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5 Stelle e TAP, una scelta di campo

Contro l’avvio dei lavori per la realizzazione del gasdotto Azerbaigian–Italia si era prodotta una grande mobilitazione. Da Melendugno era partito un segnale chiaro contro l’ennesima grande opera calata dall’alto, cioè dai tiranni del sistema capitalistico, e carica di effetti devastanti su territorio e società.

Ovviamente nella protesta si collocavano molteplice spinte, alcune delle quali confuse e interclassiste.

L’aspirante premier Di Maio giurò e spergiurò che la TAP non si sarebbe mai fatta. Solo qualche mese dopo, la resa dei conti è quella di Giuseppe Conte pronto a stravolgere il solenne impegno di Di Maio dietro il ricatto di una penale plurimilionaria da versare ai soggetti beneficiari della grande opera in caso di una sua mancata realizzazione. Goffa e ridicola la giustificazione con la quale Di Maio ha cercato di giustificare l’ennesimo voltafaccia dei 5 Stelle. Il giovane virgulto pentastellato è caduto nel ridicolo allorquando ha dichiarato di ignorare l’esistenza di penali in caso di mancata realizzazione di opere pubbliche.

In realtà, messi alla prova dai fatti, i 5 Stelle, anche sulla TAP, hanno fatto una precisa scelta di campo, cinica e sfrontata, calpestando le aspettative di decine di migliaia di attivisti mobilitati per difendere ambiente e territorio e non piegarsi servilmente ai diktat di multinazionali, grandi costruttori e speculatori.

Nel giro di pochi mesi emerge un ineguagliabile campionario ci cialtronerie e meschinità.
Dopo avere costruito una maschera di “amici del popolo” con l’elemosina del reddito di cittadinanza e, proprio in Puglia, con la rivendicazione del ruolo di salvatori dell’Ilva, la foglia di fico (sic) non copre più nulla.
La Caporetto sulla TAP, la precarizzazione sistematica prodotta dal reddito di cittadinanza, le ambiguità sui costi del risanamento dell’Ilva, la loro tempistica, la loro modalità di controllo e le garanzie istituzionali non lasciano più dubbi.
I contorsionismi di Di Maio si sviluppano tutti dentro una cornice di totale subalternità ai padroni del vapore.

I problemi posti dal movimento No TAP, che il PCL sostiene nel massimo della chiarezza, ci dicono che di fronte alla catastrofe causata da un sistema produttivo putrescente, la risposta non può essere costituita da demagogie e populismi.
Il movimento dei lavoratori deve assumere su se stesso il complesso di questi problemi, che sono risolvibili solo con una rottura rivoluzionaria del presente e un’alternativa socialista.
Il PCL lavora con tenacia per questo sbocco.
30 Ottobre 2018
Pino Siclari

«Dio sopra tutti». Bolsonaro alla testa del Brasile

“Brasil acima de tudo, Deus acima de todos” (Brasile prima di tutto, Dio sopra tutti). Con questa parola d'ordine Jair Bolsonaro ha conquistato la Presidenza del Brasile, grazie a 11 milioni di voti di vantaggio sul concorrente del PT Fernando Haddad. Lo ha votato massicciamente la classe media del Sud, bianca e benestante, ma anche buona parte della popolazione povera delle metropoli e della stessa classe lavoratrice. Un blocco sociale nazionalpopolare sotto le bandiere della reazione.


UNA DESTRA NON ORDINARIA 

Il profilo politico del vincitore è inequivocabile. Non si tratta di un ordinario esponente della destra tradizionale brasiliana. La destra brasiliana tradizionale (PMDB, PSDB...) esce anzi a pezzi dalla prova elettorale. Jair Bolsonaro ha costruito la propria ascesa proprio sulle ceneri della vecchia destra quale outsider estraneo al vecchio sistema politico. Nonostante 28 anni di grigia carriera parlamentare, egli è riuscito a presentarsi come l'uomo nuovo, il Messia finalmente trovato per la rinascita del Brasile. La polarizzazione del consenso contro il nemico è stata la chiave di successo dell'operazione, e il nemico ha riassunto in sé, in una volta sola, tutti i possibili volti: la laicità, i diritti delle donne e degli omossessuali, le popolazioni contadine, le minoranze indie, la minoranza nera, la criminalità diffusa, gli immigrati venezuelani, e naturalmente... “i comunisti”: intendendo per tali il PT di Lula, l'insieme delle sinistre, l'associazionismo democratico, tutti assimilati al sistema da abbattere. Del resto l'aperta rivendicazione del vecchio regime militare, inclusa la pratica della tortura, fornisce la misura del personaggio Bolsonaro: un ex capitano dell'esercito in cerca di avventura e di gloria.

Ma come ha potuto consumarsi una svolta reazionaria così radicale? Chi cerca spiegazioni nella potenza dei nuovi mezzi mediatici, dei finanziamenti ottenuti, delle Chiese evangeliche, si ferma alla superficie delle cose. In realtà la vittoria di Bolsonaro ha una radice ben più lontana e profonda: il fallimento di tredici anni di governo del PT di Lula e di Rousseff (2002-2016)


LE RESPONSABILITÀ DEL PT 

Salito al governo nel 2002 sull'onda di una grande spinta popolare, Lula aveva incarnato la grande speranza di svolta della classe lavoratrice e della popolazione povera del Brasile. Ma il suo programma politico, sin dall'inizio, muoveva all'interno del quadro capitalista, alla ricerca di una legittimazione presso il capitale finanziario internazionale. Le carte in regola nel pagamento del debito estero, l'apertura al capitale imperialista (USA ed europeo), le misure di precarizzazione del lavoro furono non a caso l'atto d'esordio del lulismo, col plauso del FMI e delle banche. I rapporti privilegiati e ostentati con il centrosinistra europeo e col PD americano erano il naturale corollario di questa politica, inclusa la partecipazione brasiliana alle missioni imperialiste in Medio Oriente.

Tuttavia, per alcuni anni, l'ascesa dei prezzi del petrolio e delle materie prime garantì al capitalismo brasiliano una fase di sviluppo, e al governo Lula una dote finanziaria da spendere nel sostegno alla povertà: da qui un sistema di sussidi ai disoccupati e alle famiglie povere (Fome zero e Bolsa familia) che realmente alleviò la loro indigenza e legò al PT nuovi strati popolari.

Ma il periodo di grazia durò poco. Prima l'irrompere della grande crisi capitalista internazionale, poi il rallentamento del tasso di sviluppo cinese, innescarono un cambio di scenario. La caduta del petrolio e delle materie prime, di cui il Brasile era grande esportatore, innescò una profonda crisi dell'economia brasiliana (sino al crollo del 7,2% del Pil nel 2015) e restrinse la base materiale delle concessioni sociali. La stretta sociale dei governi Rousseff (2011-2016) aprì una linea di frattura tra il PT e larga parte del suo blocco sociale. L'aperta corruzione dei vertici del PT - figlia della contiguità con gli ambienti capitalistici - e il vortice di scandali che ne seguì, precipitò questa frattura. L'inchiesta giudiziaria contro Lula e l'operazione di destituzione del governo Rousseff, per mano della destra e della magistratura, capitalizzarono una sconfitta politica già in larga parte consumata.


LA RITIRATA DELLA BUROCRAZIA SINDACALE 

Il nuovo governo Temer (2016) segnò la prima svolta a destra del Brasile. Ma era tutt'altro che una svolta irresistibile. Privo di un'organica base parlamentare, coinvolto anch'egli nella corruzione pubblica, Temer si avventurò su un sentiero di scontro frontale col movimento operaio brasiliano varando un progetto di controriforma delle pensioni. Il movimento operaio reagì. Nonostante gli effetti di disorientamento prodotti dalla precedente esperienza lulista, il 28 aprile 2017 la classe operaia brasiliana ha espresso il più grande sciopero generale della storia nazionale dopo l''89, con oltre 40 milioni di scioperanti, manifestazioni di massa, blocchi stradali, paralisi prolungata di intere città, come Brasilia. Il governo Temer fu costretto ad una retromarcia; era il segno di un possibile capovolgimento di fronte a favore del movimento operaio.

Ma il PT non aveva alcuna voglia di proseguire sulla strada dello scontro sociale. Lula e Rousseff si affrettarono anzi a disinnescarlo chiedendo elezioni anticipate, provando cioè a dirottare sul terreno istituzionale la forza sociale dei lavoratori. La burocrazia sindacale della CUT seguì a ruota. Un secondo sciopero generale già convocato per il 30 giugno per chiedere “misure di svolta” fu rapidamente revocato per non disturbare il PT. Tra i lavoratori prevalse il disorientamento: il grosso della classe si era mobilitato per la difesa delle proprie pensioni, non per identificarsi nelle manovre istituzionali di Lula. Lo spazio liberato dalla ritirata del movimento operaio fu subito occupato da Temer con un progetto di riforma reazionaria del diritto del lavoro. La burocrazia sindacale non reagì, e il progetto passò con un profondo effetto di demoralizzazione di milioni di lavoratori.

Proprio la passivizzazione di massa ha spianato la strada a Bolsonaro. Contro Lula, contro Temer, “contro tutti”.

