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ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

  Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...

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Il referendum del 20-21 settembre. Il nostro no

 


Il referendum del 20 e 21 settembre ha come oggetto la legge voluta dal M5S sulla riduzione del numero dei parlamentari. Una legge prima votata da M5S, Lega, Fratelli d'Italia sullo sfondo del primo governo Conte; e successivamente anche dal PD e da LeU come partita di scambio con il M5S per la formazione del secondo governo Conte e della nuova maggioranza.


La legge riflette un corso politico truffaldino e reazionario.
L'argomentazione che la supporta è il taglio dei costi della politica attraverso il taglio delle poltrone, all'insegna del “popolo contro i politici” e contro “la casta”. È lo stesso canovaccio truffaldino che ha accompagnato l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la campagna maggioritaria per cancellare i partiti minori (“ci sono troppi partiti”), il "privilegiamento" dei poteri esecutivi ad ogni livello a scapito della democrazia e della rappresentanza (rafforzamento dei poteri di sindaci e governatori regionali a scapito delle rispettive assemblee elettive). È una campagna mirata alla conquista del consenso fuori e contro ogni criterio democratico. Il suo effetto pratico è stato ed è quello di dirottare la rabbia sociale di milioni di salariati contro il bersaglio indistinto dei politici, al solo scopo di impedire che essa si rivolga contro capitalisti, banchieri, sfruttatori, gli stessi che i partiti politici populisti servono nella loro funzione di governo, passata e presente. L'arretramento del movimento operaio e della sua coscienza politica e democratica ha aperto purtroppo una prateria enorme, tra le stesse fila dei lavoratori, a queste campagne reazionarie.

Diamo dunque indicazione di voto per il no.
No ad una operazione truffaldina.
No al governo che la sostiene.
No al più ampio fronte dei partiti borghesi, liberali e reazionari, che in questi decenni hanno gestito a turno le politiche di austerità contro i lavoratori e le lavoratrici, attaccando lavoro, pensioni, sanità, istruzione, nell'interesse esclusivo dei capitalisti, e che ora vogliono nascondere ancora una volta le proprie responsabilità grazie al ricorso dell'inganno populista.
No, infine, al trasformismo di quella sinistra che si è accodata ai partiti borghesi per ottenere uno scranno ministeriale.

Ma il nostro no, chiaro e netto, ai partiti borghesi e alle loro truffe, muove dal versante degli interessi dei lavoratori, senza alcuna subordinazione alle istituzioni di questo Stato.

Non ci identifichiamo con il parlamentarismo borghese, una identificazione che indebolisce oltretutto le ragioni del no a livello di massa a tutto vantaggio della demagogia reazionaria anti-casta. Non idolatriamo, a differenza delle sinistre riformiste (e non solo), la Costituzione borghese del 1948, figlia del compromesso storico tra De Gasperi e Togliatti a difesa del capitalismo italiano. Non pensiamo che nel quadro del parlamento borghese possa realizzarsi una alternativa di società.
Ci battiamo per il potere reale dei lavoratori, delle lavoratrici, della maggioranza della società, contro l'attuale dittatura dei capitalisti, che resta tale anche sotto la democrazia borghese.
Ci battiamo per una democrazia dei consigli dei lavoratori, basati sul principio della permanente revocabilità di ogni eletto e sulla cancellazione di ogni suo privilegio sociale (retribuzione pari a quella media di un operaio). Una democrazia vera che oltretutto abbatterebbe realmente “i costi dello Stato”, rendendolo finalmente a buon mercato.

Parallelamente, sullo stesso terreno della democrazia parlamentare borghese, ci battiamo per i principi democratici più elementari. La democrazia non è data dal numero dei parlamentari, ma dal principio elementare della rappresentanza, senza trucchi e limitazioni di alcun genere. Siamo ad ogni livello per una legge elettorale proporzionale pura senza soglie di sbarramento e distorsioni maggioritarie. Una testa, un voto. Nessun voto può e deve valere più di un altro. Non ci interessa la governabilità di questo sistema, che colpisce i diritti di rappresentanza per meglio governare nell'epoca di crisi le politiche dei sacrifici. La subordinazione delle sinistre alla governabilità negli ultimi decenni è stata la misura della loro subordinazione al capitale. Siamo invece per un diritto di rappresentanza incondizionato e pieno. Siamo a favore di un giusto finanziamento pubblico dei partiti in proporzione dei voti ottenuti, e del divieto di finanziamento degli stessi da parte delle grandi aziende. Siamo in questo quadro per l'abolizione del Senato e a favore del monocameralismo, nella migliore tradizione della democrazia conseguente.

Ma questa battaglia democratica può riconquistare un consenso di massa solo se si intreccia con la ripresa dell'opposizione di classe. Solo una classe che ritrova la propria ragione sociale indipendente sul terreno della lotta può sottrarsi alle sirene del populismo e contrastare la reazione, recuperando i valori dell'uguaglianza, della democrazia, della rappresentanza. Per questo il nostro no alla truffa referendaria si combina con la proposta del fronte unico di lotta, di classe e di massa. Contro il governo, contro le destre reazionarie, per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Partito Comunista dei Lavoratori

A 80 anni dall’assassinio del nostro compagno Trotsky

 

20 Agosto 2020 - 80 anni fa, a Coyoacán, in Messico, il 20 agosto, Ramón Mercader, sicario al soldo di Stalin, colpiva a morte con una piccozza, Lev Trotsky. Se ne andava così (per la precisione il 21, dopo un giorno di agonia), quella che possiamo definire la quinta e ultima colonna degli “imprescindibili” del marxismo, dopo Marx, Engels, Rosa Luxemburg e Lenin.


La perdita è stata così grande e rovinosa che sono palpabili ancora oggi le conseguenze, non solo nel campo d’avanguardia del marxismo militante, ma anche e soprattutto nel movimento operaio, privo com’è da troppo tempo di una guida autorevole in grado di interrompere la sequela di sconfitte cui l’hanno portato riformisti e stalinisti di tutte le razze e le sfumature.

Se a Marx dobbiamo in particolare il nocciolo dell’analisi anatomica del capitalismo, a Engels l’approfondimento del rapporto tra il materialismo dialettico e le scienze naturali, a Rosa la definitiva codificazione che separa i rivoluzionari dai riformisti, a Lenin la teorizzazione della costruzione del partito e l’analisi della fase monopolistica del capitalismo, Trotsky è fondamentale per l’analisi materialista della degenerazione stalinista dello stato sovietico. Senza Trotsky non si può capire pienamente la dinamica che va dall’ascesa di Stalin alla caduta dell’Urss e quindi al disastro attuale. Ma prima di questo, Trotsky fu il brillante teorico della rivoluzione permanente, cioè del processo che portò alla rivoluzione socialista in Russia (come ricordava Gramsci nel 1924). E poi dello sviluppo diseguale e combinato del capitalismo e dei processi rivoluzionari.

