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Autonomia differenziata: cosa significa, quale risposta

Analisi e proposta del Partito Comunista dei Lavoratori

29 Giugno 2019
Ricognizione dei bisogni sociali dei lavoratori e dei poveri in tutta Italia. Definizione di un piano di lavoro e di investimenti dettato unicamente dalle urgenze sociali, contro ogni compatibilità. Per una risposta anticapitalista alla secessione dei ricchi

 DA DOVE NASCE L'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
L'autonomia differenziata è un disegno politico e sociale che investirà gli assetti istituzionali e il conflitto di classe in Italia.
L'autonomia differenziata viene riconosciuta a livello legislativo dalla riforma dell'Articolo V della Costituzione promossa dal governo di centrosinistra di Giuliano Amato nel 2001. L'articolo 116 introdotto dalla riforma dà facoltà alle Regioni di negoziare con il governo centrale, e dunque con lo Stato nazionale, l'ampliamento delle proprie competenze sino a un massimo di 23 materie. Era l'epoca in cui il centrosinistra cercava di occupare il terreno federalista imposto dalla Lega inseguendola sul suo terreno.

Nella legislatura successiva fu il centrodestra a rilanciare il disegno autonomista inserendosi negli spazi aperti del centrosinistra. Nacque la riforma istituzionale della cosiddetta “devolution”, redatta da Calderoli e approvata nel 2005. Ma la riforma, sottoposta a referendum istituzionale, fu bocciata dall'elettorato il 25-26 giugno 2006.

Nel 2016 il progetto bonapartista di Renzi, ritagliato sulle sue ambizioni politiche, mirò a una riforma istituzionale di segno opposto, nel segno del rafforzamento politico e istituzionale del governo centrale a scapito dei poteri delle Regioni. Era il tentativo di dare al capitalismo italiano un assetto istituzionale più centralizzato attorno alla figura dominante del capo del governo.

Il fallimento clamoroso del disegno politico e istituzionale di Renzi (bocciatura referendaria del 4 dicembre 2016) ha incoraggiato, per effetto di rimbalzo, il nuovo rilancio del disegno autonomista. Veneto e Lombardia intraprendono un'iniziativa referendaria, con l'appoggio sostanziale al Nord sia del PD che del M5S. Il referendum, tenutosi nel 2017, registra un successo plebiscitario. Parallelamente nel 2017 la regione Emilia Romagna, senza passare per il referendum, apre il negoziato col governo centrale per la concessione dell'autonomia regionale in 15 materie e competenze. Il governo Gentiloni, proprio alla vigilia delle fatidiche elezioni del 4 marzo 2018, sigla una pre-intesa con le tre regioni interessate, nel segno dell'apertura alle loro richieste. Nel varco aperto si muovono altre sette regioni a statuto ordinario (Liguria, Piemonte, Toscana, Lazio, Marche, Umbria, Campania), i cui governatori ottengono il mandato a intraprendere l'iter istituzionale del negoziato col governo centrale.

La ridefinizione dei rapporti istituzionali tra Stato e Regioni è parte dell'onda d'urto della sconfitta del renzismo, la stessa onda d'urto che sul piano politico ha sospinto l'inedito governo M5S-Lega, ha prodotto sul piano istituzionale un contraccolpo non meno profondo.


LA SECESSIONE DEI RICCHI

Il canovaccio dell'argomentazione autonomista ruota attorno ad un apparente senso comune: “Cosa c'è di male ad assicurare maggiori competenze ai governi locali? Non è forse un possibile vantaggio in fatto di minore burocrazia, maggiore vicinanza ai territori, maggiore possibilità di sostenere i cittadini e soddisfare i loro bisogni?”.

La realtà è esattamente opposta.

Il primo obiettivo di fondo dell'autonomia differenziata è trattenere sul proprio territorio il cosiddetto residuo fiscale, ossia lo scarto tra le entrate fiscali che lo Stato preleva da una regione e le risorse che vengono spese in quella regione. Le regioni del Nord, più ricche, hanno ovviamente un residuo fiscale alto. Per questo i governatori di Veneto e Lombardia chiedono di poter incassare il grosso del residuo. L'obiettivo iniziale era radicale: la giunta Zaia chiedeva di poter godere degli stessi privilegi delle province autonome di Trento e Bolzano, dove i nove decimi delle tasse pagate sul territorio restano a casa. Ma questa rivendicazione radicale serviva ad alzare contrattualmente la posta per strappare comunque un risultato vantaggioso. La bozza di accordo raggiunta tra governo Conte e Regioni interessate prevede clausole che tra loro combinate portano in quella direzione.

Il meccanismo sancito dalla bozza prevede la compartecipazione della Regione al gettito di tributi erariali maturati sul territorio. Attraverso la compartecipazione delle imposte la Regione copre il finanziamento delle funzioni trasferite dallo Stato alla sua competenza. Tanto spendeva lo Stato, tanto spende la Regione: sembrerebbe una operazione a costo zero. Ma non è così.