La mobilitazione della destra brasiliana contro il PT e la “sua corruzione” non è una improvvisazione delle ultime settimane. Si è snodata in forme e fasi diverse dopo il 2013, raccogliendo attorno a sé la piccola borghesia urbana, settori studenteschi, strati popolari. La mobilitazione operaia dell'aprile 2017 aveva spezzato temporaneamente questa dinamica reazionaria, ponendo le premesse di una possibile svolta, ma quando la classe operaia si è ritirata dalla scena, per volontà delle sue direzioni, la dinamica reazionaria già incubata ha potuto dispiegarsi senza freni con una radicalizzazione significativa delle proprie pulsioni. La vittoria di Bolsonaro è il punto d'approdo di questo processo. Le direzioni politiche e sindacali del movimento operaio e brasiliano ne portano interamente la responsabilità.


FRONTE UNICO CONTRO BOLSONARO.
MA ANCHE LA NECESSITA' DI UN BILANCIO 


Ora si apre una pagina nuova della politica brasiliana. Bolsonaro ha stravinto nelle urne, ma il suo programma non avrà vita facile.

Certo, tutti i grandi gruppi d'interesse che hanno investito nella svolta attendono ora che venga pagata la cambiale. I latifondisti e l'agrobusiness chiedono mano libera in Amazzonia e ovunque; gli industriali chiedono la compressione ulteriore dei diritti sindacali; grandi gruppi del capitale finanziario pretendono di incassare le massicce privatizzazioni delle aziende pubbliche che Bolsonaro ha loro promesso. L'economista di riferimento di Bolsonaro, l'ultraliberista Paulo Guedes, figlio legittimo dei Chicago Boys, ha annunciato pubblicamente “la privatizzazione del Brasile”. La borsa brasiliana l'ha preso sul serio, salutando il nuovo Presidente con una straordinaria impennata dei listini.

Ma le cose non sono così semplici. Il blocco sociale reazionario che si è raccolto attorno a Bolsonaro ha interessi compositi. Tenere insieme l'operaio e l'industriale, il povero e il miliardario “contro i politici corrotti” è relativamente agevole, ma quando si dovesse metter mano nuovamente al sistema previdenziale o tagliare il sistema dei sussidi quella contraddizione può approfondirsi e persino esplodere. Il populismo di governo ha bisogno di una base materiale su cui appoggiarsi e di uno spazio sociale di manovra, ma la crisi del capitalismo brasiliano limita questi spazi.
Non è un caso se le prime dichiarazioni pubbliche di Bolsonaro dopo la vittoria sono assai più misurate e prudenti della sua campagna elettorale e del suo programma.

Il movimento operaio brasiliano ha subito una dura sconfitta politica, ma non è certo finito.
I 45 milioni di voti contro Bolsonaro al ballottaggio, a partire dagli Stati del nord e nord-est, misurano una riserva di risorse sociali ancora grande sul terreno della possibile resistenza di massa. L'unità d'azione di tutte le forze politiche e sindacali del movimento operaio e popolare contro il nuovo governo è la parola d'ordine della nuova fase. È il momento del fronte unico.

Ma l'urgenza e la priorità del fronte unico e della resistenza non può rimuovere l'esigenza di un bilancio politico nel movimento operaio brasiliano e internazionale.

Il lulismo ha costituito uno dei tanti miti del riformismo. Prima del 2002, quando il PT era ancora all'opposizione, Lula divenne un riferimento centrale delle direzioni del movimento No global e dei riformisti e centristi di mezzo mondo: basti pensare ai peana dedicati all'esperienza di Porto Alegre, come metafora del nuovo mondo possibile. Così dopo il 2002 il nuovo governo Lula divenne l'esempio latinoamericano di “un possibile governo riformatore” sotto la pressione dei movimento sociali. Fausto Bertinotti non a caso salutò nel lulismo un paradigma di riferimento per il PRC nella svolta di governo del 2004-2006. Il fatto che il PRC e Sinistra Italiana abbiano continuato ad applaudire Lula anche dopo il disastro compiuto misura solamente l'insensibilità del riformismo alle lezioni pratiche dell'esperienza.

La questione del cambio di direzione politica e sindacale del movimento operaio non interroga solo il Brasile, ma certo in Brasile, dopo la disfatta, acquista un significato ancor più stringente. In questo senso, l'unificazione in uno stesso partito di tutte le forze marxiste rivoluzionarie conseguenti del Brasile, al di là delle differenze che abbiamo con diverse scelte politiche da loro compiute, risponde non solo ad una necessità generale, ma anche ad una urgenza politica. Così come, in uno scenario capovolto, nella vicina Argentina: ed anzi l'unità in uno stesso partito delle organizzazioni trotskiste del Frente de Izquierda in Argentina, sull'onda di una nuova ascesa operaia, darebbe un incoraggiamento decisivo a tutti i marxisti rivoluzionari del Brasile proprio nel momento più difficile.
L'ora di una piena assunzione di responsabilità è suonata da tempo per tutte le organizzazioni marxiste rivoluzionarie conseguenti, in America Latina e non solo.

30 ottobre 2018
Partito Comunista dei Lavoratori


Lettera aperta alle compagne e ai compagni del PRC

Care compagne, cari compagni,

ci rivolgiamo a voi col rispetto che si deve a compagni e compagne, e dunque con la sincerità che proprio tra compagni è doverosa.

La nostra opinione è che il gruppo dirigente del vostro partito vi abbia nuovamente condotto in una avventura politica rovinosa. L'esperienza di Potere al Popolo e il suo esito, al pari di altre esperienze precedenti in cui nascondere Rifondazione Comunista, rischiano di umiliare la passione politica di migliaia di comunisti, e di provocare l'ennesima dispersione di forze e di energie.

Non vogliamo indugiare più di tanto sulla cronaca del collasso di Potere al Popolo e sul ritiro fuori tempo massimo del PRC. Certo è inevitabile constatare gli aspetti grotteschi della vicenda dell'ultimo anno.


DAL BRANCACCIO A PAP

Un anno fa si cercò la lista unitaria del Brancaccio con Sinistra Italiana e MDP, sino a rimuovere la pregiudiziale iniziale verso D'Alema e Bersani (sarebbe stato sufficiente non si candidassero), ma l'accordo blindato tra MDP e Sinistra Italiana ha tagliato fuori il PRC.

Dunque si è saliti in corsa sul nuovo carro dell'ex Opg, come se nulla fosse avvenuto, chiedendo al corpo militante del PRC di fare da manovalanza nella raccolta di firme di Potere al Popolo sotto l'egemonia degli ex Opg e dell'immagine pubblica di Viola Carofalo, in una campagna elettorale consentita dalla raccolta firme del PRC ma paradossalmente rivolta, in buona misura, “contro i partiti”.

Poi si è avallata e coperta per mesi, di assemblea in assemblea, la retorica movimentista e “antipartito” di ex Opg e dei neosovranisti di Eurostop (“il nuovo modo di fare politica”, “il fare” contrapposto al “dire”, il “nuovo” contrapposto al “vecchio”...), una retorica populista da grillismo sociale che ha fatto leva sull'arretramento della coscienza politica diffusa, che ha rimosso la stessa centralità di classe, e che l'ex Opg ha usato abilmente sin dall'inizio - com'era del tutto evidente - per costruire il proprio partito, a partire dal proprio controllo sugli strumenti web, sulle figure pubbliche, sugli spazi mediatici di PaP. Tutto gentilmente concesso dal PRC.

Infine, dopo aver legittimato un percorso plebiscitario dall'esito annunciato, il gruppo dirigente del PRC si ritira a poche ore dal voto sugli statuti per evitare una disfatta.

Il bilancio è nei fatti: si è trattato di un disastro, politico e d'immagine. Un disastro che chiama in causa responsabilità politiche generali, ben oltre la vicenda in corso.


ARCOBALENO, RIVOLUZIONE CIVILE, POTERE AL POPOLO, “QUARTO POLO”: UN GIROTONDO SENZA FINE 

Conoscete il nostro giudizio politico - che non abbiamo mai nascosto - sul gruppo dirigente del PRC.

Sapete che non possiamo e non vogliamo dimenticare la compromissione del PRC nei governi Prodi, col voto alla detassazione dei profitti, alle missioni militari, ai tagli sociali per pagare il debito alle banche, alla precarizzazione del lavoro (Pacchetto Treu). Non li abbiamo mai derubricati ad “errori”. Perché è impossibile classificare come errore il sostegno all'avversario di classe contro i lavoratori e le lavoratrici.

Ma le responsabilità non finiscono con l'esperienza Prodi, che pure ha costituito il passaggio più grave. Negli anni successivi, il gruppo dirigente del PRC ha trascinato il vostro partito di avventura in avventura: prima nell'aggregazione Arcobaleno, poi nell'abbraccio coi questurini Ingroia e Di Pietro (Rivoluzione Civile), poi nella lista Un'altra Europa con Tsipras attorno alla candidatura liberalprogressista di Barbara Spinelli, infine in Potere al Popolo.
Qual è il tratto comune di tutte queste esperienze tra loro diverse? Il mimetismo politico del PRC. La rinuncia all'autonomia di un riferimento classista e anticapitalista. La ricerca di un proprio nascondimento in aggregazioni segnate comunque, con differenti declinazioni, da un profilo civico, aclassista, populista, genericamente progressista, in ogni caso non comunista.

Né si può dire che oggi questa ricerca sia conclusa. Tanto è vero che nel momento stesso in cui si lascia PaP, prima si chiede agli ex Opg un nuovo accordo nel nome di un ritorno alle origini di PaP, poi si allude di fatto alla prospettiva di un quarto polo con Sinistra Italiana in vista delle elezioni europee. L'ennesimo nascondimento del PRC a braccetto con i vendoliani, ma anche con gli ex PD Fassina e D'Attorre. Quelli che ieri erano parte del governo Letta, e votavano il pareggio di bilancio in Costituzione; ed oggi inneggiano alla riscoperta della patria, nel nome della competizione con la destra.
Altro giro, altro disastro.


