24 Ottobre 2023
La manifestazione di Ghedi contro la guerra, convocata da un arco di organizzazioni che gravitano attorno al SICobas, ha visto i promotori opporre un secco e addirittura «sconcertato» rifiuto alla partecipazione del PCL.
Abbiamo giudicaro questo rifiuto politicamente sbagliato nel merito e assurdamente settario nel metodo.
In sostanza, con questa scelta i promotori hanno ritenuto opportuno delimitare la partecipazione a questa manifestazione non sulla base di rivendicazioni e parole d'ordine unificanti «contro la guerra, l’economia di guerra, il governo Meloni, la NATO», come recita l'appello di convocazione in apertura, ma sulla base di una comune identica analisi della natura del conflitto.
Prendiamo atto di questa modalità di costruzione e di mobilitazione, che evidentemente si ritiene efficace rispetto all'obiettivo che ci si propone.
Sarebbe semplice, da parte nostra, far notare la contraddizione fra il contenuto dell'appello (a partire dal titolo: «uniamo le nostre forze», «facciamo appello a tutte le realtà attive contro la guerra», «promuoviamo il 21 ottobre una mobilitazione nazionale unitaria»...) e la pratica del veto nei nostri confronti.
Così come sarebbe scontato far notare la presenza fra gli aderenti di organizzazioni (Potere al Popolo, USB [Brescia]) che ci risulta difficile far rientrare in quell'omogeneità di analisi e di posizionamento sull'Ucraina che a quanto pare era richiesta come condizione per poter partecipare alla manifestazione.
Quello che ci interessa maggiormente – il motivo principale per cui riteniamo deleteria la decisione presa dagli organizzatori – è far notare quanto questo atteggiamento sia controproducente rispetto ai fini, sterile rispetto al confronto, inefficace rispetto alle prospettive. È solamente per questo che pensiamo utile spendere ancora qualche parola.
Controproducente rispetto ai fini. Il periodo che si apre vedrà il tema della guerra sempre più all'ordine del giorno. È possibile, ed è auspicabile, che l'aumento delle tensioni interimperialiste, così come l'escalation nei teatri di guerra attuali (a cominciare dalla Palestina) e l'esplodere di nuovi conflitti, portino a mobilitazioni di massa contro la guerra anche in Italia.
Ciò vuol dire che potrebbero esserci manifestazioni contro la guerra convocate da organizzazioni come la CGIL, ARCI, ANPI, l'amplissimo e composito mondo delle varie sigle contro la guerra e dell'associazionismo in generale, ma anche da organizzazioni come i partiti della sinistra riformista in vario grado subalterni al PD.
Manifestazioni, cioè, che potrebbero eventualmente vedere il coinvolgimento non di avanguardie politiche e sindacali, ma di molte decine, se non centinaia, di migliaia di lavoratori, giovani, singoli che decideranno (magari per la prima volta in vita loro) di scendere in piazza.
Che cosa deve fare una forza di classe e anticapitalista in questo scenario? Quale deve essere il suo atteggiamento nei confronti di questi settori, di queste organizzazioni?
Noi pensiamo che sarebbe non solo sbagliato ma politicamente criminale voltare loro le spalle, o anche solo stare ai margini.
Stare ai margini di un eventuale movimento del genere avrebbe il solo effetto di non disturbare il manovratore, cioè in questo caso di consentire che la mobilitazione avvenga sotto l'indisturbata guida del pacifismo piccolo-borghese.
Una mobilitazione contro la guerra può essere efficace, e persino vincente, se modifica i rapporti di forza, se incrina il fronte guerrafondaio, se pone un argine alla narrazione e ai misfatti delle classi dominanti. E la forza per conseguire tali obiettivi – nella pratica, non solo nella propaganda – risiede solamente nella potenza messa in campo dai grandi numeri, cioè dalle masse.
Qualsiasi considerazione, per noi, muove da questo principio.
Ma se si intende parlare alle masse, bisogna essere consapevoli che le masse, persino in una situazione più avanzata, o finanche prerivoluzionaria, non sono in partenza su posizioni di classe né antimperialiste (figuriamoci disfattiste rivoluzionarie).
Se l'atteggiamento degli organizzatori della manifestazione di Ghedi prevede il rifiuto di manifestare con chi non condivide integralmente le loro posizioni e analisi sull'Ucraina, è legittimo chiedersi: pensano essi di imporre queste loro posizioni e analisi come condizione per la partecipazione a queste eventuali manifestazioni? Pensano di intervenire solamente nei casi in cui possano confrontarsi con settori che hanno le loro stesse posizioni? O intendono, al contrario, stare alla larga da queste mobilitazioni, proprio perché dominate dal pacifismo, da posizioni confuse, dall'interclassismo?
Se si ritiene che queste siano domande retoriche bisognerebbe per lo meno indicare su quale strategia, su quali tattiche, con quali interlocutori, incardinare la propaganda e l'agitazione di classe contro la guerra. Indicare cosa fare in questi (non così futuribili, e in ogni caso auspicabili) scenari. Altrimenti sarebbe lecito pensare che esse trovino il proprio inizio e la propria fine nelle manifestazioni convocate dal SICobas, e solamente in quelle.
Questi interrogativi trovano ulteriore conferma quando, come veniamo a sapere da un resoconto dell'assemblea preparatoria, gli organizzatori della manifestazione di Ghedi hanno proposto agli organizzatori delle altre due concomitanti manifestazioni per la pace [a Pisa e in Sicilia] «di lanciare un appello unitario alla mobilitazione, ma la proposta non è stata accolta». Ma se si intende organizzare una manifestazione di soli sostenitori delle posizioni dei convocatari, come mai è stato proposto un allargamento a settori e organizzazioni che chiaramente non condividono quelle posizioni?
E ci chiediamo, ancora: quanto può essere preso sul serio dichiarare, il giorno dopo la manifestazione, che «...non siamo certo soddisfatti dalla frammentazione tematica e organizzativa della giornata del 21 ottobre»?
E che senso ha da una parte rimproverare l'«attitudine anti-unitaria» dovuta al «rifiuto di altre componenti», e dall'altra parte ribadire che comunque quell'unitarietà che a parole si va cercando è in ogni caso impossibile, perché... «nessuno può sostenere che “guerra alla guerra” sia la stessa cosa che “no all’escalation” o “fuori l’Italia dalla guerra”»?
Ma andiamo avanti. Tanto il testo dell'appello quanto il resoconto dell'assemblea riconoscono la necessità di parlare alle masse e ai milioni di lavoratori. E questo è un bene. Nella storia recente italiana, il massimo avanzamento di posizioni di classe all'interno del movimento contro la guerra si riscontrò proprio quando quel movimento ebbe caratteristiche di massa, e cioè con il ciclo di mobilitazioni contro la guerra in Kosovo fino ad arrivare al movimento contro la guerra in Iraq. Non fu un caso. E non fu solamente per una ragione quantitativa.
Vorremmo far notare, di passaggio, che uno dei momenti di maggiore visibilità nella propaganda contro il "nemico in casa propria", cioè il nostro imperialismo, fu l'azione che la nostra organizzazione condusse, nella persona di Marco Ferrando, allora candidato alle elezioni politiche, a sostegno della resistenza degli iracheni contro gli invasori italiani durante la guerra scatenata nel 2003 da USA e potenze europee contro l'Iraq. In quel momento si levò da tutto l'apparato dell'informazione borghese, in blocco, un fuoco di sbarramento senza precedenti, diretto contro quelle posizioni disfattiste e antimperialiste e contro chi in quel momento le difendeva. (Il tutto mentre il 99 percento dell'allora sinistra ed estrema sinistra spasimava per convolare a nozze con il governo Prodi alle porte, cioè con il governo dell'imperialismo italiano). Ciò per quanto riguarda la cronaca, e la storia. E per quanto riguarda le patenti di "buon antimperialismo", elargite da qualcuno con troppa leggerezza e poca memoria storica.
Abbiamo ricordato questo episodio non perché siamo affezionati alla storia del PCL (alla quale in effetti siamo affezionati) quanto per sottolineare il ruolo decisivo che ebbe, in tutta quella fase, proprio la dimensione e la presa di massa del movimento contro la guerra. Fu ciò che determinò non solo la possibilità, la visibilità e le ripercussioni di quell'azione di propaganda ma anche il consenso (seppur minimo) che quell'azione seppe attirare, il tentativo di polarizzazione all'interno del movimento, la luce che fu possibile gettare su posizioni di classe, la visibilità ma anche per certi aspetti la maturazione di un punto di vista e di una strategia alternativi a quelli pacifisti e riformisti ufficiali.
E qui veniamo alla questione del confronto. È evidente che in una logica di fronte unico – e il fronte unico è ciò cui si richiamano le stesse organizzazioni dell'appello di Ghedi, e non solo per ciò che riguarda questa manifestazione – non siano né praticabili né immaginabili veti e omogeneità. Per lo meno se si intende il fronte unico come lo intendevano Lenin e Trotsky, e non come lo intendeva Bordiga. Ognuno segua chi vuole.
E ciò per il semplice motivo che il fronte unico è di massa (oltre che di classe): un fronte unico che non sia di massa è una contraddizione in termini. Non è definibile fronte unico, è un'altra cosa.
La questione è se queste pratiche e demarcazioni possano invece trovare spazio in una logica di unità d'azione delle avanguardie (o sarebbe meglio dire delle avanguardie delle avanguardie), quale è quella che intercorre tra le nostre organizzazioni, e quale è quella che è oggettivamente espressa nella manifestazione di Ghedi, al di là delle intenzioni.
Noi pensiamo che esse non siano desiderabili neanche nel caso di unità d'azione delle avanguardie.
Non è ovviamente in discussione il diritto di ogni organizzazione di delimitare come e quanto desideri l'area delle proprie interlocuzioni o della propria attività. Il punto è un altro, e cioè come si concepisce l'interlocuzione in rapporto all'azione (altrimenti non sarebbe un'unità d'azione ma un'unità d'unificazione, unità di discussione, unità di propaganda... insomma, unità per fare altro).