Innanzitutto la bozza d'accordo prevede come riferimento di calcolo il criterio della spesa media pro capite su scala nazionale: «l’ammontare delle risorse assegnate alla Regione per l’esercizio delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui alla presente intesa non può essere inferiore al valore medio nazionale pro capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse» (1). Il punto è che Lombardia, Veneto ed Emilia hanno valori di spesa pro capite che si posizionano al di sotto della media nazionale. Quindi vuol dire che in base all'intesa le tre regioni vanno subito all'incasso. E non si tratta di pochi spiccioli. I bilanci di Lombardia, Veneto, Emilia aumenterebbero del 50%. Il solo Veneto di Zaia potrebbe contare su 5-6 miliardi aggiuntivi. Per dare un'idea, prendiamo il capitolo istruzione. Lombardia e Veneto dichiarano che in fatto di istruzione lo Stato versa loro una cifra pro capite di 480 euro per abitante, ben inferiore alla spesa media nazionale pro capite di 537 euro (trascurando il piccolo dettaglio che la maggiore spesa del Sud per l'istruzione è dovuta anche al fatto che lì si pagano insegnanti di ruolo, mentre al Nord si pagano di più i supplenti di insegnanti che hanno chiesto il trasferimento al Sud). Il risultato è che già al piede di partenza dell'autonomia, Lombardia e Veneto si troverebbero a incassare rispettivamente 265 e 742 milioni in più solo per allinearsi alla spesa media pro capite nell'istruzione. Un primo miliardo sottratto alla ripartizione, innanzitutto alle scuole del Sud.

In secondo luogo la bozza d'accordo prevede che tutti gli aumenti di gettito fiscale restino sul proprio territorio: «l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della Regione dei tributi compartecipati o oggetto di aliquota riservata rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della Regione». È una clausola che da un lato incentiva le tasse locali (le famose addizionali sull'Irpef), per di più a carico dei “propri” salariati, dall'altro sottrae strutturalmente e cumulativamente le risorse aggiuntive alla ripartizione nazionale, a danno della popolazione povera del Meridione. Maggiore è la ricchezza incassata, prelevata dalle tasche dei lavoratori, minore è la ricchezza distribuita. Per di più, la bozza prevede che l'entità stessa dei fabbisogni venga col tempo rapportata al gettito fiscale della regione: «I fabbisogni standard sono misurati in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale». Significa che le regioni più ricche offriranno i servizi migliori, quelle più povere i peggiori. Come se i diritti sociali alla salute o all'istruzione dipendessero dal luogo di residenza e non dalla eguale natura dei bisogni.

Si obietta che il primo anno il criterio di compartecipazione regionale al gettito avrà come riferimento la “spesa storica” (cioè quanto tradizionalmente si spende regione per regione), come a dire che nessuno sarà penalizzato. Ma l'obiezione è curiosa. Non solo perché si tratta per l'appunto di un criterio di riferimento temporaneo di cui già si programma il superamento in direzione peggiorativa, ma anche perché la “spesa storica” è esattamente la sanzione dell'ingiustizia e della disuguaglianza attuale. Già oggi il regionalismo ha sancito condizioni ineguali in prestazioni e servizi. Già oggi la regionalizzazione della sanità fa sì che esistano 21 sistemi sanitari regionali diversi, con 750.000 malati che devono curarsi fuori regione per assenza di servizi pubblici o costi incompatibili. Già oggi nel Centro-nord le risorse pubbliche complessive pro capite sono di quasi 15.000 euro, in Campania di 10.800. Il rispetto della spesa storica è dunque la sanzione dell'ineguaglianza attuale. L'autonomia differenziata mira solo ad allargarla ulteriormente e radicalmente a vantaggio dei ricchi. La secessione dei ricchi non è un argomento propagandistico, ma la realtà di un progetto.


CHI PAGA? IL SACCHEGGIO DEI POVERI

Se da un lato si incassano maggiori risorse vuol dire che dall'altro c'è qualcuno che paga.
La popolazione povera del meridione è la prima vittima dell'autonomia regionale, ma non la sola.
Lo spostamento di risorse verso le tre regioni che insieme fanno quasi il 40% del Pil nazionale non sarà tutto caricato sulle regioni del Sud (perché data l'entità del trasferimento sarebbe socialmente e politicamente ingestibile). Sarà in parte caricato sul bilancio pubblico nazionale. Per un verso sulla fiscalità generale, e siccome l'80% del carico fiscale ricade sulle spalle di lavoratori e lavoratrici (e pensionati), saranno loro a pagare, inclusi i lavoratori lombardi, veneti, emiliani. Per altro verso sarà finanziato dal taglio della spesa pubblica, che in larga parte è spesa sociale. Ancora una volta, dunque, pagheranno i lavoratori e le famiglie povere, senza confini geografici.

L'obiezione secondo cui “nelle regioni ricche vi saranno vantaggi sociali per i lavoratori” è una truffa bella e buona. Qual è la destinazione sociale del surplus fiscale che Lombardia, Veneto ed Emilia richiedono? Basta ascoltare la voce dei governatori interessati: riduzione delle tasse per le imprese del territorio, sostegno alle esportazioni e investimenti esteri delle proprie imprese, maggiore finanziamento pubblico alle scuole private e alla sanità privata, secondo il modello sociale già largamente sperimentato in particolare proprio in quelle regioni. Il padronato del Nord – grande, piccolo e medio – è il beneficiario dichiarato di tutta l'operazione dell'autonomia. La grande partita politica che gioca Salvini è proprio questa. La nuova Lega non può scaricare la vecchia. Può cancellare il suo vecchio leader e la simbologia nordista nel nome della proiezione verso Sud, ma lo può fare solo in cambio di precise contropartite da assicurare al Nord. E la contropartita è una nuova valanga di soldi alle “proprie” imprese. Nella prima legge di stabilità la Lega ha dovuto sacrificare al reddito di cittadinanza il progetto annunciato della flat tax; deve dunque compensare oggi non solo col rilancio di quel progetto ma anche con l'autonomia differenziata. Questo chiedono Fontana e Zaia, grandi elettori di Salvini nella Lega. E il capo ha garantito loro il malloppo.