ANTILIBERISMO O ANTICAPITALISMO? 

Cosa c'è alla base di questa eterna coazione a ripetere, insensibile ad ogni lezione dell'esperienza? La rinuncia a costruire un partito comunista, di nome e di fatto. E da dove ha origine questa rinuncia? Da un programma generale genericamente antiliberista, e non anticapitalista. Da un programma generale che continua ad alimentare l'illusione di una possibile alternativa progressista all'interno del sistema capitalista. Unire la cosiddetta sinistra antiliberista in uno stesso soggetto politico è stata ed è, non a caso, la bussola di tutte le esperienze trasformiste del PRC, da Rivoluzione Civile a PaP. Ed è un'ipoteca sul futuro. Perché se il riferimento programmatico è semplicemente l'antiliberismo, quale linea di demarcazione può separare il PRC da Fassina e da Sinistra Italiana, al di là della diversità dei percorsi?

Non solo. Una impostazione semplicemente antiliberista diventa inevitabilmente, a determinate condizioni, la foglia di fico del governismo. Tutti i cosiddetti governi “di sinistra” hanno formalmente evocato la polemica antiliberista. Ma si è trattato della copertura ideologica di ben altre politiche. È il caso del governo Tsipras, con cui il gruppo dirigente del vostro partito continua a collaborare dentro la stessa Sinistra Europea, nonostante quel governo abbia massacrato e continui a massacrare la popolazione povera di Grecia per conto della Troika. È il caso del governo portoghese, sostenuto da PC e Bloco de Esquerda, che nell'ultima finanziaria ha tagliato del 30% gli investimenti pubblici per pagare il debito alle banche e rispettare i dettami di UE e BCE. È il caso del governo Sanchez in Spagna, oggi beneficiato dal sostegno di Podemos, che preserva le politiche antimigranti, nega alla Catalogna il diritto di autodeterminazione, preserva il grosso delle controriforme sociali degli ultimi vent'anni, ma che Maurizio Acerbo eleva oggi a riferimento esemplare in Europa.

La verità è che nel quadro della crisi capitalista e della nuova competizione mondiale non esiste uno spazio storico riformista. L'alternativa vera è tra una prospettiva rivoluzionaria e la rassegnazione alle controriforme, magari gestite dai governi “progressisti”.


AZIONE E PROSPETTIVA 

Talvolta si obietta a queste considerazioni affermando il primato dell'azione presente rispetto alla prospettiva futura. Ma sono le prospettive future a condizionare inevitabilmente le scelte politiche presenti. Valga ad esempio l'intervento sindacale: se la prospettiva politica è una alternativa rivoluzionaria, quella prospettiva richiama immediatamente una contrapposizione frontale alle burocrazie sindacali ovunque collocate, per la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio. Se invece la prospettiva è un fantomatico governo progressista, allora non solo si finisce col disperdere la centralità del riferimento classista, ma nello stesso ambito dell'intervento sindacale ci si adatta, in un modo o in un altro, all'accomodamento con le burocrazie. Il fatto che il PRC abbia a lungo avallato l'equivoco del landinismo, e tuttora alimenti aspettative attorno ai vertici della FIOM, è emblematico di un nodo irrisolto. Lo stesso vale per il posizionamento politico interno ad ogni dinamica di movimento.


UNA PROPOSTA DI CONFRONTO

Allora occorre trarre le conclusioni politiche di un bilancio che non si può rimuovere.

Solo un programma classista, anticapitalista, rivoluzionario, su basi nazionali e internazionali, può fondare la necessaria autonomia politica dei comunisti, e orientare un'azione politica coerente. Fuori e contro questo programma si è destinati a ripercorrere ogni volta i sentieri già battuti, in un eterno girotondo senza via d'uscita.

È necessario costruire un partito comunista, di nome e di fatto, estraneo ad ogni suggestione stalinista come ad ogni socialdemocrazia di sinistra. Per questo il Partito Comunista dei Lavoratori intende confrontarsi apertamente con tutti i compagni e le compagne del PRC che, delusi dall'esperienza politica del proprio partito, intendano costruire con noi una prospettiva nuova, coerentemente anticapitalista e rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori

IL PCL ADERISCE E SOSTIENE LO SCIOPERO DEL 26 OTTOBRE

Cambiar tutto per non cambiare nulla.

Testo del volantino nazionale che il PCL distribuirà ai cortei dello sciopero del 26 Ottobre

24 Ottobre 2018
Il cosiddetto governo del cambiamento, dopo il decreto “dignità” e quello “sicurezza”, dopo la chiusura della vicenda ILVA (vedi riquadro) e il lancio di una proposta per Alitalia, ha presentato la sua “finanziaria del popolo”. Questo governo, cioè, ha oramai definito le sue politiche e la sua impronta sul paese. Non è un governo di passaggio. Non è un governo dalla parte del lavoro. È un governo reazionario, con un consenso di massa anche tra le classi subalterne, che sta gestendo la crisi per permettere la ripresa di questo sistema capitalista, sostenendo il padronato e reprimendo il lavoro.

Certo, la sua politica meno restrittiva (la previsione di un indebitamento al 2,4%) è un evidente segno di discontinuità rispetto ai precedenti governi tecnici o del PD. E quindi è in conflitto con BCE e Commissione Europea. Questa politica, però, difende interessi diversi da quelli del lavoro.

Sostiene piccole imprese e capitale italiano: riduce le tasse e le imposte a piccole imprese, professionisti e artigiani (flat tax, Ires e 4.0); prevede un nuovo grande condono (pace fiscale) per chi in questi anni ha evaso ed eluso (spesso ancora piccole imprese, professionisti ed artigiani); programma una ripresa degli investimenti, da realizzare soprattutto attraverso il “partenariato pubblico-privato” (cioè nuove occasioni di utilizzare risorse di tutti/e per fare gli interessi dei padroni); non a caso, infine, riprende e sostiene nuove privatizzazioni (dopo tutti i discorsi sui “prenditori” e la sceneggiata contro i Benetton). 

Disciplina il lavoro. Non solo nei dettagli, come introducendo “strumenti biometrici (impronte digitali o iride) per verificare le presenze” (ora tra i pubblici, poi come sempre a tutti/e). Proprio il cuore della sua politica economica, il Reddito di Cittadinanza, è soprattutto uno strumento di controllo per lavoratori e lavoratrici. Infatti, lungi da esser una redistribuzione generalizzata o un salario sociale (una suddivisione del plusvalore collettivo, in chiave disobbediente), è tracciata sul salario di disoccupazione inglese o tedesco (Harz IV): strutture pubbliche e private (i centri per l’impiego) che obbligano a lavori malpagati e monitorano la vita dei singoli (come ha ricordato Di Maio: attenti a comportamenti e spese “immorali”).

Frega lavoratori e lavoratrici. In primo luogo, sulle pensioni. La cosiddetta “quota 100”, che finalmente rivede la Fornero, non solo avrà probabilmente un meccanismo flessibile, ma per far tornare i conti rischia di eliminare il retributivo (tagliando il 10-15% delle pensioni di chi oggi va in pensione) e mantenere il rapporto con la speranza di vita (rischiando di far abbassare i coefficienti e quindi le future pensioni per tutti/e). In secondo luogo, sui contratti. Il celebre Def "del popolo" non ha stanziato un euro a bilancio per i CCNL pubblici: anzi, si scrive che il loro salario continuerà a scendere. Qualcuno pensa che se andrà così, nel privato sarà molto diverso? No, perché si applicherà pienamente l’accordo quadro con Confindustria (vedi riquadro).

Reprime i migranti. Non solo Salvini rivendica e generalizza quello che Minniti aveva silenziosamente iniziato (respingimenti in mare e campi di concentramento in Libia), non solo Lega e 5stelle legittimano le campagne razziste coprendo un’estrema destra violenta ed aggressiva, ma questo governo implementa anche direttamente politiche discriminatorie (da Riace a Monfalcone). Non solo si lascia morire in mare uomini e donne, vecchi e bambini. Non solo si continua a devastare altri paesi per difendere i nostri interessi politici ed economici. Si reprime anche una parte dei lavoratori e delle lavoratrici in questo paese, indebolendo chi è già debole, togliendo diritti e colpendo le condizioni di tutti/e. Come l’art. 25 del decreto Salvini (reato penale per picchettaggio stradale, punibile da 1 a 6 anni, con rimpatrio dei migranti), che attacca le lotte nella logistica, la difesa di diritti e salari per tutti i lavoratori e le lavoratrici di quel settore e non solo.

Si creano ulteriori 70 miliardi di debito, contro il lavoro e le classi popolari. Come sostiene l’agenzia di rating J.P. Morgan “l’impennata dello spread è una opportunità di investimento” (immaginiamo in titoli di stato). Finanziando queste politiche, chi pagherà i costi della crescita del debito? I proletari e la popolazione povera, attraverso i soliti tagli a sanità, scuola e ad agevolazioni fiscali per famiglie di lavoratori. 
Questo è il governo giallo-verde, queste le sue scelte. Contro queste politiche, è ora di lottare!

