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Giù le mani da Eddy Sorge!


 Il Tribunale di Napoli ha inflitto sei mesi di reclusione al compagno Eddy Sorge, coordinatore provinciale del SI Cobas. Il "reato" commesso risalirebbe a una manifestazione del "movimento disoccupati 7 novembre" del 2019, per sollecitare una risposta istituzionale alle loro rivendicazioni. Una manifestazione per di più aggredita dai vigili urbani. Che il fatto non sussista è provato dall'assoluzione di tre compagni disoccupati finiti sotto processo per la medesima manifestazione.

La verità è che si è voluto punire Eddy esclusivamente in quanto dirigente delle lotte dei disoccupati. È la logica del famigerato Decreto sicurezza del governo Meloni. Si vuole intimidire e punire a futura memoria chiunque incoraggi l'autorganizzazione degli oppressi, e si batta per le loro ragioni contro il potere dei capitalisti.
Questura e magistratura si pongono al servizio del governo Meloni. Alla faccia di chi, anche a sinistra, esalta la natura "democratica" della magistratura borghese.
Al compagno Eddy Sorge va la nostra incondizionata solidarietà e il nostro abbraccio.

Giù le mani da Eddy.
Avanti con le lotte.
Non ci faremo intimidire.

Partito Comunista dei Lavoratori

Congresso di Rifondazione Comunista, lo scontro tra due posizioni diversamente subalterne


 Il congresso di Rifondazione Comunista si è appena concluso. Il segno del congresso è dato dallo scontro frontale tra due schieramenti interni di pari consistenza. Il primo a sostegno del segretario Maurizio Acerbo, il secondo sospinto dall'ex ministro Paolo Ferrero. È lo scontro che ha investito gli ultimi tre anni di vita del PRC, a livello centrale e nelle federazioni, senza risparmio di colpi. Il sostanziale equilibrio nel rapporto di forza tra i due schieramenti contrapposti si è riflesso nel risultato congressuale: settanta voti di differenza tra la mozione Acerbo e la mozione alternativa di Ferrero, a vantaggio del primo. Il segretario nazionale Maurizio Acerbo è stato confermato con un solo voto di scarto dal Comitato Politico Nazionale eletto dal congresso. Tutto lascia pensare che lo scontro proseguirà nel tempo a venire. L'unico fatto certo è che la crisi del PRC è ben lungi dall'essere risolta.


Dopo tre anni di instancabile guerriglia interna, l'ex ministro Ferrero non è riuscito a detronizzare il segretario Acerbo. Il segretario è sopravvissuto alla guerra ma non ha recuperato il controllo reale del partito. Se la posta in gioco del congresso era il controllo di ciò che resta del PRC, nessuno dei due schieramenti può cantare vittoria.
Ma non è questo l'aspetto che a noi interessa. Ci interessa invece esaminare il contenuto politico delle due posizioni a confronto. Due posizioni diversamente subalterne, accomunate da una inossidabile logica riformista. E al tempo stesso due posizioni che faticano nel quadro politico attuale a ritagliarsi uno sbocco politico reale, al di là delle retoriche di accompagnamento.

Il documento congressuale di maggioranza (Acerbo) si fonda su una precisa opzione politica: la volontà di ricomporre la relazione con il centrosinistra, in funzione di una prospettiva di governo borghese. È il richiamo nostalgico della foresta. Il tentativo di uscire dall'isolamento ritornando nella “politica che conta”.
Il riferimento esplicito alle esperienze di governo, passate e presenti, di diversi partiti della sinistra europea, da Syriza a Podemos, non è casuale. Questo è il vero contenuto della posizione di maggioranza. Naturalmente questo contenuto è avviluppato dalle immancabili rassicurazioni formali: “non intendiamo entrare nel campo largo, che vuole essere un'alleanza senza principi e programma, costruita solo su una generica opposizione alla destra... noi proponiamo al contrario punti dirimenti di programma...», ecc. ecc. In realtà è il solito vecchio canovaccio retorico del condizionamento programmatico a sinistra di PDS, DS, PD, evocato per quasi quindici anni da Fausto Bertinotti (con la sola opposizione della sinistra rivoluzionaria interna da cui nascerà il PCL) per motivare la propria prospettiva governista.

Prospettiva governista che ha coinvolto ciclicamente il PRC nelle politiche antioperaie e autodistruttive dei due governi Prodi. Nel primo caso (1996-1998), in maggioranza di governo, votando l'introduzione del lavoro interinale, il record europeo delle privatizzazioni, i campi di detenzione amministrativa per i migranti (legge Turco-Napolitano). Nel secondo caso (2006-2008), questa volta all'interno del governo, votando l'abbattimento delle tasse sui profitti di imprese e banche (IRES, dal 34% al 27,5%!), l'aumento delle spese per la Difesa, il sostegno alle missioni militari.
Sono politiche che hanno colpito i lavoratori e le lavoratrici, spianando la strada all'influenza reazionaria nelle loro file. Sono le politiche che distrussero il PRC come riferimento di massa, precipitando la sua crisi rovinosa.
La vera differenza è che allora il PRC aveva una rendita di posizione negoziale per candidarsi a sinistra del centrosinistra. Oggi quello spazio è presidiato da Sinistra Italiana. Pertanto l'unica possibilità reale di questa opzione politica è sperare di aggregarsi a Fratoianni come ultima eventuale ruota del carro. A questo si riduce la Rifondazione Comunista?

Il documento di minoranza di Paolo Ferrero contesta formalmente la ricomposizione col centrosinistra, la denuncia come capitolazione, e nello slancio critico giunge persino a riconoscere che la crisi del PRC non inizia col congresso di Chianciano del 2008 ma con le scelte di governo precedenti. Salvo rimuovere lo spiacevole dettaglio che il ministro di Rifondazione nel governo Prodi era proprio... Paolo Ferrero. Cioè colui che più di ogni altro si spese per la scelta governista del partito in contrapposizione alla sinistra rivoluzionaria del PRC; colui che più di ogni altro difese tra il 2006 e il 2008 la propria permanenza nel governo, contro l'ipotesi di un passaggio al sostegno esterno, ventilata dall'allora segretario Franco Giordano.
È un caso che il documento di minoranza rimuova totalmente la materialità delle scelte antioperaie dei due governi Prodi? Il bilancio di quella stagione viene ridotto all'eufemismo della impermeabilità del centrosinistra alle proposte riformatrici del PRC. Che è il modo di assolvere la permeabilità del PRC di Ferrero alle politiche controriformatrici del centrosinistra borghese.

La proposta “alternativa” del documento di minoranza è indicativa. La sintesi è che bisognerebbe «fare come Mélenchon»: prima capovolgere i rapporti di forza con la socialdemocrazia, grazie ad una politica autonoma, e poi ricomporre l'alleanza sotto la propria egemonia e candidarsi a governare come sinistra-centro.
Al di là di ogni principio di realtà (e delle profonde differenze con lo scenario francese), il governo del capitalismo resta dunque la bussola strategica di Ferrero. L'alfa e l'omega. La stella cometa, insensibile ad ogni lezione dell'esperienza. «Fare come Mélenchon» è la versione attuale del «fare come Tsipras». Salvo ignorare che il governo Tsipras, idolatrato a suo tempo da tutta la sinistra “radicale”, ha gestito le politiche antioperaie della troika contro la propria base sociale, e contro la domanda di svolta che ne aveva sospinto l'ascesa. E che Melenchon, già ministro di Jospin, ha un programma riformista simile a quello originario di Tsipras, prima che la sua esperienza di governo ne rovesciasse brutalmente il segno.
La verità è che oggi, dentro la crisi capitalistica e la polarizzazione dello scontro interimperialista, non c'è più lo spazio storico del riformismo, nonostante le illusioni dell'ex ministro Ferrero.

Ma l'aspetto più sconcertante del documento alternativo è la esaltazione dei BRICS, sino alla rivendicazione della adesione dell'Italia ai BRICS. Invece della doverosa contrapposizione a tutti gli imperialismi, vecchi e nuovi, nel nome dell'interesse internazionale della classe lavoratrice e dei popoli oppressi, si rivendica il sostegno ad uno dei due poli imperialisti contro l'altro, nel nome del multipolarismo e della lotta contro la guerra. Ma le dinamiche di guerra non sono forse sospinte proprio dalla presenza di diversi poli imperialisti, gli uni contro gli altri armati, che si disputano la spartizione del pianeta? Il multipolarismo imperialista è esattamente l'attuale geografia del mondo. La lotta contro la guerra o è la lotta contro tutti gli imperialismi, e a difesa di tutti i popoli da questi oppressi, o non è. Dire che l'imperialismo cinese e russo sono fattore progressivo e di pace significa capitolare alla loro propaganda imperialista, speculare alla propaganda dell'imperialismo NATO di casa nostra.

La verità è che il documento alternativo strizza l'occhio a Potere al Popolo, e anche per questo si sintonizza sull'impostazione campista del suo gruppo dirigente (Rete dei Comunisti). Salvo tacere, in un documento tutto imperniato sulla lotta alla guerra, che Mélenchon vota l'invio di armi all'Ucraina (ben al di là del giusto sostegno all'Ucraina contro l'imperialismo russo, e dunque del suo diritto ad usarle). E che Unione Popolare, con Potere al Popolo, è sepolta da anni. Non sarà Ferrero a resuscitarla. Tanto più avendo perso il congresso.

In conclusione. Siamo stati ripetutamente accusati di muovere una critica al PRC basata sul passato. Ma senza un bilancio onesto del passato come è possibile tracciare una nuova via? Peraltro è stato proprio il passato a dominare, in forma diretta o indiretta, il confronto interno al congresso del PRC. Il nodo del rapporto col centrosinistra, la questione strategica del governo, l'esperienza della sinistra europea richiamano inevitabilmente il tema del bilancio. Semplicemente, il congresso ci ha detto una volta di più che chi non impara dalla storia è destinata a ripeterla. Magari in formato ridotto e residuale, come speranza del proprio immaginario.

La verità è che Rifondazione Comunista è da tempo una sopravvivenza postuma. La Rifondazione Comunista quale riferimento largo e riconoscibile da ampi settori di classe e di avanguardia morì diciannove anni fa tra le braccia di Prodi. I gruppi dirigenti di ciò che è rimasto di quel partito appaiono prigionieri del suo passato, incapaci sia di elaborare il lutto che di rimontare la china del loro disastro.
Ai militanti coerentemente comunisti del PRC che non vogliono restare sotto le macerie del proprio partito, e che al tempo stesso non si rassegnano alla passivizzazione e alla resa, proponiamo di costruire insieme, controcorrente, il Partito Comunista dei Lavoratori, sulle basi di principio del marxismo rivoluzionario. Le uniche basi che non si piegano come canne al vento. Le uniche basi che possono armare un reale progetto anticapitalista, sul terreno nazionale e internazionale.

Partito Comunista dei Lavoratori

MARELLI: ALLA SEMISERRATA DEL PADRONE È NECESSARIA LA RISPOSTA OPERAIA

 


Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime tutta propria solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori della Marelli in lotta, presso i cui stabilimenti spesso ha distribuito i propri volantini

La decisione aziendale di ridurre le ore di lavoro tramite la cassa integrazione settimanale senza integrazione economica significa il taglio dei loro già magri salari. La direzione aziendale, con questa specie di serrata, riversa sulle spalle delle operaie e degli operai la sua cattiva gestione e le esigenze di risanamento dei conti aziendali.

Si conferma la regola costante del capitalismo: quando gli affari vanno bene gli operai possono r vedersi riconosciuti in minima parte gli aumenti salariali solo con una strenua lotta oppure vederli inesorabilmente fermi come è successo negli ultimi decenni, mentre quando vanno male è su di loro che si scaricano le difficolta vere o presunte dei capitalisti.

La negoziazione di Fiom, Fim e Uilm sulla quantità e ripartizione delle giornate di cassaintegrazione si muove tutta sul piano inclinato a favore del padronato. Occorre rigettare radicalmente l’organizzazione del lavoro proposta dall’azienda, rivendicando la ripartizione egualitaria delle ore di lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario

La politica padronale oggi si fa forte del clima politico e sociale instaurato del governo Meloni, il governo più reazionario del dopoguerra. La classe lavoratrice deve comprendere bene che con questo governo i salari continueranno a rimanere fermi, continueranno i tagli allo stato sociale e l’arroganza padronale sarà sempre più illimitata.

Altrettanto non si può accontentare dell’azione dei sindacati a partire dalla CGIL che ha evocato la rivolta sociale prima dello sciopero generale del 29 novembre ma non ha disposto nessun programma di mobilitazione generale per fermare l’incedere antisociale di governo e padronato. Purtroppo, la storia recente della CGIL non depone a suo favore. L’avvallo dato al l governo Draghi, quello dello sblocco dei licenziamenti per intendersi, con la garanzia offerta della pace sociale ha aperto la strada alla destra che oggi governa con i voti popolari.

Occorre costringere la CGIL e gli altri sindacati di rifermento a dispiegare una vera e propria agenda di mobilitazioni in grado di convogliare centinaia di miglia di lavoratrici e lavoratori sul terreno dello scontro frontale contro governo e padronato. Ciò tanto più dal momento che la mobilitazione generale avrebbe non solo una valenza sociale, con il recupero salariale e l’aumento della spesa sociale, ma anche una valenza democratica perché in grado di fronteggiare la stretta repressiva vel governo (DDL 1660) che colpisce in particolare le manifestazioni operaie.

Tanto meno è accettabile la solidarietà pelosa del PD, architrave di molti degli ultimi governi che hanno aumentato le spese militari, tagliato i servizi sociali, aumentato l’età pensionabile, incrementato la precarietà lavorativa senza per altro frenare di un centesimo la caduta dei salari.

Insomma, la Marelli come innumerevoli altri casi, è un esempio del feroce attacco sferrato dal padronato contro la classe lavoratrice in nome di quell’”interesse nazionale” dietro cui si cela la rapina capitalista e imperialista.

All’attacco così dispiegato occorre dare una risposta di pari grado. Per questo è necessario costruire il fronte unico di massa della classe lavoratrice con tutte le organizzazioni che vi fanno riferimento basato su una piattaforma di rivendicazioni unificante. Una forza in grado di dispiegare una mobilitazione generale caratterizzata da forme di lotta radicali necessarie a piegare la volontà padronale e delle forze repressive del governo.

In questo modo, strada facendo, la classe lavoratrice tornerà prendere coscienza della propria forza potenzialmente immensa. Allora si renderà conto che tutti i governi siano essi di destra o di “sinistra” sono suoi nemici perché irrimediabilmente governi borghesi, comitati d’affari dei capitalisti. Invece sulla base di questa forza dispiegata potrà poggiare l’unico governo amico delle operaie e degli operai, ii governo delle lavoratrici e dei lavoratori

Il caso Almasri e la natura dello stato

 


Le «cose sporchissime» dei governi capitalisti

2 Febbraio 2025

«In ogni stato si fanno cose sporchissime per la sicurezza nazionale, anche trattando coi torturatori. Avviene con tutti i governi, tutti», ha dichiarato il famigerato Bruno Vespa a difesa di Giorgia Meloni.
È la candida confessione pubblica della verità più evidente attorno al caso del generale Almasri, torturatore libico, prima arrestato e poi rilasciato con tanto di accompagnamento in Libia.
Non c'era bisogno di Bruno Vespa, naturalmente, per capire la vera “ragione di Stato” dell'atto compiuto. La stessa evocazione dell'interesse nazionale, non meglio precisato, da parte della Presidenza del Consiglio già alludeva in forma cifrata alla verità. Il fatto nuovo è che la verità è stata cinicamente rivelata dal più autorevole ciambellano dell'attuale governo e della sua direzione postfascista.

È interessante notare che la rivelazione della verità è presentata come sua assoluzione. Se “così fan tutti”, perché prendersela con Giorgia Meloni? Semmai dovrebbe essere lodata quale baluardo del superiore interesse nazionale, al pari dei precedenti Presidenti del Consiglio. Non a caso la stessa stampa borghese della cosiddetta opposizione liberale si guarda bene dall'entrare davvero nel merito della vicenda. Anche perché dovrebbe spiegare il proprio immancabile sostegno alle «cose sporchissime» del famigerato patto con la Libia di Mario Minniti e Paolo Gentiloni (2017). Il primo oggi comodamente seduto ai vertici di Leonardo, azienda di guerra rifornitrice di Israele, il secondo commissario uscente dell'Unione Europea, e possibile candidato in pectore in veste di premier di un futuro governo di centrosinistra. Meglio dunque tutelare gli scheletri nei propri armadi, e occuparsi della difesa della magistratura. Giorgia Meloni peraltro non chiede di meglio: si intesta la difesa della Patria e della sua sicurezza, a beneficio dei sondaggi elettorali del proprio partito.

Ma allora questa difesa della patria va chiamata col suo proprio nome: diretta complicità dei governi italiani («tutti») con i peggiori torturatori libici, a garanzia del blocco delle partenze. Ciò che significa finanziamento ed equipaggiamento militare di milizie tagliagola, impegnate nel segregare i migranti, nel riacciuffare quelli che riescono a partire, nell'usare le immagini di corpi torturati come arma di ricatto per estorcere altro denaro alle loro famiglie, nell'usare i migranti come schiavi per lavori infrastrutturali e prestazioni private nelle ville dei loro aguzzini, nello stuprare donne e bambini...

Queste sono le ordinarie cose sporchissime che da quasi un decennio coinvolgono l'Italia in Libia. E non solo l'Italia. Tutti i governi “democratici” della Unione Europea coprono le segregazioni e torture libiche. Non a caso il generale Almasri ha fatto un ampio giro nei paesi europei prima di approdare in Italia, battendo ovunque cassa per i servizi prestati. Peraltro il Patto europeo su Immigrazione e asilo affida di fatto all'Italia il presidio del confine meridionale della UE. L'accordo tra Meloni e Von der Leyen poggia esattamente su queste basi. Il silenzio europeo sulle deportazioni in Albania sono un risvolto di questo accordo.

La verità confessata è uno squarcio di luce sulla natura dello Stato dei governi capitalisti e della loro unione. Se la ragione di stato si appoggia sul crimine e sulla protezione dei criminali significa che il crimine è la ragione d'essere dello stato, quali che siano le mutevoli maggioranze politiche che lo amministrano.
In Italia l'attuale governo a guida postfascista è sicuramente il peggio, ma non a caso si appoggia sulle eredità di chi l'ha preceduto. Le destre reazionarie avanzano in Europa (e non solo), ma grazie ai sentieri tracciati e concimati dalle “democrazie” liberali.
Ovunque il capitalismo genera mostri. Oggi più che mai la verità è rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

Meloni d'Arabia

 


L'imperialismo italiano in manovra

L'imperialismo italiano è in manovra. Il recente viaggio a Riad di Giorgia Meloni può essere visto da angolazioni diverse, ma complementari.
Un aspetto riguarda le relazioni italiane con l'imperialismo USA, e in particolare con la sua nuova amministrazione. Dopo il crollo del regime di Assad, la sostanziale sconfitta di Hezbollah in Libano, il netto ridimensionamento del peso dell'Iran in Medio Oriente, Donald Trump punta a rilanciare gli accordi di Abramo tra lo stato sionista e le potenze del Golfo. Lo fa nel suo proprio interesse. Per concentrare le forze contro l'imperialismo cinese sui mari del Pacifico, Trump ha bisogno di lasciarsi alle spalle un equilibrio stabile in Medio Oriente, naturalmente sulla pelle dei palestinesi. Il coinvolgimento dell'Arabia Saudita è fondamentale per l'operazione. L'Italia si candida al ruolo di mediatrice attiva del progetto, anche al fine di lustrare la propria credibilità presso gli USA.

Ma chi vede solamente questo aspetto rimuove l'altra faccia della medaglia. L'Italia non è a Riad “per conto degli USA”, ma innanzitutto per il proprio interesse imperialista. I paesi del Consiglio del Golfo (Arabia Saudita, Barhein, Emirati, Kuwait, Qatar e Oman) hanno sviluppato una forte proiezione in Africa: tra il 2012 e il 2022 una massa di investimenti pari a 100 miliardi di dollari, prevalentemente nel settore minerario e in infrastrutture (porti, scali aereo portuali, ferrovie): la sola Arabia Saudita annuncia programmi di investimento di 41 miliardi nel prossimo decennio. L'Italia vede nell'Africa la propria proiezione naturale, secondo la dottrina del “Mediterraneo allargato” (...molto allargato), a scapito dell'area di influenza francese, ormai in declino. Da qui l'idea di una “partnership strategica” tra Roma e Riad. Una convergenza di interessi.

Due degli accordi siglati da Meloni in Arabia Saudita riguardano l'intesa tra l'italiana SACE, il gruppo energetico saudita ACWA Power, e la Banca Araba per lo Sviluppo Economico in Africa. La SACE (grande gruppo assicurativo, partecipato dal Tesoro) offre copertura agli investimenti congiunti, e ottiene in cambio laute contropartite per le imprese italiane. Non solo in Africa ma anche nella regione araba. Leonardo offre ai sauditi nuovi sistemi di combattimento aereo e l'ingresso nel progetto di caccia militare d'avanguardia condiviso con Gran Bretagna e Giappone. Fincantieri, già impegnata a costruire la flotta militare del Qatar, entra nel business dei servizi logistici per navi militari saudite. Snam incassa l'accordo per trasportare in Europa idrogeno verde, di cui Riad è il principale produttore mondiale. Pirelli – già partecipata dal Fondo sovrano saudita – ottiene l'apertura di nuovi stabilimenti nel paese..

Il volume d'affari si estende all'esportazione italiana in fatto di macchinari, apparecchiature elettriche, prodotti alimentari, articoli di moda, coinvolgendo più di venti grandi imprese tricolori, mentre calano del 31% le importazioni italiane da Riad.
Un accordo vantaggioso per Roma, stimato in più di 10 miliardi di euro. La IV edizione dell'Arab Italian Business Forum organizzato a Roma dalla Camera di Commercio Italo-Araba plaude entusiasta all'intesa. Con un risvolto importante nella UE: il governo Meloni vuole presentarsi a Bruxelles come avamposto obbligato delle relazioni europee con i paesi arabi e col continente africano. Anche qui scavalcando la Francia.

Il cosiddetto Piano Mattei non è solo propaganda. Nella nuova giungla delle contese imperialiste, l'imperialismo italiano ricerca il proprio posto al sole. Con grandi difficoltà, ma anche una determinazione nuova. In ogni caso, col pieno appoggio del grande capitale di casa nostra.

Certo la disinvoltura non manca alla Presidente del Consiglio: per anni aveva denunciato, dall'opposizione (non senza retorica islamofoba) quel Bin Salman con cui oggi negozia. Ma la contestazione di incoerenza rivolta a Meloni da parte del centrosinistra fa sorridere gli uomini d'affari. Tutti i governi italiani, tutti i partiti borghesi, hanno trafficato negli anni col Regno sanguinario e misogino di Riad .Tutti hanno votato a favore della spedizione navale in Golfo Persico, al fianco di Israele e contro gli houthi. Tutti hanno armato lo stato sionista e coperto la sua barbarie in Palestina. Meloni si muove nel solco tracciato, con una marcia in più. “Io porto risultati”, ha replicato. I capitalisti italiani ringraziano.

Partito Comunista dei Lavoratori