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Al fianco della resistenza palestinese

 


In queste ore le forze dell’IDF stanno occupando porzioni crescenti della striscia di Gaza. Dopo giorni di bombardamento a tappeto, che hanno causato circa 30000 vittime tra i civili palestinesi, tra morti e feriti, con un tragico bilancio soprattutto per i bambini e le donne, le forze armate israeliane stanno procedendo al tentativo di rastrellamento dei combattenti palestinesi e si apprestano al combattimento casa per casa.


Il Partito Comunista dei Lavoratori sostiene il pieno diritto dei palestinesi a prendere le armi e resistere all’invasione genocidaria da parte dei sionisti.

Riconosciamo che oggi le forze armate palestinesi comprendono partiti e fazioni politiche diverse.


L’URGENZA E I COMPITI DELLA RESISTENZA ARMATA ALL’INVASIONE COLONIALE ISRAELIANA

La connotazione di Hamas, la maggiore delle organizzazioni che dirigono la resistenza a Gaza, il suo carattere antiproletario, su cui torneremo, non deve significare alcun arretramento, nemmeno di un millimetro, dal pieno appoggio alla resistenza armata del popolo palestinese.
Per questo sosteniamo la lotta armata di Hamas e degli altri combattenti, e salutiamo con favore una possibile rivolta popolare in Cisgiordania. Una rivolta che deve affrontare le forze israeliane e purtroppo anche la polizia dell’ANP, a cui chiediamo di interrompere immediatamente il proprio ruolo di governo collaborazionista con le forze colonialiste dello Stato sionista.

Auspichiamo inoltre che tutte le organizzazioni combattenti palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania mettano da parte ogni divisione e si riuniscano in un coordinamento unificato che consenta loro di prendere con efficacia tutte le misure militari necessarie a respingere l’invasione di Gaza e inferire le massime perdite all’esercito occupante.

Questo è infatti l’obbiettivo militare e politico prioritario del momento, che se dovesse essere fallito aprirebbe la strada alla pulizia etnica e ad una nuova Nakba per il popolo palestinese.


I MARXISTI RIVOLUZIONARI E I COMPITI FONDAMENTALI DELLA LOTTA DEL POPOPOLO PALESTINESE

Lo scopo della liberazione della Palestina, il che implica la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista di Israele, deve essere incondizionatamente sostenuto dai marxisti rivoluzionari di ogni parte del mondo.
Su questo non vi possono essere ambiguità che diano spazio all’illusoria possibilità che in qualsiasi forma, persino “socialista”, possa sorgere ed avere vita legittima uno Stato palestinese a fianco dello Stato sionista. Questa possibilità, oltre che dalla logica, oggi è esclusa dai fatti storici che avvengono sotto i nostri occhi.

Ma la liberazione della Palestina non può avvenire né nella forma della Repubblica islamica, come vogliono Hamas e la Jihad islamica, né in quella democratico-borghese. In questo senso, l’esistenza di uno Stato palestinese effettivamente libero e indipendente sarebbe meramente illusoria, perché sarebbe invariabilmente sottomessa a potenze capitaliste e imperialiste che continuerebbero la rapina delle sue risorse e lo sfruttamento delle sue masse proletarie.

Solo la rivoluzione socialista può realizzare il compito storico dell’autodeterminazione nazionale del popolo palestinese. Solo la sua estensione a tutto il Medio Oriente, con il fine della realizzazione di una Federazione socialista del Medio Oriente, può proteggere i diritti e le condizioni di vita tanto delle masse proletarie palestinesi quanto di quelle arabe.


LA NATURA REAZIONARIA DI HAMAS

L’accordo al coordinamento e al comando unificato delle operazioni militari non significa in alcun modo un appoggio politico, nemmeno transitorio, ad Hamas, verso cui i rivoluzionari devono nutrire, al contrario, la massima sfiducia.
Hamas, che in arabo vuol dire "Movimento islamico di resistenza", è un partito islamista piccolo-borghese dotato di un’ala politica ed un’ala militare non necessariamente unite sotto la stessa direzione.

Il reclutamento al partito e alla sua ala combattente avviene per il tramite della fidelizzazione mistica e religiosa che si sublima nell’ideologia della Jihad, ossia la guerra santa contro gli osservanti di altre religioni ed in primo luogo di quella ebraica.
La jihad costituisce un terreno di reclutamento per Hamas, così come il nazionalismo lo ha assunto spesso per direzioni piccolo-borghesi che hanno promosso lotte di liberazione nazionale in Europa e nel resto del mondo nei decenni passati.

Questa ideologia è inoltre resa lugubre da un marcato antisemitismo, che professa la cacciata e l’uccisione degli ebrei in quanto ebrei, e non solo la lotta contro i coloni ed il colonialismo, così come il nazionalismo spesso degenera nella sua forma fascista.
Inoltre è finalizzata a subordinare l’aspirazione nazionale palestinese all’interesse di regimi monarchici e capitalisti che finanziano il partito (Qatar).

I marxisti rivoluzionari da sempre denunciano queste ideologie e mettono in guardia il proletariato delle nazioni oppresse contro il loro inevitabile tradimento delle aspirazioni di liberazione nazionale. Questa infatti può essere garantita, nel quadro dell’attuale spartizione imperialistica del mondo, solo dalla rivoluzione socialista, che instaurando la dittatura del proletariato con il metodo della democrazia operaia, è la sola forma che può garantire la fine dell’oppressione nazionale così come di tutte le altre forme di oppressione.

Allo stesso tempo, contestiamo come obiettivo reazionario e antiproletario il fine politico strategico di Hamas, che è quello di costituire una repubblica islamica sul territorio della Palestina.
Una repubblica islamica simile a quella iraniana che oggi è attraversata dall’eroica rivolta del movimento delle donne, che il PCL sostiene incondizionatamente


IL MOVIMENTO MONDIALE A SOSTEGNO DELLA PALESTINA

Un grande e inaspettato movimento popolare, soprattutto giovanile, da est a ovest, da sud a nord sta attraversando tutti i continenti al grido “free Palestine”.

I marxisti rivoluzionari devono portare in questo grande movimento la consapevolezza del sostegno incondizionato alla resistenza palestinese, rifiutando ogni equidistanza tra oppressori ed oppressi, tra aggressori e aggrediti, anche se ammantata di un ipocrita pacifismo. Ciò nella prospettiva della liberazione della Palestina e la distruzione dello Stato sionista, per l’istaurazione di uno Stato operaio socialista che garantisca tutti i diritti del popolo ebraico e per l’estensione della rivoluzione proletaria a tutto il Medio Oriente.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ciao Mario

 


Pubblichiamo due ricordi di Mario Tommasi, militante per molti anni del nostro partito, scomparso ieri.


Nella vita spesso si vivono momenti di impotenza, che inducono stati di sofferenza improvvisa. Quando ci si confronta in particolare con il lutto e la morte, tutto diventa più difficile da affrontare e sembra impossibile.

Oggi ci ha lasciato il compagno Mario Tommasi, un bravo compagno e una bella persona. Per me è stata una vera e propria doccia fredda, avevo avuto modo di sentirlo circa un mese fa, mi aveva detto che non era stato bene ma mi aveva tenuto nascosto della sua malattia, che oggi ce lo ha portato via.

Militante e dirigente del PCL, compagno sempre disponibile e pronto a mettersi in discussione, dotato di spirito critico. Era stato sin dalla fondazione del PCL – all'epoca chiamato Movimento – il nostro punto di riferimento nella provincia di Rieti, un compagno appassionato e generoso. Negli ultimi anni aveva abbondonato la politica attiva, ma non aveva reciso i legami con la comunità del suo partito, e spesso sui social non mancava di far presente il suo punto di vista.

Non dimenticherò mai il tuo modo di stare in piazza, da manuale; la tua voce era così netta ed instancabile.

Mario non era solo un compagno eccezionale, ma anche un amico. Ci mancherai.

Condoglianze e un abbraccio a Nazzarena.


Eugenio Gemmo






Mario Tommasi, compagno esemplare


Mario Tommasi era un compagno dai grandi silenzi. Era attraverso i silenzi che parlava, più che con le parole. Il suo carattere affabile, semplice, di una mitezza che sconfinava in un'introversione inaccessibile, era il corrispettivo della concretezza e semplicità con cui concepiva la militanza.