Ilva: un accordo contro il lavoro e contro l’ambiente
L'accordo raggiunto da CGIL-CISL-UIL e USB non tocca infatti i cardini dell’ipotesi Calenda:
- Arcelor Mittal impiegherà solo 10.700 lavoratori (per Genova ci sarà una trattativa a parte), 8.200 dei quali a Taranto. Dovranno sottoscrivere "dimissioni consensuali", rinunciando alla continuità garantita dall'art. 2112 del Cod. civile (cessione di ramo d'azienda) che prevede uguale inquadramento, retribuzione e luogo di lavoro.
- Gli esuberi sono 3.100, ai quali verrà fatta una proposta di esodo incentivato (da 15 mila a 100 mila euro lordi). 
- Con la nuova assunzione, si dovrà rinunciare ad intentare qualsiasi causa per malattie o danni causati dal datore di lavoro (art.2087 Cod. civ.), anche per chi accetta l'esodo anticipato.
- Chi non verrà assunto, subito potrà usufruire della cassa integrazione per un periodo massimo di 7 anni. 
- Entro otto mesi (con qualche anticipo rispetto Calenda) l'azienda dovrà coprire il 50% del parco minerario. 
E’ un cedimento, sul piano dei diritti e della salute. Ormai da tempo questo è un modello di riferimento: esodi incentivati e qualche posto di lavoro in cambio dei diritti, anche quelli fondamentali (come sicurezza e salute). Questo scambio oggi è stato sottoscritto anche da USB. Avrebbero potuto battersi per una soluzione diversa: far saltare questa vendita e lottare per la nazionalizzazione. La FIOM non ci ha mai creduto. USB ha preferito invece lasciare questa parola d’ordine ai cortei del sabato, preferendo firmare l’accordo e chiudere così, senza frizioni con il governo 5 stelle, la vicenda ILVA.

Contro l’accordo quadro sulla contrattazione ed il 10 gennaio, per una pratica sindacale democratica, la difesa dell’autonomia del lavoro. 

Lo scorso marzo Cgil Cisl Uil e Confindustria hanno raggiunto l’accordo sugli indirizzi nella contrattazione dei settori industriali. In questo modo, il padronato incassa il risultato dell’ultima stagione contrattuale ed in particolar modo la capitolazione della FIOM nei metalmeccanici. Infatti, l’accordo quadro si caratterizza per tre elementi fondamentali:
Primo. Gli aumenti salariali nei contratti nazionali vengono bloccati sotto l’inflazione, attraverso l’utilizzo dell’indice IPCA (inflazione al netto dei settori energetici), nei contratti di secondo livello vengono legati esclusivamente ad indici variabili (spesso legati a prestazioni individuali, di squadra o di stabilimento), rendendo imprevedibile il salario e facendone strumento di controllo del lavoro.
Secondo. Nel Trattamento economico complessivo (cioè, nel salario), viene compreso una parte non monetaria, ma legata a benefit variabili (sanità e pensioni integrative, buoni acquisto, buoni benzina, ecc). In pratica, utilizzando la defiscalizzazione (cioè risorse pubbliche di tutti/e) per non far sentir la differenza al singolo lavoratore e lavoratrice, viene tagliata silenziosamente una parte di retribuzione (quella indiretta legata agli aumenti, cioè la relativa quota di contributi pensionistici, TFR e tredicesima, pari a circa un terzo di quella complessiva).
Terzo. Viene confermato e rilanciato (dopo 4 anni di silenzio) l’accordo del 10 gennaio sulla rappresentanza. Un accordo che irreggimenta la democrazia sindacale, togliendo diritti ai lavoratori/lavoratrici e trasferendoli alle organizzazioni sindacali (limitazione alla presentazione delle liste e alla titolarità dei delegati/e, vincolo di mandato delle RSU alla sigla di appartenenza, non si prevede obbligatoriamente il voto dei lavoratori e delle lavoratrici per l’approvazione degli accordi). Soprattutto, limita l’agibilità e gli spazi di resistenza sindacale, introducendo il principio della esigibilità per le imprese, limitando persino il diritto di sciopero, con procedure di raffreddamento e la possibilità di sanzionare chi dissente.
Contro questo accordo, la sua implementazione e la sua applicazione, prassi alternative e conflittuali, in grado di far progressivamente saltare ogni ingabbiamento della democrazia sindacale e dell’autonomia di lavoratori e lavoratrici.

RIPRENDERE LE LOTTE, GENERALIZZARE IL CONFLITTO 

Contro queste politiche di gestione della crisi, contro l’immobilismo della CGIL e le titubanze di USB, contro ogni interlocuzione con questo governo reazionario, contro ogni irreggimentazione della democrazia sindacale, ricostruiamo nelle lotte una vertenza generale, sosteniamo ogni sciopero e generalizziamo il conflitto

Occorre una svolta vera. Occorre spazzare via ogni illusione nelle politiche di Lega e 5stelle, demagogiche e sovraniste. Seppur diverse da quelle liberali del PD, sono comunque dalla parte dei padroni: difendono piccoli imprenditori e capitali nazionali, non salari e diritti dei lavoratori.
Per questo il Partito comunista dei Lavoratori sostiene pienamente e convintamente lo sciopero generale convocato per il 26 ottobre da diversi sindacati di base (indetto da CUB, S.I. COBAS, SGB, Slai Cobas e USI). Solo una mobilitazione generale può riportare al centro la difesa dei diritti e dei salari. È necessario infatti portare in campo un’opposizione di massa dal versante dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati. Sostenere e diffondere la resistenza contro ogni provvedimento e ogni offensiva dalla parte dei padroni, generalizzare le lotte, unire tutto ciò che l'avversario vuole dividere: privato e pubblico, nord e sud, precari e “stabili”, italiani e immigrati. Ricostruendo nelle lotte una piattaforma generale che tracci un confine chiaro: chi sta con i lavoratori e chi sta con i padroni; facendo ciò anche attraverso assemblee decisionali unitarie di delegati/e fino al livello nazionale in tutti i luoghi di lavoro, in cui il sindacalismo di classe possa fare sentire la sua voce e le sue proposte all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici.

Una piattaforma che, dalla lotta alla precarietà alla redistribuzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore, dall'introduzione di un salario minimo intercategoriale di 1500 euro all’abolizione della legge Fornero (in pensione a 60 anni o con 35 anni di lavoro), da un vero salario sociale a disoccupati e giovani in cerca di prima occupazione alla nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori di tutte le aziende che delocalizzano o licenziano, possa unire la maggioranza della società contro la piccola minoranza di padroni, grandi azionisti e banchieri che oggi detta legge. Tutti i governi, in forme diverse, sono agenti di questa minoranza. Occorre un governo della maggioranza, un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

L'unica vera alternativa allo stato di cose presente.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il cuore profondo dello Stato getta la maschera e viene allo scoperto

Difendere Ilaria Cucchi da attacchi e intimidazioni!

L'incontro tra Ilaria Cucchi, la ministra della Difesa Trenta (M5S) e il Generale dei Carabinieri Nistri è stato rivelatore, una volta di più, del cuore profondo dello Stato.
“Non mi sarei mai attesa”, ha detto Ilaria, “uno sproloquio di 45 minuti del Generale contro i carabinieri che avevano parlato, con tanto di preannuncio della loro punizione. Quasi che il problema fosse quello di punire chi ha detto la verità sull'omicidio di mio fratello”. Nistri non ha smentito Ilaria. Mentre la ministra della Difesa, che deve tutelare il buon nome dell'Arma e soprattutto il proprio ministero, ha prudentemente dichiarato che Nistri "ha solo richiamato il senso del dovere nell'ordine militare”.

Ecco, in questa frase dal sen fuggita sta la verità di quel colloquio. La preoccupazione del Generale dei Carabinieri non era quella di portare a Ilaria improbabili scuse per la prolungata copertura fornita dall'Arma agli assassini del fratello. La preoccupazione del Generale era quella di disinnescare il rischio di contagio di un esempio di infedeltà e tradimento verso l'ordine del comando. Anche quando la fedeltà al comando significa omertà su un assassinio.

Così funziona un corpo separato dello Stato. La sua legge interna è altra cosa dalla legge formale. Non obbedisce a disposizioni costituzionali, obbedisce al proprio codice separato. E la disciplina, la subordinazione alla gerarchia, la difesa del buon nome dell'ordine, sono la linea di confine di questo codice che non va mai varcata, neppure per dire la verità su un omicidio. Chi la varca deve sapere che sarà punito.
Nistri non ha dunque sbagliato o ecceduto nel colloquio con Ilaria, magari per incontinenza verbale. Ha proprio voluto inviare un segnale all'intero corpo dei Carabinieri, un ammonimento a futura memoria, un richiamo preventivo al principio di subordinazione.

Nelle ore successive, la coraggiosa denuncia di Ilaria sulle parole di Nistri sono costate a lei e alla sua famiglia una nuova infinita sequenza di minacce e di insulti, attraverso lettere anonime e i social, da parte di veri o presunti esponenti dell'Arma, di simpatizzanti dichiarati di Salvini, di canagliume fascistoide diversamente assortito. Non è un caso. Ilaria ha toccato il nervo scoperto del potere, quello vero. Le truppe irregolari di questo potere le hanno voluto semplicemente segnalare il rischio.
L'incolumità di Ilaria è ora in discussione, ed è difficile chiedere per lei la protezione dei Carabinieri. Ilaria Cucchi può essere protetta solamente da una campagna di denuncia e di mobilitazione, che non abbia paura di chiamare le cose con il loro nome. Le decine di migliaia di giovani che in tutta Italia hanno assistito al film Sulla mia pelle sono in questo senso il suo scudo migliore.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il PRC torna al governo... in Spagna

Non bastava l'esperienza dei governi di centrosinistra in Italia, di Tsipras in Grecia, di Costa in Portogallo. La sinistra cosiddetta radicale ha sposato l'ennesimo governo borghese in terra di Spagna: il governo del PSOE (Sanchez) appoggiato da Unidos Podemos.


