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La confessione di Maurizio Landini

 


22 Luglio 2021

L'intervista alla Stampa chiarisce una volta di più le responsabilità della burocrazia CGIL

Dopo la firma dell'avviso comune con governo e padroni, che ha sbloccato i licenziamenti; dopo che i licenziamenti collettivi di Gianetti, GKN, Whirlpool, Timken hanno mostrato a tutti la natura truffaldina dell'accordo siglato, il segretario della CGIL Maurizio Landini ha sentito il bisogno di spiegare le proprie ragioni a La Stampa (21 Luglio). In realtà una involontaria confessione.

Il giornale padronale, cinicamente, affonda il dito nella piaga: «L'intesa con governo e imprese contro il taglio degli organici non sembra funzionare bene. Pochi giorni dopo lo sblocco vi sono stati migliaia di licenziamenti...». La risposta di Landini è un esercizio di balbuzie: «Premettiamo che l'accordo è stato realizzato dopo che i partiti della maggioranza di governo, tutti i partiti della maggioranza, avevano detto sì allo sblocco lasciando solo qualche eccezione di settore. Siamo riusciti ad impegnare governo e associazioni imprenditoriali a ricorrere prima agli ammortizzatori sociali».

Ma come? Il fatto che tutti i partiti di governo avessero deciso lo sblocco non doveva essere una ragione in più per mobilitarsi contro il governo e tutti i suoi partiti? Invece no. Landini sembra dire che siccome il governo aveva deciso, non si poteva fare di più. Ma allora cosa ci sta a fare un sindacato se la sua funzione è quella di notaio di un governo padronale di unità nazionale? Invece di spiegare perché l'“avviso comune” si è rivelato una bufala, vista l'ondata dei licenziamenti, Landini dice che “siamo riusciti a impegnare governo e associazioni imprenditoriali a ricorrere prima agli ammortizzatori”. In altri termini rivendica, come se nulla fosse accaduto, lo stesso “impegno” comune che è stato smentito dai fatti. Penoso.

L'intervistatore, che non vuol apparire cretino, pone ancora la domanda: «Perché non ha funzionato?» Risposta: «Ora stiamo chiedendo di far applicare quell'accordo ad alcune multinazionali che ragionano con una logica da Far West». Ma come? Landini scopre ora che i padroni fanno i padroni, tanto più se non sono vincolati a nulla, salvo la... “raccomandazione” di Landini? Se le multinazionali utilizzano lo sblocco dei licenziamenti che Landini ha firmato non è la riprova che l'avviso comune era solo la copertura dello sblocco, e che averlo presentato agli operai come una loro vittoria ha rappresentato semplicemente una truffa?

In realtà più il segretario della CGIL cerca di arrampicarsi sugli specchi per giustificare la propria capitolazione ai padroni, più conferma – se ve era bisogno – il senso vero dell'accordo firmato: la ricerca di un ruolo nell'unità nazionale, l'esibizione della propria volontà di far parte dello sforzo patriottico per il rilancio e riorganizzazione del capitalismo italiano e delle sue fortune sul mercato mondiale. L'unica vera preoccupazione di Landini è di non essere scaricato da Draghi e dai padroni. Di non veder ignorate e respinte le proprie offerte di collaborazione. Che infatti vengono rilanciate, non a caso, proprio nell'intervista in questione: «Il governo ci convochi presto al tavolo con le imprese per far applicare l'accordo contro i licenziamenti. Ma questo deve essere solo il primo passo. Il vero punto è come governare la riconversione produttiva che cambierà il paese nei prossimi 5-10 anni». «Cogestione alla tedesca?» chiede La Stampa. «Preferisco chiamarla codeterminazione. Aziende e sindacati si impegnano a consultarsi prima sulle scelte strategiche e a difendere insieme il lavoro e l'occupazione. Una scelta di riconoscimento reciproco». Lo scopo? Prevenire il conflitto in fabbrica, risponde il segretario della CGIL, sapendo di parlare al giornale di casa Agnelli.

Ma cos'altro ha fatto la burocrazia sindacale sinora se non prevenire il conflitto? Neppure un'ora di sciopero contro lo sblocco dei licenziamenti, persino peggio delle miserabili tre ore di sciopero contro la legge Fornero (peraltro tornata nel giro di governo).
Lo spazio che i padroni hanno preso è quello che la burocrazia sindacale ha lasciato loro. “Consultarsi prima sulle scelte...”: ma la “consultazione” è forse mancata? Non c'è stata forse consultazione prima dello sblocco dei licenziamenti? Una telefonata non si nega a nessuno, neppure un incontro, se occorre. Il riconoscimento reciproco rivendicato da Landini si riduce a questo: Confindustria riconosce a Landini la funzione di prevenire il conflitto, cioè di disinnescare gli scioperi. Landini dà a Confindustria e governo carta bianca, basta che “riconoscano” il suo ruolo di pompiere e provino a salvargli la faccia.

Questa logica di scambio è la politica della disfatta per gli operai a tutto vantaggio dei loro padroni. La richiesta di dimissioni di Landini, avanzata da una parte dell'opposizione CGIL, chiama apertamente in causa questo corso politico della burocrazia sindacale che oggi Landini rappresenta, e pone l'esigenza di un'altra linea e un'altra prospettiva. Per questo si rivolge a tutti i lavoratori combattivi che oggi militano in CGIL perché prendano la parola e impongano una svolta, classista e anticapitalista.

Partito Comunista dei Lavoratori

Un'analisi da Cuba sulle proteste dell'11 luglio

 


Un'analisi da Cuba sulle proteste dell'11 luglio

Riproduciamo un'analisi approfondita delle recenti manifestazioni pubblicata con il titolo "Sulle proteste dell'11 luglio a Cuba" dal blog cubano Comunistas, di cui fa parte Frank García Hernández, arrestato insieme ad altri militanti e attivisti di sinistra durante le proteste. Comunistas si definisce «una piattaforma di espressione e incontro» per le voci impegnate nella costruzione del socialismo a Cuba.



Sei giorni dopo gli eventi e a seguito di un'analisi approfondita, Comunistas rende nota la sua posizione ufficiale sulle proteste che hanno avuto luogo a Cuba domenica scorsa, 11 luglio.

Quasi simultaneamente e con maggiore o minore intensità, domenica 11 luglio Cuba ha vissuto una serie di esplosioni sociali che hanno interessato almeno sei delle quattordici province che compongono il paese. Nei sessantadue anni dal trionfo della rivoluzione guidata dal comandante Fidel Castro, Cuba non aveva mai affrontato una situazione come questa.

Anche se le prime proteste sono iniziate in modo pacifico, quasi tutte le manifestazioni hanno finito per essere segnate dalla violenza, che è stata esercitata da entrambe le parti. Questa serie di manifestazioni antigovernative simultanee è un evento mai visto prima nella Cuba socialista. Questo è un fattore necessario da prendere in considerazione per capire gli eventi.

Vale la pena ricordare che le ultime proteste di massa a Cuba risalgono al 5 agosto 1994, conosciute poi come il Maleconazo. Queste proteste furono contenute in poche ore dalla la presenza di Fidel Castro sul luogo dei fatti.
Una manifestazione di duecento persone che scandiscono slogan antigovernativi in un luogo centrale è quasi inconcepibile nella società cubana. Tuttavia, per lo meno all'Avana, ha avuto luogo una marcia spontanea di almeno 3.000 persone.


GLI EVENTI ALL'AVANA

Le proteste – innescate da una manifestazione nella città di San Antonio de los Baños, situata a non più di 100 chilometri dalla capitale – si sono rapidamente diffuse all'Avana. Poco dopo le 15:00 ora locale, circa duecento persone hanno occupato il centrale Parque de La Fraternidad, per poi spostarsi al Campidoglio (la sede ufficiale del Parlamento).

Durante la prima ora della protesta, gli arresti della polizia sono stati isolati, permettendo almeno tacitamente ai manifestanti di muoversi verso il centrale Parco Máximo Gómez, situato tra l'ambasciata spagnola e la sede dell'ufficio nazionale dell'Unione dei Giovani Comunisti (organizzazione giovanile del Partito Comunista di Cuba, ndt). In quel momento, più di cinquecento persone erano riunite pacificamente sulla spianata del parco, mentre continuavano singoli casi di arresto.

Più tardi, un gruppo di circa cento persone, sventolando bandiere cubane e del Movimento 26 Luglio, con slogan socialisti e filogovernativi, si è impadronito pacificamente del Parco Máximo Gómez. Nello stesso momento, altri gruppi legati al Partito Comunista e l'Unione dei Giovani Comunisti, insieme ai cadetti del Ministero dell'Interno, hanno occupato la zona.

I manifestanti si sono smobilitati volontariamente, e sembrava che all'Avana, almeno dove avevano avuto origine, le proteste fossero finite, quasi pacificamente. Più tardi, però, si è saputo che la marcia si era trasformata in una lunga manifestazione, che ha percorso importanti strade dell'Avana. Man mano che la marcia di protesta procedeva, la gente si è unita, con fonti non ufficiali che riportano tra i 2000 e i 3000 dimostranti che cantavano slogan antigovernativi.

Ad un certo punto i manifestanti hanno deciso di dirigersi verso l'emblematica Plaza de la Revolución, dove si trovano la sede della presidenza, il Comitato Centrale del Partito Comunista, il Ministero dell'Interno, il Ministero delle Forze Armate e i principali giornali nazionali. Nelle vicinanze di Plaza de la Revolución, la manifestazione è stata respinta dalle forze dell'ordine e dai gruppi civili filogovernativi, portando a violenti scontri tra le due parti, che hanno provocato un numero imprecisato di arresti e feriti.

Allo stesso tempo, nella Calzada de 10 de Octubre, all'Avana, si sono verificate gravi violenze, nel corso delle quali sono state rovesciate due auto della polizia. Successivamente sono stati diffusi video di gravi atti di vandalismo, tra cui il lancio di pietre verso un ospedale per bambini. La morte del civile Diubis Laurencio Tejeda è stata confermata durante le proteste. Finora non sono stati segnalati altri morti dovuti alle manifestazioni. La violenza, soprattutto con pietre e bastoni, è stata esercitata sia dai manifestanti che dai civili che sono usciti per affrontarli. Il numero di persone ferite da entrambe le parti è sconosciuto. Anche il numero di persone arrestate sulla scena è sconosciuto, così come i successivi arresti legati alle proteste. Non sappiamo ancora il numero di cittadini che sei giorni dopo sono ancora detenuti in modo irregolare.