Mario aveva un approccio essenzialmente pratico all'attività politica. Che non è mai stato per lui la negazione del lato teorico, ma lo sforzo costante di far vivere la teoria in ogni singolo atto in cui era possibile infonderla e trasmetterla. In ogni volantinaggio, corteo, assemblea, incontro.

Un'attitudine che forse gli derivava dal suo lavoro di programmatore e di informatico ante litteram. Fu attivo per lunghissimo tempo, fin da giovane tecnico (come allora venivano chiamati), nel Collettivo politico della Olivetti e nella "cellula Olivetti" del PCI, a Roma. Approdò a Rifondazione Comunista, e a Proposta (antesignana del PCL), quasi naturalmente. Ai tempi della nascita del PCL, nel 2006, fu tra i dirigenti locali di Rifondazione, a Rieti e nel Lazio, che più si spesero per far capire le ragioni della scissione e per organizzare una risposta collettiva che fosse all'altezza della situazione.

Per anni e anni, ha guidato esemplarmente la piccola e combattiva sezione di Rieti ovunque in prima linea.
Per molti anni non c'è stato corteo, manifestazione, iniziativa pubblica, appuntamento interno che non lo vedesse presente, defilato e instancabile, macinando decine di chilometri, con una puntualità che anticipava anche le circolari di convocazione, con la amata Nazzarena sempre al suo fianco.
Che fosse la presenza assidua ai cancelli delle fabbriche, la vendita del giornale, i volantinaggi, i tavolini, la raccolta firme, una conferenza stampa, non c'era niente che Mario non organizzasse fin nei dettagli. Quei dettagli ai quali prestava sempre attenzione, e che spesso erano per lui la chiave di volta per capire e spiegare questa o quella posizione, questa o quella dichiarazione, questo o quel disegno del nemico di classe.

Non era compagno di tante parole, Mario, non era compagno di convenevoli. Per lui le parole pesavano, ed erano da usare poco e indirizzare bene. I suoi interventi nelle riunioni locali e nazionali erano sempre calibratissimi, e centravano il sodo senza girarci intorno, all'occorrenza riportando tutti coi piedi per terra. A un congresso nazionale presentò degli emendamenti e un documento sul finanziamento (sua "fissazione" di sempre, per la quale era stato componente della commissione economica del partito), e negli interventi di presentazione fu approfondito fino alla pignoleria, non lasciò nulla al caso, facendo capire lo scrupolo affilato con cui aveva pensato e studiato prima di agire.

Non lasciare niente al caso era l'impronta del suo contributo, del suo leninismo. Era per questo che il suo tarlo organizzativistico non lo lasciava mai soddisfatto, mai assetato. Un tarlo che lo poteva portare a dissensi verticali ma non all'autocompiacimento della distruzione, dell'isolamento o della fuga. Sapeva bene che un partito rivoluzionario è imperfetto per definizione, e che la costruzione non è che un cammino incessante verso il miglioramento sempre possibile ma spesso non a portata di mano. Era consapevole di questo per intelligenza e per fatto generazionale, per atteggiamento e per comprensione politica. E non poteva che reagire con una delle sue tipiche alzate di spalle, o allargando sconfortato le sue enormi braccia, quando era alle prese con facilonerie e spacconaggini che gli era toccato di vedere anche dentro il suo partito.
Il suo proverbiale anti-ottimismo – che alla fine aveva e ha avuto la meglio – non era mai un motivo di ripiegamento ma semmai una molla per spingersi avanti, per trovare una soluzione, magari cambiando strada, insieme.

Ciao Mario, grazie del tuo esempio. Cercheremo di farlo vivere nel tuo ricordo.


OL

Pietro Tresso, a ottant'anni dalla sua morte

 


Sono ormai passati ottant’anni da quando “Blasco”, Pietro Tresso (guarda il nostro video documentario nuovo di zecca), uno dei padri del movimento operaio italiano ed internazionale, perse tragicamente la vita. La sua testa cadde come tanti altri rivoluzionari, per opera della burocrazia stalinista. Colpevoli solamente di opporsi alle menzogne fabbricate da Mosca.

La vita di Tresso fu piena di privazioni, sofferenze e miseria.

Nato nel 1893, quarto figlio di un ex mezzadro di Venezia divenuto manovale, e a nove anni dovette lasciare la scuola, imparando sin dalla tenera età il mestiere di sarto, alcune fonti riportano anche possibile operaio presso la fabbrica Lanerossi di Vicenza.
Entrò presto nella gioventù socialista, e fu insieme a Bordiga e Gramsci uno dei fondatori del PCI e membro dell’Ufficio Politico.

Grande organizzatore di sindacati contro il fascismo (famosa la lotta a Gravina di Puglia), responsabile del centro interno clandestino del PCI in Italia, rappresentò il Partito Comunista d'Italia a Mosca nel novembre del '22 durante il IV congresso dell'Internazionale Comunista. La sua figura e il suo prestigio nella sinistra italiana gli costarono virulenti attacchi da parte dei fascisti, che cercarono anche di ucciderlo.

La sua personalità dotata di grandi capacità politiche e organizzative fu descritta in maniera esemplare da Ignazio Silone: «Sotto molti aspetti, Pietro Tresso era in effetti un comunista esemplare. Caso poco frequente nel movimento operaio italiano, era un dirigente di origine proletaria che conservava intatte le qualità di freschezza e attività della sua classe sociale. Benché autodidatta, la sua viva intelligenza s'applicava allo studio degli argomenti più differenti, anche quelli che erano estranei alle necessità del lavoro pratico che il partito gli affidava. Nella conversazione con gli amici, gli piaceva manifestare il suo gusto per la conoscenza disinteressata. Era coraggioso di natura e, nelle circostanze più drammatiche del lavoro clandestino, non perdeva mai il suo buonumore».

Nel 1930 venne espulso dal PCI, insieme a due compagni dell'Ufficio Politico, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli, a causa dell'adesione al trotskismo. Diede battaglia con tutta la sua tenacia alla linea avventuristica dello stalinismo, aderì all'Opposizione di Sinistra Internazionale fondata da Trotsky; da quel momento in poi lavorò fino alla morte al suo fianco, nelle file del movimento trotskista internazionale.

Nei primi anni '30, Blasco si impegnerà a costruire e a dirigere, in Italia e in Francia, la lotta sistematica alla burocrazia sovietica. Egli era infatti oramai convinto del processo degenerativo in atto nell'URSS, processo che portò il partito di Stalin e dei suoi lacchè alla divisione della classe operaia, bollando i socialisti come "socialfascisti", contribuendo così alla vittoria del nazismo in Germania.

Nel 1943, tra il 26-27 ottobre, la sua vita giunge all'epilogo: verrà giustiziato a sangue freddo, in Francia, da sicari di Stalin, "gli affossatori della rivoluzione". Su chi abbia dato l’ordine ancora non vi è chiarezza. Sicuramente l’ordine è partito dall’alto. Sappiamo che l’esecutore materiale fu il partigiano Jean Sosso (Giovanni Sosso), un uomo dell’apparato stalinista, nato in Italia ma migrato in Francia. Dopo la guerra fu inviato in Polonia come giornalista dell’Humanité (giornale francese stalinista).

Il PC italiano si è chiuso in un silenzio compromissorio. Togliatti e Cerreti, se non direttamente colpevoli, erano sicuramente a conoscenza della morte di Tresso. Leonetti, ex storico dirigente del partito, come ha riportato il giornalista Berardi dell’Unita (giornale del PCI), nel dicembre del 1984, prima della morte, ricevette all’ospedale romano Gemelli la visita di due uomini che gli chiesero di far sparire un testo di Togliatti che, se pubblicato, avrebbe scatenato l’inferno. Leonetti li allontanò definendoli dei «corvi».

Tresso è uno di quei dirigenti come Wolf, Nin, Klement, L. Sedov, che hanno dedicato la vita per il socialismo. Militanti che si sono opposti alle tragedie della burocrazia staliniana, militanti che hanno lottato per l'internazionalismo comunista, pagando con la vita le loro idee. Tresso merita un adeguato riconoscimento, è un’icona non solo politica ma anche morale di grande valore.