FERRERO E ACERBO TORNANO AL GOVERNO

«La manovra del popolo la fanno in Spagna», esulta Maurizio Acerbo, segretario del Partito della Rifondazione Comunista, reduce dal naufragio dell'ultima avventura di Potere al Popolo. E cita le meraviglie della legge di stabilità del governo socialdemocratico presentandole come fatto epocale: l'aumento delle tasse per i ricchi, una patrimoniale, l'aumento del salario minimo. In realtà si tratta di misure molto modeste: la patrimoniale ha una portata irrisoria, il 99% delle imprese vede inalterato il prelievo fiscale, l'aumento del salario minimo si riduce a superare di 50 euro quanto già pattuito da sindacati e padronato. Ma soprattutto restano intatte le controriforme sociali realizzate negli ultimi trent'anni da tutti i governi, da Gonzalez ad Aznar, da Zapatero a Rajoy: le peggiori leggi di precarizzazione del lavoro in Europa, i tagli draconiani alla sanità e alla scuola, la controriforma delle pensioni, le politiche anti-immigrati (inclusi i respingimenti militari di Ceuta e Melilla). Siamo alla semplice manutenzione “progressista” del vecchio lascito dell'austerità e della reazione. Mentre Sanchez annuncia l'ennesima iniziativa politica e giudiziaria contro il Parlamento della Catalogna per aver “delegittimato” la Monarchia spagnola. Sarebbe questo il governo della svolta storica di cui parla Acerbo?

La verità è che il PSOE ha concesso a Podemos una foglia di fico per inglobarlo nella maggioranza di governo del capitalismo spagnolo. La capitolazione di Unidos Podemos è clamorosa. Il programma di Podemos del febbraio 2016 rivendicava un programma di riforme sociali per 96 miliardi di spesa, combinato con la “sfida” ai parametri dell'Unione. La legge di bilancio che Podemos ha votato è di 5 miliardi (anche proiettandola sulla legislatura, più o meno un quinto di quanto rivendicato due anni fa), e soprattutto si muove in un quadro concordato con la Commissione Europea, che ha dato la sua benedizione. Non a caso El Pais, il principale giornale borghese spagnolo, plaude apertamente alla svolta di Podemos: «Da Puerta del Sol alla Moncloa, la svolta di Podemos verso la socialdemocrazia» titola trionfante (14 ottobre). A parte il termine improprio di «svolta», una descrizione perfetta. Tanto più che ora Iglesias, ingolosito, chiede apertamente i ministeri: «il nostro voto a favore della legge di stabilità è il preannuncio di un governo di coalizione» (El Pais, 13 ottobre).

Dunque il PRC “torna al governo”. Non in Italia, perché qui ha già bruciato, col ministro Paolo Ferrero, il proprio capitale di credibilità votando la più grande riduzione delle tasse sui profitti degli ultimi trent'anni (Ires dal 34% al 27,5%)... ma in Spagna, per interposto Podemos. Tramontata la stella di Tsipras (col quale il PRC si guarda bene dal rompere), sale la stella di Iglesias. Al punto che Maurizio Acerbo indica proprio Podemos come la nuova bussola per la sinistra italiana: “anche in Italia va costruita una sinistra popolare come quella spagnola”, capace cioè di negoziare ministeri in cambio delle lenticchie.
A questo si riduce la rifondazione comunista.


ANCHE POTERE AL POPOLO SUL CARRO DI PODEMOS? 

Ma se il PRC festeggia, cosa ne pensa PaP?

Insieme hanno firmato con Podemos, France Insoumise, (Mélenchon), Bloco de Esquerda portoghese un appello politico per le elezioni europee. La compagnia è francamente un po' imbarazzante per una formazione che si proclama alternativa. Mélenchon – ex ministro del secondo governo Jospin - rifiuta la bandiera rossa nel nome del tricolore di Francia, e le sue posture scioviniste lo spingono addirittura a respingere una petizione democratica per l'accoglienza dei migranti. Podemos sventola la bandiera spagnola dagli scranni della maggioranza di governo col PSOE. Il Bloco già siede nella maggioranza di governo della socialdemocrazia portoghese, che ha tagliato del 30% gli investimenti pubblici nell'ultima legge di stabilità per rispettare i parametri della UE.

Ma PaP non aveva detto che avrebbe fatto «tutto al contrario»? Si può evocare ogni giorno la retorica della ribellione e poi accodarsi, come ultima ruota, alle sinistre di governo in Europa?

Ciò che emerge alla luce del sole è l'eterna attrazione della sinistra riformista per il governo della società capitalista. Del resto, se il programma si limita all'antiliberismo, una coperta adatta per ogni stagione; se non si vuol rompere con la società borghese, magari nel nome del mutualismo, allora si finisce fatalmente, prima o poi, nella lista d'attesa dei governi del capitale. Poi ci si può bastonare su uno statuto interno, cioè sul controllo dell'organizzazione, dopo aver decantato la democrazia del "popolo" e la vittoria del nuovo contro il vecchio... Ma in realtà si percorre esattamente la vecchia via del riformismo, già battuta e fallita infinite volte in tutte le possibili confezioni.

Quanto a noi, che a differenza di altri non abbiamo creduto alle fiabe, continueremo a batterci in direzione ostinata e contraria per una prospettiva anticapitalista e comunista. Al fianco dei marxisti rivoluzionari di Spagna (Izquierda Anticapitalista Revolucionaria e Corriente Revolucionaria de Trabajadores), oggi all'opposizione del governo PSOE-Podemos, e dei marxisti rivoluzionari conseguenti di tutta Europa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Caso Cucchi. Il cuore profondo dello Stato

La catena di complicità e coperture dell'Arma dei Carabinieri attorno agli assassini di Stefano Cucchi si è rotta perché un carabiniere coinvolto ha parlato. Ma ora proprio la dinamica dell'accaduto chiama in causa il cuore profondo dello Stato: le gerarchie di comando di quei “corpi d'uomini in armi” (Engels) ai quali la democrazia borghese affida la tutela dell'ordine pubblico.
Le gerarchie hanno coperto il crimine per nove anni. Per nove anni hanno non solo depistato le indagini, falsificato i reperti, comandato il silenzio ai sottoposti, trasferito per punizione chi aveva parlato (Casamassima), minacciato ogni altro possibile sgarro. Ma hanno promosso la criminalizzazione di Ilaria Cucchi e della famiglia del giovane assassinato. Quando Ilaria osò pubblicare l'immagine facebook di uno dei carabinieri coinvolti con tanto di esibizione di muscoli e pose marziali («ecco la foto dell'uomo che ha ammazzato mio fratello») si scatenò contro di lei l'inferno. Ben tre sindacati di polizia la querelarono per diffamazione e istigazione all'odio. Una canea reazionaria la lapidò sui social come intrigante interessata a far soldi sulla pelle del fratello. Gianni Tonelli, principale dirigente del sindacato più a destra della Polizia (oggi guarda caso parlamentare leghista) disse che Stefano aveva pagato semplicemente le conseguenze di una vita dissoluta e che era “infame” accusare i Carabinieri. A tutto questo si aggiungevano i commenti politici. Matteo Salvini, oggi Ministro dell'Interno, disse pubblicamente di Ilaria «Mi fa schifo» (testuale). Per non parlare dei La Russa e dei Giovanardi, arruolati ad onorem per sempre nell'Arma.

Nulla di nuovo. È quanto è accaduto e accade a difesa dell'Arma o della Polizia in altri casi di morti “accidentali”. Quelle di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, per citare solo le più note. Non si tratta di semplici episodi, si tratta della punta emergente di un iceberg profondo: quello spazio di illegalità che diventa legge in tante carceri e stazioni di polizia; quell'esercizio brutale della forza che si accanisce contro chi è indifeso, tanto più se “marginale” e “reietto”; quella cultura dell'onnipotenza che si nutre di letteratura fascista, la più popolare e non da oggi nelle caserme. Per avere la misura intuitiva della profondità dell'iceberg è sufficiente un esercizio di immaginazione. Se l'omertà ha protetto per nove anni l'assassinio di Stefano, nonostante l'attenzione dell'opinione pubblica, il coraggio di Ilaria, la tenacia della sua famiglia, quanti saranno i casi di omertà in tante vicende analoghe prive di attenzione mediatica e relative a persone assai più indifese?

La cultura dell'onnipotenza dell'Arma fa leva sulla tradizione dell'impunità. Stando ai giornali, il maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini ha usato nella vicenda Cucchi un argomento centrale per chiedere il silenzio: “State tranquilli. Ho conoscenze all'interno dell'Arma e in Vaticano”; era la garanzia offerta della protezione in cambio della sottomissione all'ordine gerarchico. Del resto, su grande scala, la nota vicenda della promozione sul campo dei primi responsabili della macelleria messicana di Genova contro le manifestazioni anti G8 è stata emblematica e ha fatto scuola. Naturalmente, come dimostra il caso di Stefano, può capitare un “incidente” e la catena delle connivenze può rompersi, ma nessuna eccezione può oscurare la regola, la costituzione materiale dello Stato borghese profondo, insensibile per sua natura a qualsiasi costituzione formale.