Mentre le proteste si svolgevano all'Avana, manifestazioni simili hanno avuto luogo nelle città di Bayamo, Manzanillo, Camagüey, Santiago de Cuba, Holguín, e altre di minore intensità, che sono anche finite, se non iniziate, in modo violento.


ORIGINE E NATURA DELLE PROTESTE

Le proteste che hanno avuto luogo a Cuba l'11 luglio non possono essere intese come uno scontro tra controrivoluzionari e comunisti, come il governo ha cercato di far credere; né di uno scontro tra popolo oppresso contro dittatura, come ha insistito la propaganda borghese; e nemmeno di classe operaia rivoluzionaria contro burocrazia politicamente degenerata.

Le proteste dell'11 luglio hanno riunito tutte e tre le prospettive contemporaneamente: organizzazioni controrivoluzionarie – pagate dagli Stati Uniti – che attaccano violentemente il Partito Comunista; gruppi di intellettuali che combattono la censura sentendo le loro libertà civili gravemente limitate; e la classe operaia che chiede al governo miglioramenti nelle sue condizioni di vita. Tuttavia, anche se quest'ultima componente era la stragrande maggioranza, non può essere intesa come una massa socialista politicamente consapevole, che chiedeva più socialismo alla burocrazia fossilizzata

Le proteste dell'11 luglio possono essere caratterizzate in nove punti essenziali:

1. La grande maggioranza dei manifestanti non era legata a organizzazioni controrivoluzionarie, né le proteste erano guidate da organizzazioni controrivoluzionarie. La causa principale delle manifestazioni era il malcontento generato dalle terribili carenze causate dalla crisi economica, dalle sanzioni economiche imposte dal governo statunitense e dalla discutibile e inefficiente gestione della burocrazia statale. Sono stati la carenza di cibo e di prodotti per l'igiene, l'esistenza di negozi in moneta liberamente convertibile, a cui si può accedere solo attraverso la valuta estera e che accumulano una parte importante dell'offerta di prodotti di base; le lunghe file per comprare alimenti di base come il pane; la carenza di medicinali; la restrizione al deposito di dollari in contanti nelle banche; gli aumenti dei prezzi dei servizi pubblici (il prezzo dei trasporti all'Avana è aumentato del 500%); la riduzione dei servizi gratuiti; il drastico aumento dell'inflazione; l'aumento del prezzo dei prodotti essenziali; le lunghe interruzioni di corrente, i fattori oggettivi che hanno provocato uno scenario favorevole a un'esplosione sociale.

Allo stesso tempo, non dimentichiamo che Cuba sta vivendo la sua più grande crisi economica degli ultimi trent'anni. Cuba avrebbe avuto bisogno di quattro milioni e cinquecentomila turisti e di prezzi stabili sul mercato internazionale perché il suo prodotto interno lordo crescesse almeno dell'1% nel 2020. Nel 2020 Cuba ha ricevuto solo il 23% dei turisti necessari, cioè 1,5 milioni di turisti, e l'economia mondiale è entrata in crisi. Il calo dei visitatori stranieri ha portato alla perdita di circa tremila milioni di dollari nel 2020. Cuba importa circa l'80% del suo cibo, e il governo spende duemila milioni di dollari per questo.

Tranne una modesta ripresa in Cina, tutti gli altri partner commerciali di Cuba sono caduti in recessione economica. Fino al giugno 2021 Cuba aveva ricevuto solo poco più di 130.000 turisti. La maggior parte delle riserve del paese è stata consumata entro il 2020. I costi delle cure pubbliche per affrontare il coronavirus hanno provocato gravi perdite all'economia cubana. A questo bisogna aggiungere le severe sanzioni imposte da Donald Trump, che non sono state revocate dal presidente Joe Biden, aumentando l'impatto del bloqueo.

Tuttavia, i motivi per cui l'economia cubana è in crisi non hanno importanza per la famiglia lavoratrice al momento di mangiare, e ancor meno quando la legittimità politica del governo si sta progressivamente deteriorando.

2. La legittimità politica del governo è notevolmente diminuita. Il discorso politico ufficiale è tutt'altro che efficace. Non raggiunge i giovani. La propaganda politica delle organizzazioni giovanili ufficiali risulta estranea ai giovani. Come misura di questo, c'era un gran numero di giovani tra i partecipanti alle proteste (una cifra esatta è impossibile da dare al momento).

Allo stesso tempo, hanno inciso il logoramento politico di diversi anni di crisi e degli errori accumulati dall'amministrazione statale in generale. Inoltre, è un segnale del fatto che l'attuale governo non gode della legittimità politica della leadership storica della rivoluzione. La separazione tra la leadership del paese e la classe operaia sta diventando sempre più visibile, e mette in discussione il divario nelle condizioni di vita.

3. Le proteste sono nate nei quartieri della classe operaia e con maggiori problemi sociali. La disuguaglianza sociale è un problema sempre più crescente nella società cubana. La povertà, l'abbandono sociale, la precarietà delle politiche pubbliche e sociali, l'offerta limitata di cibo e prodotti di base da parte dello Stato, così come le politiche culturali impoverite, sono caratteristiche predominanti nei quartieri periferici o a basso reddito. In queste zone la coscienza politica tende a diminuire, con il rigore della precarietà e della sopravvivenza che ha la meglio sull'ideologia. A ciò si aggiunge che il discorso politico corre spesso parallelo alle necessità quotidiane del popolo lavoratore. Rispetto a questa situazione socio-economica, nell'immaginario di questi quartieri economicamente vulnerabili la leadership del paese è associata a un alto tenore di vita.

4. Le proteste non hanno avuto un carattere maggioritario. La maggioranza della popolazione cubana continua a sostenere il governo. Se è vero che i manifestanti hanno avuto il sostegno di alcuni dei residenti delle zone in cui si sono svolti i fatti, allo stesso tempo un settore importante della popolazione ha rifiutato le proteste. Anche se le proteste all'Avana hanno generalmente raccolto circa 5.000 persone, sarebbe una completa mancanza di obiettività dire che le manifestazioni hanno avuto un sostegno maggioritario. Nonostante il deterioramento politico subito dal governo cubano, quest'ultimo sfrutta il capitale politico della rivoluzione, capitalizzando l'immagine di Fidel Castro e mantenendo l'egemonia sull'immaginario socialista. È in gran parte grazie a questi fattori che ha raggiunto una notevole legittimità politica nella maggioranza della popolazione.

5. Non c'erano slogan socialisti nelle proteste. Gli slogan lanciati nelle manifestazioni erano incentrati su "Patria y Vida", "Libertad", "Abbasso la dittatura" e offese al presidente Miguel Díaz-Canel. "Patria y Vida" è uno slogan nato da una canzone apertamente di destra, propagandata da Miami e dall'opposizione di destra. Gli altri slogan menzionati hanno il carattere di richieste di libertà dei cittadini, il che non implica richieste socialiste. Al di là delle richieste contro la censura e la richiesta di maggiori libertà civili, lo slogan "Abbasso la dittatura" è uno slogan utilizzato e capitalizzato dalla destra cubana e dalla controrivoluzione. I membri della redazione di Comunistas hanno parlato con diversi manifestanti che non erano contro Fidel Castro o il socialismo ma chiedevano migliori condizioni di vita. Tuttavia questa differenziazione non si è resa esplicita nelle proteste.

6. Un settore minoritario di intellettuali è stato coinvolto nelle proteste. Un gruppo minoritario di intellettuali, raggruppati principalmente nel movimento 27N, ha reclamato libertà civili, incentrate sul diritto alla libera creazione ed espressione. Tuttavia questo non è stato il motivo centrale delle proteste. In buona misura ciò è dovuto al fatto che le richieste dell'intellighenzia dissidente non rispondevano ai bisogni della maggioranza, che invece invocava richieste elementari per una vita migliore.

7. Il sottoproletariato ha giocato un ruolo significativo. Nelle proteste il sottoproletariato ha giocato un ruolo importante. Alcuni gruppi si sono impegnati in saccheggi e in atti vandalici aggressivi, che hanno distorto l'inizio pacifico delle manifestazioni all'Avana.

8. È sempre più certo che la propaganda della controrivoluzione è stato un fattore organizzativo delle proteste. Anche se questo non è stato il fattore principale che ha scatenato le proteste, è innegabile che una forte campagna reazionaria è stata orchestrata dagli Stati Uniti sui social, apertamente mirata al rovesciamento del governo cubano. Questa campagna ha avuto un forte impatto su un settore significativo della popolazione. Bisogna considerare che 4,4 milioni di cubani hanno accesso dai loro telefoni cellulari ai social.

9. Le manifestazioni hanno finito per essere segnate dalla violenza. All'Avana, inizialmente, salvo eventi isolati, le manifestazioni nel centro della capitale sono state pacifiche. Tuttavia nella capitale la manifestazione è degenerata in un grave scontro con le forze di polizia e i cittadini filogovernativi quando i manifestanti hanno cercato di accedere alla Plaza de la Revolución dove si trovano il Comitato Centrale del Partito Comunista, la sede del governo, il Ministero dell'Interno, il Ministero delle Forze Armate Rivoluzionarie e la sede della maggior parte dei giornali nazionali. In quel momento, la violenza è scoppiata da entrambe le parti, causando gravi feriti tra i civili. Allo stesso tempo, gruppi violenti hanno compiuto atti di vandalismo e attaccato militanti comunisti e sostenitori del governo con bastoni e pietre.

Perché il compagno Frank García Hernández, fondatore del nostro comitato editoriale, è stato arrestato?

Il compagno Frank García Hernández, che si stava recando a casa di un'amica con la quale era stato fin dall'inizio della manifestazione, è finito accidentalmente sul luogo degli scontri vicino alla Plaza de la Revolución, ma proprio mentre stavano per terminare. Il compagno Frank era stato presente alla protesta fin dall'inizio, ma come membro del Partito Comunista. Quando i manifestanti stavano lasciando il Parco Máximo Gómez (verso le 18:00), Frank e la sua amica immaginavano che la protesta fosse finita, e per questo motivo si dirigevano entrambi verso casa della ragazza, che vive a meno di 200 metri da dove sono avvenuti i violenti scontri tra i manifestanti e la polizia che cercava di impedire alla protesta di entrare in Plaza de la Revolución.