Per troppo tempo le vittime dello stalinismo sono state rimosse e cadute nel dimenticatoio. Lo stalinismo non era un giudice di un tribunale operaio, ma un becchino poggiato sul sangue dei rivoluzionari.



Bibliografia essenziale su Pietro Tresso

Assassinii nel maquis. La tragica morte di Pietro Tresso - Pierre Broué - Prospettiva Edizioni

Vita di Blasco di Giorgio Sermasi, Paolo Casciola, Odeonlibri

Alfonso Leonetti. Storia di un'amicizia. Testi inediti, ricordi e corrispondenza con Roberto Massari (1973-1984)

Il vento contro - Stefano Tassinari - Marco Tropea Editore

Jean Burles
https://maitron.fr/spip.php?article18197

Jean Sosso
https://maitron.fr/spip.php?article131464

Eugenio Gemmo

Isteria filosionista in Europa


 Germania e Francia capofila della repressione contro la solidarietà alla resistenza palestinese

Una vera e propria isteria filosionista attraversa l'Europa. In particolare la Germania e la Francia.


In Germania il governo di coalizione guidato dalla socialdemocrazia ha di fatto vietato le manifestazioni di solidarietà col popolo palestinese.
In un paese in cui la presenza araba, soprattutto di provenienza siriana, è particolarmente massiccia, le manifestazioni pro Palestina sono state immediate e spontanee, a partire da Berlino. Il governo le ha denunciate come manifestazioni “a sostegno del terrorismo”, dichiarandole inammissibili. La polizia è intervenuta prima per disperderle, poi per vietarle. Il principale sindacato professionale della polizia tedesca ha dichiarato che gli immigrati arabi “solidali col terrorismo” non possono chiedere la tutela dello Stato tedesco.
Scholz ha motivato la censura contro i palestinesi con il debito che la Germania deve al popolo ebraico dopo la tragedia della Shoah. Come se il terribile l'Olocausto nazista contro gli ebrei legittimasse il massacro sionista contro il popolo palestinese. Le destre reazionarie tedesche vi hanno aggiunto il carico della propria xenofobia antiaraba. La cosa più grave è che Die Linke, la sezione tedesca de Partito della Sinistra Europea, cosiddetta radicale, si è associata all'unità nazionale filosionista, votando all'unanimità le risoluzioni parlamentari che il governo ha proposto a difesa d'Israele.

Anche in Francia la repressione colpisce duro. L'enorme presenza di popolazione araba nel paese e la lunga tradizione di solidarietà con la Palestina di ampi settori del movimento operaio francese hanno sospinto manifestazioni imponenti contro lo Stato sionista e il massacro in corso a Gaza.
Macron e il suo ministro degli interni sono ripetutamente intervenuti contro le manifestazioni. Un primo divieto è stato revocato grazie a un intervento della magistratura che ne ha contestato i fondamenti. Ma il governo è tornato alla carica con un secondo divieto di manifestare a Parigi per sabato 28 ottobre, con tanto di decreto prefettizio. Tra le motivazioni, il fatto che l'appello a manifestare sia stato sottoscritto dai marxisti rivoluzionari del Nouveau Parti Anticapitaliste, in un clima di caccia alle streghe in cui il quotidiano reazionario Le Figaro ha condotto addirittura un sondaggio tra i propri lettori sulla messa fuorilegge del NPA, per via del suo sostegno alla resistenza palestinese.
L'isteria repressiva non si limita peraltro all'estrema sinistra. Il segretario generale della CGT Nord (dipartimento di Lille), Jean Paul Delescaut, è stato arrestato con l'accusa di apologia di terrorismo per il fatto di aver espresso la propria solidarietà alla Palestina. La CGT nazionale ha protestato chiedendo la liberazione immediata del proprio dirigente.

Questi fatti dimostrano che il sostegno allo Stato sionista e alla sua barbarie giunge a calpestare libertà democratiche elementari. Una ragione in più per opporci al sionismo e a chi lo difende. Per questo dichiariamo il nostro sostegno incondizionato a tutte le organizzazioni colpite e ai loro diritti, prima di tutto il diritto di manifestare. Portiamo in particolare la nostra solidarietà ai compagni marxisti rivoluzionari di NPA, oggi nel mirino di Macron, che pagano la coerenza del proprio impegno internazionalista. La loro lotta è più che mai la nostra lotta.

Partito Comunista dei Lavoratori

Per una Palestina libera, laica e socialista

 


In un Medio Oriente socialista

26 Ottobre 2023

Testo del Volantino che distribuiremo Sabato 28, a Roma, alla manifestazione.


Non c’è soluzione della questione palestinese senza la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista.

In queste ore si susseguono i bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza. Non vengono risparmiati luoghi di culto, scuole ed ospedali, dove cercano un disperato rifugio soprattutto bambini e donne. Un massacro. Ma forse l’aspetto ancora più disumano è l’assedio totale, di stampo medievale, dichiarato dal governo israeliano ad un territorio in cui vivono oltre due milioni di persone. Centinaia di migliaia sono i cittadini costretti a scappare di casa per non fare più ritorno. È una nuova catastrofe per il popolo palestinese, una nuova Nakba, paragonabile a quella del 1948.

Innanzitutto, è necessario fermare questo genocidio. Il popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania sta resistendo. Lo sta facendo da anni, sia con le mobilitazioni di piazza che con le armi. Il Partito Comunista dei Lavoratori, sezione italiana della Opposizione Trotskista Internazionale (OTI) (https://ito-oti.org/), è incondizionatamente al fianco di questa resistenza, seguendo la tradizione sempre propria del trotskismo, che nel 1948 fu l’unica corrente del movimento operaio internazionale che si pronunciò contro la nascita dello Stato di Israele, mentre tutte le altre, in particolare gli stalinisti, sostennero apertamente lo Stato coloniale sionista contro il popolo arabo.


Lo Stato d’Israele si fa forte del sostegno delle potenze “democratiche” d’Occidente. Un sostegno politico, economico, militare. Lo stesso sostegno che già viene offerto alla prossima annunciata invasione di terra. Lo stesso sostegno di cui Israele ha goduto nei 75 anni di occupazione della Palestina.

“Lo Stato d’Israele non si tocca”. Questa è la sintesi della diplomazia mondiale, ma anche della pubblica informazione. Noi abbiamo denunciato da sempre la natura reazionaria di Hamas e le sue azioni contro i civili. Ma un conto è criticare Hamas dentro il campo della resistenza palestinese, un altro è usare cinicamente l’azione di Hamas per coprire i crimini del sionismo contro i palestinesi e la loro resistenza. L’assimilazione di antisionismo e antisemitismo è assunta come clava nel dibattito pubblico, come forma di intimidazione verso il sostegno alla Palestina, come scudo protettivo dei crimini d’Israele.

“Due popoli, due Stati” dicono i benpensanti, ma dove dovrebbe situarsi uno Stato palestinese a fianco dell’intoccabile Israele? Basta porre questa domanda elementare per diradare la nuvola di fumo. Oggi la Cisgiordania è occupata da settecentomila coloni israeliani armati che, impuniti e protetti dalle truppe, organizzano spedizioni squadristiche contro i contadini palestinesi. Gaza è sotto un assedio genocida. Dunque, chiediamo ancora: dove dovrebbe situarsi un fantomatico Stato palestinese rispettoso dello Stato d’Israele? In quale sgabuzzino dovrebbe rassegnarsi a vivere?


Solo una Palestina libera dal sionismo, una Palestina laica, una Palestina socialista, può realizzare l’autodeterminazione del popolo palestinese
, a cominciare dal diritto al ritorno di milioni di palestinesi cacciati dalla propria terra fin dal 1948. Solo questa Palestina, riconoscendo i diritti nazionali della minoranza ebraica, può consentire la pacifica convivenza di arabi ed ebrei.

Le grandi mobilitazioni delle masse arabe in questi giorni, in Algeria, in Egitto, in Tunisia, e soprattutto in Giordania e in Iraq, ci dicono che la grande maggioranza della popolazione araba supporta la lotta palestinese come una propria ragione di liberazione e di riscatto. Sviluppare ed estendere la ribellione araba a fianco del popolo palestinese, guadagnarla ad una prospettiva antimperialista e antisionista, è il compito dei marxisti rivoluzionari palestinesi e arabi. Estendere al massimo la mobilitazione al fianco del popolo palestinese a livello mondiale è il compito urgente dei marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

• Per la fine dell’assedio e del massacro di Gaza
• Al fianco della resistenza palestinese
• Per la liberazione della Palestina e la distruzione rivoluzionaria dello Stato di Israele
• Per una Palestina libera, laica e socialista nell’ambito di una Federazione socialista del Medio Oriente

Partito Comunista dei Lavoratori - Sezione italiana della Opposizione Trotskista Internazionale (OTI)

Unire le forze contro la guerra o dividerle?

 


La mobilitazione necessaria e i veti fuori luogo

24 Ottobre 2023

La manifestazione di Ghedi contro la guerra, convocata da un arco di organizzazioni che gravitano attorno al SICobas, ha visto i promotori opporre un secco e addirittura «sconcertato» rifiuto alla partecipazione del PCL.
Abbiamo giudicaro questo rifiuto politicamente sbagliato nel merito e assurdamente settario nel metodo.

In sostanza, con questa scelta i promotori hanno ritenuto opportuno delimitare la partecipazione a questa manifestazione non sulla base di rivendicazioni e parole d'ordine unificanti «contro la guerra, l’economia di guerra, il governo Meloni, la NATO», come recita l'appello di convocazione in apertura, ma sulla base di una comune identica analisi della natura del conflitto.

Prendiamo atto di questa modalità di costruzione e di mobilitazione, che evidentemente si ritiene efficace rispetto all'obiettivo che ci si propone.
Sarebbe semplice, da parte nostra, far notare la contraddizione fra il contenuto dell'appello (a partire dal titolo: «uniamo le nostre forze», «facciamo appello a tutte le realtà attive contro la guerra», «promuoviamo il 21 ottobre una mobilitazione nazionale unitaria»...) e la pratica del veto nei nostri confronti.
Così come sarebbe scontato far notare la presenza fra gli aderenti di organizzazioni (Potere al Popolo, USB [Brescia]) che ci risulta difficile far rientrare in quell'omogeneità di analisi e di posizionamento sull'Ucraina che a quanto pare era richiesta come condizione per poter partecipare alla manifestazione.

Quello che ci interessa maggiormente – il motivo principale per cui riteniamo deleteria la decisione presa dagli organizzatori – è far notare quanto questo atteggiamento sia controproducente rispetto ai fini, sterile rispetto al confronto, inefficace rispetto alle prospettive. È solamente per questo che pensiamo utile spendere ancora qualche parola.

Controproducente rispetto ai fini. Il periodo che si apre vedrà il tema della guerra sempre più all'ordine del giorno. È possibile, ed è auspicabile, che l'aumento delle tensioni interimperialiste, così come l'escalation nei teatri di guerra attuali (a cominciare dalla Palestina) e l'esplodere di nuovi conflitti, portino a mobilitazioni di massa contro la guerra anche in Italia.
Ciò vuol dire che potrebbero esserci manifestazioni contro la guerra convocate da organizzazioni come la CGIL, ARCI, ANPI, l'amplissimo e composito mondo delle varie sigle contro la guerra e dell'associazionismo in generale, ma anche da organizzazioni come i partiti della sinistra riformista in vario grado subalterni al PD.
Manifestazioni, cioè, che potrebbero eventualmente vedere il coinvolgimento non di avanguardie politiche e sindacali, ma di molte decine, se non centinaia, di migliaia di lavoratori, giovani, singoli che decideranno (magari per la prima volta in vita loro) di scendere in piazza.

Che cosa deve fare una forza di classe e anticapitalista in questo scenario? Quale deve essere il suo atteggiamento nei confronti di questi settori, di queste organizzazioni?
Noi pensiamo che sarebbe non solo sbagliato ma politicamente criminale voltare loro le spalle, o anche solo stare ai margini.
Stare ai margini di un eventuale movimento del genere avrebbe il solo effetto di non disturbare il manovratore, cioè in questo caso di consentire che la mobilitazione avvenga sotto l'indisturbata guida del pacifismo piccolo-borghese.

Una mobilitazione contro la guerra può essere efficace, e persino vincente, se modifica i rapporti di forza, se incrina il fronte guerrafondaio, se pone un argine alla narrazione e ai misfatti delle classi dominanti. E la forza per conseguire tali obiettivi – nella pratica, non solo nella propaganda – risiede solamente nella potenza messa in campo dai grandi numeri, cioè dalle masse.
Qualsiasi considerazione, per noi, muove da questo principio.
Ma se si intende parlare alle masse, bisogna essere consapevoli che le masse, persino in una situazione più avanzata, o finanche prerivoluzionaria, non sono in partenza su posizioni di classe né antimperialiste (figuriamoci disfattiste rivoluzionarie).

Se l'atteggiamento degli organizzatori della manifestazione di Ghedi prevede il rifiuto di manifestare con chi non condivide integralmente le loro posizioni e analisi sull'Ucraina, è legittimo chiedersi: pensano essi di imporre queste loro posizioni e analisi come condizione per la partecipazione a queste eventuali manifestazioni? Pensano di intervenire solamente nei casi in cui possano confrontarsi con settori che hanno le loro stesse posizioni? O intendono, al contrario, stare alla larga da queste mobilitazioni, proprio perché dominate dal pacifismo, da posizioni confuse, dall'interclassismo?

Se si ritiene che queste siano domande retoriche bisognerebbe per lo meno indicare su quale strategia, su quali tattiche, con quali interlocutori, incardinare la propaganda e l'agitazione di classe contro la guerra. Indicare cosa fare in questi (non così futuribili, e in ogni caso auspicabili) scenari. Altrimenti sarebbe lecito pensare che esse trovino il proprio inizio e la propria fine nelle manifestazioni convocate dal SICobas, e solamente in quelle.

Questi interrogativi trovano ulteriore conferma quando, come veniamo a sapere da un resoconto dell'assemblea preparatoria, gli organizzatori della manifestazione di Ghedi hanno proposto agli organizzatori delle altre due concomitanti manifestazioni per la pace [a Pisa e in Sicilia] «di lanciare un appello unitario alla mobilitazione, ma la proposta non è stata accolta». Ma se si intende organizzare una manifestazione di soli sostenitori delle posizioni dei convocatari, come mai è stato proposto un allargamento a settori e organizzazioni che chiaramente non condividono quelle posizioni?

E ci chiediamo, ancora: quanto può essere preso sul serio dichiarare, il giorno dopo la manifestazione, che «...non siamo certo soddisfatti dalla frammentazione tematica e organizzativa della giornata del 21 ottobre»?
E che senso ha da una parte rimproverare l'«attitudine anti-unitaria» dovuta al «rifiuto di altre componenti», e dall'altra parte ribadire che comunque quell'unitarietà che a parole si va cercando è in ogni caso impossibile, perché... «nessuno può sostenere che “guerra alla guerra” sia la stessa cosa che “no all’escalation” o “fuori l’Italia dalla guerra”»?

Ma andiamo avanti. Tanto il testo dell'appello quanto il resoconto dell'assemblea riconoscono la necessità di parlare alle masse e ai milioni di lavoratori. E questo è un bene. Nella storia recente italiana, il massimo avanzamento di posizioni di classe all'interno del movimento contro la guerra si riscontrò proprio quando quel movimento ebbe caratteristiche di massa, e cioè con il ciclo di mobilitazioni contro la guerra in Kosovo fino ad arrivare al movimento contro la guerra in Iraq. Non fu un caso. E non fu solamente per una ragione quantitativa.
Vorremmo far notare, di passaggio, che uno dei momenti di maggiore visibilità nella propaganda contro il "nemico in casa propria", cioè il nostro imperialismo, fu l'azione che la nostra organizzazione condusse, nella persona di Marco Ferrando, allora candidato alle elezioni politiche, a sostegno della resistenza degli iracheni contro gli invasori italiani durante la guerra scatenata nel 2003 da USA e potenze europee contro l'Iraq. In quel momento si levò da tutto l'apparato dell'informazione borghese, in blocco, un fuoco di sbarramento senza precedenti, diretto contro quelle posizioni disfattiste e antimperialiste e contro chi in quel momento le difendeva. (Il tutto mentre il 99 percento dell'allora sinistra ed estrema sinistra spasimava per convolare a nozze con il governo Prodi alle porte, cioè con il governo dell'imperialismo italiano). Ciò per quanto riguarda la cronaca, e la storia. E per quanto riguarda le patenti di "buon antimperialismo", elargite da qualcuno con troppa leggerezza e poca memoria storica.

Abbiamo ricordato questo episodio non perché siamo affezionati alla storia del PCL (alla quale in effetti siamo affezionati) quanto per sottolineare il ruolo decisivo che ebbe, in tutta quella fase, proprio la dimensione e la presa di massa del movimento contro la guerra. Fu ciò che determinò non solo la possibilità, la visibilità e le ripercussioni di quell'azione di propaganda ma anche il consenso (seppur minimo) che quell'azione seppe attirare, il tentativo di polarizzazione all'interno del movimento, la luce che fu possibile gettare su posizioni di classe, la visibilità ma anche per certi aspetti la maturazione di un punto di vista e di una strategia alternativi a quelli pacifisti e riformisti ufficiali.

E qui veniamo alla questione del confronto. È evidente che in una logica di fronte unico – e il fronte unico è ciò cui si richiamano le stesse organizzazioni dell'appello di Ghedi, e non solo per ciò che riguarda questa manifestazione – non siano né praticabili né immaginabili veti e omogeneità. Per lo meno se si intende il fronte unico come lo intendevano Lenin e Trotsky, e non come lo intendeva Bordiga. Ognuno segua chi vuole.
E ciò per il semplice motivo che il fronte unico è di massa (oltre che di classe): un fronte unico che non sia di massa è una contraddizione in termini. Non è definibile fronte unico, è un'altra cosa.
La questione è se queste pratiche e demarcazioni possano invece trovare spazio in una logica di unità d'azione delle avanguardie (o sarebbe meglio dire delle avanguardie delle avanguardie), quale è quella che intercorre tra le nostre organizzazioni, e quale è quella che è oggettivamente espressa nella manifestazione di Ghedi, al di là delle intenzioni.
Noi pensiamo che esse non siano desiderabili neanche nel caso di unità d'azione delle avanguardie.

Non è ovviamente in discussione il diritto di ogni organizzazione di delimitare come e quanto desideri l'area delle proprie interlocuzioni o della propria attività. Il punto è un altro, e cioè come si concepisce l'interlocuzione in rapporto all'azione (altrimenti non sarebbe un'unità d'azione ma un'unità d'unificazione, unità di discussione, unità di propaganda... insomma, unità per fare altro).

La divisione della classe lavoratrice oggi si riflette, direttamente o indirettamente, nell'arretratezza della sua coscienza, nella debolezza delle sue organizzazioni, nella mancanza di un referente di massa, nella subalternità alla classe dominante e ai suoi partiti, e soprattutto nella sua incapacità d'azione unitaria.
La divisione delle avanguardie (che è un riflesso essa stessa della divisione della classe, soprattutto nel lungo periodo) aggrava questo quadro e lo modifica qualitativamente. Sul terreno dell'azione, ciò vuol dire rendere impossibile quell'impulso minimo di coordinamento fra le situazioni in lotta e fra chi quella lotta la impersona. Con, a sua volta, un effetto inevitabile sulla dimensione di massa.
Ancor peggio quando si decide (o perfino si teorizza) la separazione delle avanguardie da altre avanguardie o delle avanguardie dalla massa. E quando la si decide e la si teorizza introducendo discriminanti che, in questo caso, non hanno niente a che vedere con la comune opposizione di classe ai diversi imperialismi, compreso il proprio, e il comune quadro di riferimento di princìpi.

Vediamo ormai da molti anni qual è stato il portato di questa linea e di questa logica, non solo sul terreno politico ma anche, ancor più gravemente, sul terreno sindacale. Occorre trarne un bilancio, e non è questa la sede. Ma pensiamo che l'argomento in discussione chiami in causa proprio questo.
L'esperienza delle assemblee dei lavoratori combattivi e del Patto d'azione anticapitalista (tanto per fare un esempio, che non a caso riguarda gli stessi organizzatori della manifestazione di Ghedi) hanno avuto il loro limite principale, come fu già allora nostra opinione, esattamente nella non comprensione che l'unità d'azione, e il quadro di obiettivi comuni e condivisi, non dovesse e non potesse essere subordinata all'omogeneità delle posizioni contingenti e delle analisi (vedi divisione sulla questione del green pass). E nella non comprensione che l'allargamento del fronte (il fronte unico) prevedesse non solamente l'interlocuzione e l'azione comune con le strutture di massa in quanto tali (e non solo con la loro base), ma anche la presenza e il lavoro al loro interno da parte delle avanguardie.

Le prospettive, in conclusione. Si delinea, come abbiamo detto, un periodo di inasprimento delle contraddizioni capitaliste e imperialiste su scala mondiale, con il loro precipitato di crisi (economiche, ambientali, migratorie...) sempre crescenti e con il loro corollario di guerre. Proprio le guerre – la loro natura, configurazione, caratteristiche, rapporto con le strutture economico-sociali ecc. – saranno sempre più dipendenti dallo scenario a venire.

Entrare in un'epoca di aperti scontri antimperialisti e di guerra guerreggiata vuol dire, per noi trotskisti, non solo ribadire la nostra ferma collocazione di classe, non solo tenere alti i nostri principi, ma anche dotare la classe di una propria strategia, di una propria tattica, di un proprio ruolo per trovare la strada alla sconfitta della guerra e alla vittoria di un nuovo ordine sociale. È ciò che Trotsky stesso tentò di fare, con gran scandalo dei settari e dottrinari dell'epoca, con la cosiddetta politica militare proletaria, applicandola alla Seconda guerra mondiale e allo scontro interimperialista dell'epoca. Crediamo che questo sia valido per l'oggi e per il domani.

Ma in uno scenario di guerra interimperialista le avanguardie comuniste e internazionaliste non possono non trovarsi unite nella difesa di una prospettiva disfattista, contro i governi, gli imperialismi, le loro guerre, al di fuori di ogni campismo. Una divisione delle avanguardie, ancor più in una guerra interimperialista dispiegata e in atto, non farebbe che rendere ancora più ardua la difesa di questa prospettiva. Nel vivo dello scontro aumenterebbe ulteriormente la difficoltà della presenza nei luoghi di lavoro, dell'intervento negli eserciti di leva, dell'azione in una società militarizzata e sottoposta a censura e repressione (censura e repressione in primo luogo delle avanguardie, come sempre).

L'unità d'azione non è per noi il presupposto di un cambiamento delle condizioni soggettive del proletariato. Ma non è neanche un fattore secondario rispetto alle condizioni in cui si svolge la lotta per il rovesciamento del sistema capitalista, tanto più oggi, tanto più su un tema come la guerra.
Il PCL non ha mai confuso l'unità d'azione con la costruzione del partito, né con la costruzione di fronti e blocchi politici permanenti. Ma mettere in contrapposizione questi due compiti, o, peggio, utilizzare il perimetro del proprio blocco politico come barriera per evitare o non porsi l'esigenza dell'allargamento e dell'egemonia sull'intero movimento e sulla classe, è il peggior servizio che si possa rendere alla lotta contro la guerra. Ci auguriamo che non sarà questa la linea di marcia.

Sergio Leone

L'assedio di Gaza è lo specchio del sionismo

 


Non c'è soluzione della questione palestinese senza chiamare in causa lo Stato d'Israele

23 Ottobre 2023

A Gaza siamo in presenza di un assedio disumano a due milioni di palestinesi, un crimine di massa silenzioso che si aggiunge alle vittime dei bombardamenti su case, scuole, chiese e ospedali. Tale è la privazione di acqua, cibo, medicinali, elettricità, benzina, quella che moltiplica i morti ogni giorno, ogni ora, nelle corsie d'ospedale, nelle case, sotto le tende, tutte già bombardate. Quella che persino l'Organizzazione Mondiale della Sanità si vede costretta a denunciare.

Ogni persona dotata di un minimo senso di umanità dovrebbe provare ribrezzo per questo cinismo criminale, esibito agli occhi del mondo con la più indifferente arroganza.

Il punto è che lo Stato d'Israele si fa forte del sostegno delle potenze “democratiche” d'Occidente. Un sostegno politico, economico, militare. Lo stesso sostegno che già viene offerto alla prossima annunciata invasione di terra. Lo stesso sostegno di cui Israele ha goduto nei 75 anni di occupazione della Palestina.

Lo Stato d'Israele non si tocca”. Questa è la sintesi della diplomazia mondiale, ma anche della pubblica informazione. Uno stuolo infinito di intellettuali e commentatori di estrazione liberale o addirittura “democratica” fanno a gara nel presentarsi ovunque come tutori dello Stato sionista. Tutti i sepolcri imbiancati che ogni giorno recitano il rosario sulle vittime israeliane del 7 ottobre tacciono sul crimine immensamente più grande che si sta consumando contro i civili palestinesi in queste ore sotto gli occhi dell'umanità intera. Noi abbiamo denunciato da sempre la natura reazionaria di Hamas e le sue azioni contro i civili. Ma un conto è criticare Hamas dentro il campo della resistenza palestinese, un altro è usare cinicamente l'azione di Hamas per coprire i crimini del sionismo contro i palestinesi e la loro resistenza. Crimini storici e crimini in corso. In ogni caso crimini incomparabilmente più numerosi, prolungati, efferati. O qualcuno vuol dire che incendiare villaggi, torturare prigionieri, deportare settecentomila palestinesi come nella Nakba del 1948, con uno strascico di orrori senza fine, sarebbe legittima difesa umanitaria?

La verità è che lo scempio di Gaza è un tragico fascio di luce sulla natura reale d'Israele. “Grande democrazia del Medio Oriente”? È uno Stato che non ha Costituzione, che non riconosce i propri confini orientali, che nega a due milioni di propri cittadini arabi l'uguaglianza elementare dei diritti nel nome dello Stato dei soli ebrei, che promuove e protegge la colonizzazione dei territori occupati col carico di distruzioni, umiliazioni, assassinii che la colonizzazione comporta ogni giorno... Sarebbe questa la democrazia?

Difendiamo Israele perché gli ebrei sono state vittima dell'Olocausto”. Ma perché l'infinito orrore dell'Olocausto nazista contro gli ebrei, il peggio della storia intera del Novecento, senza paragone alcuno, dovrebbe legittimare la pulizia etnica contro i palestinesi, la loro storica deportazione e oppressione? Semmai dovrebbe essere una ragione in più per rifiutare ogni oppressione e persecuzione. Perché nessun popolo può essere libero se ne opprime un altro. Eppure la più sconcia assimilazione di antisionismo e antisemitismo è assunta come clava nel dibattito pubblico, come forma di intimidazione verso il sostegno alla Palestina, come scudo protettivo dei crimini d'Israele.

Due popoli, due Stati” concedono al più i benpensanti. Curioso. Dopo essere stata osannata per mezzo secolo dalle sinistre riformiste di tutto il mondo, la formula “due popoli, due Stati” è oggi talmente vuota e ipocrita da essere assunta in prima persona da tutti i peggiori sostenitori della guerra d'Israele contro Gaza. Dall'immancabile imperialismo USA sino a Giorgia Meloni. Passando per quei regimi arabi che per mezzo secolo hanno scaricato i palestinesi quando non li hanno direttamente repressi e ammazzati (Settembre nero in Giordania, 1970). E per i nuovi imperialismi russo e cinese che cercano nuovi clienti tra questi stessi regimi sfruttando la crisi dell'egemonia americana.

Di grazia, dove dovrebbe situarsi uno Stato palestinese a fianco dell'intoccabile Israele? Basta porre questa domanda elementare per diradare la nuvola di fumo. La risposta sta nei famosi accordi di Oslo: accordi truffa che in cambio del riconoscimento dello Stato sionista relegavano i palestinesi in piccoli bantustan senza futuro, territori occupati e colonizzati dallo Stato sionista con la complicità crescente della stessa leadership palestinese.
Oggi peraltro la Cisgiordania è occupata da settecentomila coloni israeliani, armati dalla testa ai piedi, che scorrazzano impuniti e protetti dalle truppe, e Gaza è sotto un assedio genocida. Dunque chiediamo nuovamente: dove dovrebbe situarsi un fantomatico Stato palestinese rispettoso dello Stato d'Israele? I sei milioni di palestinesi dei campi profughi, i quattro milioni di palestinesi di Cisgiordania, i due milioni di palestinesi di Gaza, i due milioni di arabi israeliani, una netta maggioranza della popolazione di Palestina (e ancor più, in proiezione demografica) in quale sgabuzzino dovrebbe rassegnarsi a vivere?

La verità è che ogni soluzione della questione palestinese passa per il diritto al ritorno. E ogni diritto al ritorno mette in discussione l'esistenza dell'attuale Stato d'Israele. Non degli ebrei naturalmente, ma dello Stato sionista. Di uno Stato coloniale nato dall'espulsione di un altro popolo.
Solo una Palestina libera dal sionismo, una Palestina laica, una Palestina socialista, può realizzare l'autodeterminazione del popolo palestinese, riconoscendo i diritti nazionali della minoranza ebraica. Solo una simile soluzione consentirebbe la pacifica convivenza di arabi ed ebrei.

Ma questo significherebbe cancellare l'attuale geografia del Medio Oriente” protestano in nome del realismo non pochi progressisti. Sì, significherebbe esattamente questo. Significherebbe cancellare quello che le potenze imperialiste e lo Stato sionista hanno disegnato con riga e compasso in terra araba, con tanto di guerre d'invasione e di massacri. Significherebbe mettere in discussione gli stessi corrotti regimi arabi. Significherebbe saldare la rivoluzione palestinese con una rivoluzione nazionale araba, in direzione di una federazione socialista araba e del Medio Oriente.

Le grandi mobilitazioni delle masse arabe in questi giorni, in Algeria, in Egitto, in Tunisia, e soprattutto in Giordania e in Iraq, ci dicono che la grande maggioranza della popolazione araba, al di là degli attuali confini, vive la questione palestinese come una propria ragione di liberazione e di riscatto. Non a caso proprio il timore di una grande rivolta araba agita le cancellerie di tutto il mondo, e tutte le borghesie del Medio Oriente.

Sviluppare ed estendere la ribellione araba a fianco del popolo palestinese, guadagnarla ad una prospettiva antimperialista e antisionista, è il compito dei marxisti rivoluzionari palestinesi e arabi. In alternativa ad ogni fondamentalismo panislamista, ad ogni conciliazione col sionismo, a ogni forma di subordinazione agli imperialismi, vecchi e nuovi che siano.

Marco Ferrando

I buoni affari del colonialismo israeliano

 


La guerra di occupazione di Israele da un altro punto di vista


La grancassa mediatica nei paesi imperialisti USA e UE ha puntato tutta la sua attenzione sugli attacchi terroristici di Hamas e la guerra in Israele. Questa guerra è descritta come una guerra tra due popoli, tra due religioni e tra due concezioni della vita civile. Inutile aggiungere che la stragrande maggioranza dei mass media in modo esplicito o indiretto parteggia per il popolo di Israele, la sua religione e la sua civiltà.

I diritti del popolo palestinese al massimo vengono a rimorchio. Ma siamo sicuri che tutti i motivi del conflitto si riducano a questi?

Israele è un media potenza industriale. Il suo PIL nel 2002 è stato di oltre 500 miliardi di dollari, circa un quarto di quello italiano, uno dei paesi imperialisti d’Europa, mentre il PIL pro capite è di oltre il 55% maggiore di quello italiano. Non è un paese imperialista, ma un ricco paese capitalista con un’alleanza di ferro con l’imperialismo USA.

In confronto il territorio amministrato dall’Autorità nazionale Palestinese, la Cisgiordania o West Bank, ha un’economia poverissima, che la banca mondiale ha definito “insostenibile” nel 2022. Gaza unisce all’estrema povertà, con tassi di disoccupazione giovanile oltre il 70%, un sistema totalitario di controllo sociale da parte delle autorità israeliane che la rende una prigione a cielo aperto. Questo divario tra l’economia di Israele e i territori palestinesi non è un caso. Non è dovuto alla buona volontà e all'industriosità dei cittadini di Israele, ma è uno dei fattori della floridità economica israeliana.

Con la Tonak (Bibbia ebraica) e la Torah in mano i coloni israeliani non mirano soltanto a riconquistare la terra promessa. Piuttosto aprono la strada allo sfruttamento capitalistico dei territori occupati sia da parte delle compagnie israeliane che quelle multinazionali.

Nel 2010 l’economia dei Kibbutz, alcuni dei quali risiedono nei territori occupati da Israele dopo il 1947, con le loro fabbriche e le loro aziende agricole arrivavano a costituire il 9% del prodotto industriale e il 40% di quello agricolo.
Negli insediamenti illegali di Israele in Cisgiordania dell’ultimo mezzo secolo, sono state demolite migliaia di abitazioni palestinesi allo scopo di costruire nuove abitazioni e sono state dirottate, ossia letteralmente rapinate, le risorse naturali palestinesi come le terre più fertili e soprattutto l’acqua.

Da cosa nasce cosa, cosicché questi insediamenti sono diventati una risorsa sempre più lucrosa da sfruttare.
Oltre allo sfruttamento agricolo è diventato profittevole l’investimento nella industria del turismo.

Come denuncia Amnesty International nel suo rapporto “destination: occupation", del 2019, 4 grandi agenzie turistiche internazionali offono numerosissime destinazioni site nei territori occupati:

Airbnb, con sede negli USA, ha 300 proprietà negli insediamenti dei Territori palestinesi occupatiTripAdvisor, anch’essa con sede negli USA, Usa, oltre 70 tra attrazioni, tour, ristoranti, bar, alberghi e appartamenti in affitto; Booking.com, con sede in Olanda, 45 alberghi e affitti; Expedia, nove destinazioni di soggiorno, tra cui quattro grandi alberghi.

Così siti archeologici e naturalistici illegittimamente occupati dallo stato israeliano diventano meta del turismo di massa e fonte di profitto per le aziende internazionali e israeliane, oltre a creare un indotto economico da cui ovviamente la popolazione palestinese è esclusa.

Ma i meccanismi di sfruttamento coloniale coinvolgono anche altri e più grandi attori dei più svariati settori produttivi e di fornitura dei servizi.

Alcuni di questi sono elencati nel database fornito dall’ONU
 che enumera oltre alle numerosissime compagnie israeliane, anche gradi gruppi USA ed europei tra cui Egis Rail, grande compagnia di trasporti francese appartenente ad un gruppo di 1,5 miliari di euro di capitale; la C Bamford Excavators Limited, più conosciuta come JCB, multinazionale inglese che produce attrezzature per la costruzione edilizia, la demolizione e l'agricoltura (è inoltre il terzo più grande produttore di macchine agricole del mondo con un fatturato di circa 4 miliardi di sterline); la Tahal group International BV, multinazionale ingegneristica con sede ad Amsterdam; la francese Alstom che opera nel settore delle costruzioni ferroviarie con un reddito netto di 275 milioni di euro nel 2022; Altice Europe N.V. multinazionale olandese che si occupa di telecomunicazioni e mezzi di comunicazione di massa con un fatturato di 3 miliardi di euro nel 2013; eDreams con sede in Lussemburgo, una delle più grandi compagnie di viaggio on line; la General Milss, multinazionale americana del settore alimentare con un fatturato di oltre 17 miliardi di dollari nel 2020; Motorola solutions fornitore statunitense di apparecchiature di comunicazione e telecomunicazione le cui azioni in Borsa valgono attualmente circa 290 dollari.

Tuttavia queste compagnie non sono che una goccia nel mare.

Il rapporto Don’t Buy into Occupation (DBIO), composto da 25 ONG palestinesi ed europee, è risalito ai rapporti finanziari che queste società hanno a loro volta con circa 700 gruppi europei. Si tratta per lo più di istituzioni finanziarie, banche, compagnie di assicurazione, fondi pensionistici, che hanno fornito loro 114 miliardi di dollari nel 2020 e ben 141 in azioni e obbligazioni nel 2021.

50 grandi compagnie sono coinvolte nello sfruttamento dei territori occupati. I loro finanziamenti dipendono da 10 gruppi individuati bancari e finanziari che hanno fornito loro, da soli, attraverso prestiti e sottoscrizioni, 77,81 miliardi di dollari alle imprese che sono attivamente coinvolte negli insediamenti israeliani: BNP Paribas (Francia, 17,30 miliardi), Deutsche Bank (Germania, 12,03 miliardi), HSBC (Gran Bretagna, 8,72 miliardi), Barclays (Gran Bretagna, 8,69 miliardi), Société Générale (Francia, 8,20 miliardi), Crédit Agricole (Francia, 5,55 miliardi), Santander (Spagna, 4,75 iliardi), ING Group (Olanda, 4,60 miliardi), Commerzbank (Germania, 4,37 miliardi). L’ultima della top ten, l’italiana UniCredit, ha fornito 3,58 bilioni di dollari.

Due considerazioni emergono immediatamente.

La prima è che sono “miliardi” i motivi per cui i governi dei paesi imperialisti europei si sono posti incondizionatamente al fianco di Israele. Semplicemente difendono i propri listini.

Il governo Meloni ovviamente non si distingue e fa, della sua morale a corrente alternata, carta igienica per l’affarismo criminale e putrescente dei patrii interessi. Come scrive Altreconomia:

«La multinazionale tedesca HeidelbergCement - una delle principali multinazionali del cemento sul mercato mondiale, proprietaria dell’italiana Italcementi - è complice della violazione dei diritti della popolazione palestinese che vive nei Territori palestinesi occupati (OPT). A sostenerlo sono Al-Haq, organizzazione impegnata in attività di denuncia degli abusi commessi da Israele, e Somo, centro di ricerca sulle multinazionali con sede ad Amsterdam».

«Le operazioni estrattive, effettuate attraverso la controllata Hanson Israel, “hanno avuto luogo in un contesto caratterizzato da deliberate politiche istituzionali che mirano alla confisca e allo sfruttamento delle terre e risorse palestinesi da parte di Israele. Inoltre queste attività hanno consentito di mettere a disposizione materiali poi utilizzati per espandere le colonie israeliane”, scrivono Al-Haq e Somo in un comunicato indirizzato all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nel 2020»

Seconda considerazione. Il PIL israeliano è rappresentato in buona parte dallo sfruttamento illegale dei territori occupati ed è lecito pensare che anche il territorio di Gaza sia nel mirino di questi appetiti finanziari.

L’economia predatoria delle terre colonizzate supporta tanto i grandi capitalisti israeliani quanto i capitalisti dei paesi imperialisti, USA ed europei, che per questo hanno tutto l’interesse a rafforzare la forza armata sionista che rappresenta la vera ossatura e la ragione d’essere dello Stato di Israele. Il volume d’affari anche nella compravendita degli armamenti tra Israele e paesi imperialisti, in questo caso compresa la Russia, ne è un necessario corollario.

L’assalto ai territori palestinesi ci ricorda la “conquista del west” da parte dei coloni statunitensi che provocò lo sterminio genocida dei popoli nativi, i cui pochi rimasti vennero rinchiusi nelle riserve. Il futuro dei palestinesi, se Israele non viene fermata, sarà segnato da una nuova Nakba.

Come allora negli Usa, nonostante tutta l’epopea cinematografica di Hollywood, non si tratta di portare la civiltà.
Quale civiltà ci chiediamo: quella che organizza spedizioni squadristiche contro i cittadini palestinesi o che, tramite il proprio esercito, massacra scuole e ospedali di Gaza?

Più prosaicamente, dietro la cortina fumogena del conflitto tra religioni e culture, ci stanno gli ottimi affari e l’inserimento di Israele nel mercato capitalista e finanziario mondiale.

La rapina di acqua, terre, risorse minerarie e archeologiche a danno dei palestinesi con tutte le sue specificità, non costituisce altro che un episodio, della rapina che il capitalismo, nella sua fase imperialista, commette ai danni dei popoli sfruttati del mondo e ai danni del proletariato internazionale.

Questo, come d’altra parta su scala mondiale lo scontro tra le grandi aree geopolitiche (ad esempio USA e UE contro l’alleanza tra gli imperialismi russo e cinese), è il vero motore del conflitto israelo-palestinese.

La rapina israeliana e imperialista costituisce un elemento fondamentale della natura di tale conflitto.

La necessita di fermare questa rapina, con la distruzione rivoluzionaria dello Stato d'Israele, è una condizione obbiettiva della necessità della liberazione della Palestina, che possa consentire ai palestinesi il diritto al ritorno nella propria terra.

Solo la piena e libera autodeterminazione del popolo palestinese potrà permettere una pacifica convivenza con la minoranza ebraica.

Per questo la liberazione del popolo palestinese non è concepibile se non riconducendola ad una prospettiva socialista, in Palestina e in tutto il Medio oriente.

Federico Bacchiocchi

Syriza e Die Linke al fianco dello Stato sionista

 


Cosa ne pensa la sinistra “radicale” italiana?

17 Ottobre 2023

English translation

L'isteria dei circoli dominanti europei a favore di Israele ha aperto una breccia inquietante nel Partito della Sinistra Europea (cui aderisce il PRC italiano).


Syriza, appena scalata da un uomo d'affari, «condanna senza equivoci l'attacco perpetrato da Hamas contro Israele» ed esprime solidarietà al popolo israeliano. Una posizione talmente sbilanciata a favore dello Stato sionista da provocare la protesta di un settore giovanile del partito («Non è possibile assimilare le responsabilità degli oppressori a quello delle vittime... condannare l'attacco di Hamas e tacere sullo Stato d'Israele e la sua politica»).

In Germania Die Linke fa di peggio: «Condanniamo con la più grande fermezza i terribili attacchi terroristi di Hamas contro Israele (...) L'obiettivo di Hamas è la distruzione d'Israele (...) In ragione della storia della Shoah e dell'antisemitismo, lo Stato d'Israele è una necessità storica che non deve mai essere messa in discussione». Una dichiarazione che addirittura fa propria l'assimilazione di antisionismo e antisemitismo, fiore all'occhiello di tutta la propaganda reazionaria, legittimando i settantacinque anni di oppressione sui palestinesi.

Domanda: Rifondazione ha qualcosa da dire sui suoi alleati in Europa?

Partito Comunista dei Lavoratori

Risoluzione sulla Palestina - adottata dal Comitato Internazionale dell'Opposizione Trotskysta Internazionale (OTI-ITO)

 


Risoluzione sulla Palestina

Adoptada por el Comité Internacional de Coordinación de la OTI

15 octubre 2023

Il pericolo maggiore nella situazione internazionale continua ad essere il confronto tra il blocco imperialista guidato dagli Stati Uniti e il blocco imperialista Russia-Cina, la cui espressione più acuta è la guerra in Ucraina. Ma altre crisi incombono, tra cui un’imminente e probabilmente grave recessione economica e l’accelerazione del cambiamento climatico, che intensificheranno la miseria di miliardi di lavoratori e contadini in tutto il mondo e porteranno ad altre guerre e migrazioni.

Le potenze regionali stanno manovrando per trarre vantaggio dal confronto tra grandi potenze. Una delle manovre più perniciose è il tentativo di Israele di spezzare la volontà di resistenza del popolo palestinese espandendo gli insediamenti sionisti in Cisgiordania, isolando Gaza come una prigione a cielo aperto e coprendo il suo genocidio con la “normalizzazione” delle relazioni con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri Stati arabi reazionari.

L’attacco di Hamas a Israele lanciato il 7 ottobre, cinquant’anni dopo l’inizio della guerra del 1973 da parte di Egitto e Siria contro Israele, dimostra che il popolo palestinese ha ancora la volontà di resistere. Militarmente è quasi certo che sarà sconfitto, ma politicamente è riuscito a demolire la pretesa che Israele e, dietro di esso, gli Stati Uniti, possano avere una pace senza giustizia in Palestina.

Il popolo palestinese a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora sostiene l’azione di Hamas, qualunque sia il risultato. I popoli arabi la sostengono. La monarchia saudita ha dovuto sospendere il suo avvicinamento a Israele. I lavoratori e i rivoluzionari di tutto il mondo dovrebbero sostenerla come espressione della resistenza palestinese, nonostante le nostre critiche ad Hamas, alla sua strategia del martirio e alle sue uccisioni indiscriminate di civili non armati o in età militare (anche se riconosciamo che ciò è in parte espressione della rabbia dei palestinesi per i massacri e l’espropriazione del loro popolo da parte di Israele).

Dalla parte dei palestinesi, contro lo stato di Israele

In piena autonomia dalla destra religiosa di Hamas, ma sempre dalla parte di un popolo oppresso contro le forze d’occupazione

L’attacco militare di Hamas solleva in queste ore l’onda della solidarietà con Israele da parte di tutta la diplomazia imperialista, ad ogni angolo del pianeta. Tonnellate di ipocrisia rivoltante. Che ignora l’oppressione della Palestina. Che confonde oppressori ed oppressi. Che rimuove le responsabilità decisive dell’imperialismo nel sostegno al terrore sionista.

Da marxisti rivoluzionari abbiamo sempre denunciato la natura politica di Hamas, la Fratellanza Musulmana cui appartiene, il regime con cui governa Gaza, le sue pratiche d’azione contro civili, il sostegno che fornisce alla dittatura dei mullah in Iran o al regime di Erdogan in Turchia. Ma un conto è la battaglia politica contro la destra religiosa dentro il campo della resistenza palestinese al sionismo. Un altro è il sostegno allo Stato sionista contro il popolo palestinese e il suo diritto alla resistenza.

Non abbiamo incertezze su quale campo scegliere. Come ovunque, scegliamo la difesa incondizionata di un popolo oppresso, il suo diritto alla libera autodeterminazione, il suo diritto alla resistenza contro le forze d’occupazione, indipendentemente dalla natura politica delle sue direzioni.

Lo stato d’Israele è nato dall’espulsione del popolo palestinese dalla propria terra attraverso i metodi del terrore. Tutta la storia dell’occupazione sionista della Palestina si regge sulla pratica del terrore. Terrore praticato dalle forze militari di occupazione e dai coloni. Terrore in Cisgiordania, dove si sono insediati ormai ben 700000 coloni. Terrore nei confronti della popolazione di Gaza, contro cui Israele negli ultimi diciotto anni ha già condotto sei guerre, con diverse migliaia di palestinesi assassinati.
Proprio l’attuale governo di estrema destra di Netanyahu ha esteso e moltiplicato i metodi terroristici contro i palestinesi e i loro diritti. Basti pensare alle barbare operazioni condotte recentemente dalle truppe sioniste nei campi profughi di Jenin.

Parlare, tanto più oggi, del “diritto di Israele alla propria difesa” è semplicemente la spudorata difesa del terrorismo quotidiano del sionismo.

A chi invoca la “pace in Medio Oriente” diciamo che non vi sarà mai alcuna pace possibile tra uno stato che opprime e un popolo oppresso. Che tutti i cosiddetti accordi di pace con Israele, come i famosi accordi di Oslo del 1993 (benedetti dalle sinistre riformiste di tutto il mondo), si sono rivelati un inganno per i palestinesi. Che solo la distruzione rivoluzionaria dello Stato d’Israele, dei suoi fondamenti giuridici, confessionali, militari, potrà liberare la Palestina, consentendo ai palestinesi il diritto al ritorno nella propria terra. Che solo la piena e libera autodeterminazione del popolo palestinese potrà permettere una pacifica convivenza con la minoranza ebraica. Che solo riconducendo la resistenza palestinese ad una prospettiva socialista, in Palestina e in tutto il Medio oriente, sarà possibile realizzare questa soluzione storica, l’unica soluzione reale della questione palestinese.


http://ito-oti.org/risoluzione-sulla-palestina-2023-10/