La divisione della classe lavoratrice oggi si riflette, direttamente o indirettamente, nell'arretratezza della sua coscienza, nella debolezza delle sue organizzazioni, nella mancanza di un referente di massa, nella subalternità alla classe dominante e ai suoi partiti, e soprattutto nella sua incapacità d'azione unitaria.
La divisione delle avanguardie (che è un riflesso essa stessa della divisione della classe, soprattutto nel lungo periodo) aggrava questo quadro e lo modifica qualitativamente. Sul terreno dell'azione, ciò vuol dire rendere impossibile quell'impulso minimo di coordinamento fra le situazioni in lotta e fra chi quella lotta la impersona. Con, a sua volta, un effetto inevitabile sulla dimensione di massa.
Ancor peggio quando si decide (o perfino si teorizza) la separazione delle avanguardie da altre avanguardie o delle avanguardie dalla massa. E quando la si decide e la si teorizza introducendo discriminanti che, in questo caso, non hanno niente a che vedere con la comune opposizione di classe ai diversi imperialismi, compreso il proprio, e il comune quadro di riferimento di princìpi.
Vediamo ormai da molti anni qual è stato il portato di questa linea e di questa logica, non solo sul terreno politico ma anche, ancor più gravemente, sul terreno sindacale. Occorre trarne un bilancio, e non è questa la sede. Ma pensiamo che l'argomento in discussione chiami in causa proprio questo.
L'esperienza delle assemblee dei lavoratori combattivi e del Patto d'azione anticapitalista (tanto per fare un esempio, che non a caso riguarda gli stessi organizzatori della manifestazione di Ghedi) hanno avuto il loro limite principale, come fu già allora nostra opinione, esattamente nella non comprensione che l'unità d'azione, e il quadro di obiettivi comuni e condivisi, non dovesse e non potesse essere subordinata all'omogeneità delle posizioni contingenti e delle analisi (vedi divisione sulla questione del green pass). E nella non comprensione che l'allargamento del fronte (il fronte unico) prevedesse non solamente l'interlocuzione e l'azione comune con le strutture di massa in quanto tali (e non solo con la loro base), ma anche la presenza e il lavoro al loro interno da parte delle avanguardie.
Le prospettive, in conclusione. Si delinea, come abbiamo detto, un periodo di inasprimento delle contraddizioni capitaliste e imperialiste su scala mondiale, con il loro precipitato di crisi (economiche, ambientali, migratorie...) sempre crescenti e con il loro corollario di guerre. Proprio le guerre – la loro natura, configurazione, caratteristiche, rapporto con le strutture economico-sociali ecc. – saranno sempre più dipendenti dallo scenario a venire.
Entrare in un'epoca di aperti scontri antimperialisti e di guerra guerreggiata vuol dire, per noi trotskisti, non solo ribadire la nostra ferma collocazione di classe, non solo tenere alti i nostri principi, ma anche dotare la classe di una propria strategia, di una propria tattica, di un proprio ruolo per trovare la strada alla sconfitta della guerra e alla vittoria di un nuovo ordine sociale. È ciò che Trotsky stesso tentò di fare, con gran scandalo dei settari e dottrinari dell'epoca, con la cosiddetta politica militare proletaria, applicandola alla Seconda guerra mondiale e allo scontro interimperialista dell'epoca. Crediamo che questo sia valido per l'oggi e per il domani.
Ma in uno scenario di guerra interimperialista le avanguardie comuniste e internazionaliste non possono non trovarsi unite nella difesa di una prospettiva disfattista, contro i governi, gli imperialismi, le loro guerre, al di fuori di ogni campismo. Una divisione delle avanguardie, ancor più in una guerra interimperialista dispiegata e in atto, non farebbe che rendere ancora più ardua la difesa di questa prospettiva. Nel vivo dello scontro aumenterebbe ulteriormente la difficoltà della presenza nei luoghi di lavoro, dell'intervento negli eserciti di leva, dell'azione in una società militarizzata e sottoposta a censura e repressione (censura e repressione in primo luogo delle avanguardie, come sempre).
L'unità d'azione non è per noi il presupposto di un cambiamento delle condizioni soggettive del proletariato. Ma non è neanche un fattore secondario rispetto alle condizioni in cui si svolge la lotta per il rovesciamento del sistema capitalista, tanto più oggi, tanto più su un tema come la guerra.
Il PCL non ha mai confuso l'unità d'azione con la costruzione del partito, né con la costruzione di fronti e blocchi politici permanenti. Ma mettere in contrapposizione questi due compiti, o, peggio, utilizzare il perimetro del proprio blocco politico come barriera per evitare o non porsi l'esigenza dell'allargamento e dell'egemonia sull'intero movimento e sulla classe, è il peggior servizio che si possa rendere alla lotta contro la guerra. Ci auguriamo che non sarà questa la linea di marcia.