Secondo il compagno Frank, mentre si trovavano all'angolo delle vie Ayestarán e Aranguren, venivano sparati dei colpi in aria. Entrambi sono finiti dentro un gruppo filogovernativo che marciava accompagnato da agenti di polizia. In quel momento, il compagno Frank incontra casualmente Maykel González, direttore della rivista pro diritti LGBTIQ Tremenda Nota, una pubblicazione che ha riprodotto i testi di Comunistas. Maykel González aveva partecipato al corso degli eventi, dalla nascita della marcia agli scontri violenti tra i due gruppi, unendosi ai manifestanti anche se senza compiere alcun atto violento.

Proprio mentre le proteste si stavano concludendo alla presenza del compagno Frank García, un poliziotto ha arrestato Maykel González, accusandolo falsamente di aver lanciato pietre contro le forze dell'ordine. Di fronte a ciò, il compagno Frank García, come militante del Partito Comunista, ha cercato di intercedere con calma tra l'ufficiale e Maykel González. Mentre cercava di convincere il poliziotto, chiedendogli di non arrestare Maykel Gonzalez, anche Frank Garcia è stato arrestato dall'agente. Il poliziotto ha accusato Frank di atti violenti e di essere dalla parte dei manifestanti. Questa accusa è stata poi dimostrata falsa dalle autorità.

L'arresto è avvenuto intorno alle 19:00. Entrambi sono stati portati alla stazione di polizia più vicina. Successivamente, all'1:30 circa del mattino, Frank è stato portato in un altro centro di detenzione, dove i fatti sono stati immediatamente chiariti, dimostrando che non aveva preso parte ad alcun atto violento, né al gruppo che si opponeva alle manifestazioni. Insieme al direttore di Tremenda Nota, Maykel González Vivero, il compagno Frank García Hernández è stato rilasciato lunedì 12 luglio intorno alle ore 20:00. Durante la sua detenzione di poco più di 24 ore, Frank afferma che NON è stato maltrattato fisicamente o torturato in alcun modo. Attualmente Frank García non è tenuto agli arresti domiciliari, ma è sotto una misura precauzionale in cui la sua capacità di muoversi è regolata, limitata al suo posto di lavoro e all'accesso medico. Tuttavia Frank non è tenuto a fare alcuna dichiarazione alle autorità sui suoi movimenti quotidiani. La misura legale fa parte della procedura da seguire fino a quando la sua non partecipazione ad atti violenti e alla manifestazione non sia ufficialmente provata.

La redazione di Comunistas è grata per la travolgente ondata di solidarietà internazionale che si è levata per chiedere la liberazione di Frank García Hernández. Comunistas pubblicherà presto un rapporto dettagliato sulla campagna internazionalista, in cui daremo il giusto riconoscimento alle persone e alle organizzazioni che hanno combattuto per la libertà del nostro compagno.

Vale la pena notare che nessun altro membro della redazione, collaboratore o compagno vicino alla nostra pubblicazione è stato arrestato durante le proteste. In base al nostro fondamentale senso di giustizia rivoluzionaria, questo non ci impedisce di chiedere l'immediata liberazione del resto degli arrestati durante le manifestazioni dell'11 luglio, purché non abbiano commesso azioni che hanno attentato alla vita di altre persone.


Da qualche parte a Cuba, 17 luglio 2021, comitato editoriale di Comunistas


Nota: Mentre questo comunicato viene pubblicato, Comunistas viene al conoscenza dell'appello sia del governo che dell'opposizione a scendere in piazza. Sembra che entrambe le parti abbiano convocato un raduno nello stesso punto dell'Avana, noto come La Piragua. Comunistas respinge entrambi gli appelli come irresponsabili, considerando la gravità della situazione sanitaria del coronavirus, con più di 6.000 casi al giorno. Ma condanniamo ancora più fortemente qualsiasi possibile atto di violenza che possa verificarsi nello scontro tra i due gruppi.

Comunistas

La crisi di Cuba

 


I movimenti di protesta e le loro contraddizioni. Chi sono i veri amici della rivoluzione cubana?

Chi cerca nei complotti esteri le ragioni delle manifestazioni a Cuba confonde piani diversi. L'imperialismo cerca di usare a proprio vantaggio, con spregiudicatezza e cinismo, ogni fatto politico, provando a indirizzarlo per i propri fini. Ci si può aspettare qualcosa di diverso da chi invoca la libertà a Cuba nel mentre la strangola con un embargo criminale nel pieno della pandemia?
Ma i movimenti che hanno attraversato l'isola non sono una fabbricazione a comando della CIA, che fortunatamente non ha questo potere. Nascono da una crisi reale e profonda ed esprimono pulsioni diverse, talvolta opposte tra loro. Non vedere questa realtà complessa significa precludersi la capacità di capire. E precludersi la capacità di capire significa posizionarsi in modo sbagliato, al di là delle migliori intenzioni.
Certo, è più semplice ricalcare schemi consunti, magari opposti, per onorare le proprie tradizioni ideologiche: come quelli che denunciano (sempre) la “controrivoluzione” o applaudono (sempre) la “rivoluzione”, in entrambi i casi pregiudizialmente. Noi preferiamo proporre una chiave di lettura diversa, che cerca di cogliere le contraddizioni di una dinamica in atto, partendo dalla realtà. Non la realtà che vorremmo ma quella che è.

La crisi che investe Cuba è tremenda. Pari a quella che la colpì dopo il crollo del muro di Berlino, la restaurazione capitalistica in URSS e la fine del suo appoggio economico. Il Pil è caduto nell'ultimo anno dell'11%. Il turismo è crollato, e con esso il principale ingresso di valuta straniera. Prodotti cubani di esportazione come il nichel hanno subito una caduta verticale sul mercato mondiale, in connessione con la grande recessione capitalistica. La pandemia dilaga, a fronte di un tasso di vaccinazione obiettivamente molto modesto (15%).
L'embargo imperialista moltiplica i propri effetti sulla condizione popolare. L'inflazione è fuori controllo colpendo i già bassi salari, sia nel settore pubblico che nel settore privato. I beni di prima necessità scarseggiano, il mercato nero si allarga, l'elettricità è razionata. La risultante d'insieme è una pesante caduta delle condizioni di vita, e un aggravamento altrettanto pesante di disuguaglianze sociali già ampie.

Le proteste sociali riflettono questa realtà, più che sufficiente a spiegarle. Il cambio di governo, con il ritiro di Raul Castro e l'avvento di un giovane burocrate senza carisma e connessione sentimentale col popolo – Miguel Díaz-Canel – ha avuto anch'esso probabilmente un ruolo complementare.
Ma la ragione prima dei movimenti è materiale e sociale. La loro composizione va ben a di là del ristretto confine di ambienti intellettuali tradizionalmente dissidenti, spesso legati all'imperialismo. Coinvolge settori importanti di popolazione povera e della gioventù. Il raggio della protesta è stato ben più ampio che nel 1994, quando aveva investito solo L'Avana: ha coinvolto diverse città ed anche piccoli paesi a tutte le latitudini dell'isola. È dagli anni della rivoluzione, senza ombra di dubbio, il principale movimento che abbia attraversato Cuba.

Il movimento contesta il governo e/o le sue politiche, seppur da versanti diversi e con finalità opposte, come vedremo. Questo fatto obiettivo va spiegato. Non dipende unicamente dal ruolo politico centrale del governo cubano, dentro una struttura piramidale dello Stato fortemente verticalizzata, in cui le responsabilità politiche sono tutte concentrate in un'unica struttura di comando, senza democrazia reale per i lavoratori e per le masse. Perché a Cuba in sessant'anni dalla rivoluzione non è mai esistito nulla di nemmeno lontanamente simile alla democrazia sovietica prima dello stalinismo, ma solo elezioni a lista unica, plebisciti con un costante e preordinato 99% di favorevoli e voti sempre unanimi nelle strutture istituzionali.
Questo fatto dipende anche dalle politiche che il governo ha condotto nell'ultimo decennio, e dalle loro conseguenze sociali, dirette e indirette. Innanzitutto le politiche di apertura al capitalismo e all'imperialismo.

Sia chiaro: Cuba è tuttora un'economia fondata su rapporti socialisti di proprietà, grazie alla grande rivoluzione del 1959-1960. Grazie a questi rapporti di proprietà ha garantito per lungo tempo vantaggi sociali alla popolazione povera senza paragoni col resto dell'America Latina, e non solo. Chi oggi vede a Cuba un paese (già) capitalista ignora la permanenza di una prevalente economia di piano, del monopolio prevalente del commercio estero, della proprietà statale delle banche e dei principali mezzi di produzione. Ma possiamo limitarci a registrare questa realtà senza vedere i processi di trasformazione che la stanno minando, e di cui il governo cubano è massimo responsabile?

L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi le misure di liberalizzazione controllata dell'economia cubana in direzione del mercato capitalista. Non parliamo della progressiva legittimazione della piccola proprietà (i cuentopropistas) nel campo del piccolo commercio e delle professioni liberali, misure per molti aspetti inevitabili in una economia isolata e assediata. Parliamo di altro: lo sviluppo delle imprese miste pubblico-private; gli oltre cento contratti stipulati con grandi imprese capitaliste nel campo delle importazioni ed esportazioni, con il relativo indebolimento del controllo pubblico sul commercio estero; l'allargamento dell'autonomia delle imprese statali a scapito del piano; una riforma dell'ordinamento monetario con tassi di cambio diversi tra settore pubblico e privato, in funzione del rafforzamento delle esportazioni, ma pagando il prezzo di una inflazione interna crescente; il taglio delle spese pubbliche per i servizi sociali e la ricerca scientifica, a vantaggio degli investimenti immobiliari nel turismo; la riduzione drastica dei sussidi sociali alla popolazione povera; una politica salariale fondata sugli incentivi in base alla capacità di esportazione delle aziende statali (l'azienda che più esporta paga salari migliori), con disuguaglianze crescenti tra i lavoratori all'interno stesso del settore pubblico. Una modifica del Codice del lavoro (una sorta di Statuto dei lavoratori) che allunga l'orario a nove ore nel settore pubblico, e sino a dodici nel settore privato.
L'insieme di queste politiche non ha spostato di un grammo l'ostilità dell'imperialismo verso Cuba. In compenso ha prodotto un disastro: da un lato ha rafforzato il peso materiale degli interessi capitalistici e restaurazionisti nell'economia cubana; dall'altro ha indebolito progressivamente la stessa riconoscibilità della rivoluzione agli occhi della giovane generazione. Nell'un caso e nell'altro a tutto vantaggio dell'imperialismo, il peggior nemico di Cuba.