Proprio la natura organica dei corpi repressivi, il loro codice interno, la legge reale che governa le loro relazioni, li rende strumenti idonei alla difesa dell'ordine borghese della società. Per questo nessun programma anticapitalista può rimuovere dal proprio orizzonte la questione dello Stato e della rivoluzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

Lotta dura contro il governo Salvini-Di Maio, nemico di studenti e lavoratori

11 Ottobre 2018
testo del volantino per le mobilitazioni studentesche del 12 ottobre

Si è aperto da poco il nuovo anno studentesco, presentando a noi studenti delle importanti sfide per il prossimo periodo. Il nuovo governo reazionario di Movimento 5 Stelle e Lega ha già mostrato, non lasciando spazio a dubbi, la sua natura nemica degli interessi dei lavoratori salariati e degli studenti. Al centro dell'attacco si situa la campagna contro i migranti, una campagna contro i poveri (in cui si inserisce il decreto sicurezza), che apre inoltre alla legittimazione delle forze e dei metodi fascisti. Viene sviluppata una campagna che richiama all'ordine ed alla tradizione religiosa, indirizzata ad attaccare i diritti civili (in primis i diritti delle donne e quelli delle minoranze sessuali). Le manovre in tema di lavoro (decreto dignità, questione Ilva, Documento di economia e finanza...) rispondono agli interessi della grande borghesia, schiacciando le ragioni della classe lavoratrice.

Il nuovo ministro dell'istruzione Bussetti (Lega) ha fatto intendere che non cambierà nessun asse delle precedenti controriforme di Renzi-Gentiloni (questo fa capire la convergenza tra le varie forze politiche dominanti di vario colore, sempre piegate agli interessi generali del capitale), ha dichiarato che ci potrà essere però qualche aggiustamento, che sembra inevitabilmente indirizzato verso una maggior sinergia tra scuola ed aziende private, tra istruzione e mondo economico. Quello che ci aspetta sono nuovi attacchi alla scuola pubblica ed ai diritti studenteschi, un maggior controllo e repressione verso gli studenti, un'ulteriore svendita dell'istruzione pubblica, una sua sfrenata mercificazione.

Questo panorama chiama noi studenti al dovere della lotta. Al dovere di riarmare (ideologicamente) il movimento studentesco andato alla deriva e finito ai margini per le responsabilità delle sue direzioni, sempre piegate a formulazioni riformiste o spontaneiste senza progettualità. Occorre dare un cambio di fondo.

Senza dubbio bisogna lavorare per la piena riuscita delle mobilitazioni in programma questo autunno, ma non ci si può limitare ad appuntamenti e passeggiate di rito. Occorre costruire un ampio fronte unico di lotta che si ponga come obiettivo la cancellazione delle varie riforme di smantellamento dell'istruzione pubblica (a partire dalla Buona scuola e dall'alternanza scuola-lavoro), l'abolizione di ogni tassa scolastica, l'accesso gratuito all'università e l'abolizione del numero chiuso all'università. Invitiamo quindi, sfidandole, le varie organizzazioni studentesche alla creazione di questo fronte di lotta su rivendicazioni che loro stesse avevano appoggiato in periodo elettorale.
Per mettere all'angolo il governo occorre costruire un percorso che parta dentro i luoghi di studio, che possa esprimere la propria forza in maniera radicale. Costruire assemblee, occupazioni, scioperi ad oltranza, manifestazioni nazionali, organismi autorganizzati. Sfociando in una lotta dura e generale contro questo governo reazionario. È necessaria un'alleanza strategica con i settori della classe lavoratrice in lotta, a partire dallo sciopero generale del 26 ottobre indetto dai sindacati di base SiCobas, CUB, SGB, SLAI-Cobas, USI-AIT.

Ma i nostri compiti non terminano qui, perché per risolvere compiutamente le questioni che attanagliano la nostra generazione, come studenti e futuri lavoratori, occorre mettere in discussione l'intero impianto, fino alla basi di questo sistema capitalista. Occorre cioè avanzare un'alternativa di società, su basi socialiste e rivoluzionarie. Questa è la prospettiva in cui sono impegnati il Partito Comunista dei Lavoratori ed i suoi studenti. 

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

Basta indulgenze verso Papa Francesco

Il Papa cosiddetto progressista, difeso dal liberalismo laico come da tanta parte della sinistra “radicale” (da Sinistra Italiana ai vertici del PRC), ha nuovamente denunciato l'aborto nei termini più volgari e misogini. Al Forum delle Famiglie di giugno l'aveva presentato come «pratica nazista in guanti bianchi». Oggi lo denuncia come puro e semplice assassinio. «È come affittare un sicario per far fuori uno», dichiara candido il Papa.

Il sovrano della più grande monarchia assoluta esistente al mondo, corresponsabile di genocidi nella lunga storia dell'umanità, alleata dei regimi fascisti (da Mussolini a Franco a Pinochet), coinvolta su scala planetaria nella pratica o copertura della pedofilia criminale sino alle più alte sfere, ha il coraggio di chiamare assassine le donne che interrompono la propria gravidanza, e sicari i medici che le aiutano.

È la stessa Chiesa che difende il consiglio comunale di Verona e la legge Pillon sulle separazioni. È la Chiesa di sempre contro le donne e i loro diritti. È la Chiesa custode millenaria del patriarcato.

Basta difendere Francesco e beatificare il suo papato! La denuncia delle gerarchie vaticane a partire dal vertice della piramide va portata in tutte le mobilitazioni delle donne, contro ogni indulgenza o cedimento; senza mai dimenticare che la forza materiale della Chiesa sta nel suo intreccio col capitale finanziario e la grande proprietà immobiliare. La lotta anticlericale o è anticapitalistica o non è.
Partito Comunista dei Lavoratori

PER I DIRITTI SOCIALI, CONTRO LA DERIVA REAZIONARIA

COMUNICATO STAMPA: IL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI SEZ. DI BOLOGNA ADERISCE AL PRESIDIO INDETTO DALL'UNIONE INQUILINI E DAGLI ATTIVISTI PER IL DIRITTO ALL'ABITARE IL 10 OTTOBRE ANCHE PER ESPRIMERE PIENA SOLIDARIETÀ’ AL SINDACO DI RIACE MIMMO LUCANO IN ARRESTO

La “proprietà e sacra” esclama Salvini. Il diritto alla casa no: è un atto eversivo! La circolare del Ministro dell’Interno contro le occupazioni di case è un atto di guerra contro i lavoratori poveri, i disoccupati, i ceti popolari i migranti e tutti gli attivisti per il diritto all'abitare. Quello della casa è un problema sociale di enormi proporzioni in un paese come il nostro per altro soggetto ad un altrettanto enorme speculazione immobiliare con il risultato che In Italia vi sono milioni di persone senza casa, e milioni di case vuote in mano alle grandi proprietà immobiliari ( grandi imprese immobiliari, banche e assicurazioni, Stato e enti pubblici, Chiesa e vaticano). Il ministro Salvini del governo del “popolo” vuole risolverlo con le forze di polizia sgomberando proletari e le loro famiglie senza che gli venga neanche offerta una soluzione alternativa. La rivendicazione dell'esproprio delle grandi proprietà immobiliari e la loro destinazione a fini abitativi deve divenire ovunque una parola d'ordine unificante. Risolvere la questione della casa è possibile. Ma per dare sicurezza sociale a chi non ha casa e lavoro occorre violare la sicurezza del capitale. Solo un governo dei lavoratori, rompendo con la società capitalista, può dare la casa a chi non l'ha.
La guerra di Salvini alle occupazioni è’ un passo verso un  regime autoritario. Altrettanto lo è la guerra scatenata contro i migranti e i lavoratori immigrati con il DL sicurezza, appena firmato dal Presidente della Repubblica, che riduce le risorse per l'accoglienza, ostacola le richieste di permesso di soggiorno, limita drasticamente il diritto d’asilo, condanna all'espulsione senza un grado definitivo di giudizio e vorrebbe anche revocare la cittadinanza italiana in caso di gravi reati (un aspetto inaudito nei regimi moderni, una sorta di bando medievale).

Tutti i migranti sono criminali potenziali, chi li aiuta e da loro sostegno lo è sicuramente. Questo deve pensare Salvini e per questo plaude all'arresto di Mimmo Lucano sindaco di Riace, responsabile di aver cercato di caratterizzare la propria amministrazione per la sua accoglienza e integrazione dei cittadini migranti. Ma un Salvini, per quanto supportato da crescenti consensi, non basterebbe se non potesse affidarsi alle istituzioni dello stato borghese. Per questo abbiamo scritto; “Nello Stato borghese comandano i rapporti di forza. Oggi un ministro degli Interni che ha oltre il 30% dei consensi sulla politica di annullamento dei diritti dei migranti e dei respingimenti, tende a polarizzare attorno a sé l'orientamento dominante dei corpi dello Stato, magistratura inclusa. L'arresto di Riace è la misura di questa dinamica. Tanto più per questa ragione il PCL è partecipe della campagna di solidarietà contro questa misura inaccettabile, e contro la deriva reazionaria di cui è espressione”.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZ. DI BOLOGNA

Contro i salariati pubblici e in attesa di altri 10 miliardi di privatizzazioni

Ecco il contenuto della manovra... «del popolo»

Il celebre Def "del popolo" non ha stanziato un euro a bilancio per il rinnovo contrattuale dei lavoratori della scuola. Il rinnovo contrattuale investe il triennio 2019/2021, dunque il Documento di Economia e Finanza dovrebbe indicare le risorse ad esso destinate in questa legge di stabilità. Invece nulla. Non solo: nel Def sta scritto chiaramente che i redditi da lavoro dipendente della Pubblica Amministrazione si ridurranno mediamente dello 0,4% nel biennio 2020-2021. Non basta dunque la riduzione pesante del potere d'acquisto dei lavoratori del settore pubblico nell'ultimo decennio, per nulla colmata dall'ultimo contratto farsa. Ora si scrive nero su bianco che il loro salario continuerà a scendere. E a scriverlo è quella stessa manovra che Di Maio e Salvini presentano urbi et orbi come la fine dell'austerità e l'inizio di una nuova epoca.