Naturalmente, come Marx, Engels, Lenin e Rosa Luxemburg furono molto altro rispetto a quanto abbiamo sinteticamente ricordato, alla stessa maniera non vogliamo sminuire i tanti meriti di Lev. Trotsky fu oratore d’eccezione, così bravo da conquistarsi giovanissimo la guida del Soviet di Pietrogrado nel “prologo” rivoluzionario del 1905; fu in grado di guidare l’Armata Rossa nel 1917 come un “Napoleone bolscevico” portandola alla vittoria contro i bianchi nella guerra civile; fu una delle migliori penne (“Penna” era appunto uno dei suoi primi soprannomi), non solo del movimento operaio, ma anche della letteratura russa, e quindi mondiale, tanto che molti, per il suo stile, lo paragonano a Tolstòj. E se, non avendo scritto romanzi e racconti, la sua scrittura non può avere quella penetrazione psicologica a tutto tondo che ha reso eterna l’opera di Tolstòj, certo la lingua di Trotsky può fregiarsi di quella precisione scientifica che la filosofia della “non violenza” di Tolstòj si è solo sognata.

Anche se non dimentichiamo affatto tutte queste cose, è lo stesso Trotsky a scrivere, nel suo diario d’esilio, che per quanto fosse stato importante durante gli anni d’oro della Rivoluzione d’Ottobre, anche senza di lui in qualche modo le cose sarebbero andate come sono andate, a condizione che Lenin fosse stato presente. Trotsky si riteneva insostituibile solo per la fase successiva. Non c’era nessuno, oltre a lui, in grado di armare una nuova generazione con le idee più taglienti e affilate del marxismo. Creò la Quarta Internazionale per questo. Perché si potesse, nel più breve tempo possibile, tornare a vincere.

Trotsky fino alla morte aggiornò il marxismo mettendolo alla prova durissima dei fatti salienti della sua epoca. Eventi come il fascismo, il nazismo e lo stalinismo erano assolute novità nel panorama politico del tempo. Non era quindi facile fare un’analisi corretta di questi fenomeni. Eppure – e non lo diciamo per piaggeria verso il nostro ultimo grande maestro, non ne abbiamo bisogno né noi né lui – esiste una e una sola analisi precisa e corretta di tutti quegli eventi: la sua, quella del marxismo di Trotsky.

Trotsky ha avuto ragione in tutti i principali snodi della Storia. Il “socialismo in un solo paese” di Stalin, tanto realista e lungimirante come una talpa, si è trasformato nel 1989-91, nel “capitalismo permanente” come preannunciato dal presunto utopista fuori dal mondo, Trotsky: «La burocrazia stalinista non è altro che il primo stadio della restaurazione borghese», così scriveva in un’appendice del suo ultimo lavoro rimasto incompiuto, lo “Stalin” appunto. E del resto lo aveva scritto già tantissime volte in tantissimi altri articoli e libri: senza una rivoluzione politica che abbattesse la burocrazia staliniana, questa prima o poi, frenando e impantanando sempre di più l’economia sovietica, si sarebbe girata da un giorno all’altro verso il capitalismo. È quello che è avvenuto, con la burocrazia sovietica passata armi e bagagli nel campo della borghesia. Trotsky lo predisse 70 anni prima, non come un veggente, ma come un materialista che sa usare come nessuno quello strumento raffinatissimo dell’analisi storico-sociale che prende il nome di “marxismo”.

Ebbe così tanta ragione che l’ebbe pure contro i suoi biografi più brillanti, come il Deutscher (e quelli che nello stesso movimento trotskista erano in accordo con lui), che ai tempi della “destalinizzazione” di Chrušcëv convertì la sua immensa presunzione alle pretese dello stalinismo: «Può essere riformato, Lev si è sbagliato!», così andava ripetendo in giro lo storico famoso per la trilogia del “profeta armato”, dimostrando solo che il metodo marxista s’intende, molto più degli storici, di storia presente, passata e soprattutto futura.

Ha avuto ragione contro i borghesi che equiparano bolscevismo e stalinismo, non sapendo spiegare (neanche provandoci) perché la logica rivoluzionaria di Lenin debba finire in quella controrivoluzionaria di Stalin. Troppo complicata la dialettica per le menti logico-formali dei borghesi. Per mettere assieme Lenin e Stalin e ridurre tutto a una dittatura e a un colpo di stato come i tanti a cui la borghesia ci ha abituato, bisogna vedere, e pure distorcendolo, solo un aspetto del bolscevismo, la violenza, chiudendo un occhio sui “dettagli” più giganteschi che la Storia abbia mai prodotto: «l’abolizione della monarchia e della nobiltà, la restituzione della terra ai contadini, l’espropriazione del capitale, l’introduzione dell’economia pianificata, l’educazione atea, ecc.» (Bolscevismo e Stalinismo, 1937).

«Lo stalinismo non è la logica evoluzione del bolscevismo, bensì la sua negazione dialettica termidoriana», non tanto perché lo ha scritto Trotsky, ma soprattutto perché questa è stata la dinamica storica effettivamente verificatasi e conclusasi nel 1989-91. Una dinamica che la cecità borghese non può vedere, tanto più che una volta messi sullo stesso piano Lenin e Stalin, non troverete storico apparentemente antistalinista e ferocemente antibolscevico, che tra Stalin e Trotsky non si schieri dalla parte del primo, sempre visto come genio e grande stratega, di contro al secondo sempre liquidato come visionario e politicamente fesso però ugualmente macabro, se non peggio: la mediocrità degli storici borghesi si riflette sempre a meraviglia nella mediocrità di Stalin.

Trotsky ha avuto ragione nella rivoluzione cinese del 1925-27, quando scrisse in presa diretta che la politica di Bucharin e Stalin, che sottomettevano il Partito Comunista Cinese al Kuomitang borghese, ripristinando di fatto la rivoluzione a tappe menscevica, avrebbe portato al suicidio, puntualmente avvenuto a Shanghai, quando operai e comunisti furono massacrati dall’Esercito Rivoluzionario Nazionale che avevano contribuito ad armare.

Molto si è discusso sugli errori di Lenin e Trotsky e dei bolscevichi che avrebbero spianato la strada a Stalin, dalla proibizione delle frazioni al X Congresso del Partito, alla repressione di Kronštadt mai messa in discussione da Trotsky, se non nella forse ineluttabile necessità, almeno nella modalità, specialmente l’inutile massacro di molti dei prigionieri a rivolta già completamente domata, alla esclusione dai soviet dei partiti socialisti a vittoria ottenuta.

Sarebbe sciocco negare che tutto questo abbia pesato nel corso dell’involuzione staliniana della Rivoluzione, ma poiché tutti questi sono fattori sostanzialmente interni e secondari, e noi con Trotsky riteniamo che il fattore decisivo sia stato all’interno lo sviluppo, in un quadro di arretratezza economica e sociale di un nuovo ceto privilegiato e all’esterno, nel quadro della lotta di classe su scala internazionale, la sostanziale non comprensione dei bolscevichi, eccetto Lenin e Trotsky e pochi altri, della teoria della rivoluzione in permanenza, cioè della rivoluzione borghese che “trascresce” in socialista senza soluzione di continuità e senza tappe. Questa tesi di Trotsky, fu compresa per il rotto della cuffia da Lenin con le famose Tesi d’Aprile del 1917, ma non fu mai assimilata nel profondo dal resto dei bolscevichi. Stalin usò scientemente i fronti popolari con la borghesia e la rivoluzione a tappe per far fallire le rivoluzioni socialiste, ma questo si può dire solo dall’ascesa di Hitler in avanti, prima non ne fu del tutto cosciente, fu più il retaggio di una concezione che i bolscevichi avevano tenuto dal febbraio del 1917 fino all’arrivo di Lenin, per poi accettarne le tesi senza esserne troppo convinti. L’incomprensione delle tesi di Trotsky sulla rivoluzione in permanenza e delle sue implicazioni a livello internazionale, pesò più di cento Kronštadt nell’involuzione politica dell’Internazionale Comunista, riflesso di quella sociale del regime sovietico stalinizzato.

Trotsky ebbe ragione quando scrisse che il fascismo era una reazione che si appoggiava sulla piccola borghesia inferocita e resa isterica dalla crisi capitalistica, ma che una volta al potere era tutto tranne che la piccola borghesia al potere. Quanto è ancora attuale questa lezione!

Ebbe ragione contro la teoria del “socialfascismo” che equiparava i riformisti socialdemocratici ai nazisti, anzi temendo più i primi e incoraggiando i secondi: «Scagliamoci contro i riformisti, lasciamo che i nazisti vadano al potere, dopo di loro toccherà a noi». Così arringava gli stalinisti il capostipite degli stalinisti, l’ottuso Stalin e il suo rappresentante in Germania Thalmann, che infatti… morì in un campo di sterminio nazista. Invano Trotsky disse di far fronte unico comune coi riformisti contro i nazisti, perché dopo i nazisti non sarebbe arrivato nessuno, tanto meno i comunisti, i primi ad essere fatti fuori dai nazisti, prima di stalinisti e riformisti subito dopo. Stalin e gli stalinisti irrisero questi avvertimenti, ma più di loro risero Hitler e la borghesia. E con loro la Storia che ride ancora adesso di una simile, strampalata teoria, forse la più cretina che sia mai circolata nel movimento operaio.

Fu di una lucidità che ha dell’incredibile per chi non comprenda la grandezza inarrivabile del marxismo, quando nel 1931, praticamente un decennio prima, scriveva: «Una vittoria del nazismo in Germania significherebbe una guerra inevitabile contro l’Urss […] Oggi nessuno dei “normali” governi parlamentari borghesi può rischiare una guerra contro l’Urss perché comporterebbe la minaccia di immense complicazioni interne. Ma se Hitler arrivasse al potere e annientasse l’avanguardia degli operai tedeschi, polverizzando e demoralizzando l’intero proletariato, il governo fascista sarà il solo in grado di ingaggiare una guerra contro l’Urss […] In questa impresa, il governo di Hitler sarebbe soltanto l’organo esecutivo del capitalismo mondiale nel suo insieme» (La chiave della situazione è in Germania - 1931). In queste poche righe la spiegazione scientifica dell’Operazione Barbarossa che per molti borghesi resta qualcosa che solo la testa di Hitler, ormai più vuota della loro, saprebbe spiegare.

Fu proprio l’ascesa di Hitler senza colpo ferire degli stalinisti (e dei socialdemocratici, pronti ad usare la violenza contro la rivoluzione proletaria, come nel 1919, ma non contro la reazione fascista) che portò Trotsky a concludere che fossero necessari nuovi partiti comunisti e un’Internazionale nuova di zecca, la Quarta appunto, perché la Terza si stava trasformando in controrivoluzionaria. Ci vollero ancora cinque anni prima che la Quarta fosse varata ufficialmente, nel 1938 col ben noto Programma di Transizione. C’è chi ha visto questa scelta come troppo in ritardo o, invece, troppo in anticipo. Quello che conta sul piano storico, è che nei brevissimi anni che provò a costruirla, Trotsky fece ancora in tempo ad avere ragione al suo interno, nelle dispute feroci che l’accompagnarono sulla natura dell’Urss.

Non è secondario alla luce del crollo dell’Urss, che le teorie che volevano l’Unione Sovietica come un “capitalismo di stato” o come il primo stadio di un “collettivismo burocratico” che avrebbe pian piano coinvolto tutto il mondo, si siano rivelate errate, di contro a quella di Trotsky che la riteneva uno “stato operaio deformato” dalla burocrazia e poi degenerato. Per Trotsky, la pianificazione sovietica differiva profondamente dalla semi-statalizzazione dei fascismi o del New-Deal di Roosevelt: primo perché la pianificazione sovietica sviluppava come mai prima di allora le forze produttive, New-Deal e fascismi le imbrigliavano; secondo nessun stato capitalistico si sarebbe mai spinto, come pensava Bruno Rizzi, principale teorico della “burocratizzazione del mondo”, alla pianificazione integrale. Quanto al "capitalismo di stato", tra le varie contraddizioni a cui una simile teoria andava incontro, Trotsky segnalava che un capitalismo in qualunque salsa si fosse presentato, avrebbe sempre avuto bisogno di una classe che lo esprimesse, e la burocrazia non era una classe; inoltre, un capitalismo, anche di stato, sempre capitalismo era, pertanto non poteva eliminare le sue caratteristiche naturali, espansione, boom, recessione e cicliche crisi di sovrapproduzione.

Il crollo dell’Urss nel 1989-91 ha messo la parola fine anche queste dispute. Crollata l’Urss, il capitalismo mondiale si è avviato verso il più grande periodo di privatizzazioni che si ricordi, l’opposto di quanto teorizzato da Rizzi; inoltre le tristi immagini dei negozi vuoti in Russia, dimostrano come la crisi che portò alla dissoluzione dell’Urss fu una crisi di penuria, l’opposto di quello che viviamo dal 2008 in avanti, da quando il capitalismo è entrato nella sua più grande crisi da sovrapproduzione. Infine non si è mai visto il crollo di un capitalismo di stato che copre mezzo mondo, che non comporti anche un avanzamento per quanto parziale della classe operaia. Il fatto che in soli 30 anni la classe operaia su scala mondiale, sembri ricacciata indietro di secoli, la dice lunga su quale teoria sulla natura dell’Urss abbia avuto ragione. In effetti, sulle macerie dello stato sovietico, dal punto di vista teorico, troneggia l’analisi di Trotsky, troneggia cioè il marxismo. La ragione di Trotsky è la dimostrazione pratica di quanto ancora sia valido e brillante come metodo.

Mentre discuteva coi “suoi” sulla natura dell’Urss, Trotsky continuò ad aver ragione quando denunciò che il Patto Hitler-Stalin era il viatico della Seconda Guerra mondiale, non solo perché fu usato da Stalin per spartirsi la Polonia e fornire l’“amico” Hitler di armi e petrolio, al contrario di quello che vuole la vulgata stalinista che vede nella firma la necessità di prendere tempo (perdendolo!), ma anche perché giunse al termine di un altro disastro senza il quale la Seconda Guerra mondiale non sarebbe manco scoppiata: la sconfitta della guerra civile in Spagna. Nel 1936, con i contadini che a differenza della Russia del 1917, non volevano la terra per sé, ma formavano già da loro comuni, Stalin riuscì nell’impresa di riconsegnarla ai borghesi con la scusa di combattere Franco. Fu il “capolavoro” dei fronti popolari e della rivoluzione a tappe oggi appeso per sempre nel museo degli orrori controrivoluzionari. Il tutto condito dai soliti massacri di operai e comunisti.

Trotsky di fronte alla provocazioni staliniste che domandavano sofisticamente ai troskisti perché mai non difendessero la repubblica borghese quando la sua vittoria era per loro un passo avanti del progresso contro la reazione, sorrideva amaro e rispondeva così: «Senza rivoluzione proletaria, la vittoria della democrazia significa soltanto un giro a vuoto, per poi sfociare esattamente nel fascismo» (È possibile la vittoria? - 1937). Quel che avvenne puntualmente, anzi Franco non ebbe nemmeno bisogno del giro a vuoto della vittoria a tappe della impossibile rivoluzione borghese. La sconfisse subito grazie agli stalinisti e ai loro alleati/avversari anarchici, repubblicani e socialisti.

Trotsky era lontano, in Messico, si scusava incredibilmente per non poter essere più preciso, quando ancora oggi nessuno è stato più preciso di lui. Criticò aspramente il Poum di Andrés Nin, il partito “trostkisteggiante” più vicino se non alle sue posizioni, almeno alla sua sensibilità. Ma quando questo partito entrò nel fronte popolare subordinato ai borghesi, non lesinò parole di fuoco che portarono alla totale rottura. La critica a Nin e ai suoi fu così spietata che pure suo figlio, Lev Sedov, scrisse in una lettera amareggiata che così scoraggiava anche coloro che tutto sommato erano dalla sua parte.

Anche in questo caso sarebbe sciocco idealizzare Trotsky e negare che nelle parole del figlio non ci fosse qualcosa di vero sui limiti del carattere del padre. Ma non si può nemmeno dimenticare che per quanto fosse stata dura e implacabile la critica di Trotsky, se Nin e i suoi l’avessero ascoltata, avrebbero certo avuto le orecchie più lunghe di dieci centimetri e più rosse per le tremende tirate del “vecchio”, ma forse avrebbero avuto anche salva la vita. E con loro il proletariato spagnolo e mondiale.

Invece 80 anni dopo questa sequela interminabile di sconfitte e di vere e proprie batoste, l’obbiettivo che già allora, a causa dello sterminio di tutta la vecchia guardia bolscevica, era qualcosa di molto difficile, pare ora ancor più lontano. La Quarta resta divisa in mille rivoli e la strada per la sua ricostruzione sembra interminabile. Oggi i trotskisti sono pochi, ma se ieri facevano così paura che gli stalinisti li sterminavano e i borghesi gli rifiutavano il diritto di asilo politico, ora ai più, (almeno in Italia, perché in altri paesi, come in Argentina, non è così) come a Matteo Pucciarelli su La Repubblica, fanno sorridere.

Noi che abbiamo più sense of humor di lui, sappiamo da dove viene questo “sorrisino” di sufficienza: dalla superficialità e dal pressappochismo borghese e piccolo borghese. Solo a questo livello, infatti, si può credere che il trotskismo sia ridotto com’è ridotto per le “baruffe chiozzotte” sulle virgole. Infatti, senza voler assolutamente negare i nostri errori e le nostre insufficienze, noi trotskisti sappiamo bene che siamo ridotti come siamo ridotti per le sconfitte ormai secolari del proletariato, intervallate da un’unica grande vittoria che ha permesso anche le poche altre vittorie sempre mutilate da stalinisti e riformisti. Senza vittorie significative del proletariato, difficilmente il trotskismo potrà crescere, anche se ha sempre avuto ragione. E in fondo quando Pucciarelli ride della nostra “insignificanza” infischiandosene delle vittorie della classe operaia, dimostra che il problema non sta nelle virgole, ma nel suo linguaggio che non va più in là della sinistra, cioè del carrozzone del centro-sinistra, il carrozzone borghese della Repubblica, il quotidiano di “cretinismo parlamentare” per cui scrive. Se come a noi, gli stessero a cuore più le sorti del proletariato che del suo ombelico, capirebbe che le cose sono molto più complesse. Non possiamo sperare di crescere e basta come sperano gli altri partiti, altrimenti saremmo delle nullità intellettuali come i loro profeti sulla carta stampata.

Le baruffe con gli stalinisti e gli altri sedicenti comunisti – non lo scriviamo per Pucciarelli che non se lo merita – ma per quelli che ancora sinceramente lo credono, non sono affatto roba del passato. Anzi, come speriamo di aver mostrato, è roba più attuale che mai. Di più: la contrapposizione tra Trotsky e Stalin è il nodo cruciale per l’avanguardia del proletariato. Le baruffe sono necessarie perché la lotta allo stalinismo e ai suoi sottoprodotti, è la lotta tra chi vuole dare davvero al proletariato la possibilità di vincere, e chi lo vuole invece eternamente sconfitto.

Noi non possiamo vincere senza il proletariato perché le armi della critica non possono sostituire la critica delle armi. Senza farsi carne e sangue nella gran massa dei proletari, le idee del marxismo non possono vincere. Ma la condizione perché prima o poi si possano riallacciare alle masse, è che abbiano ragione almeno in via teorica. Col torto marcio che hanno avuto tutte le altre idee, si possono riallacciare solo altre sconfitte. Come in effetti avviene da 90 anni a questa parte.

Trotsky con la Quarta ha potuto solo arare il terreno. In 80 anni i frutti non sono stati dei migliori, eppure la pianta era e resta buona. Nonostante gli errori, il profumo di trotskismo è stato sufficiente per i migliori elementi per non smarrire il filo del bolscevismo. La pianta quindi può rinascere forte e rigogliosa.

Il trotskismo ha avuto ragione praticamente su tutto nella Storia recente. E anche noi nel nostro piccolo, abbiamo avuto ragione, nell’ultimo capitolo importante della Storia del movimento operaio italiano, quello relativo a Rifondazione Comunista. Come scrive Andrea Furlan ne I Forchettoni Rossi (Massari Editore, 2007) che ricostruisce la storia della fine ingloriosa di Rifondazione in parlamento, i trotskisti (racchiusi allora in Progetto Comunista«sono stati gli unici nel Prc che hanno saputo formulare un’analisi esatta del bertinottismo e gli unici che lo hanno contrastato realmente, denunciando volta a volta i reali obbiettivi politici del Segretario».

Aver avuto ragione anche in Rifondazione ci dà la forza e la voglia di continuare. 80 anni fa, poco prima di essere colpito a tradimento, Trotsky guardava fuori dalla finestra colpito dalla meravigliosa limpidezza del cielo azzurro: «La vita è bella. Possano le generazioni future a purificarla da ogni male, oppressione e violenza e a goderla a pieno». Questo scriveva nel suo testamento. E noi che siamo proprio quelle “sue generazioni future” lo raccogliamo. Oggi il cielo è azzurro come allora, solo velato dall’ulteriore imminente disastro ambientale prodotto dall’inquinamento. Mai come oggi, di fronte al capitalismo incapace di risolvere uno solo dei problemi dell'umanità, ribadiamo la nostra sacrosanta verità: o socialismo o barbarie.

Non siamo ancora riusciti, compagno Trotsky, a portare a termine il tuo stesso compito. Ma siamo felici di stare ancora nella tua stessa barca, perché non abbiamo trovato niente di più bello e affascinante del nostro marxismo. Il marxismo è più azzurro del cielo e assieme alle tue idee e al proletariato vincerà. Non avevamo dubbi allora, non abbiamo dubbi oggi.

Per Trotsky!
Per la Quarta Internazionale!
Per la Rivoluzione Mondiale!
Viva il bolscevismo!

Partito Comunista dei Lavoratori

Bielorussia: via oligarchi e sfruttatori, potere ai lavoratori!

 

Quelle che stanno arrivando in questi giorni da uno degli ultimi paesi governati da una burocrazia autoritaria di stampo stalinista, sono notizie che non possono non destare l'attenzione di tutti i militanti marxisti rivoluzionari.



LA CLASSE OPERAIA BIELORUSSA IN SCIOPERO

In tutto il paese, dal 1994 sotto il tallone di ferro del regime di Lukashenko e del suo apparato, che sinora ha mantenuto un ferreo controllo sull'economia, da tempo di natura capitalistica sia pure con un fondamentale settore statale, si stanno moltiplicando gli scioperi. Gli operai delle principali aziende metallurgiche e metalmeccaniche del paese, come la Byelorussian Steel Works (in sciopero dal 10 agosto), la Belarusian Automobile Plantz (BelAZ), la Minsk Tractor Works (MTZ9) e la Minsk Automobile Plant (MAZ) hanno dato inizio ad una serie di scioperi in buona parte delle aziende, che si sono estesi infatti anche ad altri settori produttivi, come ad esempio alle industrie della ceramica, dell'elettronica e delle componenti automobilistiche. Alla Belaruskalja, una fabbriche di fertilizzanti più importanti al mondo, da giorni tutti i 16000 lavoratori sono in sciopero guidati da un comitato operaio nato dal basso. Nella giornata di ieri Lukashenko ha subito durissime contestazioni dagli operai della MZKT, ai quali sono giunti a dare manforte i lavoratori delle fabbriche intorno.

In tante città ci sono assemblee popolari nelle quali è fortissima la presenza dei giovani e delle donne, uniti dalla comune volontà di finirla con un regime autoritario e nemico dei lavoratori, come dimostrano anche le politiche adottate da Lukashenko negli ultimi mesi, volte alla totale negazione dell'emergenza Covid-19 e che hanno visto più di 70000 contagiati in un paese di poco più di 9 milioni di abitanti.


DA CASAPOUND AL PC AL FIANCO DI LUKASHENKO

Non poteva mancare anche in questa situazione il sostegno di Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista, alle oligarchie bielorusse ed al loro regime. Con una totale rimozione delle dinamiche, politiche e di classe, accomuna in una scricchiolante forzatura la ribellione studentesca e operaia di questi giorni alla marea nera che invase piazza Maidan nella vicina Kiev. A sostegno del regime di Lukashenko è scesa in campo anche CasaPound, che tramite la sua testata "Il Primato Nazionale" (che in ben più di una occasione non ha lesinato elogi e velate aperture a Rizzo) snocciola le più svariate piste complottiste, senza ovviamente dimenticare Soros, onnipresente nelle notti insonni dei sovranisti nostrani.


L'IMPERIALISMO CINESE, IL VERO ALLEATO DEL REGIME

Nonostante negli ultimi mesi Lukashenko abbia dimostrato numerose aperture verso un incremento dei rapporti con gli USA e la UE, non a caso il 1 febbraio Mike Pompeo, segretario di stato USA, si sia recato in visita ufficiale in Bielorussia per rafforzare le relazioni diplomatiche, e nonostante allo stato attuale gran parte del commercio estero bielorusso sia diretto verso la Russia, storico partner d'eccellenza di Minsk, è l'imperialismo cinese quello che ha un maggior interesse nella conservazione del regime di Lukashenko. Non è un caso che la Bielorussia costituisca lungo la nuova Via della Seta uno dei punti cardinali, tanto da essere definita da Xi Jinping come "la perla della Nuova Via della Seta". Il prestito di 500 milioni di dollari ricevuto ad ottobre dalla China Development Bank, ed i quasi 200 milioni di euro ricevuti dalla Eximportbank cinese per le ferrovie bielorusse, insieme all'incremento delle relazioni militari suggellato nel vertice di settembre dello scorso anno, ci confermano le mire cinesi sulla Bielorussia ed il carattere di potenza imperialista della Cina, nonostante stalinisti e, purtroppo, settori di militanti trotskisti si ostinino a negare.


CONTRO LA BORGHESIA E LA TIKHANOVSKAYA, CON LA CLASSE OPERAIA

Negli ultimi giorni gli organi di stampa europei e internazionali, nonostante la ribellione operaia e studentesca stia infiammando la Bielorussia, hanno posto i riflettori più che altro sulle richieste di aiuto della leader dell'opposizione Svetlana Tikhanovskaya, espressione della piccola e media borghesia bielorussa, ai paesi ed alle borghesie dell'Unione Europea. Da marxisti rivoluzionari non possiamo riporre alcuna fiducia nella Tikhanovskaya e nell'opposizione liberalborghese al regime di Lukashenko. Un'opposizione che, se andasse al potere, non indugerebbe verso una svolta economica contrassegnata da privatizzazioni e politiche neoliberiste, del resto già programmate a medio termine dall'attuale regime. Per questo sosteniamo la lotta del movimento operaio bielorusso, auspicando che in ogni fabbrica, in ogni miniera ed in ogni luogo di lavoro si creino comitati operai che diano vita ad uno sciopero generale prolungato per cacciare l'odioso Lukashenko ed il suo apparato tardostalinista, di modo da sostituirlo con un governo di lavoratori e lavoratrici, l'unico che possa difendere gli interessi del proletariato, bielorusso e non solo.

Partito Comunista dei Lavoratori

La sollevazione popolare in Libano

La sollevazione popolare in Libano dopo la drammatica esplosione al porto di Beirut ha costretto alle dimissioni il governo Diab. La stessa sorte toccata a suo tempo al governo Hariri, anch'esso disarcionato dalla prima ribellione di massa iniziata il 17 ottobre 2019.

Chi nutre una visione geopolitica e spesso complottistica della storia, secondo cui tutto ciò che avviene è deciso dietro le quinte da un pugno di burattinai (siano essi gli imperialismi, le multinazionali, Soros e Bill Gates...) che manovrerebbero le masse a proprio piacimento, avrà qualche difficoltà a interpretare la dinamica libanese. Perché l'intero corso politico dell'ultimo anno nel paese dei cedri ha come primo protagonista la rivolta di massa contro un intero sistema di potere, e di poteri: quello che gli imperialismi e le potenze regionali avevano architettato per i libanesi.


EREDITÀ COLONIALE E SPARTIZIONE CONFESSIONALE

La divisione confessionale dello stato libanese è in ultima analisi un'eredità coloniale. Dopo la disgregazione dell'impero ottomano seguito alla prima guerra mondiale, l'imperialismo francese e l'imperialismo inglese si spartirono le sue spoglie disegnando la geografia del Medio Oriente. Fu il trattato di Sykes Picot,
1916, rivelato e denunciato agli occhi del mondo dalla rivoluzione bolscevica. La Francia ottenne il mandato per Libano e Siria, creature artificiali del nuovo ordine stabilito con riga e compasso. La divisione confessionale del Libano fu la forma politica funzionale al suo controllo. La conquista dell'indipendenza nel 1943/'45 preservò questa eredità, dandole nuove forme. Il lungo periodo dei trent'anni gloriosi del secondo dopoguerra consentì al Libano risorse economiche sufficienti per sostenere il proprio equilibrio interno fondato sull'alleanza tra borghesia sunnita e cristiana. Ricchezza finanziaria ed estraneità alle guerre regionali sembrarono assegnare al Libano un insperato privilegio. Erano gli anni in cui il paese veniva chiamato, non a caso, la Svizzera del Medio Oriente.
Ma alla metà degli anni '70 questo equilibrio crollò. La Svizzera del Medio Oriente si trasformò in breve tempo nel paese di una spietata guerra civile confessionale, tra il fronte cristiano maronita e il fronte arabo musulmano, sostenuto dai palestinesi e dalla minoranza drusa (Jumblatt). Una guerra estenuante, che dal 1975 al 1990 trasformò il Libano in un cumulo di rovine, a partire da Beirut. L'equilibrio tra le confessioni religiose fu ristabilito solo dopo quindici anni col concorso decisivo delle potenze imperialiste, in primis USA, Francia, Italia, che dal 1982 – dopo l'aggressione sionista all'OLP e alla sua presenza libanese – investirono in Libano una propria presenza militare quale garante dello status quo.
Il sistema da allora vigente ha recuperato la vecchia spartizione delle funzioni istituzionali definita nel 1943 tra le minoranze etniche e religiose: la guida del governo ai sunniti, la presidenza della repubblica e la guida dell'esercito ai cristiano-maroniti, la presidenza del Parlamento agli sciiti. Il sistema di voto (proporzionale dal 2018) è blindato e distorto da questa spartizione corporativa, che ha retto nel tempo a prove difficili, come le guerre del Golfo, la nuova guerra libano-israeliana del 2006 e il contrasto tra USA e Iran. Persino la prima onda delle rivoluzioni arabe e la lunga guerra siriana sembrarono risparmiare gli equilibri libanesi, dove dal 2009 la nuova alleanza di governo tra una parte della comunità cristiano-maronita guidata dal generale Aoun e il “Partito di Dio” filoiraniano Hezbollah sancì una sorta di pacificazione nazionale. Con l'Arabia Saudita, nemica dell'Iran, nel ruolo di protettrice della borghesia sunnita (famiglia Hariri).


UN CAPITALISMO LIBANESE SUPERPARASSITARIO

La pace interna poggiava in realtà su basi fragili. Prima la crisi capitalistica internazionale, poi la seconda ondata delle rivoluzioni arabe hanno destrutturato il regime nelle sue fondamenta.

Il capitalismo libanese ha assunto nel lungo periodo una natura particolarmente parassitaria. Beirut ha operato per decenni come deposito di grandi investimenti immobiliari e finanziari. La ricostruzione degli anni '90 dopo la guerra civile è stato un volano di tali investimenti, provenienti dai paesi imperialisti e dalle monarchie del Golfo. Una ristretta oligarchia finanziaria – cristiana, sunnita, sciita – si è smisuratamente arricchita in un rapporto osmotico col grande capitale internazionale. Oggi il 5% della società libanese concentra nelle proprie mani il 70% della ricchezza nazionale. Lo Stato confessionale opera come intermediario e agenzia del capitale finanziario: prende a prestito dalle sessanta banche private del paese a tassi di interessi altissimi, indebitandosi a dismisura, mentre l'estrema debolezza della produzione industriale costringe il Libano a importare ogni bene di prima necessità, dagli alimenti ai medicinali, con un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti (3,7 miliardi di esportazioni e 20 miliardi di importazioni) e un ulteriore incremento del debito pubblico. L'evasione fiscale delle grandi ricchezze e il peso della corruzione endemica hanno fatto il resto. Intanto molte banche hanno chiuso i battenti, ma solo dopo aver portato all'estero 6 miliardi di dollari, i risparmi dei cittadini libanesi. Il default dello Stato nel marzo 2020, il crollo della lira libanese, lo sviluppo di una inflazione annua del 60% sui beni primari, sono lo sbocco di questa spirale rovinosa.


“ANDATEVENE TUTTI, E TUTTI VUOL DIRE TUTTI”.
CARATTERI E DINAMICA DI UNA RIVOLUZIONE


L'ascesa di massa dell'ottobre 2019 è inseparabile da tale contesto.
L'innesco della rivolta, come spesso accade, è stato casuale: l'aumento della tassa sulle comunicazioni Whatsapp. Ma le sue radici erano e sono profonde. Da un lato, la mobilitazione ha raccolto la nuova spinta della seconda fase delle rivoluzione arabe e medio-orientali (Algeria, Iraq, Sudan), a partire dalle loro rivendicazioni democratiche. Dall'altro, si è rivolta contro l'insieme della classe dirigente libanese in tutte le sue espressioni politiche e istituzionali, quale responsabile del crollo del paese.

Il tratto caratterizzante della ribellione di massa in Libano (come del resto in Iraq) è il suo carattere aconfessionale. È la rottura dei vecchi recinti etnici, religiosi, settari che per un lungo periodo storico hanno diviso e frantumato il proletariato libanese e le classi subalterne a vantaggio della borghesia, dell'imperialismo, delle diverse potenze regionali. La parola d'ordine “non siamo né sunniti né cristiani né sciiti, siamo libanesi” è divenuta una parola d'ordine di massa, in una dinamica di movimento che ha investito il Nord sunnita e cristiano e il Sud sciita, e che per questo si è posta in rotta di collisione con i diversi partiti confessionali della borghesia. È una parola d'ordine democratica che rivendica l'eguaglianza e la laicità dello Stato contro la sua spartizione. Non è un caso che sia la giovane generazione la protagonista della ribellione. Una giovane generazione che non ha vissuto la guerra civile degli anni '70 e '80, che non è stata irregimentata dalle diverse confessioni, ma che ha vissuto sulla propria pelle la comune condizione di miseria, di disoccupazione, di privazione di futuro.

Per la stessa ragione è molto significativa la partecipazione delle donne alla rivoluzione. Il patto tra i clan confessionali, il profilo reazionario delle loro leadership, ha comportato la sistematica negazione dei diritti democratici delle donne libanesi, su ogni terreno. L'unità di governo tra reazionari maroniti e reazionari sciiti si è consumata in primo luogo contro di loro. La sollevazione anticonfessionale ha dunque trovato le donne in prima fila, a partire dalle giovanissime, con lo sviluppo di un imponente movimento femminista nazionale organizzato, a Nord e a Sud.

La pandemia ha frenato e interrotto questa mobilitazione multiforme negli ultimi mesi. L'immane tragedia dell'esplosione di Beirut, fotografia perfetta del fallimento di un regime, l'ha oggi rilanciata e radicalizzata. L'assalto ai palazzi del potere di sabato 8 agosto, l'occupazione e devastazione della sede associativa delle banche, hanno espresso la radicale volontà di rottura della gioventù libanese con la propria classe dominante. Il tentativo di quest'ultima di dirottare la crisi politica verso nuove elezioni è al momento fallito, perché privo di credibilità. Nuove elezioni con le vecchie regole sarebbero non solo un salvacondotto per i partiti dominanti ma la riproduzione del loro sistema spartitorio. “Andatevene tutti, e tutti vuol dire tutti!” è la replica di massa a questa profferta.


LA DEBOLEZZA DEL MOVIMENTO OPERAIO LIBANESE

L'esplosione di massa dell'ultimo anno ha scavalcato il movimento operaio organizzato. Il movimento operaio libanese è stato fortemente indebolito nella sua lunga storia dalla divisione confessionale del paese. I partiti confessionali hanno lavorato sistematicamente per la sua frantumazione. In particolare la Confederazione Generale dei Lavoratori Libanesi (CGTL) è stata terreno di spartizione tra i partiti dominanti. Ogni partito settario ha costruito il proprio sindacato di categoria per pesare maggiormente nella Confederazione, col risultato di dividere le forze e paralizzarne l'azione.

La Commissione di Coordinamento dei Sindacati (UCC), quale sindacato alternativo, ha svolto invece un ruolo importante nel ciclo di lotte operaie dal 2011 al 2014 attorno a rivendicazioni economiche elementari (aumenti salariali, diritti di contrattazione, rifiuto dell'austerità). Un ciclo di lotte che ha visto la crescita dei livelli di sindacalizzazione nei diversi settori: tra i portuali (baricentro storico del proletariato libanese), fra gli insegnanti (per lo più dipendenti di scuole private religiose), nel personale sanitario (in particolare fra le infermiere). Ma contro questo processo di sindacalizzazione ha lavorato l'intero fronte dei partiti dominanti, con l'obiettivo di spezzarne la dinamica e disinnescare il contagio. Nel 2015 il blocco dei partiti confessionali ha recuperato il proprio controllo sull'UCC impedendo l'elezione ai suoi vertici di una candidatura "di sinistra", Hanna Gharil. L'indebolimento di UCC ha favorito l'arretramento della classe lavoratrice e del suo livello di organizzazione proprio alla vigilia dell'esplosione rivoluzionaria e della crisi verticale del regime.

La politica del Partito Comunista Libanese, di estrazione stalinista, legato strettamente al Partito Comunista Siriano filo-assadista, è stata subalterna, al di là dei proclami, a questa dinamica generale. La partecipazione del Partito Comunista Libanese a partire dal 2008 ad un blocco politico con Hezbollah e con forze borghesi confessionali, la cosiddetta “Alleanza dell'8 marzo”, lo ha di fatto subordinato al bipolarismo dominante, privandolo di un possibile ruolo alternativo.
La debolezza del movimento operaio rappresenta a sua volta un punto debole della rivoluzione libanese.


LE MANOVRE DELLA REAZIONE E DELL'IMPERIALISMO, FRANCIA IN TESTA

La coscienza politica della ribellione è più arretrata della sua azione, come accade frequentemente nelle dinamiche di massa.
Il movimento si articola in una miriade di comitati di scopo e di associazioni ( “movimento contro il caro prezzi”, “comitato contro il pagamento del debito pubblico”, “osservatorio popolare per la lotta alla corruzione”, “comitato sui rifiuti urbani”, ecc.), ma manca di ogni centralizzazione e direzione politica unificante, mentre la disperazione sociale e letteralmente la fame allargano il proprio raggio ogni giorno di più, in un paese in cui tra quindici giorni rischia di mancare la farina e il pane, mentre la pandemia moltiplica contagi e morti. E a fronte di un sistema sanitario costosissimo, largamente privato, e in buona parte crollato, come denuncia Medici Senza Frontiere.

È in questo spazio che si sviluppano le manovre politiche per indebolire e dividere la mobilitazione. Settori di destra cristiana reazionaria legati al partito falangista dei Gemayel, ad esempio il gruppo di ex ufficiali che chiedono l'aumento delle proprie pensioni, cercano di inserirsi nella rivolta per indirizzarla unilateralmente contro Hezbollah e Amal, in una logica di richiamo della foresta della vecchia pulsione settaria. Specularmente, il Partito di Dio fa leva sulla campagna di Gemayel per recuperare consenso presso la gioventù sciita che gli è sfuggita di mano, e richiamarla all'unità confessionale.

Ma è soprattutto l'imperialismo che bussa alla porta di un Libano collassato. La Francia di Macron si offre nelle vesti di salvatrice del Libano, e addirittura della sua rivoluzione: 250 milioni di euro come primo obolo «direttamente destinato al popolo, non ai suoi governanti», recita il Presidente francese, chiedendo in cambio riforme economiche risolutrici. Quali? Ad esempio un drastico taglio delle spese sociali per rendere solvibile il Libano presso il capitale finanziario, anche francese. E chi dovrebbe realizzare queste riforme? Un nuovo governo selezionato dai creditori, sotto il loro controllo. Il plauso di alcuni settori popolari all'offerta francese riflette ad un tempo ingenuità e disperazione.
Non mancano peraltro le contraddizioni d'interesse tra gli imperialismi. La Francia, per ingraziarsi il senso comune popolare, chiede una inchiesta internazionale sull'esplosione al porto di Beirut, perché “non è possibile aver fiducia in una commissione d'inchiesta gestita dai governanti libanesi”. Ma gli USA si oppongono, perché temono che la commissione offra alla Francia un palcoscenico troppo ampio. Quanto all'Italia, il ministro degli esteri Luigi Di Maio non vuole essere emarginato dall'iniziativa francese e si affretta a dichiarare che il Libano è per l'Italia «una seconda casa» (!), e che per questo dirige la missione militare UNIFIL nel Sud Libano, una missione che proprio il 31 agosto dovrà rinnovare il proprio mandato.
Di certo la seconda ricostruzione del Libano è un boccone ghiotto per gli imperialismi. E non solo in termini economici, ma anche come postazione strategica nel rimescolamento degli equilibri generali in Medio Oriente.


PROGRAMMA DI EMERGENZA E PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA

Ma non sarà l'imperialismo a salvare il Libano. Il colonialismo francese è la radice storica del dramma, non può essere la sua soluzione. In ogni caso non può esserlo per la classe lavoratrice, i disoccupati, la popolazione povera del paese. Al contrario, non può esservi alcuna soluzione progressiva della crisi politica, economica, sociale, istituzionale, sanitaria senza una rottura drastica con l'imperialismo, a partire dalla cancellazione del gigantesco debito pubblico. I cosiddetti aiuti dell'imperialismo servono solo a garantire laute commesse per la ricostruzione e a pagare gli strozzini del capitale finanziario. Senza recidere la dipendenza economica dall'imperialismo, innanzitutto europeo, e dalle potenze regionali – Arabia Saudita e Iran in primis – non è possibile alcun controllo sulla ricostruzione e alcuna prospettiva di emancipazione sociale. Cancellare il debito pubblico con l'imperialismo, nazionalizzare senza indennizzo per i grandi azionisti l'intero sistema bancario, sono la prima voce di un programma di emergenza, assieme all'esproprio dei capitalisti libanesi e alla cacciata di tutti i loro partiti.

Questo programma è inseparabile dall'unificazione di un fronte di massa che raccolga tutte le domande di liberazione: le domande di emancipazione della classe lavoratrice, dell'industria, del commercio, dell'amministrazione pubblica, a partire da una scala mobile dei salari contro il carovita, un controllo popolare sui prezzi, un piano di investimenti pubblici nella sanità (che va interamente nazionalizzata), nei trasporti, nel risanamento ecologico, che offra lavoro all'enorme massa dei giovani disoccupati, mettendola al servizio della ricostruzione. Ma anche le domande e i diritti dei rifugiati siriani, spesso usati come manovalanza ricattabile e al tempo stesso bersaglio di campagne xenofobe; e del mezzo milione di palestinesi, costretti da decenni a vivere nei campi, senza servizi e senza tetto, in una condizione ignobile di degrado.

Questo programma di lotta salda le ragioni dell'emergenza libanese con la prospettiva della rivoluzione araba e medio orientale, che va ben al di là dei confini del Libano. Una prospettiva che cancelli alla radice ogni eredità coloniale, a partire dallo Stato sionista, affermi il pieno diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e del popolo curdo, unifichi il Medio Oriente in una grande federazione di popoli liberi. Ciò che può avvenire solo su basi socialiste.
Questo programma ha bisogno di un partito rivoluzionario internazionale capace di conquistare sul campo la propria credibilità di direzione alternativa, in Libano, in Algeria, in Iraq, ovunque la rivoluzione rialzi la testa.


CON LA RIVOLUZIONE, PER UNA SUA DIREZIONE ANTICAPITALISTA

Leggeremo lo sviluppo della crisi libanese col metodo dei marxisti, che vedono i processi rivoluzionari ovunque si manifestino, nella diversità delle loro forme, dinamiche, contraddizioni; e che al tempo stesso non si affidano alla spontaneità dei movimenti, ma pongono la questione decisiva dello sviluppo della loro coscienza e direzione. È il metodo con cui abbiamo riconosciuto e sostenuto le rivoluzioni arabe, contro ogni sostegno ai regimi oppressivi cui si ribellavano (come ha fatto tanta parte del campismo di estrazione stalinista); ma senza mai subordinarci alle loro direzioni liberali, piccolo-borghesi e filoimperialiste, che le hanno portate alla disfatta in Tunisia, in Egitto, in Siria, come hanno fatto i più diversi ambienti movimentisti.

Autonomia dei comunisti in funzione della lotta per l'egemonia anticapitalista nei movimenti di massa: è la politica di Lenin e di Trotsky, dell'Internazionale comunista dei tempi migliori. È la politica che lo scenario mondiale rende ogni giorno più attuale, quale unica possibile alternativa, in Libano e ovunque.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il Corriere della Sera e la retorica da bar sulle periferie

L'editoriale del 28 luglio di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, entriamo subito a gamba tesa nella questione, è un insulto a milioni di persone che vivono nelle periferie delle grandi città. Uno schiaffo a mano aperta a coloro che vivono del proprio lavoro (ovvero i proletari) e sono costretti a turni massacranti per poter sopravvivere e pagare – ben che gli vada – un mutuo che porta via metà dello stipendio. Tralasciando fenomeni di affitto in nero, subaffitto e altre meschinità che oggi sono considerate "normalità" del mors tua vita mea quotidiano. Chi scrive abita in uno di questi «sperduti quartieri dormitorio» di cui parla il prestigioso editorialista del Corriere. Ma quel che ha scritto non ha destato indignazione: la maggior parte del panorama intellettuale, politico e sociale del Paese la pensa esattamente in questo modo.

Per contestualizzare è bene citare un passaggio dall'articolo di Galli della Loggia: «[...] Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate? Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla? Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene» insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere».

Il Covid lo portano in dote quei giovani che escono la sera per andare in centro: mossi da un odio sociale così forte verso chi abita nei lussuosi e bei palazzi dei quartieri storici romani (Parione, Regola, etc.), costoro si fanno beffe del distanziamento sociale e della crisi sanitaria per poter distruggere «quanto non possono avere». Un’evidente (!) questione di ceto sociale.

Quello che pensa Galli della Loggia è, purtroppo, ben chiaro: i proletari delle periferie sono untori, corrompono il centro e le sue bellezze, distruggono la società per bene, sono creature demoniache che vogliono seminare il contagio facendolo addentrare per bene tra le maglie della classe agiata; hanno la sensazione di «essere abbandonati, di essere esclusi dal circuito della cittadinanza ad opera di un potere estraneo ed ostile [...] contro il quale, dunque, non resta che l’arma della rivolta, del voto dato in odio alla casta, ai migranti, ai rom, a tutti, ovvero l’arma della rappresaglia, quella delle spedizioni punitive notturne senza mascherine e sputando sui citofoni dei fortunati che abitano in centro». Che restino confinati pure nei loro tuguri, purché non vengano nelle zone bene. Della Loggia è andato ben oltre il razzismo.

Di tutto questo vaniloquio ostile nei confronti del proletariato è bene registrare un fattore indubbio e che sul nostro sito abbiamo citato più volte: non siamo sulla "stessa barca". Non lo siamo mai stati. Esiste un "noi" e un "loro", un fossato piuttosto evidente e demarcato.
C'era chi poteva permettersi un tampone in tempi rapidissimi, come hanno fatto Guido Bertolaso e Nicola Zingaretti; c'era chi poteva permettersi di violare il blocco e la chiusura totale delle attività dall'alto della sua magione, come Andrea Bocelli. C'era anche chi moriva di Covid perché i tagli apportati alla sanità pubblica hanno prodotto un solco enorme tra chi può permettersi cure di qualità pagando profumatamente cliniche private, e chi deve accontentarsi del policlinico sovraffollato della zona in cui abita, se ne è ancora rimasto uno. I tagli alla sanità pubblica negli ultimi vent'anni hanno mostrato quanto sia inefficiente il sistema sanitario italiano, "sforbiciate" che i giornali italiani hanno fatto passare come "ottimizzazioni" e "razionalizzazioni" della spesa ma che, in realtà, hanno preso la direzione dei finanziamenti alla sanità privata. Il tutto per un totale di 37 miliardi, sottratti al Servizio sanitario nazionale.

La periferia è luogo ignoto per antonomasia, per costoro che scrivono sui giornali della borghesia italiana, da frequentare quando scoppiano questioni legate all'immigrazione (vedi Torre Maura nell'aprile 2019) quasi fossero degli scopritori antropologi che, di fronte ad una realtà opposta a quella che vivono, anziché denunciarne lo stato di abbandono, salgono sullo scranno di turno per giudicare. La stampa borghese non è nuova a queste uscite poco felici. Quando accaddero i fatti di Torre Maura, Lucia Annunziata, direttrice dell'Huffington Post Italia, si precipitò nel quartiere scoprendo con orrore che le strade non portavano ad altro luogo che in quel quartiere: scollegato da tutto e dal resto del mondo, ma che veniva da lei percepito come pulito e ordinato, con file di palazzi «dignitosamente ordinari». Così come pure Gianni Cuperlo, che nel 2018 fece una super passerella a Tor Bella Monaca per un articolo su L'Espresso al fine di toccare con mano quel che «la sinistra ha smesso di guardare» facendo leva sul "bello" che può esserci in periferia.
Come se ad amministrare il municipio VI non ci fosse stato anche e soprattutto il Partito Democratico, che insieme al governo della città (Rutelli e Veltroni, così come anche Alemanno) ha svenduto ettari di territorio romano ai costruttori per poter edificare altri e ancor più lontani quartieri scollegati e "dormitorio" (Ponte di Nona, Colle degli Abeti) che Della Loggia guarda con ribrezzo. Come se Cuperlo, poi, fosse dirigente di un partito di sinistra. Ma questa è un'altra storia.

Le letture sommarie delle periferie rappresentano concretamente due facce della stessa medaglia: da una parte si tende a criminalizzare quel mondo di disagio e povertà con lo sdegno fumettistico di chi sviene portando alla fronte il dorso della mano, socchiudendo gli occhi e cadendo all'indietro; dall'altra la visione del "fin qui tutto bene", nonostante non si comprendano neanche alla lontana la mancanza di lavoro, l'alcolismo, la ludopatia, la dispersione scolastica, le violenze, il coacervo di disperazione e promesse mancate che hanno fatto in modo da far diventare intere porzioni del territorio romano delle polveriere sociali in cui la criminalità organizzata la fa da padrona. Ma queste ed altre questioni affini, gli editorialisti, i direttori e i politici rampanti, le ignorano del tutto. 
Tutte queste letture da bar della periferia non sono altro che la rappresentazione macchiettistica di coloro che producono e portano avanti la città: se la periferia romana smettesse di lavorare, Della Loggia, la Annunziata e Cuperlo semplicemente non saprebbero dove andare a spendere i loro soldi per lo spritz delle 18:00. Probabilmente il cameriere che li ha sempre serviti abita a Tor Pignattara o a Castelverde.

Marco Piccinelli