La difesa della rivoluzione cubana contro la restaurazione capitalista non è per noi in discussione. Ma la restaurazione ha più facce e canali di sviluppo.
Ha la faccia impresentabile dell'imperialismo USA, della feccia di Miami, degli eredi dei vecchi padroni espropriati dalla rivoluzione che sognano di riprendere le loro “legittime” proprietà, e che dunque puntano al rovesciamento del regime.
Ma ha anche il volto di quella burocrazia di regime che nel nuovo quadro mondiale vede inevitabile una restaurazione capitalista, e perciò stesso la vuole controllare e dirigere per non perdere il proprio potere politico. È il modello cinese, o se vogliamo vietnamita, quello per cui la burocrazia si trasforma progressivamente in nuova classe proprietaria attraverso un processo graduale gestito dall'alto. Del (falso) socialismo restano le bandiere e “il partito”, comodo bersaglio delle propagande anticomuniste. Ma dietro la facciata di un potere stalinista immutato ha trionfato in realtà la controrivoluzione borghese, con la relativa distruzione di tutte le conquiste delle rivoluzioni.
Allora difendere la rivoluzione cubana non è solo contrapporsi agli USA e al loro embargo criminale. È anche opporsi a una burocrazia che antepone i propri interessi e aspirazioni sociali agli interessi dei lavoratori e della rivoluzione.

I diversi interessi presenti nella società cubana si sono affacciati nelle proteste popolari con tutto il carico delle loro contraddizioni. Nei movimenti di questi giorni a Cuba c'è di tutto, ma proprio di tutto.
C'è un settore di popolo (non maggioritario, pare) che grida “Patria y vida” in funzione apertamente anticomunista e reazionaria, o che addirittura rivendica un intervento statunitense nell'isola, una seconda Baia dei Porci, questa volta vincente, che consegni Cuba ai suoi padroni di un tempo, oppure a quello strato di piccola e media borghesia cubana che sogna di diventare grande allagando il proprio raggio di affari. “Libertà” in bocca a tanti cuentopropistas è solo la libertà di far profitto, sulla pelle dei lavoratori e della maggioranza della società.
Ma c'è anche un settore di lavoratori, di giovani, di popolazione povera, che protesta per una ragione sociale esattamente opposta. Che vuole recuperare le protezioni sociali smantellate, difendere la giornata di otto ore, contrastare le disuguaglianze crescenti, rivendicare la libertà di organizzazione della classe operaia a partire dai suoi diritti sindacali, mutare la rotta degli investimenti pubblici a favore dei servizi sociali e non del turismo, controllare la produzione e distribuzione dei beni di prima necessità, magari per impedire che i (pochi) negozi della burocrazia dispongano di ogni bene – accessibile a chi paga in dollari – mentre i negozi dei rioni popolari presentano scaffali vuoti.

Lo stesso regime, obtorto collo, è stato costretto a riconoscere nella protesta popolare la presenza di questi “compagni confusi” ma legati alla rivoluzione, come ha voluto definirli. È la misura del fatto che non pochi iscritti del Partito Comunista Cubano sono scesi in strada a protestare, portandovi la richiesta di “un vero socialismo”.
Il regime pratica nei loro confronti la politica del bastone e della carota. Da un lato simula la postura del dialogo, con Díaz-Canel che va in una piazza a parlare coi manifestanti, a uso telecamere. Dall'altro arresta i portavoce del blog Comunistas, esponenti di Joven Cuba, militanti del LGBT, con l'obiettivo di decapitare preventivamente un possibile riferimento alternativo. Ma così arresta gli unici amici veri della rivoluzione cubana, quelli che difendono con le unghie e coi denti le sue conquiste sociali, quelli che realmente lottano contro la restaurazione del capitalismo. È la prova che difendere la rivoluzione cubana vuol dire opporsi alla burocrazia che passo dopo passo la sta liquidando. E che, al contrario, ridursi a fare il verso alla propaganda del regime è il miglior modo di spianare la strada alla reazione. Come tante volte è accaduto nella storia, vedasi il 1989.

Sì, le proteste di questi giorni a Cuba sono confuse, contraddittorie, spurie. È questa una ragione di scandalo? Niente affatto. È anzi la misura del carattere autentico del movimento popolare. Quando il movimento è di popolo, vi si affacciano tutti i volti sociali della massa, i loro compositi interessi, le loro ideologie, le loro domande. Vale per le controrivoluzioni, come quelle che hanno dominato il crollo dell'URSS e dell'Est europeo, riconsegnati ai capitalisti (i vecchi burocrati del giorno prima) con tanto di plauso popolare. Vale anche all'opposto per le rivoluzioni, come quella che in piazza Tienanmen si oppose alla burocrazia cinese con un mare di giovani e di operai che cantavano anche l'Internazionale, e per questo fu schiacciata nel sangue, accelerando il corso della restaurazione. Chi sogna rivoluzioni o controrivoluzioni socialmente e ideologicamente omogenee ha poca familiarità con la storia reale, come insegnava Lenin. Tutto sta nel riconoscere il tratto prevalente di una dinamica, la sua direzione di marcia.

Nel crogiolo della protesta cubana degli ultimi giorni non è (ancora) emerso un tratto dominante né in una direzione, né in un'altra. Né in direzione della controrivoluzione, nonostante l'indubbia presenza di forze controrivoluzionarie, né in direzione della rivoluzione, nonostante la presenza di molti comunisti e socialisti sinceri. Chi vuole imbalsamare anzitempo il processo reale con categorie univoche e rassicuranti si accomodi. Non è il nostro caso.

In compenso sono chiare le parole d'ordine con cui lottare nelle piazze di Cuba per separare rivoluzione e controrivoluzione, senza ambiguità e rimozioni:

No alla repressione. Libertà immediata per i compagni arrestati.

No all'imperialismo e alle sue menzogne. Via l'embargo criminale contro Cuba.

Ripristino delle protezioni sociali cancellate, libertà di organizzazione della classe lavoratrice, pieno riconoscimento dei diritti sindacali e politici del movimento operaio.

Via le aperture al grande capitale privato e decisione e controllo di quelle assolutamente necessarie dal punto di vista economico da parte dei lavoratori stessi. Investimento prioritario nella sanità, a partire dalla vaccinazione.

Controllo operaio sulla produzione e distribuzione dei beni di prima necessità, contro affarismi e speculazioni.

Sviluppo dell'autorganizzazione operaia e popolare (consigli), con i diritti di democrazia operaia per ogni tendenza classista o realmente democratica.

Per un governo operaio e popolare, basato sulla forza e l'organizzazione dei lavoratori e lavoratrici e sul potere dei loro consigli, democraticamente centralizzati a livello nazionale.

Partito Comunista dei Lavoratori

Appello dei comunisti cubani per la liberazione dei compagni arrestati

 


Continua la campagna per la liberazione dei militanti della sinistra cubana incarcerati in occasione delle manifestazioni degli ultimi giorni a Cuba. Due di questi compagni, Frank García Hernández e Maykel González Vivero, sono stati messi agli arresti domiciliari la mattina del 13 luglio.

Gli arresti di Frank García Hernandez, sociologo, storico e militante comunista, e degli altri militanti difensori del socialismo, sono avvenuti durante la repressione di una manifestazione popolare che chiedeva al governo politiche maggiormente socialiste, invece che l’applicazione di criteri neoliberisti, per contrastare le difficoltà che stanno colpendo l’economia cubana, aggravate dalle ricadute della pandemia da Covid.
Riprendiamo l’appello alla comunità marxista internazionale pubblicato l'11 luglio scorso dal sito del Collettivo Comunistas, gestito da militanti marxisti cubani antiburocratici, tra i quali lo stesso García Hernandez. La mobilitazione prosegue fino alla liberazione di tutti i compagni arrestati.




PER LA LIBERTÀ DEGLI ARRESTATI A CUBA

Nelle manifestazioni di questo pomeriggio (11 luglio, nde) all'Avana è stato arrestato Frank García Hernández assieme ad altri esponenti della sinistra cubana


Nota: non tutti i membri del collettivo editoriale del blog Comunistas hanno sottoscritto questo comunicato.

Questo pomeriggio il popolo cubano è sceso in piazza. Una manifestazione popolare che non è stata convocata da nessuna organizzazione se non provocata dall'acuta crisi economica che Cuba sta vivendo e dall'incapacità del governo di gestire la situazione. Cuba è scesa in piazza con lo slogan generico 'Patria e vita', ma è scesa in piazza con motivazioni cha vanno al di là di quello slogan: è stata una manifestazione per chiedere al governo il vero socialismo. Quelli che erano nelle strade non erano solo artisti e intellettuali, questa volta era il popolo nella sua più ampia eterogeneità.
Questa nota del blog Comunistas non vuole analizzare la situazione di Cuba. Vuole invece denunciare la detenzione violenta dei manifestanti, vuole denunciare che questa volta le forze repressive dello Stato si sono collocate nella posizione opposta, hanno infatti represso i cubani, hanno usato lo spray urticante e tutte le risorse repressive disponibili. Questo comunicato è una rivendicazione per la libertà di tutti i detenuti, e soprattutto esso è contro la detenzione arbitraria di Frank García Hernández, storico e marxista cubano, è contro l'arresto di Leonardo Romero Negrín, giovane socialista studente di fisica all'Università dell'Avana, è contro l'arresto di Maykel González Vivero, direttore di “Tremenda Nota”, rivista di minoranza, è contro l'arresto di Marcos Antonio Pérez Fernández, minorenne, liceale.
È una dichiarazione a sostegno di tutti coloro che sono stati violentemente arrestati in questo pomeriggio nero che Cuba non dimenticherà. Il blog Comunistas fa appello alla solidarietà della comunità marxista internazionale e anche alla coscienza del governo cubano. Questa volta si tratta di un popolo che ha bisogno di risposte e di dialogo. È una società civile che non vuole la sudditanza, ma piuttosto vuole partecipare e decidere le sorti della sua nazione. Il blog Comunistas condanna la repressione e dice basta alla burocrazia.

Comunistas

Il PD ai tempi dello sblocco dei licenziamenti

 


Un articolo che mostra in maniera impeccabile come il PD intenda risolvere il problema dei 422 licenziamenti alla GKN

Sul quotidiano «La Nazione» è apparsa un'arabescante intervista all’ex presidente della Regione Toscana, nonché ex ministro e parlamentare per il Partito Democratico, Vannino Chiti.

L’intervista prende le mosse dal licenziamento dei 422 operai della GKN nel fiorentino, ma più che per il tenore delle domande del foglio della Monrif SPA (che pur rivelano al fondo un significativo turbamento della borghesia per le reazioni possibili e già in corso di strutturazione della classe operaia a seguito dello sblocco dei licenziamenti) è interessante, in ordine alle risposte che di seguito verranno citate, la figura dell’intervistato. Fondamentale è, di fronte al ciclone epocale che ha già cominciato a risucchiare il proletariato, comprendere quanto nemiche siano le posizioni del PD, cioè del più grande partito che ancora si pretende iscritto nella storia della sinistra pur essendo oggettivamente fuori anche dal ventaglio del riformismo “di sinistra”. Nelle parole del "Seneca" dem si preannuncia la linea cui il Partito Democratico si atterrà saldamente per tutto il corso di aggressioni padronali che incombe e già si abbatte sul proletariato.

Se si dovesse prescegliere una figura che rappresenti inappuntabilmente la continuità della politica liberale e antioperaia degli ultimi decenni, demolitrice dei diritti dei lavoratori e, con essi, della fiducia di massa verso la sinistra politica; se si dovesse trovare il prisma di tutte le ipocrisie, le imposture, i voltafaccia dell'illusionismo riformista dalla fondazione della Repubblica ad oggi; se si unissero i puntini della camaleontica catena di tradimenti verso la classe operaia, a partire dallo stalinista PCI di Togliatti per arrivare all’odierno Partito Democratico passando per la svolta della Bolognina, ecco il tratto d’unione disegnerebbe distintamente la serafica maschera del cattocomunista Vannino Chiti.

Appassionato studioso e prolifico saggista circa il ruolo del cattolicesismo nel Partito Comunista, Chiti è stato nel PCI dal 1970 al 1991, anno della sua dissoluzione; dal 1991 al 1998 nel PDS; dal 1998 al 2007 nei DS; dal 2007 ad oggi nel PD. Negli anni in cui abbiamo visto pontefici abdicare e D’Alema in minoranza, l’imperturbabile Chiti è rimasto semper fidelis all’Ordine. Simboli e colori per la fodera del pugnale sulla schiena dei lavoratori, ne ha cambiati per tutte le stagioni e i trenta denari li ha intascati nei coni più disparati. Eppure il «compagno tra i compagni» - così lo epìteta il primo quotidiano toscano - con la stoica impudenza dell’accademia togliattiana sermoneggia: «Bisogna ricostruire un progetto di società, un programma coerente con i valori dichiarati, battersi contro povertà e ingiustizie».

Né è dato sapere all’indirizzo di chi sarebbe da scagliare l’accusa per non averlo mai fatto in anni di politiche padronali e oggi stesso, visto che a parlare è l’uomo del governo secolare e visto che al governo si trova proprio il sempiterno partito di Chiti.

«Sulla Toscana - prosegue con ineffabile gesuitismo - come su altri territori, in Italia, in Europa, nel mondo, si abbatte la logica di una visione che non guarda all'impresa, alle produzioni, ai lavoratori ma ai soli interessi finanziari. Si perde quella funzione sociale della proprietà, che non solo è scritta nella nostra Costituzione, ma è ciò che fonda e giustifica il compromesso tra capitalismo e lavoro».

Per il Vangelo Secondo Chiti il problema non sta nei padroni e nel costituzionalissimo diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione che li legittima oggi, li ha legittimati ieri, li legittimerà domani a vendere i siti e/o fuggire in caccia di più ridenti lidi, cioè regioni con un minor peso fiscale a carico dei capitalisti. Chiaro che no; quale scismatica apostasia potrebbe portar mai a una simile conclusione? È evidente invece che, in primis, la proprietà privata abbia una «funzione sociale» (algebra rispetto alla quale non solo Marx ma il più ubriaco dei semiologi trasalisce) che, ahinoi, sta progressivamente smarrendo, senza che il cardinale di partito si degni tuttavia di responsabilizzare - fosse anche vera, nel mondo alla rovescia, tale tesi - il governo che questa privatizzazione della già privata proprietà potrebbe impedire mentre invece assistiamo, a distanza nemmeno di cinque giorni, alla seconda fabbrica che chiude i battenti dopo la Giannetti Ruote in Brianza. Ciò, per tenerci al solo periodo del dopo-sblocco. E, conseguentemente con la sua partigianeria per il sistema privato che avrebbe una utilità sociale, il progressista del regresso postula che la frattura non è da rinvenire tra i lavoratori, i salariati, gli espropriati della loro produzione di valore da una parte e dall’altra i loro espropriatori, i capitalisti, i pionieri del massimo profitto; ma, con tutta evidenza, l'unico conflitto che sussiste è tra questi ultimi e le banche. I capitalisti industriali, i buoni, contro i capitalisti finanziari, i cattivi.

La teologia cattolica era sorda nell’identificare religione e clero; così è sorda la teologia capitalistica nell’immedesimare capitalisti e capitale. Chiti potrà vedere coi suoi occhi che l’industriale della GKN è il medesimo che compartecipa delle azioni di Borsa del fondo bancario al quale l’ha alienata, potrà studiare per anni come la speculazione finanziaria non è che la superfetazione della speculazione sulla produzione, che capitale industriale e capitale finanziario sono due facce di un’unica medaglia - del capitalismo appunto - ma non lo confesserà. Così si ricorre, contro ogni evidenza storica e logica, materiale e teorica, al protestantesimo capitalista che da tempo va contrabbandando le sue tesi economiche presso circoli liberali, sciovinisti di sinistra e di destra e perfino fascisti con canali di diffusione di stampa nazionale, televisione, web.

Che Chiti mente sapendo di mentire lo si evince dalle farisaiche recriminazioni che muove al suo partito: «Il PD spesso, e nelle campagne elettorali, visita le imprese, i candidati si fotografano con imprenditori e manager e magari dimenticano di incontrare i consigli di fabbrica. Noi dovremmo essere il partito del mondo del lavoro, anzi dei lavori». Chi nutrisse del feticismo per la logica formale sarebbe autorizzato a chiedersi per quale ragione, vista la perorata utilità sociale degli imprenditori, è sbagliato che il partito dell’utilità sociale, degli interessi dei lavoratori quale Chiti pretende che il PD sia, sia per l'appunto amico degli imprenditori e non disdegni di esibirlo. Ma noi della logica formale ce ne facciamo poco e la contraddizione di questa uscita con le dichiarazioni di sopra non ci confondono, al contrario ci danno ulteriormente ragione.

Quando si dice che la stampa borghese favorisce la narrativa borghese non è un estremismo ideologico. È dimostrato in domande come: «L'impresa fa e disfa specialmente se si tratta di multinazionali che non hanno radici sul territorio. Dove sono le istituzioni? Che possono fare?». Con quel «specialmente se si tratta di multinazionali che non hanno radici sul territorio» questa si rivela come la domanda combinata che fa esattamente il gioco dell’intervistato. Chiti afferma la tesi che assolve dai propri crimini gli industriali, scarica ogni responsabilità sull’inafferrabile nebulosa della finanza extraterritoriale, extranazionale, addirittura extracontinentale («Occorre una visione internazionale, non solo europea»«Sono temi non confinabili più nei soli Stati nazionali, come nel vecchio compromesso socialdemocratico», ecc. Andremo a chiedere ai seleniti se per caso la colpa del capitalismo l’hanno loro) per concludere che le «politiche di distribuzione dei vantaggi della globalizzazione sui ceti popolari» sono responsabilità internazionale e sottintendere che, sul luogo e sul momento dato, un governo italiano e finanche europeo nulla può. Che la GKN delocalizzi a ridosso del G20 non imbarazza le ricette di Chiti. Chiliasmo della libertà! Messianesimo dell’uguaglianza! Millenarismo dell’ecologia! Le tre reliquie che Chiti riesuma alla frase: «Mi dica tre cose di sinistra». I termini in cui il giornalista formula la domanda ratificano la visione di Chiti e la pongono a base di partenza per ogni soluzione che ormai si rarefà nella metafisica pura.

«Un compromesso - quello tra capitale e lavoro scritto nella costituzione, insiste il “saggio” - da aggiornare e riformare profondamente, non da archiviare a vantaggio di chi ora si sente più forte. Ciò provocherà tensioni sociali che non giovano alla ripresa economica, dopo crisi e pandemia. La Gkn è entrata in coma quando a rilevarla qualche anno fa è stato un Fondo finanziario».

Se da aggiornare fosse invece il sistema che ha espresso questo compromesso da sempre assurdo sancito dalla Costituzione di De Gasperi e Togliatti? Se ad aggiornarlo fosse proprio quell’esplosione della tensione sociale da parte dei più deboli invece di illuderli senza neanche più le carte per farlo? Se tre anni fa la GKN fosse stata sì acquisita dalla Melrose Industries, ma per volontà degli stessi padroni dello stabilimento che il fondo britannico ingozzò per la bellezza di 11 miliardi di dollari?

Se nella parabola di Chiti, infine, i cattivi sono cattivi ma fossero cattivi anche quelli che, per giustificare ogni pilatismo del governo, egli prova a presentare come i buoni? Risulterebbe che i buoni si trovano da tutt’altra parte, la parte sociale che è il vero tabù, il più grande rimosso di ogni narrativa dominante nel ventunesimo secolo: la classe lavoratrice.

Ma è tutta l’intervista ad aprirsi nel solco del surrealismo, il colpo di teatro in seguito al quale è poi tutto in discesa contenuto nell’appello: «Il governo Draghi deve intervenire e mettere in campo il suo peso politico, essere dalla parte dei lavoratori e del territorio».

L’identico governo che, con lo sblocco dei licenziamenti, ha appena armato la mano del criminale, che il suo peso politico lo ha messo in campo proprio a favore dei carnefici, dovrebbe essere chi interviene in difesa delle vittime. Le dichiarazioni a carattere sociale di Chiti e Landini in questi giorni sono xilografie demoniache viventi, di quelle con la faccia nel deretano. Il PD vive in una sorta di carnevale classisticamente capovolto: imbastisce un mondo sottosopra apotropaico solo per i padroni.