Non va diversamente in fatto di privatizzazioni. Ricordate l'apparente furore statalista del nuovo esecutivo contro i “prenditori” di beni pubblici, la sceneggiata contro i Benetton e Autostrade per l'Italia, l'annuncio di un controllo dello Stato sui beni della comunità e via cantando? Contrordine. La manovra del popolo dichiara nero su bianco che nel biennio 2019-2020 lo stato mira a incassare qualcosa come 10 miliardi dalla cessione di beni pubblici. Dunque dalle (ennesime) privatizzazioni. La ragione della misura è candidamente dichiarata: «diminuire il rapporto debito/Pil». In altri termini, ripagare il debito pubblico alle banche. Come sempre: le privatizzazioni servono non solo a beneficiare i “prenditori”, ma a ingrassare i possessori dei titoli pubblici, banche e assicurazioni in primis.

Siamo solo all'inizio del disvelamento progressivo dell'imminente legge di stabilità. Ma già la manovra che vuole l'applauso del “popolo” continua a servire il capitale finanziario, la cui sovranità ha solo cambiato spalla al fucile.
Partito Comunista dei Lavoratori

Solidarietà al sindaco di Riace

L'arresto del sindaco di Riace Mimmo Lucano per “favoreggiamento dell'immigrazione clandestina” non è un fatto ordinario; riflette la deriva reazionaria in atto sullo sfondo del governo giallo-verde e dell'attuale ministro dell'Interno.

Il reato che viene imputato al sindaco è di aver favorito le cooperative sociali affidate ai migranti e... un matrimonio di convenienza, a fronte del crollo di ogni altro capo d'accusa. A prescindere da ogni altra considerazione, la disposizione dell'arresto per questo presunto reato è un fatto abnorme. Evidentemente gli interessi territoriali offesi dalle cooperative sociali (gli appetiti di cooperative escluse, le pressioni speculative sulle case del borgo spopolate...) hanno trovato una voce nella magistratura. Ma soprattutto l'ha trovata il ministro dell'Interno Matteo Salvini, già sponsorizzato assieme a Di Maio dalla procura di Catania, e che ora sta facendo altri proseliti nell'ambiente giudiziario.

Il messaggio che il provvedimento trasmette è molto semplice: ogni politica di accoglienza dei migranti va sul banco degli imputati. Il motto salviniano “è finita la pacchia” ha trovato in questa misura un nuovo megafono. La Legge e Ordine del ministero degli Interni è ben riassunta dal cosiddetto Decreto sicurezza: bloccare di fatto il diritto d'asilo, ostacolare in ogni modo ogni possibile regolarizzazione. La misura disposta contro il sindaco di Riace è a tutela di questa politica. Ogni disobbedienza a questa Legge diventa reato passibile d'arresto.

Nello Stato borghese comandano i rapporti di forza. Oggi un ministro degli Interni che ha oltre il 30% dei consensi sulla politica di annullamento dei diritti dei migranti e dei respingimenti, tende a polarizzare attorno a sé l'orientamento dominante dei corpi dello Stato, magistratura inclusa. L'arresto di Riace è la misura di questa dinamica. Tanto più per questa ragione il PCL è partecipe della campagna di solidarietà contro questa misura inaccettabile, e contro la deriva reazionaria di cui è espressione.


Partito Comunista dei Lavoratori

La Francia di Macron come l'Italia sulla limitazione della libertà sindacale

Da Radio Città Fujiko

29 Settembre 2018
La mobilitazione contro la limitazione della libertà sindacale
di Alessandro Canella
venerdì 28 settembre 2018


I licenziamenti di delegati sindacali come strumento ritorsivo delle aziende non si moltiplicano solo in Italia. Anche la Francia di Emmanuel Macron reprime i lavoratori che fanno attività sindacale, come nel caso del responsabile del sindacato dei postini francesi, Gaël Quirante. Ma da marzo i suoi colleghi portano avanti uno sciopero ad oltranza. Oggi l'assemblea SGB verso lo sciopero del 26 ottobre.

Questo pomeriggio alle 17.30 il Sindacato Generale di Base (SGB) di Bologna organizza un'assemblea pubblica in Via dello Scalo 21 per iniziare a preparare lo sciopero generale del prossimo 26 ottobre indetto dal sindacalismo di base.
Uno dei temi portanti delle rivendicazioni che hanno portato all'indizione dello sciopero è quello della libertà sindacale, messa sempre più in discussione nel nostro Paese.
Da un lato l'inasprimento della lotta in settori dove lo sfruttamento si fa più sentire, come la logistica, dall'altro una sorta di libertà di licenziamento introdotta dal Jobs Act e l'esclusione dei sindacati non firmatari di accordi con la parte padronale, stanno portando ad un aumento di licenziamenti per motivi politici.

Ne sa qualcosa Elmahi Ayachi, delegato aziendale SGB SDA/Poste Italiane a Sala Bolognese, lasciato a casa per ragioni politiche. Per il sindacato il licenziamento ha lo scopo di lasciare le mani libere all'azienda per una ristrutturazione che porterà alla chiusura del magazzino.
Ma anche se non ci sono licenziamenti, i sindacati di base vengono esclusi. Come succede all'FLMU/CUB, l'unico sindacato a non aver firmato l'accordo dell'Ilva di Taranto, ed ora escluso dalle trattative. A rappresentarlo all'assemblea di oggi pomeriggio ci sarà Antonio Ferrari.

Quando si tratta di reprimere i lavoratori o limitare la libertà sindacale, però, tutto il mondo è Paese. Per questo, all'incontro di oggi parteciperà anche Gaël Quirante, segretario del sindacato Sud Ptt Solidares delle Poste Francesi, licenziato per impedire la sua attività sindacale.
Il suo licenziamento, però, ha scatenato la solidarietà dei colleghi, che dal marzo scorso (da più di 187 giorni) stanno dando vita ad uno sciopero ad oltranza.


QUI LE INTERVISTE A ROSELLA CHIRIZZI DI SGB E DI GAEL QUIRANTE
Partito Comunista dei Lavoratori

La Confindustria sta con il Def di Di Maio

«Non è tanto importante lo sforamento del deficit quanto i risultati che ne deriveranno in fatto di uso intelligente delle risorse [...] Le nostre proposte non sono antitetiche ma complementari a quelle del governo». Con queste parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ha ufficialmente benedetto quel Documento di Economia e Finanza (Def) che Di Maio presenta, dal balcone di Palazzo Chigi, come “abolizione storica della povertà”. Come si spiega? Con una considerazione molto semplice: a differenza della sinistra sovranista, abbagliata dalla propaganda pentastellata, la Confindustria ragiona esclusivamente in termini di classe. È interessata, in altri termini, a quanto le entra in tasca, che non è poco, stando agli annunci e alle rassicurazioni ricevute.

Confindustria ha già incassato col Decreto dignità l'estensione dei contratti a termine, portati dal 20% al 30% dell'organico aziendale: un'estensione strutturale del precariato, altro che la sua Waterloo.
Ha già incassato la permanenza del Jobs act in fatto di distruzione dell'articolo 18, altro che la sua “abolizione”.
Ha incassato una soluzione vantaggiosa sulla questione Ilva, con la relativa riduzione degli organici, una compressione di diritti, e l'immunità giudiziaria della nuova proprietà sul versante ambientale, altro che la “salvezza di Taranto”.
Ora le viene promesso una nuova massiccia decontribuzione sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato, una ulteriore riduzione della tassa sui profitti (Ires), la stabilizzazione strutturale dei super-ammortamenti e degli incentivi all'Industria 4.0. In altre parole la conferma, la stabilizzazione, la maggiorazione delle regalie ricevute dai governi precedenti di ogni colore, ed in particolare da Renzi, Letta, Gentiloni. Una pioggia di miliardi, per di più strutturale. «Sembra che l'impianto tenga. Per noi è un fatto positivo» ha commentato Boccia. Come dargli torto?


ESTABLISHMENT E CONFINDUSTRIA 

Il governo giallo-verde non è certo nato come emanazione di Confindustria, ma Confindustria fa oggi al nuovo governo una indubbia apertura di credito. Sa di trovarsi di fronte a un governo potenzialmente stabile e di legislatura. Sa che non esistono a breve alternative politiche praticabili, di fronte al crollo delle opposizioni liberali. Dunque si prepara ad usare per l'inverno la legna che ha. Cerca di allargare i canali di dialogo col nuovo esecutivo, ed anzi avanza le proprie richieste “complementari”: aumento della dotazione del Fondo di Garanzia a favore delle imprese; detassazione dei premi di produttività; un nuovo codice degli appalti che lasci ancor più mano libera alle aziende (vedi Sole 24 Ore, 29 settembre). In altri termini, Confindustria batte cassa e rilancia su tutta la linea.