La Lega cerca i voti dei lavoratori salariati e della popolazione povera del Sud proprio quando carica sul loro portafoglio la più grande regalia ai padroni del Nord.


LA FRANTUMAZIONE TERRITORIALE DELLA CLASSE LAVORATRICE

L'autonomia differenziata non si limita a trattenere localmente una parte sempre più ampia della ricchezza a scapito delle regioni povere. Prevede anche una destrutturazione territoriale di condizioni contrattuali, normative e salariali.

La scuola in particolare sarà investita da un vero ciclone. Lombardia e Veneto ottengono precisi poteri sulla «disciplina, anche mediante contratti regionali integrativi, dell'organizzazione e del rapporto di lavoro del personale dirigente, docente, amministrativo, tecnico e ausiliario». I neoassunti diventeranno dipendenti regionali, chi già lavora potrà scegliere se “trasferirsi” alla Regione. Il risultato sarà la frantumazione su base territoriale del settore più consistente dei lavoratori pubblici. I lavoratori assunti dalla Regione o che sceglieranno il contratto regionale potranno eventualmente ottenere qualche vantaggio corporativo di natura salariale, ma al prezzo della lacerazione della forza contrattuale della categoria e di ogni principio di uguaglianza. A pari lavoro, contratti e stipendi diversi, nella stessa regione e su scala nazionale. Tutto dipenderà dalla residenza. Doveva essere “prima gli italiani!”, è diventato “prima i lombardi, i veneti, gli emiliani!”.

Lo stesso vale per la sanità. La sanità è già in parte a gestione regionale, ma l'autonomia differenziata conferisce ancor più poteri in campo sanitario ai governatori delle regioni interessate. Essi «potranno rendere più flessibile la capacità di gestione della spesa, mediante la rimozione di vincoli specifici presenti e futuri in materia di personale». I vincoli dei contratti nazionali di lavoro «presenti e futuri» potranno dunque essere aggirati, contratti regionali potranno affiancare anche qui quelli nazionali contro ogni logica di tutela sociale, mentre i padroni delle cliniche private potranno allargare con maggiore libertà la torta dei propri affari. Inoltre negli Atti preliminari del disegno di legge si afferma che l'obiettivo è quello di «una maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione limitatamente agli assistiti residenti nella regione». Una sanità per i residenti. I malati delle regioni del Sud, magari costretti a cercare le cure negli ospedali del Nord a seguito dello sfascio della sanità meridionale, saranno discriminati rispetto ai malati lombardo-veneti. Stessa malattia, diverso trattamento.

Intanto Lombardia e Veneto ottengono più ampi poteri in fatto di previdenza integrativa e sanità integrativa. Non è un caso. Mentre la sanità pubblica nazionale continuerà ad essere falcidiata ogni anno dalle leggi di stabilità (non solo per pagare il debito alle banche e ridurre le tasse ai padroni, ma ora anche per finanziare il surplus fiscale alle regioni ricche), le Regioni beneficiarie faranno affari con le polizze sanitarie private. Magari con campagne promozionali nel nome della “tutela della salute”. Parallelamente, siccome la legge Fornero non è affatto abolita, e giovani non giungeranno mai a 38 o 41 anni di contributi, le regioni autonome si portano avanti con l'affare sempreverde della previdenza integrativa. La stessa Lega che crocifigge a parole la Fornero si appresta a lucrare (in senso letterale) sul suo mantenimento. I lavoratori lombardi, veneti e emiliani sono le prime vittime di questa truffa.


LIBERI TUTTI

Il rafforzamento dei poteri regionali sarà un “liberi tutti” in fatto di gestione dell'ambiente, del territorio, del patrimonio artistico e culturale.

Sui trasporti si gioca una partita enorme. L'Emilia vanta già un'intesa per la potestà legislativa e amministrativa della rete stradale, autostradale, ferroviaria, proprio come la Lombardia: «Sono trasferite al demanio della Regione le tratte autostradali comprese nella rete autostradale nazionale insistente sul territorio lombardo. I beni, gli impianti e le infrastrutture sono retrocesse al demanio della Regione alla scadenza delle concessioni». I governatori potranno dunque decidere sull'affidamento e «l'approvazione di costruzione ed esercizio di autostrade e sulla vigilanza delle medesime». La possibilità fa gola a Zaia, che ancora non ha raggiunto l'accordo per la gestione delle autostrade ma intanto ha inserito in bozza la competenza su 18 tratte ferroviarie e il controllo degli aeroporti. La Regione è pronta a subentrare al ministero nelle trattative miliardarie sulle concessioni. Un passaggio rilevante nella costruzione di relazioni in proprio col capitale e fonti di ulteriori incassi.

Ma è su ambiente e territorio che i nuovi poteri minacciano le conseguenze più pesanti. Tra le competenze richieste dalle tre Regioni c'è la tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale. Considerando che le tre regioni sono quelle segnate già oggi dal consumo del suolo più alto del paese, si tratta della rivendicazione di un via libera definitivo. I governatori puntano alla completa liberalizzazione dei piani di cementificazione e saccheggio. Gli argomenti per cui non c'è nulla di male se è la Regione e non lo Stato ad amministrare il territorio è un argomento a geometria variabile a seconda degli interessi del capitale. Non vale magari per la TAV Torino-Lione, a fronte di interessi borghesi preminenti, ma vale se si tratta delle sorti delle coste e delle foreste, dove ad esempio i poteri della Regione a statuto speciale della Sicilia hanno consentito più agevolmente la peggiore speculazione e la logica di scambio con gli interessi affaristici delle cosche locali. Non è un caso se Lombardia e Veneto guardano alla Sicilia come modello in fatto di competenze paesaggistiche. Lo stesso vale per il patrimonio artistico e culturale. “Che male c'è - dice Salvini - se il direttore di Brera o il soprintendente di Milano saranno nominati dalla regione Lombardia invece che dal ministero dei beni culturali?”. In realtà Brera ai lombardi e l'Accademia di Venezia ai veneti vogliono introdurre una scomposizione del patrimonio artistico su base territoriale, a scapito del suo valore nazionale e universale. Premessa a sua volta dell'ulteriore sviluppo della gestione privatistica e mercantile di tali beni.


QUALE RISPOSTA

Se il disegno autonomistico ha una valenza classista e capitalista, anticapitalista e di classe deve essere la risposta.

C'è bisogno sicuramente di costruire il fronte unitario più vasto in opposizione al disegno.
L'assemblea nazionale della Scuola del 7 luglio a Roma si muove in questa direzione. Un'iniziativa tanto più importante dopo che un mese fa la CGIL ha revocato uno sciopero generale della scuola già indetto, con un regalo insperato al governo in cambio del nulla. E dopo che l'opposizione interna alla CGIL, un fronte di sindacati di base, numerose associazioni della scuola, hanno reagito unitariamente alla revoca mantenendo lo sciopero. Il PCL ha dunque aderito convintamente all'assemblea nazionale del 7 luglio.

Anche l'appello promosso da un gruppo di personalità politiche, sindacali, intellettuali per la formazione di un coordinamento del No alla "secessione dei ricchi" solleva una giusta esigenza unitaria. Tuttavia il taglio essenzialmente costituzional-democratico dell'appello, incentrato sulla “difesa della Repubblica” e sulla proposta di una commissione parlamentare di inchiesta sui diritti sociali in Italia, ci pare fuorviante.
Le istituzioni della Repubblica sono le stesse che hanno accompagnato e gestito negli ultimi trent'anni l'offensiva contro i diritti del lavoro e le protezioni sociali e ambientali. Lo stesso disegno autonomista si è sviluppato nel varco che queste istituzioni hanno aperto. L'identificazione nelle istituzioni di questa Repubblica collocherebbe il fronte del No nella immagine pubblica sul terreno della conservazione, regalando al populismo reazionario la bandiera del cambiamento e della svolta. La richiesta di una commissione parlamentare d'inchiesta rivolta oltretutto a un parlamento a composizione reazionaria è un ulteriore messaggio di impotenza privo di qualsiasi efficacia pratica.

L'impostazione crediamo vada esattamente rovesciata. È il movimento operaio che in piena autonomia dal governo e dalle istituzioni dello Stato ha il compito di sviluppare la propria inchiesta e mobilitazione. Tre sono le necessità che si tengono insieme, dentro la proposta di una iniziativa di classe indipendente:

1) La CGIL e tutti i sindacati di classe debbono intraprendere su scala nazionale la ricognizione/inventario dei bisogni sociali insoddisfatti dei lavoratori e della popolazione povera di ogni territorio, al Nord, nel Sud, nelle isole: in fatto di servizi sociali, sistema dei trasporti, assetto idrogeologico, bonifiche ambientali. Un inventario che può e deve passare attraverso la promozione di un'azione attiva (assemblee nei luoghi di lavoro, rapporto con le organizzazioni e i comitati ambientalisti, assemblee popolari).

2) Sulla base di questa ricognizione indipendente delle urgenze sociali va definito un grande piano di nuovo lavoro e investimenti pubblici su scala nazionale, con la quantificazione delle risorse necessarie e della nuova occupazione richiesta: un piano unicamente dettato dalle urgenze sociali, e dunque estraneo ad ogni logica di cosiddetta “compatibilità”. Un piano combinato con la ripartizione del lavoro tra tutti, occupati e disoccupati, attraverso la riduzione progressiva dell'orario di lavoro a parità di paga (scala mobile delle ore di lavoro).

3) Il piano deve indicare le fonti del proprio finanziamento: cancellazione dei trasferimenti pubblici a imprese e banche private, tassazione progressiva dei grandi patrimoni, tassazione progressiva di rendite e profitti, abolizione del debito pubblico verso le banche e loro conseguente nazionalizzazione.

Questo piano mira a ricomporre il fronte sociale che governo e Lega vogliono dividere (lavoratori e lavoratrici del Nord e del Sud, pubblici e privati, precari e indeterminati, italiani e immigrati) e a raccogliere attorno ai lavoratori, su scala nazionale, l'insieme della popolazione povera. Attorno a questo piano va aperta una grande vertenza nazionale e una mobilitazione radicale a suo sostegno, in aperta contrapposizione al progetto del governo. Al tempo stesso una lotta reale per tale piano pone inevitabilmente il tema della prospettiva, il tema della soluzione politica necessaria perché esso possa essere davvero realizzato. Per noi questa soluzione è un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, fondato sulla autorganizzazione democratica e di massa dei lavoratori stessi. L'unico governo che può realizzare queste misure di svolta, e ridisegnare l'ossatura stessa dello Stato in base agli interessi degli sfruttati.

Nel più vasto fronte unico di lotta contro il disegno del governo il PCL porterà questo indirizzo generale di proposta.




Note:

(1) Per questo e i successivi riferimenti legislativi e citazioni: Ecco l’accordo: su scuola e sanità l’Italia è divisa in 2, Lorenzo Giarelli, Il Fatto Quotidiano, 12 Febbraio 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

La squallida campagna sulla Sea Watch

Sulla vicenda di 42 migranti sequestrati in mare per quindici giorni dal ministro degli Interni che ne vieta lo sbarco si sta consumando una squallida campagna di opinione.
Il ministro Matteo Salvini grida alla violazione della Legge e del Diritto e invoca l'arresto per l'equipaggio della Sea Watch. Il liberale Corriere della Sera, che pur non è di impostazione governativa, preferisce associarsi alla denuncia di una «manifesta illegalità». Persino il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, a lungo venerato dalla sinistra riformista, ha riscoperto per l'occasione la propria vocazione giustizialista e manettara, elencando le violazioni di legge da parte della nave, e fornendo al ministro degli Interni un'insospettabile copertura. Per questo campionario di borghesi reazionari o “democratici” la legge diventa il totem cui subordinare ogni principio di giustizia e umanità.

Una vergogna, se solo si parte da dati di fatto incontestabili. I 42 migranti salvati dalla Sea Watch sono fuggiti dalla tortura delle galere libiche, le stesse galere di fatto finanziate dai governi italiani, prima da Minniti poi da Salvini. Nessuno può smentire questa verità. Il governo al-Sarraj, protetto dall'Italia, amministra una parte dei centri di detenzione libici, le milizie private ne gestiscono un'altra parte. La Guardia Costiera libica è legata alle milizie e cogestisce i suoi affari. Le milizie si fanno pagare dalle famiglie dei migranti esibendo i segni delle torture loro inflitte come arma di ricatto. Dopo il pagamento, i migranti partono e la guardia costiera, in cambio di mazzette, punta a riprenderli e a riportarli in galera, dove ricomincia il giro infernale. Altro giro, altre torture, altri soldi. Per tre, quattro, cinque volte. Alcuni migranti della Sea Watch erano partiti più e più volte ripresi dalle stesse canaglie. I “trafficanti di esseri umani” che Salvini denuncia sono gli stessi che lui finanzia ed equipaggia, con tanto di motovedette.

“La Sea Watch ha violato la legge!”. Vero. Ha violato un Decreto sicurezza bis che punta a intimidire e proibire ogni salvataggio in mare che sia sottratto alla Guardia Costiera Libica. Un Decreto sicurezza bis che assegna di fatto al governo libico e ai trafficanti con cui collabora il potere della vita e della morte su decine di migliaia di migranti. Basta che non arrivino sulle nostre coste e Salvini possa lucrare sulla “fine dei flussi”. Ma la riduzione degli arrivi è solo l'altra faccia dell'aumento dei torturati. E dalla tortura si cerca sempre di fuggire, come a volte riescono a fare quelli che scampano alla guardia costiera e ai suoi ripescaggi. La Sea Watch ha semplicemente salvato alcuni di questi. Ha potuto farlo solo addentrandosi nella zona di spettanza libica e solo violando la legge Salvini. Per questo la capitana e il suo equipaggio vanno difesi dalle grinfie del ministro dell'Interno, dei suoi prefetti, di eventuali magistrati compiacenti. E i migranti della nave vanno sbarcati e assistiti, tutti e subito.

Ma in questa vicenda c'è anche altro. L'Unione Europea ha dimostrato una volta di più il proprio volto. Ogni governo gioca a scaricare sui propri alleati il fardello degli immigrati per non perdere consenso interno, restare in sella e poter continuare a rapinare i propri salariati. Lo spettro degli immigrati è infatti agitato non solo dalla canea reazionaria di Salvini e dei suoi amici di cordata, ma anche dai campioni liberali ed europeisti, Macron in testa. Gli accordi di Dublino da tutti firmati, Italia inclusa, non è scandaloso solo perché “grava l'Italia dell'onere dell'accoglienza”, ma perché nega diritti e libertà di migrare in Europa a chi fugge da guerre, fame, torture. Peraltro la stessa Unione Europea che rifiuta la ripartizione dei rifugiati e canali umanitari legali per l'immigrazione, copre il governo italiano e la sua Legge: la sentenza della Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo che ha respinto il ricorso della Sea Watch ha solo onorato il principio di complicità con Salvini, in una logica di collaborazione tra briganti. I...“diritti dell'Uomo” se ne faranno una ragione.

La vicenda della Sea Watch è solo la punta dell'iceberg.
Sono il capitalismo e l'imperialismo i veri responsabili delle migrazioni. Sono le politiche di guerra delle “democrazie”. Le desertificazioni prodotte da saccheggi ambientali e cambi climatici. La rapina – quella sì assolutamente “legale” – che Stati Uniti, Cina, Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna, Russia stanno promuovendo in tutto il continente africano, sgomitando tra loro, per procurarsi litio e cobalto, le materie prime indispensabili per le batterie elettriche e le tecnologie informatiche, il nuovo affare del secolo. Molti milioni di africani stanno migrando all'interno dell'Africa stessa, di paese in paese, costretti dalla privazione delle terre e dalla fame. Chi arriva nelle galere libiche, e spera di arrivare in Europa, è solo una goccia nel mare di questa enorme migrazione.

Per questo la risposta alla tragedia dell'immigrazione non può fermarsi alla rivendicazione dell'accoglienza. Accoglienza e apertura dei porti dev'essere sostenuta senza riserve e ambiguità, a maggior ragione senza ammiccamenti obliqui e mascherati al sovranismo reazionario. Ma la battaglia democratica va ricondotta ad una prospettiva anticapitalista e antimperialista, una prospettiva di liberazione senza frontiere, l'unica che possa recidere il male alla radice.

Partito Comunista dei Lavoratori

La verità che emerge all'Ilva

La nazionalizzazione dell'azienda è l'unica soluzione per il lavoro e per la salute

27 Giugno 2019
Né chiusura dell'Ilva né immunità giudiziaria per i padroni: non si può chiedere agli operai di scegliere tra morire di fame o morire di cancro. Basta coi ricatti padronali su lavoro e salute!

 Come volevasi dimostrare. Emerge in queste ore in tutta la sua portata il risvolto della vendita dell'Ilva alla ArcelorMittal. Di Maio lo aveva presentato come accordo storico dovuto al suo genio. CGIL, CISL, UIL, USB lo avevano benedetto agli occhi dei lavoratori come accordo migliorativo e di svolta rispetto al precedente piano Calenda. I partiti della sinistra, da Sinistra Italiana a Potere al Popolo, passando per il PRC, hanno coperto su tutta la linea Maurizio Landini. Ora la verità viene a galla, come il PCL aveva denunciato e previsto, sia sul versante del lavoro che della salute: 1400 lavoratori in cassa integrazione a zero ore, minaccia di chiusura dello stabilimento tarantino il 6 settembre se l'azienda non avrà immunità penale sul fronte ambientale.
Intendiamoci. L'accordo tra azienda, governo e sindacati era già in origine un accordo a perdere: 3000 operai di fatto espulsi dall'azienda, taglio dei salari dei lavoratori rimasti attraverso il meccanismo delle riassunzioni, cacciata dalla fabbrica di molti lavoratori sindacalmente combattivi con un criterio di epurazione, dilazione dei tempi dell'"ambientalizzazione" dell'azienda, peraltro rimasta ancora al palo. Erano le condizioni poste dai capitalisti di ArcelorMittal per comprare Ilva, condizioni generosamente concesse. Occorreva davvero una faccia di bronzo per presentare questa soluzione come svolta. Al punto che persino l'ex ministro Calenda si congratulava con Di Maio per l'attuazione... del piano Calenda.

Ora semplicemente l'azienda ha gettato la maschera. Una volta comprata la fabbrica, e rimosso il pericolo di un concorrente, i capitalisti indiani procedono, come nel resto d'Europa, al taglio della produzione. Il mercato mondiale dell'acciaio è saturo da diversi anni, anche per via dell'espansione cinese. Tutti i capitalisti del settore, gli uni contro gli altri armati, si disputano il mercato tagliando i costi: i costi del lavoro (salari e occupazione) e i costi ambientali (salute degli operai e delle loro famiglie). Arcelor pratica in Italia ciò che pratica nel resto del mondo. L'eterna favola di un capitalista buono, salvatore degli operai, cui mostrare riconoscenza, trova l'ennesima clamorosa smentita.

I fatti dimostrano una volta di più che c'è una sola soluzione per la questione Ilva che possa rispondere agli interessi del lavoro e della salute: la nazionalizzazione dell'azienda, senza indennizzo per ArcelorMittal, e sotto il controllo dei lavoratori, nel quadro della nazionalizzazione di tutta la siderurgia. L'unica soluzione che può garantire ad un tempo la ripartizione del lavoro a parità di paga attraverso la riduzione generale dell'orario, e un investimento pubblico immediato e adeguato per la riorganizzazione della produzione a fini ambientali e per la bonifica vera dei territori.

Né chiusura dell'Ilva né immunità giudiziaria per i padroni: non si può chiedere agli operai di scegliere tra morire di fame o morire di cancro. Basta coi ricatti padronali su lavoro e salute! Solo l'esproprio della fabbrica sotto controllo operaio può garantire i lavoratori.

Ilva, Whirlpool, Pernigotti, Alitalia... è ora di unificare in una lotta sola le centinaia di vertenze aperte per la difesa del lavoro, attorno all'obiettivo della nazionalizzazione senza alcun indennizzo per i grandi azionisti di tutte le aziende che licenziano, o inquinano, o calpestano i diritti sindacali.

Nessuna fiducia nel governo e nei padroni! Solo la forza degli operai può imporre una svolta vera.
Partito Comunista dei Lavoratori

Whirlpool: Di Maio e azienda ingannano nuovamente i lavoratori

Incontro ieri, 25 giugno, tra Whirlpool e governo, Di Maio in persona. “Nessuna chiusura, nessun disimpegno, piena occupazione dei lavoratori coinvolti” assicura il ministro. “Non chiuderemo Napoli. Il ministro ha dato grandissima apertura per valutare tutte le possibilità” dichiara soddisfatta l'azienda. L'inganno sta nell'espressione “nessuna chiusura”. L'azienda infatti non ha mai parlato di chiudere lo stabilimento, ma di venderlo. Continuare ad assicurare di non voler chiudere serve a confermare, tra le righe, che si vuole vendere. Questo è il sottotesto vero delle rassicurazioni pubbliche. E una vendita, come dimostra l'esperienza, lascia sempre sul campo una moria di posti di lavoro.

Dire da parte dell'azienda che “il governo ha dato massima apertura per valutare tutte le possibilità” significa dire in linguaggio cifrato che il governo continua a interessarsi del possibile acquirente dell'azienda. Ciò che Di Maio ha fatto – come nessuno ha smentito – dal 13 aprile scorso, tenendo all'oscuro i lavoratori. Non solo. La “massima apertura” del governo ha trovato concretizzazione nel piano di agevolazioni e defiscalizzazioni che Di Maio ha annunciato a vantaggio di Whirlpool. Si chiama in gergo “fiscalità di vantaggio”: regalie direttamente concesse a singole aziende, messe sul conto dell'erario pubblico (cioè di tutti i lavoratori). Altro che “ritireremo i fondi pubblici assegnati all'azienda”, come Di Maio aveva detto dieci giorni fa a uso delle telecamere. Il governo sborsa altri soldi a favore degli azionisti, i quali ne ricaveranno doppio vantaggio. Un vantaggio economico immediato e diretto, ma anche un vantaggio come venditori dello stabilimento: uno stabilimento è più appetibile per un nuovo acquirente se sgravato di tasse.

Intanto l'azienda ha sciorinato un piano industriale che guarda caso sconta la riduzione della produzione nello stabilimento campano già in atto nel 2018 e nel 2019. Lo stabilimento di Napoli ha chiuso il 2018 con la riduzione dei volumi del 62%. La proiezione sul 2019 prevede una riduzione ulteriore e pesante (255.000 lavatrici invece che le 368.000 previste). E questa sarebbe l'azienda che assicura il futuro dei lavoratori? La verità è che il ballo continua, con soldi pubblici e profitti privati, sulla pelle dei lavoratori.

L'unica soluzione vera passa per l'esproprio dell'azienda, senza un centesimo di indennizzo, sotto il controllo degli operai. Battersi per questa soluzione, promuovere una mobilitazione compatta che la sorregga, dovrebbe essere il compito di un sindacato che si rispetti. Il PCL continuerà a sostenere questa proposta tra i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica.
Partito Comunista dei Lavoratori

Gaël libero

La lotta dei postini francesi non arretra e non si ferma -  Gaël Quirante è uscito dal commissariato alle 13:45 di lunedì 17, libero, dopo un fermo prolungato di oltre 24 ore legato all'accusa di aver danneggiato dei beni di proprietà delle Poste. Durante la notte di venerdì 15 giugno, i postini in sciopero, il comitato che li sostiene e alcuni giornalisti si erano recati nei locali della sede nazionale delle Poste per reclamare l'apertura delle trattative e la discussione di un protocollo di fine conflitto, cosa che le Poste stanno da sempre rifiutando. È stato quindi dimostrato che il complesso dei danni segnalati si era verificato proprio ad opera delle stesse forze dell'ordine, che si erano recate sul posto per cacciare i lavoratori e i solidali. 
Gaël è quindi libero e senza accuse a carico.
I tentativi intimidatori e repressivi di fermare uno sciopero che dura da quasi 15 mesi, contro le riorganizzazioni, l'aumento dei carichi di lavoro, contro le privatizzazioni e le esternalizzazioni, per la stabilizzazione dei precari e per un servizio postale pubblico e umano, non funzionano.
Le Poste francesi devono rispondere alla richiesta di trattative da parte dei postini e delle postine di SUD-PTT 92!
Partito Comunista dei Lavoratori

La vicenda Whirlpool ad un passaggio decisivo

La lotta di resistenza dei lavoratori e delle lavoratrici Whirlpool merita il più ampio sostegno e solidarietà. La lotta è splendida, con un ruolo molto attivo delle operaie. Come in tante pagine di storia, affiorano in questa lotta prolungata risorse insospettabili che spesso sorprendono gli stessi protagonisti. Al tempo stesso proprio la durezza dello scontro pone l'esigenza di una riflessione su sbocchi e prospettive della lotta in corso, e sul ruolo di tutti i soggetti protagonisti.


IL PROGETTO DI CESSIONE DELLO STABILIMENTO DI NAPOLI 

La vicenda Whirlpool è legata alla crisi di sovrapproduzione che investe il settore degli elettrodomestici. L'azienda vuole scaricare sugli operai gli oneri di questa crisi. Un anno fa lo fece con l'azienda Embraco, oggi riprova con lo stabilimento di Napoli. Le rassicurazioni della Whirlpool sul fatto che “non vuole chiudere” lo stabilimento di Napoli sono state presentate da Di Maio e in parte degli stessi sindacati come un passo avanti positivo. In realtà sono solo rassicurazioni patacca. La Whirlpool non aveva mai parlato neanche in precedenza di “chiusura” dello stabilimento, ma della sua cessione a un nuovo acquirente. Questo intento non viene affatto revocato, ma semmai confermato. Cosa significhi per gli operai una cessione dello stabilimento non è difficile immaginarlo. Come in ogni passaggio di proprietà, significa una riduzione pesante dei posti di lavoro e il peggioramento delle condizioni di chi al lavoro resta. Non vi è eccezione al riguardo, dall'Alitalia alla vicenda Ilva. Ogni volta un macello per i salariati.


LUIGI DI MAIO, MENTITORE SERIALE 

Ora il punto è che la cessione dello stabilimento napoletano di Whirlpool non è affatto un'ipotesi eventuale, ma un negoziato già aperto, nel silenzio cinico e complice di Luigi Di Maio e del governo.