Chiti, appassionato di cattolicesimo, conoscerà la fine del mentitore e traditore per eccellenza, Giuda Iscariota. Il Nuovo Testamento racconta che l’apostolo, pentito per aver venduto "il sangue innocente", gettò ai piedi dei sommi sacerdoti le trenta monete, dichiarò la sua colpa al tempio e andò a impiccarsi.

Ma il personaggio di Giuda non è storico come gran parte dei testi che ne ospitano l’episodio. Nella assai meno nobile realtà materiale, può toccare i livelli di abiezione più profondi solo chi è integralmente e irreversibilmente marcio. E tali soggetti non confesseranno da soli, non restituiranno il prezzo del tradimento, non commetteranno alcun redentivo suicidio politico. Al contrario andranno sempre più in fondo, come dei perpetui Dorian Gray orbati di finale. La catarsi può venire solo da una forza esterna. Per questo il Partito Democratico non può e non deve passare più per l'equivoco progressista; per questo è da identificare nella spettroscopia della politica come destra finanziaria accanto alla destra populista del M5S e della destra radicale e fascista di Lega e Fratelli d’Italia; per questo la logica del «meno peggio», del voto di sinistra utile per il PD è priva di ogni logica ed è ogni giorno più urgente tornare a dare contributo, partecipazione, militanza alla sinistra di classe, alla sinistra rivoluzionaria, alla sinistra bolscevica. Quella che i Chiti, come nel corso stesso dell’intervista in esame, dileggiano malgrado sia ai minimi storici perché ancora al solo pensarla, sapendo a quale destino li condannerebbe il ritorno di un suo trionfo, tremano di terrore.

Nella storia del movimento operaio, le crisi spargono lacrime e sangue, ma fanno anche da carburante per il disgelo delle illusioni, per il rilancio della lotta, per la fine della ritirata.

Il Partito Comunista dei Lavoratori si impegnerà affinché questa duplice crisi, la crisi sanitaria dentro la crisi economica, dispieghi tutte le energie operaie imbrigliate e represse da generazioni, ma ogni giorno più capaci di fare nell’inferno di questo mondo il paradiso che altrimenti nessun dio, nessun governo, nessun capitalista industriale o finanziario regalerà mai.

Salvo Lo Galbo

Una nuova stagione di lotta di classe per contrastare il programma oscurantista dei sovranisti

 


La carta dei valori siglata tra i 16 principali partiti sovranisti e conservatori europei, tra cui Lega e Fratelli d’Italia, testimonia il ruolo da protagonista che l’estrema destra vuole giocare in Europa nei prossimi anni. In nome di un’Europa che rimette al centro le singole identità nazionali, le forze dell’estrema destra nazionalista chiamano a raccolta quanti vogliono un continente senza immigrati, islamici e omossessuali.

I sovranisti, rivendicando «l’eredità giudaico-cristiana dell’Europa», ripropongono la difesa della famiglia tradizionale, lo stop all’immigrazione, l’opposizione "all’iperattivismo morale dell’Unione europea". Questo manifesto ideologico disvela un’Europa cupa e reazionaria: quella sovranista e oscurantista dei diritti cancellati e delle libertà negate, quella che discrimina le donne e la comunità Lgbtq+.
Le dure parole di molti leader europei arrivano tardi e servono a poco. Non saranno certo le élite liberali del continente, le stesse che negli ultimi vent’anni non hanno mosso un dito per salvare le decine di migliaia di migranti annegati nel Mediterraneo, a difendere i diritti civili e democratici. Solo la ridiscesa in campo di una forte mobilitazione operaia su scala continentale, capace di saldare in un unico fronte la battaglia per i diritti civili e democratici con quelli sociali, può spazzare via la folata reazionaria che attraversa gran parte d’Europa. Solo una nuova stagione di lotta che rimetta al centro i bisogni e le aspirazioni delle classi subalterne può essere il lampo di magnesio che illumina una notte senza stelle.


UN FRONTE COMPOSITO ALLA RICERCA DI UNA CONVERGENZA

Questo manifesto ideologico è stato sottoscritto dalle forze politiche che fanno parte di tre gruppi diversi nel Parlamento UE, ovvero Identità e Democrazia (ID) e Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (ECR), più Fidesz. Accanto al Rassemblement National di Marine Le Pen e agli spagnoli di Vox, spicca la presenza del partito del premier ungherese Viktor Orbán, recentemente uscito dal PPE, e del partito del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, due forze di governo che confermano il peso rilevante che le nazioni dell’Europa centrale rivestono in questo schieramento. Anche i sovranisti di casa nostra rivestono un ruolo importante. Matteo Salvini e Giorgia Meloni ricoprono un ruolo apicale all’interno dei loro rispettivi gruppi europei, e in caso di successo elettorale nelle prossime elezioni politiche, possono aspirare a diventare il perno imprescindibile del mondo conservatore e sovranista del vecchio continente, potenzialmente in grado di saldare le forze politiche dell’Europa Occidentale con quelle dei paesi di Visegrad.

La convergenza realizzata dal documento siglato lo scorso 2 luglio rende manifesto un duplice obiettivo: allargare l’area delle forze identitarie e al contempo rassicurare l’establishment sul fatto che il fronte sovranista in via di costruzione non sarà di stampo puramente estremista. Non a caso, la dichiarazione d’intenti non contiene le posizioni più schiettamente euroscettiche che alcuni dei sottoscrittori avevano sostenuto nel recente passato, come l’uscita dalla UE e l’abbandono della moneta unica. L’edulcorazione delle posizioni più accesamente antieuropeiste è funzionale al progetto di trasformare quest’area composita in un baricentro politico capace di attrarre quelle forze di centrodestra che si sentono a disagio nel Partito Popolare Europeo. Anche per questo dall’elenco dei firmatari sono state escluse le forze che più di altre vengono percepite come forze radicali e antisistema, come i tedeschi dell’AfD.


LE INCOGNITE DEL PROCESSO IN CORSO

L’arco politico che ha siglato la “carta dei valori” potenzialmente potrebbe associare 115 deputati, diventando a Strasburgo la terza formazione dopo i popolari e i socialdemocratici. Un numero ragguardevole, che potrebbe anche fungere da leva per accaparrarsi presidenze di commissioni e quote rilevanti dei finanziamenti dell’europarlamento.
Ovviamente la costituzione di un gruppo comune non rappresenterebbe il primo passo verso la costruzione di un’internazionale sovranista, che in sé sarebbe un vero e proprio ossimoro. Più realisticamente questo confronto che si è aperto nel campo sovranista potrebbe favorire la definizione di un nuovo contenitore politico dell’estrema destra al parlamento europeo, anche se la strada appare scoscesa e irta di ostacoli. La galassia sovranista, del resto, è assai composita e conflittuale, e le convergenze fra i suoi membri sono spesso parziali e momentanee. Da sempre questo mondo è attraversato da rivalità non episodiche, ma vi sono anche interessi specifici e questioni di merito assai significative che in alcuni casi riflettono visioni diametralmente opposte, come nel caso di Vlaams Belang e di Vox, entrambi uniti nel richiedere una ferrea regolamentazione dell’immigrazione, ma con gli spagnoli feroci nemici degli indipendentisti di casa loro, e con i fiamminghi che si battono apertamente per la secessione delle Fiandre dal Belgio. Altre formazioni, invece, all’ultimo momento si sono defilate dalla dichiarazione congiunta, come gli olandesi di JA21, che volevano che nella dichiarazione comune fosse contemplato il no al trasferimento di risorse dal Nord al Sud dell’Europa.

L’evoluzione di questo processo dipenderà anche dai rapporti di forza tra la Lega e Fratelli d’Italia, una partita che si gioca a Strasburgo ma soprattutto a Roma, dove in palio c’è la conquista del primato nella coalizione di destra che concorrerà alle prossime elezioni politiche. Da verificare saranno anche le linee di faglia che, nel prossimo periodo, si possono aprire all’interno delle singole forze politiche, come nella Lega, dove il ministro dello sviluppo economico Giorgetti può appoggiarsi a settori importanti del Carroccio, quelli maggiormente legati ai ceti produttivi del Nord Italia, per perseguire un indirizzo politico diverso da quello salviniano: scolorire il profilo sovranista della Lega per avvicinarsi al PPE.
Anche nel partito di Marine Le Pen si possono aprire delle contraddizioni, come si è iniziato a vedere al recente congresso di Perpignan, dove l’estrema destra transalpina ha iniziato ad interrogarsi sull’efficacia della cosiddetta dédiabolisation, una strategia volta a presentare un’immagine rassicurante intesa a conquistare il consenso tra i ceti moderati che tradizionalmente votano per le formazioni che collocano al centro. Una strategia che alle ultime elezioni regionali ha segnato il passo, non riuscendo ad allargare il consenso e creando malumore tra la base militante (con la chiusura di alcune federazioni) ed anche tra l’elettorato più radicale, che in previsione delle elezioni presidenziali del prossimo anno potrebbe essere attratto dai proclami accesamente retrivi di Eric Zemmour, se il noto commentatore deciderà di correre per l’Eliseo.


L’INEFFICACIA DELLA RISPOSTA EUROPEISTA

A questa ventata oscurantista, lo schieramento liberale e socialdemocratico contrappone i valori della costruzione europea, che a loro dire difenderebbero i diritti civili e democratici dei cittadini. In questo quadro, le cancellerie europee hanno usato parole di fuoco per denunciare la deriva illiberale dell’Ungheria di Orbán. Da quando è uscito dal PPE, il premier magiaro è costantemente pressato dalla critica dei governi dell’Unione Europea che gli imputano il non rispetto dei valori comunitari in merito allo stato di diritto e all’indipendenza della magistratura. Gli strali si sono appuntati soprattutto sulla legge omofoba e discriminatoria approvata dal parlamento di Budapest. Persino il Consiglio d’Europa si è sentito in dovere di prendere posizione per il rispetto dei diritti Lgbtq+. Tali vibranti proteste in difesa dei diritti civili sono una novità assoluta per i paludati ambienti di Bruxelles, visto che non hanno proferito parola per una legge approvata alla fine del 2018 che impone ai lavoratori ungheresi di effettuare una mole di ore di lavoro straordinario non pagato. Una legge significativamente ribattezzata “legge schiavitù”, che ha gonfiato i profitti non solo degli imprenditori locali, ma anche dei capitalisti stranieri (in specie tedeschi) che lì hanno delocalizzato una parte della loro produzione. Segno che per l’Unione Europea le necessità dell’economia capitalista prevalgono sui valori, e che i diritti sociali si fermano davanti ai cancelli delle fabbriche.


LA NECESSITÀ DI UNA RISPOSTA DI CLASSE

Al di là delle fortune elettorali altalenanti, le forze della destra e dell’estrema destra europea dimostrano di essere ben radicate nella società. Non solo confermano la capacità di produrre fatti politici rilevanti, ma soprattutto continuano ad essere in grado di veicolare le loro posizioni reazionarie, xenofobe e razziste in amplissimi strati della società.

In un’Europa ferita dalla pandemia, dove chi già subiva gli effetti delle politiche di austerità si ritrova ancora più povero ed abbandonato, la malapianta della predicazione sovranista può trovare nuova linfa vitale, riproponendo falsi miti, nuove identità e facili capri espiatori a cui addossare la colpa del disagio e della crisi. Il razzismo nei confronti dei migranti, la contrapposizione tra gli ultimi e i penultimi, e la discriminazione delle minoranze, possono cioè conoscere una nuova stagione capace di occultare le contraddizioni di fondo – quelle di classe – che muovono e determinano i destini individuali e collettivi.
Lo scenario dominato dalla falsa contrapposizione tra élite europeista e nazionalismo sovranista si potrà nuovamente riprodurre se le forze del movimento operaio non abbandoneranno la fallimentare politica collaborazionista, per rilanciare invece una decisa e coerente mobilitazione anticapitalista che si batta contro i veri responsabili della crisi economica e sociale. Anche perché la narrazione reazionaria dei nazionalisti si è finora nutrita di quel groviglio di risentimento e di senso di abbandono che negli ultimi decenni è cresciuto nel seno delle classi subalterne, mentre i cosiddetti progressisti sposavano la causa della “buona globalizzazione” e lasciavano le classi inferiori preda delle loro paure e delle loro sofferenze.

Piero Nobili

Al fianco dei lavoratori e delle lavoratrici di GKN

 


Perché la loro lotta diventi una vertenza pilota, nel segno di un fronte unico di classe

9 Luglio 2021

Dopo la Giannetti di Monza, la GKN di Firenze: 422 lavoratori e lavoratrici licenziati/e per e-mail.

I padroni non hanno perso tempo. La bufala secondo cui l'avviso comune tra Landini, Draghi e Bonomi avrebbe rappresentato una vittoria dei lavoratori appare alla luce dei fatti tanto più rivoltante. La verità è che da tempo il 30 giugno era una data garantita da Draghi a Confindustria come fine irreversibile del blocco. I consigli di amministrazione di decine di aziende hanno preparato da mesi piani di ristrutturazione e licenziamenti; aspettavano solo lo scoccare dell'ora. Tutto fa pensare che siamo all'inizio di una fase nuova dello scontro sociale.

Il caso GKN è paradigmatico. GKN è una multinazionale britannica per nulla in crisi. Produce componenti per l'industria automobilistica, per le macchine agricole, per il settore aerospaziale. Nel primo trimestre dell'anno in corso ha realizzato profitti superiori alla media. Il rimbalzo economico annunciato per il 2021 si annuncia rilevante sul mercato mondiale, in particolare nell'industria: un'azienda che produce prevalentemente per il mercato estero, come GKN, ha tutti i margini per fare profitto, tanto più per il fatto che alcuni settori tecnologicamente avanzati come l'aerospaziale, fiore all'occhiello di GKN, attraversano una fase espansiva.

Ma nella guerra tra pescecani per la spartizione del mercato mondiale ogni multinazionale scarica sugli operai i costi della concorrenza. Apre e chiude singoli impianti dentro una logica globale, in funzione della massimizzazione del profitto. Lo ha fatto la Bekaert, lo ha fatto la Whirpool, lo fa oggi GKN. Aziende che hanno intascato negli anni fior di risorse pubbliche, pagate dai lavoratori, presentano ogni volta il conto agli operai.
Ogni volta le burocrazie sindacali portano a spasso i lavoratori nel giro delle sette chiese (ministri, giunte regionali, consigli comunali, parroci, stampa locale...) raccogliendo attestati ipocriti di solidarietà e promesse pelose che non contano nulla. Ogni volta i lavoratori ne escono con le ossa rotte, in condizioni peggiori e molto spesso in mezzo a una strada.
Per decenni si è invocata la soluzione “realistica” del meno peggio, negoziando sul piano inclinato della riduzione dei costi per il padrone. Ma la somma dei meno peggio ha fatto il peggio: una sconfitta in ordine sparso di centinaia di migliaia di lavoratori, prima spremuti come limoni, poi gettati via come ferrovecchio. È la storia degli ultimi dodici anni. La storia del ripiegamento del movimento operaio italiano.

Questa storia non può e non deve ripetersi. Di fronte all'onda d'urto dei licenziamenti annunciati occorre una svolta radicale di metodi d'azione, di organizzazione, di piattaforma. Una svolta che dica: la ritirata è finita, ora basta.
Le fabbriche che licenziano vanno occupate, per impedire ai padroni di portar via i macchinari. Va organizzata la cassa di resistenza per sostenere la lotta prolungata. Va rivendicata la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio dell'azienda che licenzia per garantire il diritto incondizionato al lavoro. Va promosso un coordinamento nazionale di tutte le lotte di resistenza, per fare di tante vertenze isolate una grande vertenza nazionale: per trasformare la debolezza di ognuno nella forza di tutti. È la proposta che il PCL ha avanzato e avanza controcorrente nelle assemblee dei lavoratori, nei sindacati, nei circuiti unitari dell'avanguardia.

La lotta che è iniziata alla GKN non è una lotta qualsiasi. La FIOM di fabbrica è guidata dai compagni operai dell'area di opposizione in CGIL, tra i quali avanguardie rivoluzionarie formate, con una lunga esperienza maturata sul campo. Anche per questo, a certe condizioni, la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici di GKN può diventare una vertenza pilota, capace non solo di reggere lo scontro col proprio padrone, ma anche di parlare alla classe operaia italiana. Innanzitutto ai lavoratori della Whirlpool e di centinaia di altre aziende in lotta.

Il nostro partito, nei limiti delle sue possibilità, darà tutto il proprio sostegno, attivo e determinato, ai lavoratori e alla lavoratrici di GKN e alla loro lotta.

Giù le mani dagli operai! Il posto di lavoro non si tocca!

Partito Comunista dei Lavoratori

Angelo Del Boca, uno studioso onesto del colonialismo italiano

 


All'età di 96 anni si è spento Angelo Del Boca, studioso intellettualmente onesto del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Tutto il suo imponente impegno storiografico si è concentrato sulla demolizione del presunto carattere “mite e generoso” delle imprese imperialiste dell'Italia nel corso della sua storia, ottenendo per questo l'aperta ostilità o la silenziosa diffidenza non solo delle destre reazionarie ma anche di buona parte della storiografia di estrazione socialdemocratica e/o togliattiana, sempre alla ricerca di un proprio posto al sole nella storia patria.


Italiani brava gente: il mito dell'italiano antropologicamente buono, incapace per la sua stessa indole di violenza e sopraffazioni ai danni di altre popolazioni, fu un mito coloniale. Nacque con l'esordio della politica coloniale italiana in Africa negli ultimi decenni dell'800, a partire dallo sbarco in Eritrea con la conquista di Asmara. Giunto per ultimo al colonialismo tra gli imperialismi europei, l'imperialismo italiano si presentò già allora come colonialismo progressista, per questo incapace di «rimanere spettatrice inerte di fronte alla battaglia tra la civiltà e la barbarie», come disse il governo di Stanislao Mancini. Naturalmente la “barbarie” erano le popolazioni indigene, la “civiltà” la patria tricolore.

Del Boca ha documentato metodi e fini di questa “civiltà”: i 100.000 libici uccisi tra il 1911 e il 1932 in Libia, e la deportazione alle Isole Tremiti e a Ustica di decine di migliaia di prigionieri ridotti a larve umane; le rapine e gli eccidi compiuti in Cina nel corso della lotta ai Boxer (assieme a inglesi, russi, giapponesi, tedeschi) per conquistare aree portuali e sbocchi commerciali; le stragi indiscriminate di civili in Etiopia dopo l'attentato al maresciallo Graziani nel febbraio del 1937, con l'uso dell'iprite e delle armi chimiche per annientare la resistenza del Negus; la diretta partecipazione allo schiavismo in Somalia lungo le rive dei grandi fiumi, con tanto di spartizione di tangenti tra compagnie italiane e britanniche; le “bonifiche etniche” praticate nei Balcani contro le popolazioni croate e slovene...
La storia dell'imperialismo italiano è bagnata dal sangue delle sue vittime, piegate con l'uso del terrore. Nessuno di questi crimini è stato punito, a partire dagli ufficiali. Chi volesse documentarsi al riguardo può leggere Italiani, brava gente?, scritto da Del Boca nel 2005, e ripubblicato in edizioni successive. Di certo vi troverà ciò che non potrà trovare in alcun libro di liceo.

L'occupazione italiana della Libia fu al centro degli studi di Del Boca. Possiamo anzi dire che lo studio più serio e documentato in Italia della storia libica dal 1911 alla fine della seconda guerra è stato quello condotto da Del Boca, con numerosi lavori. L'unico altro lavoro che regge in parte il confronto è quello dello storico americano di origini italiane Claudio Segrè. Per il resto silenzio pressoché totale.
Non è un silenzio casuale, perché la Libia sbugiarda il pregiudizio secondo cui se là vi sono stati orrori sono tutti imputabili al fascismo. No, l'impresa libica è stata avviata dal governo liberaldemocratico di Giolitti nel 1911, sotto la pressione del Banco di Roma, per partecipare alla spartizione dell'Impero ottomano. I primi gas asfissianti contro la resistenza berbera, le prime “cacce agli arabi” per le vie di Tripoli con relative torture e squartamenti, le prime grandi deportazioni di massa dei prigionieri libici, sono avvenute all'ombra dell'Italia liberale. La riconquista libica tra il 1922 e il 1931 da parte del governo e poi del regime di Benito Mussolini ha ripercorso a ritroso le tracce del colonialismo giolittiano, aggiungendovi un gigantesco carico di sangue.