L'establishment nazionale europeista e i suoi giornali (La Repubblica, Il Corriere, La Stampa, Il Massaggero) contrastano il nuovo governo perché non si rassegnano alla propria decapitazione politica. E certo le posture plebee dei nuovi parvenu (vedi vicenda Casalino), la guerra dichiarata di posizione all'alta burocrazia statale (i “burocrati di merda” da estirpare), le ritorsioni giallo-verdi verso la stampa (tagli alla pubblicità e cancellazione dell'Ordine dei giornalisti), la promozione ovunque di propri fiduciari in ogni ruolo di responsabilità politica e amministrativa, dalla Consob alla magistratura, approfondiscono oggi questa linea di frattura, ben al di là della politica economica. Ma Confindustria si posiziona diversamente, fa altri calcoli, ha altri interessi. Non deve tutelare una propria rappresentanza nello Stato borghese, deve servirsi dello Stato borghese e di chi oggi lo guida, chiunque esso sia.


LA FALSA QUESTIONE DEL DEFICIT 

Le sinistre che accettano il dominio del capitale, salvo pretenderlo diverso da quello che è, hanno più volte enfatizzato in questi dieci anni la questione del deficit di bilancio come tema astratto di politica economica svincolandolo da ogni criterio di classe.

Ovviamente è vero che il Fiscal compact, la riduzione progressiva del deficit sul Pil, l'obiettivo del pareggio di bilancio, hanno rappresentato strumenti normativi funzionali a comprimere le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione povera. Ma non è vero l'inverso. Non è vero, cioè, che lo sforamento dei famigerati parametri europei rappresenti di per sé il metro di una svolta sociale. Lo può credere l'ex viceministro Fassina, oggi travolto dalla passione patriottica, che saluta il nuovo Def coma l'alba di una nuova storia. Ma i padroni, che sanno far di conto, ragionano in termini diversi: se lo sforamento del deficit al 2,4% per tre anni consecutivi consente di finanziare una nuova messe di regalie per i profitti, perché dovremmo impiccarci ai decimali? Peraltro i governi Renzi, Letta, Gentiloni, hanno fatto deficit superiori all'attuale deficit "rivoluzionario" per riempire il portafoglio di banche e imprese e dispensare mance elettorali, come quella degli 80 euro. Nel famigerato decennio 1997-2006 il deficit medio fu del 3,2, eppure mai come in quel decennio fu a tutto vantaggio dei padroni.


IL GOVERNO E IL PROPRIO BLOCCO SOCIALE 

Si obietterà: “Ma oggi è diverso, perché la nuova finanziaria è finalmente del popolo. Come non vedere che il nuovo deficit serve a finanziare reddito di cittadinanza e la revisione della legge Fornero?”.

Diceva il vecchio Cartesio che una falsità è una verità incompleta. Certo il nuovo governo giallo-verde deve le proprie fortune di consenso, e dunque la propria forza politica, alle promesse sociali avanzate. Non vuole e non può ammainare le proprie bandiere se non al prezzo di suicidarsi. Ma questa è solo una faccia della verità. L'altra faccia è che lo stesso governo deve e vuole amministrare le leggi del capitale finanziario, che è e resta la potenza sociale dominante. Deve dunque garantire i profitti d'impresa, tutelare la competitività del capitalismo italiano sul mercato internazionale, difendere gli interessi del grande capitale; e ciò oggi significa ovunque non solo colpire le ragioni del lavoro (precarizzazione, disarticolazione dei contratti nazionali...) ma riservare al padronato una quota ingente delle risorse pubbliche (detassazione, decontribuzione, incentivi).

Qui sta allora la ragione materiale dello sforamento triennale del deficit al 2,4%: provare a tenere insieme le elargizioni generose al capitale con una mancia di elemosine sociali: difendere i padroni col consenso delle loro vittime. È il senso dell'intera operazione giallo-verde.


UN'IMPOSSIBILE QUADRATURA DEL CERCHIO 

Riusciranno nell'ardita impresa?
La vera domanda è per quanto tempo riusciranno a governare le contraddizioni interne al proprio (composito) blocco sociale. Capitalismo dei distretti e disoccupati del Mezzogiorno, pressioni nordiste e suggestioni populiste, esigenze elettorali e mercato finanziario. La legge di stabilità sarà al riguardo un primo banco di prova, al di là della pura cornice del Def.

Non volendo tassare il grande capitale, ma anzi promettendogli la più grande detassazione del dopoguerra nel corso di questa legislatura; non volendo combattere l'evasione fiscale, ed anzi annunciando nuovi e più estesi condoni, il governo giallo-verde può finanziare le proprie bandiere elettorali - reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero - solo in due modi: facendo più deficit e tagliando le spese. Non esiste una terza possibilità.

L'ampliamento del deficit non è indolore, tanto più nel momento in cui lo sforamento si combina col terzo debito pubblico del mondo, e tanto più nel momento in cui il debito pubblico italiano è in prevalenza nella pancia delle banche tricolori. Lo vediamo in questi giorni. Una parte dei fondi esteri vende i titoli italiani. I grandi creditori tengono i titoli o rinnovano il loro acquisto solo in cambio di rendimenti maggiori, nella classica logica degli strozzini. Se i rendimenti salgono si produce una contraddizione: le banche e assicurazioni, innanzitutto italiane, che ne detengono la gran parte incassano più soldi grazie alla crescita degli interessi (il decennale Btp viaggia tra il 3 e il 4%); ma al tempo stesso i titoli si svalutano e dunque si svaluta il capitale bancario che li possiede: da qui la caduta delle azioni bancarie in Borsa. In ogni caso, il governo si candida a pagare maggiori interessi sul debito agli strozzini, al punto che la solita crescita dei rendimenti tra marzo ed oggi ha comportato il costo aggiuntivo di 4-5 miliardi. Chi pagherà i costi del debito accresciuto? I proletari e la popolazione povera. Gli stessi che hanno pagato nell'ultimo decennio. Gli stessi ai quali il nuovo governo promette la felicità e l'abolizione della povertà.

In che forma pagheranno i proletari? Intanto caricandosi sulla schiena l'80% del carico fiscale, e poi attraverso il taglio inevitabile di prestazioni sociali e di servizi. Il Def maschera il dato, ma non può rimuoverlo. Ventisette miliardi saranno presi in deficit, dietro il pagamento degli interessi. Tredici miliardi sono conteggiati come “minori spese”. In termini meno aulici si chiamano tagli. E siccome i tagli che possano assicurare una simile cifra non sono certo l'abolizione dei vitalizi o il taglio del numero dei parlamentari (che servono solo a ingannare i gonzi), ma solo misure antipopolari di ampia gittata, è su queste che prima o poi, in una forma o in un'altra, calerà la scure: sanità, scuola, agevolazioni fiscali per famiglie di lavoratori e classe media. Di certo non pagherà la Difesa, che anzi rinnova missioni militari vecchie (Afghanistan) e nuove (Niger), a tutela dell'interesse dell'imperialismo tricolore e delle sue alleanze internazionali, come quella con Trump. Pagherà la classe operaia.


LE BANDIERE ELETTORALI SCOLORISCONO 

Non a caso le stesse bandiere elettorali, che pur sono rivendicate, stemperano col passare dei giorni i propri colori.

Il reddito di cittadinanza viene limitato alla sola fascia di povertà assoluta e ai soli italiani. I 17 miliardi annunciati si riducono a 10 miliardi, promessi a sei milioni e mezzo di persone, fanno mediamente 128 euro a testa, 4 euro al giorno. Sarebbe questa l'abolizione della povertà? Peraltro sempre più si chiarisce la natura stessa di questo reddito quale strumento di pressione per l'accettazione di lavoro precario, nella logica dei mini jobs tedeschi. Sarebbe questa la svolta promessa alla giovane generazione?

L'abolizione della legge Fornero si è già da tempo trasformata nella “quota cento”. Ma ora la stessa quota 100 sembra scolorire in una nuova formula che prevede il vincolo inaggirabile di 38 anni di contributi. Sicché nei fatti centinaia di migliaia di beneficiari potenziali dovranno attendere quota 101, 102, 103... Per non parlare delle penalizzazioni economiche in termini di riduzione dell'assegno, e del mantenimento del meccanismo di aumento delle aspettative di vita (con l'eccezione dello scatto del 2019). È quello che sta nella camicia di forza dei 7 miliardi previsti. Sarebbe questo il passaporto della “felicità”, come dice Salvini?

Resterà la valvola di sfogo della campagna contro gli immigrati, che non solo pagheranno col taglio delle spese per l'accoglienza, e con l'amputazione dei diritti, ma resteranno più che mai il bersaglio delle campagne Legge e Ordine verso cui dirottare la frustrazione sociale della massa. Del resto cosa c'è di meglio di una campagna a costo zero che assicura consenso a chi la promuove?

Un governo reazionario per elemosine sociali. Così abbiamo caratterizzato da subito il nuovo governo Salvini-Di Maio. A differenza dei tanti a sinistra che l'hanno abbellito o addirittura abbracciato, non dobbiamo cambiare la nostra caratterizzazione. Il “popolo” interclassista oggi plaude al governo. Liberare i proletari dall'influenza piccolo borghese, restituire loro una coscienza indipendente, è il cuore tanto più oggi di una politica rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori