegna del cantiere dei lavori per le vasche di espansione, pensato al fine di dare spazio al fiume Misa in caso di piena. I lavori, però, finiranno solo nel 2024. Intanto però, il Misa è esondato di nuovo.

Visto che questi eventi estremi sono qui per restare, va invertita la rotta: è necessario investire nella prevenzione, molto meno cara della spesa post-emergenziale. Purtroppo si fa al contrario, mancando nei fatti una presa di consapevolezza all’altezza della situazione e delle sfide climatiche che stiamo affrontando qui e ora.
Dobbiamo, in definitiva, avere chiaro che non è colpa del “maltempo”, né della sfortuna. Fintanto che lo si considera maltempo, si nega implicitamente la natura stessa di ciò che sta accadendo, scollegandolo dal contesto dei cambiamenti climatici. A ridosso delle elezioni, questa tragedia reca con sé un conto salato da saldare: che questo sistema economico non è in grado di saldare.

Siamo indietrissimo con le opere di prevenzione e di messa in sicurezza; ancora peggio procede il contrasto al riscaldamento globale, causa ultima degli eventi climatici estremi. Secondo il “Rapporto dissesto idrogeologico in Italia pericolosità e indicatori di rischio” (3) presentato a marzo 2021, è aumentata nello scorso anno la superficie nazionale potenzialmente soggetta a frane e alluvioni: l'incremento sfiora rispettivamente il 4% e il 19% rispetto al 2017. Inoltre, il 94% dei comuni italiani è a rischio dissesto, con oltre 8 milioni di persone che abitano nelle aree ad alta pericolosità.

L’alluvione occorsa nelle Marche non è un caso isolato, ma è frutto anche di mancata prevenzione. Noi crediamo che l’attuale sistema economico non abbia in sé la capacità di ragionare secondo ottiche lungimiranti. Servono adeguati e cospicui finanziamenti per la messa al riparo dal dissesto idrogeologico, progetti di adattamento per inondazioni e frane. Serve, inoltre, che si affronti alla radice il problema della riduzione delle emissioni di CO2. Servono scelte nette e radicali, come radicali sono le sfide della contemporaneità.




(1) https://asvis.it/home/4-10836/in-italia-aumentano-i-fenomeni-meteorologici-estremi-e-i-comuni-colpiti

(2) https://www.focus.it/scienza/scienze/temporale-autorigenerante-bomba-fiume-atmosferico-v-shaped-alluvione-marche

(3) https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/dissesto-idrogeologico-in-italia-pericolosita-e-indicatori-di-rischio-edizione-2021

Partito Comunista dei Lavoratori - Marche

Dopo Lorenzo e Giuseppe anche Giuliano vittima del PCTO

 


Giuliano De Seta, studente di 18 di Portogruaro, è l’ennesima vittima dell’alternanza scuola-lavoro. Nel tardo pomeriggio del 16 settembre, Giuliano è stato ucciso nella Bc Service di Noventa di Piave (fabbrica del settore meccanico e idraulico) investito da una lastra di metallo, poggiata su un carro ponte che gli ha schiacciato le gambe mentre lui era intento a provare un macchinario. Questa morte è la terza – in meno di un anno – causata dal PCTO dopo Lorenzo Parelli (18 anni) e Giuseppe Lenoci (16 anni).


I partiti della borghesia ripetono il copione delle lacrime di coccodrillo, delle promesse vaghe di riforme sulla sicurezza che – nonostante siano manovre insufficienti – comunque non attueranno, specialmente ora che sono tutti in corsa per le elezioni del 25 settembre.

Secondo uno studio di fine Agosto, in Italia il numero dei morti sul lavoro nei primi sette mesi del 2022 è stato di 569 e questa cifra tende a crescere ripetendo o addirittura supereranno i numeri del 2021 (1361). La scuola negli ultimi trent’anni – passando dalla Berlinguer, Russo-Iervolino, Moratti, Gelmini per arrivare alla Buona Scuola – si è trasformata sempre più in un’azienda. Un’azienda che, come nell’ultima riforma a firma PD del 2015, con la giustificazione dello “stage” e della “formazione professionale” è diventata un mero erogatore di forza lavoro, a costo zero, per il padronato.