La storiografia borghese, conservatrice e progressista, è incapace di riconoscere le responsabilità dello Stato italiano e delle sue gerarchie militari nelle responsabilità del colonialismo. La retorica patriottica non lo consente. Le carriere accademiche o giornalistiche neppure.
In Francia esiste un dibattito pubblico, seppur distorto e ipocrita, sulle responsabilità di Parigi in Algeria o in Ruanda. In Belgio esiste un confronto pubblico sui crimini compiuti dal proprio imperialismo in Congo. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti le responsabilità dei rispettivi imperialismi sono emerse nella denuncia delle organizzazioni antirazziste imponendosi all'attenzione di decine di milioni di uomini e di donne e guadagnando per questa via legittimazione e accesso sulla stessa stampa borghese. In Italia no. La brava gente non deve essere scossa dalla conoscenza della verità. Il libro dell'imperialismo tricolore va tenuto chiuso.
L'opera di Del Boca Gli italiani in Africa orientale, che pur si occupa prevalentemente del colonialismo fascista, venne denunciata dalle associazioni dei reduci d'Africa e dal MSI come lesivo dell'interesse nazionale. Indro Montanelli sentì il bisogno di confutare la documentazione di Del Boca, salvo uscire dal confronto completamente spennato e con la coda tra le gambe. La Chiesa cattolica, che benedì ogni patria impresa, si guarda bene dal sollevare questioni: anche perché ad esempio sarebbe imbarazzante ricordare lo sterminio di duemila preti e diaconi nella città etiope di Debra Libanòs da parte delle cristianissime truppe fasciste.

Il film sulla eroica resistenza berbera guidata da Omar al-Mukhtar, Il leone del deserto, non è mai stato proiettato in Italia, nonostante l'illustre interpretazione di Anthony Quinn. L'onore dell'esercito italiano non può essere offeso dall'immagine della impiccagione di Omar, dell'esposizione pubblica del cadavere martoriato di un difensore della propria gente e della propria terra, unicamente colpevole di resistenza all'invasione italiana. Né gli italiani possono leggere quello che scriveva a Graziani il maresciallo Badoglio, futuro presidente del Consiglio (col sostegno di Stalin e di Togliatti) dopo l'assassinio di Omar: «[...] la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica».

Oggi, nei tempi del rilancio del nazionalismo italiano, con sventolio di tricolore, canti compunti dell'inno nazionale, generali in uniforme con tanto di pennacchio impegnati nelle vaccinazioni; nel tempo in cui l'Italia dell'ENI ritorna in Libia per contenderla alla Turchia e alla Francia, come un secolo fa agli ottomani; nel tempo in cui l'Italia si spinge sino al Sahel per sbarrare la via di fuga dalla fame di centinaia di migliaia di uomini e di donne, privati di tutto, persino della loro dignità... oggi sentiamo il dovere di rendere omaggio ad Angelo Del Boca, alla testimonianza della sua ricerca controcorrente, a parole autentiche di verità.

Partito Comunista dei Lavoratori

Cassa di solidarietà per Adil

 


Diffondiamo l'appello per una cassa di solidarietà per sostenere la famiglia di Adil Belakhdim, il compagno del SI Cobas ucciso vigliaccamente a Novara durante un picchetto. Nell'associarci a questa e a tutte le altre forme di solidarietà e di autoorganizzazione dei lavoratori, ribadiamo la necessità di una cassa nazionale di resistenza a sostegno delle lotte.




APERTA LA CASSA DI SOLIDARIETÀ PER ADIL

Tutti coloro che intendono dare un contributo per sostenere i familiari e le spese legali del nostro compagno Adil Belakhdim, possono inviarli a mezzo bonifico al seguente IBAN:



IT23O3608105138254343954358

oppure a mezzo ricarica Postepay a:

5333171076048723


Intestato in entrambi i casi a Raffaella Crippa, codice fiscale: CRPRFL76T43C523I

BIC/SWIFT (per i versamenti da altri paesi): BPPIITRRXXX


Causale: “per Adil Belakhdim, assassinato durante uno sciopero”

Lo Stato siamo noi

 


I pestaggi a Santa Maria Capua Vetere e la natura reale dello Stato

L'ignobile pestaggio di centinaia di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere richiama alcune considerazioni obbligate.

Il fatto che l'ex ministro degli interni Matteo Salvini vada a solidarizzare con gli agenti della Guardia Penitenziaria arrestati perché «non hanno fatto nulla di male» dà la misura dell'uomo, oltre che del segretario della Lega: non c'è da stupirsi per chi solidarizzò a suo tempo con i massacratori di Cucchi definendoli “innocenti” e “vittime della campagna ideologica della sinistra”. Per chi fa della divisa il proprio marchio di riconoscimento è normale.

Piuttosto colpisce il commentario sorpreso e sdegnato della stampa borghese democratica, e dell'attuale ministra della giustizia: «Tradita la Costituzione, voglio verificare ogni passaggio».
Ma di che verifica c'è bisogno? Gli agenti erano indagati da un anno, perché le telecamere, che forse gli agenti credevano spente, avevano ripreso la mattanza, e perché le registrazioni, spesso cancellate, erano state acquisite dal magistrato di sorveglianza.
Eppure per un anno gli agenti sono rimasti al loro posto con la copertura del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Anche perché un anno fa (16 ottobre) l'allora ministro Bonafede – ossimoro ingrato – dichiarava solennemente in Parlamento che tutto si era svolto regolarmente nelle carceri italiane (Santa Maria Capua Vetere inclusa) nonostante gli scenari di guerra documentati dai media e le tante morti oscure tra i detenuti. «Una doverosa operazione di ripristino della legalità», dichiarò il Guardasigilli, col plauso corale del M5S e del PD, gli stessi che oggi fanno i sepolcri imbiancati dell'indignazione, gli stessi che assieme a Salvini sorreggono Draghi e la ministra Cartabia. Se la ministra “vuole verificare ogni passaggio” della vicenda interroghi prima di tutto chi le dà i voti in Parlamento.

Per il resto è tutto terribilmente chiaro, nel suo orrore. Pestaggio pianificato di tutti i detenuti da parte del “Gruppo di supporto agli interventi”, la struttura militare di rinforzo chiamata dalle autorità carcerarie. Partecipazione attiva e collettiva di tutti gli agenti al pestaggio e all'umiliazione dei detenuti – disabili inclusi – tra manganellate, calci, perquisizioni anali coi manganelli, strappo di barbe, privazione in giornata di cibo e acqua. Per i pestati proibizione delle cure mediche, del contatto coi familiari, del cambio di vestiti impregnati di sangue per una settimana, imposta dalla minaccia di altri pestaggi.
C'è bisogno di aggiungere altro a questo spettacolo di vigliaccheria, disumanità, ed impotenza?

“Non facciamo di tutta l'erba un fascio, distinguiamo le mele marce dal resto!”, protesta il buonsenso democratico. Lo si è detto per la Diaz e Bolzaneto di vent'anni fa a Genova, come per Cucchi, Aldovrandi e mille altri. Lo si è detto per i carabinieri di Modena che torturavano e taglieggiavano i tossicodipendenti per gestire in proprio lo spaccio. Lo si dirà nei prossimi giorni quando troveranno conferma i pestaggi cileni consumati, a telecamere spente, nelle carceri di Ascoli e di Potenza. Come se l'eterno ripetersi di pratiche di violenza e tortura da parte dei corpi militari dello Stato non fosse sufficiente di per sé per porsi interrogativi di fondo e più scomodi.

Qual è la natura reale dei “corpi di pubblica sicurezza”, in tutte le loro articolazioni? Santa Maria Capua Vetere è, nella sua brutalità, un caso di scuola. La mattanza è stata compiuta collettivamente, senza eccezioni. Gli indagati sono solo una parte degli agenti coinvolti, quelli di cui è stata possibile l'identificazione. Le testimonianze parlano del pieno coinvolgimento dei comandi.
La retorica delle “male marce” va allora esattamente rovesciata: perché nessuna mela buona si è messa di mezzo, ha rifiutato i pestaggi, ha denunciato i responsabili? Il punto è esattamente questo. Nei corpi repressivi non conta la coscienza di qualche singolo, ma lo spirito di squadra, la cultura della forza, l'obbedienza gerarchica al comando, la reciproca omertà e copertura come codice d'onore. Quella cultura che magari inneggia sui social alle prodezze della polizia di Bolsonaro e che fa di Salvini “Il Capitano” della Polizia.
Chi si dissocia, a maggior ragione chi denuncia, è l'“infame”, come nella malavita. È la ragione per cui “casi” come quelli in questione sono solo la punta dell'iceberg di ciò che realmente avviene in tante strutture carcerarie o questure, ai danni di soggetti deboli, marginali, ricattabili, spesso oggetto di pubblica esecrazione, e per questo maggiormente indifesi. È il mondo sommerso della delinquenza dello Stato, infinitamente più ampio di ciò che inquadrano le telecamere di sorveglianza.

“Ma la Costituzione...”. La Costituzione è un pezzo di carta, la vita reale è un'altra cosa. La Costituzione di De Gasperi e Togliatti, al pari di tante costituzioni borghesi, prevede formalmente il diritto al lavoro, alla casa, alle cure, persino l'uguaglianza, oltre che il rispetto della dignità di ogni persona. La vita reale della società borghese si fonda invece sullo sfruttamento e l'oppressione della maggioranza della società da parte di una piccola minoranza, che si regge sull'uso della forza. La Costituzione formale che declama i diritti serve a nascondere la costituzione reale della società che li calpesta. La democrazia borghese nasconde, da sempre, la dittatura dei capitalisti.

“Applichiamo la Costituzione...”. Ma per “applicare i principi della Costituzione” è necessario rovesciare quella società capitalista che la stessa Costituzione tutela, quello Stato borghese che la stessa Costituzione sorregge. Lo Stato è fondamentalmente un corpo di uomini in armi al servizio della classe sociale dominante, come scriveva Engels. La forza dello Stato è superiore alla sua legge formale, perché la sua legge reale è la forza, anche nella Repubblica più democratica.
“Lo Stato siamo noi!” gridavano gli agenti nel mentre massacravano i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Purtroppo è la realtà. Senza spezzare l'apparato burocratico e militare dello Stato, senza sciogliere i corpi repressivi, senza rovesciare la forza organizzata della borghesia, nessuna alternativa sociale è possibile. Solo una rivoluzione può cambiare le cose. Solo il potere dei lavoratori può realizzare una democrazia vera.

Partito Comunista dei Lavoratori