Noi saremo presenti, come Partito Comunista dei Lavoratori, nelle mobilitazioni studentesche che si susseguiranno e negli scioperi che si proclameranno in questi giorni, ribadendo che non si può avere fiducia nella borghesia e nei suoi partiti – dalla sinistra riformista alla destra ultrareazionaria – e che l’unica risposta possibile, l’unico cambiamento possibile è quello di porre fine alla dittatura del capitalismo e imporre il governo delle lavoratrici e dei lavoratori su basi anticapitaliste e rivoluzionarie.

La strada da percorrere per la via della rivoluzione è sicuramente difficile e lunga. Ma il primo passo è quello di lottare per il rilancio delle lotta del movimento studentesco e del movimento operaio, dei disoccupati e del proletariato tutto, nella prospettiva della loro unificazione attorno ad una piattaforma anticapitalista e rivoluzionaria. È la prospettiva per cui come PCL lavoriamo ogni giorno. Lo faremo con ancor più forza in memoria di Lorenzo, Giuseppe e Giuliano, uccisi come lavoratori, come studenti, come giovani.

Basta regalare profitti a costo zero per il padronato!
Basta morti per alternanza scuola-lavoro!

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione studenti e giovani

Perché non possiamo indicare il voto per Unione Popolare

 


Lettera aperta alle compagne e ai compagni del PRC e di PaP

Care compagne e compagni,

questa lettera è per voi, non per altri. Perché a voi ci legano tante battaglie comuni.

Come sapete il PCL cerca sempre di essere presente alle elezioni per presentare il proprio programma rivoluzionario, ciò che non contraddice la ricerca della massima unità d’azione a sinistra sul terreno della lotta di classe. Tuttavia, in questo caso una normativa particolarmente reazionaria ci ha impedito di essere presenti come in altre occasioni, con l’eccezione della Liguria al Senato. In passato, nei casi di assenza obbligata dalla competizione elettorale, abbiamo spesso espresso un appoggio, sia pure critico, a liste della sinistra riformista. Ma in questo caso non riteniamo vi siano le condizioni per tale scelta.

Naturalmente respingiamo ogni ipotesi di sostegno alle liste di sinistra che oggi si presentano in coalizione col PD liberal-borghese (Sinistra Italiana) o in blocco rossobruno con destre sovraniste (come il partito di Rizzo). Pensiamo anzi che la denuncia di questa scelte debba rappresentare una occasione di chiarificazione.

Ma non per questo possiamo fornire un appoggio critico ad Unione Popolare. Unione Popolare si presenta come l’ennesima riedizione di una lista civica progressista in cui la sinistra classista (PRC e PaP) finisce col nascondersi. In passato fu Ingroia. Oggi è De Magistris. La logica ci pare immutata: la ricerca di un “rispettabile” esponente istituzionale o ex istituzionale di natura piccolo-borghese cui affidare la propria speranza di tornare in Parlamento. Nel caso di De Magistris la scelta ci pare ancor più subalterna che in passato. Perché l’unico scopo di De Magistris è costruire un proprio partito personale usando PRC e PaP come manovalanza elettorale. La disponibilità dei gruppi dirigenti di PRC e PaP ad assecondare questo disegno ci pare profondamente negativa. Ed oltretutto senza alcuna credibile aspettativa di superare il 3%.

La ricerca da parte di PRC e De Magistris di un accordo col M5S sino all’ultimo minuto non è stata un incidente, ma l’espressione di un’impostazione “cittadinista” di tipo democratico, estranea alla centralità del lavoro. Un’impostazione che di fatto si è resa disponibile a mascherare la natura stessa del grillismo nel momento del suo tracollo, sino ad accordarsi col partito più governativo di tutta la legislatura: firmatario dei decreti infami di Salvini, dell’aumento delle spese militari, del travaso di miliardi nel portafoglio delle imprese. È vero che Potere al Popolo non ha condiviso la proposta di accordo col M5S. Ma purtroppo non ha messo in discussione l’impostazione politico-culturale da cui quella proposta nasceva. Né il tentativo di recuperare la polemica contro il M5S negli ultimi giorni annulla il disastro della proposta iniziale di alleanza. Semmai cerca di rimontarne gli effetti.

Certo, il programma su cui Unione Popolare si presenta elenca diverse rivendicazioni progressiste, come fa ogni programma riformista. Ma appunto le subordina all’ennesima illusione di un possibile governo progressista del capitalismo. I riferimenti a Podemos, che con quattro ministri siede nel governo spagnolo, sono in continuità coi passati riferimenti al governo Tsipras. In entrambi i casi l’illusione riformista è stata schiaffeggiata dalla realtà. Nel caso di Tsipras dalla continuità delle politiche della troika. Nel caso di Podemos dalla permanenza delle politiche di respingimento dei migranti e dell’aumento delle spese militari. Quanto al mito di Mélenchon – ex ministro del governo Jospin e in quanto tale bombardatore di Belgrado – va osservato che pur di accordarsi col Partito Socialista ha rinunciato a rivendicare la rottura con la NATO. E che il suo sovranismo di sinistra, ostile alle bandiere rosse, non promette nulla di buono, al di là delle affabulazioni retoriche.

Il punto è che se la prospettiva rivoluzionaria è ritenuta impossibile l’unico orizzonte resta il governo del capitalismo. E questa prospettiva non riguarda il futuro, ma il presente. Un solo esempio. Cercando in tutte le sedi di mostrarsi uomo di governo nell’ambito delle istituzioni di questo Stato, De Magistris imprime alla campagna elettorale un taglio governista che scavalca a destra il programma di UP. Su il manifesto (20 agosto) dichiara che una volta in Parlamento UP potrebbe rendersi utile per la formazione di un futuro governo “se ci saranno condizioni per essere determinanti”.

Con chi se non col PD e il M5S? Inoltre, l’ex sindaco curva in chiave compatibilista le stesse proposte sociali. Sul caro bollette (3 settembre) rivendica “lo scostamento di bilancio”, alla coda del M5S. Ciò che significherebbe far nuovo debito pubblico a carico dei salariati. Un governismo esibito come prova di “concretezza” rivela in realtà l’equivoco di fondo di una impostazione.

L’equivoco peraltro è figlio del passato. Negli ultimi 30 anni il PRC è stato nell’area di governo per quattro anni complessivamente (coi due governi Prodi), Rizzo per ben sei anni (aggiungendo i governi D’Alema e Amato). Il solo PRC ha votato il lavoro interinale, il record di privatizzazioni in Europa, le leggi antimmigrazione Turco-Napolitano (con il blocco navale verso l’Albania, sino all’affondamento in mare di una nave di profughi con oltre 100 morti), la massima detassazione dei profitti di banche e imprese (IRES passata dal 34% al 27,5% nella finanziaria del 2007) e diversi rifinanziamenti delle missioni di guerra. “Errori” di cui si è fatto ammenda? No, sostegno all’avversario di classe contro la propria classe di riferimento. Il crollo della sinistra politica tra i salariati, e lo sfondamento populista che ne è seguito, hanno questa precisa radice. E hanno finito col colpire tutti. Anche chi quelle politiche le contrastò con forza, come nel caso del PCL.

Non pensiamo al passato, guardiamo al futuro” si obietta spesso. Ma se non si fa un bilancio della storia si è condannati a ripeterla. Del resto, tutti noi giustamente elenchiamo le responsabilità passate del PD e dei partiti borghesi (pensiamo agli ex dalemiani) contro ogni loro tentativo di camuffarle. Perché non applicare lo stesso metodo anche al bilancio della sinistra classista? Non è da comunisti usare due pesi e due misure.

La nostra scelta elettorale per tutte queste ragioni è l’astensione. Ciò non significa per parte nostra ignorare il fatto che molti di voi, magari condividendo in parte la nostra critica, intendano votare UP in contrapposizione ai partiti borghesi, cercando in UP uno strumento di replica all’avversario nel contesto dato. Non condividiamo questa illusione, ma la comprendiamo.

Tuttavia, vi chiediamo quantomeno di non votare le liste di UP laddove siano capeggiate, come capilista, o dall’ex sindaco De Magistris (e dai suoi sodali di DemA) o dall’ex ministro Paolo Ferrero. Nel primo caso perché De Magistris e la sua area impersonificano la scelta aclassista di Unione Popolare al suo massimo livello. Nel secondo caso perché Paolo Ferrero ha condiviso e gestito al massimo livello di responsabilità le misure antioperaie del governo Prodi in quanto ministro di quel governo, ed è espressione particolarmente negativa di ipocrisia riformista tra quanto si afferma e quanto si fa. Pensiamo che, in ogni caso, il voto di un comunista non possa e non debba rivolgersi a loro.

Come sapete, la nostra critica non significa in alcun modo rifiuto del confronto e dell’unità d’azione su obiettivi comuni sul terreno dell’azione. Al contrario, nei limiti delle nostre forze l’abbiamo sempre ricercata e praticata contro ogni forma di settarismo. Ma l’unità d’azione non esclude la chiarezza, che è anche una forma di rispetto.

Nella chiarezza vi diciamo che oggi manca una rappresentanza politica del lavoro salariato che il lavoro salariato possa riconoscere come tale. Questo è l’enorme vuoto dello scenario politico, allargato dal suicidio del PRC tra il 2006 e il 2008, che le diverse sinistre non solo non affrontano ma concorrono a preservare. Sia quelle che si subordinano a forze borghesi, sia quelle che si nascondono dietro panni civici.

Non è certo il PCL oggi con le sue forze che può colmare questo vuoto. E neppure l’alleanza elettorale che avevamo proposto in questa occasione straordinaria a diverse sinistre classiste, anticapitaliste, internazionaliste, purtroppo da queste declinata.

Ma oggi solo il PCL pone con forza l’esigenza di un partito della classe lavoratrice e di un programma d’azione anticapitalista, fuori e contro ogni illusione riformista. È questa l’esigenza che solleveremo in ogni mobilitazione, a partire dalle battaglie di autunno. Assieme alla proposta del più ampio fronte unico di lotta di tutte le sinistre politiche e sindacali.

Partito Comunista dei Lavoratori

Armenia: 150 morti e 2000 sfollati


 Il 13 settembre l’esercito dell’Azerbaigian ha guidato un’operazione militare contro aree dell’Armenia meridionale (nei pressi delle città di Jermuk, Sotk e Goris). L’attacco ha causato quasi 150 morti tra le fila armene, anche civili, e più di duemila sfollati (pare che le operazioni militari non abbiano lesinato gli attacchi contro le strutture non militari), mentre tra gli azeri si contano oltre settanta caduti. Si tratta soltanto dell’ultimo assalto militare contro gli armeni da parte del regime azero, che da trent’anni continua ad alimentare il conflitto per appropriarsi del territorio del Nagorno-Karabakh, conosciuto anche come Artsakh, da sempre abitato in larga maggioranza da armeni (la minoranza azera, nel secolo scorso, era composta perlopiù da pastori semi-nomadi che si recavano nella regione temporaneamente per via del loro lavoro).


Questa guerra ha la sua origine nella suddivisione dei territori tra le repubbliche sovietiche, quando sotto pressione di Stalin e di alcuni importanti azeri membri del partito bolscevico ma il cui socialismo era ottenebrato da sentimenti sciovinisti e panturchisti [1], questa regione venne sottratta al principio di autodeterminazione dei popoli e consegnata nel 1924 all’Azerbaigian, con un parziale motivo d’ordine economico (la già citata transumanza dei pastori), strategico (per accattivarsi le simpatie turche, in quanto all’epoca la Turchia era vista come una sorta di repubblica rivoluzionaria) e a causa delle minacce di Nariman Narimanov, presidente del Consiglio dei commissari del popolo della Repubblica socialista sovietica azera, che paventava rivolte anti-sovietiche nel caso dell’unificazione completa del territorio armeno.

Il potere sovietico, purtroppo, non cercò ma di riparare questo a errore (purtroppo non l’unico nell’ambito della spartizione delle nazionalità, anche se bisogna ricordare che l’Unione Sovietica soprattutto nei primi anni di esistenza, era all’avanguardia anche per gli standard contemporanei per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti ai popoli nativi, precedentemente oppressi ferocemente dallo zarismo e dal nazionalismo panrusso), neppure quando tra il 1988 e il 1991 ci furono intense e imponenti manifestazioni per la riunificazione dei territori armeni (in risposta i nazionalisti azeri si dettero ai pogrom anti-armeni a Sumgait, Kirovabad e Baku). E fu così che il Nagorno-Karabakh divenne prima un Oblast autonomo e poi Repubblica indipendente dell’Artsakh, che ha resistito a trent’anni di conflitti, tensioni e pulizie etniche innescate dallo sgradito vicino (che ricordiamo reclamò il diritto all’autodeterminazione per diventare indipendente per poi negarlo agli altri), anche grazie a personalità dalla storia incredibile come i marxisti rivoluzionari, guerriglieri e internazionalisti Monte Melkonian, eroe nazionale, e Nubar Ozanyan (caduto in Siria nel 2017 mentre lottava contro i reazionari di Daesh). Certo, purtroppo anche in Armenia ci sono stati massacri e pulizie etniche, causate dallo sciovinismo delle frange più xenofobe della società che vollero rispondere ai pogrom e alle stragi nei confronti degli armeni in Azerbaigian, o gruppi di militari che tentarono vanamente di eguagliare i massacri dell’esercito azero.

Tornando a oggi, lo scenario aperto da quest’ultima aggressione ha lasciato indifferenti gran parte degli amici/alleati (la Federazione russa, forse seccata dalla neutralità degli armeni nei confronti del conflitto ucraino, pur vantando interessi economici e un dispiegamento di truppe non certo indifferente sul suolo armeno e karabakho; gli stati dell’Unione Europea, che a parte qualche singolo non stanno prestando particolare attenzione nei confronti di questi nuovi fatti; gli Stati Uniti, che hanno dato vita a qualche lamentela insignificante; l’Iran, che si è limitato ad alcune minacce), pur non riguardando più un territorio conteso, ma il suolo della stessa Repubblica di Armenia, internazionalmente riconosciuta (a eccezione del Pakistan, che non la riconosce affatto).

L’indifferenza, ambiguità e ambivalenza della maggioranza dei media è tanto più disgustosa, in particolare di quelli “progressisti” o di “Sinistra”, non tanto perché faccia poi tanta differenza, agli occhi di un rivoluzionario, il riconoscimento istituzionale o meno per definire se una lotta è giusta, ma perché questi stessi media che strillano inquieti inneggiando all’”intangibilità dei confini” quando territori come la Nuova Caledonia o la Catalogna rivendicano l’autodeterminazione nazionale e la fine del colonialismo, se ne infischiano quando a vedersi i confini brutalmente assaliti sono piccole popolazioni come gli armeni, pur vantando l’indipendenza.

La situazione interna dei due paesi non è delle migliori. Sono lunghi mesi, dall’ultima offensiva azera nell’Artsakh/Nagorno-Karabakh che la capitale armena è teatro di proteste anche molto accese, che hanno visto occupazioni di piazza e scontri con la polizia (e il corrente governo Pashinyan, di tendenze liberali e filoeuropeiste e portato al potere nel 2018 da una sorta di rivoluzione popolare contro il precedente regime oligarchico, ha seriamente corso il rischio di subire un colpo di Stato), ma purtroppo nessuna forza operaia e rivoluzionaria ha tentato di egemonizzare la situazione o anche soltanto di portare la sua voce tra le masse imponenti. Infatti, l’unico gruppo comunista di rilievo attivo in patria è il Partito Comunista Armeno, di tendenza stalinista e che si distingue più per un acceso filo-russismo che per altro, mentre i gruppi socialisti e rivoluzionari della diaspora sono troppo impegnati a far fronte ai problemi dei territori in cui vivono (come la Brigata Nubar Ozanyan in Siria, che lotta contro Daesh e lo Stato turco). L’Azerbaigian è invece retto da un regime “famigliare”, in cui gli Aliyev governano il paese da trent’anni tramite cene al caviale con i governi stranieri (europei compresi) e il conservatore Partito del Nuovo Azerbaigian da loro controllato, perseguendo politiche liberticide, anti-operaie, razziste (non solo anti-armene, ma anche contro altri popoli entro i suoi confini, cui sono negati tutti i diritti linguistici e culturali, ovvero i Talisci, gli Avari, i Lezgini, i Tati, i Garachi, i Rutuli e gli Jek, che non sono neppure riconosciuti come popolazioni a sé stante), omofobe e oligarchiche. In pratica, è politicamente una sorta di piccola Turchia, Stato che ovviamente figura tra i suoi principali partner e alleati, soprattutto in funzione anti-armena. A corollario di questo orrore, ricordiamo che Ursula von der Leyen ha recentemente firmato un protocollo d’intesa con il regime di Baku riguardante le forniture di gas e, anche qui, i partiti più o meno socialisti più grandi sono dichiaratamente “stalinisti” e da quel che risulta al sottoscritto con posizioni assai ambigue nei confronti della questione dell’Artsakh.

Un altro punto d’interesse è che il regime del capo regime Ilham Aliyev ha costruito una propaganda estera basata sul “diritto internazionale” violato dalla rivale e sul fatto che “l’Armenia non vuole la pace”. Eppure, alla faccia di questo “disinteressato” pacifismo, tutte le violazioni del cessate il fuoco avvenute nel corso degli anni sono state operate dall’esercito azero, che ha cercato più volte di sfondare in Artsakh infischiandosene inizialmente della presenza dei peace-keeper russi, e il 28 maggio scorso hanno assassinato un soldato armeno.

Aliyev non vuole la pace, ed è palese, perché è soltanto con le vittorie militari e l’odio anti-armeno che può mantenere saldi i suoi artigli sul potere statale e avere garantito un certo grado di popolarità presso la popolazione; l’altro mezzo, che comunque impiega, è la repressione delle opposizioni e la censura, e questa da sola non è garanzia di un potere duraturo, soprattutto a fronte del tenore di vita nel paese che non ha fatto altro che diminuire nel corso del tempo. D’altronde, un esempio lampante della retorica razzista dello Stato azero è il caso dell’ufficiale Ramil Safarov, che assassinò nel sonno, a colpi d’ascia, un militare armeno, Gurgen Margaryan, durante un seminario organizzato dalla NATO nel 2004: l’assassino fu sottratto alla giustizia internazionale tramite l’estradizione nel 2012, proclamato eroe nazionale in Azerbaigian, graziato, promosso e premiato da Aliyev.

L’Armenia non è uno stato socialista od operaio, certo, segue anzi politiche liberali e capitaliste, che peraltro hanno causato danni non indifferenti al tenore di vita dei suoi abitanti dopo la ristrutturazione anticomunista che seguì la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Detto questo, bisogna specificare che sotto diversi aspetti è il territorio della regione in cui il movimento operaio ha maggiore agibilità, rispetto alla nazionalista e filo-atlantista Georgia e al regime infame e reazionario in Azerbaigian. Entrambi questi ultimi due paesi sono contraddistinti da politiche nazionaliste e conservatrici e da movimenti rivendicativi nei confronti di territori che desiderano autodeterminarsi (Abcasia e Ossezia del Sud, purtroppo fortemente dipendenti dall’imperialismo russo, lo Javakh e il Nagorno-Karabakh armeni, gli azeri nella Georgia orientale, i Talisci, i Lezgini e gli altri popoli caucasici oppressi dalle politiche coloniali e repressive azere), mentre l’Armenia non solo riconosce, ma tutela e incoraggia attivamente le minoranze del suo territorio, pur essendo originate da diaspore avvenute nel corso degli ultimi due secoli e non disponendo di un territorio proprio (Assiri, curdi/yazidi, russi e altri), a cui è garantita la rappresentanza politica in parlamento, anche se in forme certamente migliorabili.

Ciò che il movimento operaio dovrebbe rivendicare in questo contesto è l’immediato riconoscimento e il sostegno dei diritti degli armeni del Nagorno-Karabakh, la cessazione delle ostilità e delle politiche reazionarie dell’Azerbaigian, il sostegno al proletariato di entrambi i paesi con il fine di costruire un movimento rivoluzionario degno di questo nome e il rovesciamento dei rispettivi governi per costruire delle repubbliche operaie sotto controllo proletario, con l’obiettivo, se plausibile, di creare una federazione socialista del Caucaso che garantisca i diritti nazionali a tutti i popoli che vi risiedono, compresi quelli attualmente assoggettati alla Russia, come i ceceni, gli ingusci, i circassi, i balcari, i nogai e gli altri popoli del Daghestan, e quelli rivendicati dalla Georgia, come gli osseti e gli abcasi. Non c’è soluzione alle guerre e ai conflitti tra i popoli della regione fintanto che si troveranno sottoposti a regimi sgraditi e con i propri diritti nazionali lesi, così come non ci sarà pace fintanto che a comandare saranno i padroni e non i lavoratori.




Nota

1 - Un esempio del razzismo manifesto di questo genere di “socialisti panturchisti”, tratto da “The Bolsheviks and the National Question, 1917-23”, di Jeremy Smith, 1999, Palgrave Macmillan: «A much stronger attitude was displayed by the head of the Karabakh Guberniia Revkom, Asad Karaev. This character's solution to the Karabakh and Zangezur problems was violent and overtly racist. He wrote to the Gerusin Revkom: Anyone who understands the psychology of Armenians... [knows that] there is not a single Armenian who will not betray everything for money... Your old policy of occupying Karabakh and Zangezur with troops was deeply mistaken. We know that our forces are broken and have retreated, but today instead of armed forces our money is working miracles. Again and again I repeat my advice - do not spare any sum, increase salaries, give them bonuses and anything they want. The government has decided that to unite Karabakh and Zangezur to Azerbaijan it will issue 200 million roubles» [«Un atteggiamento molto più forte è stato mostrato dal capo del Karabakh Guberniia Revkom, Asad Karaev. La sua soluzione ai problemi di Karabakh e Zangezur è stata violenta e apertamente razzista. Ha scritto a Gerusin Revkom: «Chiunque comprenda la psicologia degli armeni... [sa che] non c'è un solo armeno che non tradirà per soldi... La tua vecchia politica di occupare Karabakh e Zangezur con le truppe è stata profondamente sbagliata. Le nostre forze sono state distrutte e si sono ritirate, ma oggi invece delle forze armate i nostri soldi stanno facendo miracoli. Ripeto sempre il mio consiglio: non risparmiare nessuna somma, aumentare gli stipendi, dare loro bonus e tutto ciò che vogliono. Il governo ha deciso che per unire Karabakh e Zangezur all'Azerbaigian emetterà 200 milioni di rubli».

Alessio Ecoretti

L'autunno caldo negli USA

 


L'ascesa delle lotte salariali nel cuore del capitalismo mondiale

«Un'ondata di scioperi agita l'autunno degli Stati Uniti» titola il quotidiano di Confindustria (14 settembre). È una preoccupazione fondata.

Per la prima volta i ferrovieri americani minacciano uno sciopero generale continuativo per forti aumenti salariali. Biden è costretto ad attivare un piano d'emergenza antisciopero per garantire il traffico di uomini e merci. I tre ministeri di Trasporti, Energia, Agricoltura sono mobilitati contro lo sciopero. Il governo ha denunciato lo sciopero come «un esito inaccettabile» offrendo un aumento salariale del 24% in cinque anni. Ma le unions hanno respinto l'offerta a fronte dei profitti record delle compagnie. Il braccio di ferro è appena iniziato. Uno sciopero dei ferrovieri costerebbe al governo due miliardi di dollari al giorno.

Il punto è che non si tratta solo dei ferrovieri. Dopo gli anni della pandemia si leva tra i salariati americani una reazione liberatoria. Migliaia di infermieri in Minnesota stanno picchettando i centri sanitari con tre giorni di sciopero continuativo. La vittoria sindacale riportata in Pennsylvania in tredici case di riposo ha contagiato il settore della sanità. Le rivendicazioni sono aumenti salariali, nuove assunzioni, rifiuto di turni di lavoro massacranti. Parallelamente scioperano gli insegnanti, da Seattle all'Ohio, per aumenti di paga, ritardando di cinque giorni l'inizio dell'anno scolastico per cinquantamila studenti. Protestano gli operai dell'auto nel Midwest, mentre in Indiana lo sciopero in un impianto Stellantis ha costretto gli azionisti a fare concessioni salariali.

Cresce ovunque la domanda di sindacato. Le unions americane hanno conosciuto una crisi profonda negli ultimi decenni, con un netto calo delle iscrizioni. Il tasso di iscrizione è basso: il 6% nel settore privato e il 10% nel settore pubblico. Ma ora sembra prodursi un'inversione di segno. Da gennaio sono aumentate del 58% le richieste del National Labor Relations Board alle autorità federali di tenere e certificare elezioni per l'ingresso di sindacati in azienda. I sondaggi Gallup parlano di un consenso del 71% per il sindacato, record dal 1965. Le agitazioni sindacali si sono moltiplicate in tutto il paese, anche in settori meno tradizionali: in Amazon, Apple, nelle caffetterie Starbucks.

La ripresa capitalista ha favorito le lotte, rafforzando il peso negoziale degli scioperanti. Le disuguaglianze sociali accresciute diventano ragione di scandalo e suscitano reazioni. Biden è in difficoltà sul nuovo fronte. Si era presentato come amico dei sindacati, a differenza di Trump, ma ora i lavoratori battono cassa e le burocrazie sindacali debbono assecondarli in parte per preservarne il controllo.

Mentre le sinistre italiane oscillano tra sovranismi nazionali e cittadinanze progressiste, noi abbiamo la nostra patria fra i salariati americani, britannici, francesi che stanno alzando la testa. E assumiamo le loro lotte come esempio per i proletari italiani. Il bisogno di un'Internazionale anticapitalista non è mai stata tanto attuale quanto oggi.

Partito Comunista dei Lavoratori