La verità è ormai emersa. Il 13 aprile scorso la Whirlpool informava il ministero del lavoro, dunque Di Maio, sul fatto che intendeva cedere lo stabilimento. Il ministro non ha informato né i lavoratori, né – pare – i sindacati, perché non voleva turbative in campagna elettorale, in particolare nel suo feudo campano. In compenso lo stesso ministro già in aprile ha attivato Invitalia, l'azienda pubblica interessata ai passaggi di proprietà, perché cercasse un acquirente possibile dello stabilimento Whirlpool, nell'interesse di Whirlpool. E l'acquirente eventuale è stato trovato: la cordata di Italcementi, guidata dall'amministratore delegato Giovanni Battista Ferrario. La notizia, non smentita, è stata fornita da un informatissimo Corriere della Sera (13/6). Ed è una notizia clamorosa. Sta a significare che lo sdegno esibito da Di Maio, a urne chiuse, contro la minaccia della Whirlpool è stata solo una recita ipocrita. Il ministro non solo ha nascosto per mesi agli operai e (forse) ai sindacati le intenzioni dell'azienda, ma ha lavorato in silenzio con Whirlpool per la cessione dello stabilimento. La minaccia della revoca di pochi milioni di fondi pubblici, a uso di telecamere, non deve ingannare. Whirlpool è un'azienda con quasi cinque miliardi di fatturato, e si era impegnata nell'ottobre scorso a investire 250 milioni nella produzione. I pochi milioni di fondi revocati sono dunque irrilevanti, e sono messi preventivamente sul conto dell'operazione da parte dell'azienda.


NAZIONALIZZAZIONE, UNICA SOLUZIONE 

Il vero problema ora è quale risposta dei lavoratori. Tra gli operai e le operaie della fabbrica c'è grande combattività e una generosità straordinaria, unite ad alcune illusioni. Le illusioni in Di Maio da parte di un vasto settore degli operai Whirlpool è reale ed anche comprensibile. Si crede spesso in ciò che si spera, tanto più in un contesto drammatico. Ma la speranza nel Ministro del lavoro è mal riposta. Ne sanno qualcosa gli operai dell'Ilva, cui Di Maio aveva venduto tra gli applausi un accordo “storico” rivelatosi, come avevamo previsto, una clamorosa truffa.
Ora questa truffa non deve ripetersi alla Whirlpool. C'è un solo modo per evitarla: rifiutare di negoziare sul terreno posto dal padrone, con la complicità del governo. Perché ogni negoziato su quel piano inclinato porta alla divisione dei lavoratori e alla loro sconfitta.

Lo stabilimento Whirlpool di Napoli non va né chiuso né ceduto. La sovrapproduzione non va scaricata sugli operai. C'è meno lavoro perché i mercati sono saturi? Vorrà dire che il lavoro che c'è va ripartito tra tutti i lavoratori attraverso una riduzione dell'orario a parità di paga. La Whirlpool dichiara che questa soluzione è inaccettabile perché lede i profitti e non tiene conto del mercato? Vorrà dire che l'azienda va nazionalizzata sotto il controllo dei lavoratori. Se la proprietà dei padroni nega le esigenze degli operai, non si mettono in discussione gli operai ma la proprietà. E la nazionalizzazione va rivendicata senza indennizzo per i grandi azionisti. La Whirlpool l'indennizzo se l'è già preso con anni di sfruttamento e di regalie pubbliche. Il suo esproprio è solo la restituzione del maltolto. Altro che l'innocuo buffetto della revoca di pochi milioni a una azienda che fa miliardi!

C'è un solo modo, a sua volta, per aprire questa prospettiva: occupare lo stabilimento da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. È l'unica via per capovolgere i rapporti di forza, e solo la forza può strappare risultati. Non solo: l'occupazione degli stabilimenti Whirlpool diventerebbe un riferimento esemplare per i lavoratori e le lavoratrici di centinaia di aziende in lotta a difesa del lavoro. È esattamente ciò che temono padroni e governo. Anzi, è l'unica cosa che realmente temono.

Durante la manifestazione di Napoli, in occasione dello sciopero generale dei metalmeccanici, si sono levati dallo spezzone compatto dei lavoratori Whirlpool slogan, canti, parole d'ordine tra loro molto diverse. Tra questi a un certo punto il grido ritmato di “potere operaio”. È significativo che in una lotta dura riemergano, controcorrente, parole d'ordine antiche. Non riflettono (purtroppo) una coscienza politica corrispondente, ma confermano che in ogni sciopero vero c'è una fiammella di rivoluzione, come diceva Lenin. Alimentare questa fiammella, portarla alla soglia della coscienza, è il compito dell'avanguardia.

Questo è l'intervento che il Partito Comunista dei Lavoratori ha portato e porterà tra i lavoratori e le lavoratrici della Whirlpool, nel quadro di una prospettiva anticapitalista.
Partito Comunista dei Lavoratori

No alla repressione del governo Macron!

Libertà immediata per Gaël Quirante! -16 Giugno 2019

I compagni e le compagne che seguono regolarmente il nostro sito conoscono il nome e il ruolo del nostro compagno francese Gaël Quirante. Membro del Comitato Esecutivo del Nouveau Parti Anticapitaliste (Nuovo Partito Anticapitalista, NPA), principale esponente della sua corrente di sinistra (Anticapitalisme & Révolution) e della tendenza internazionale di opposizione della Quarta Internazionale (ex Segretariato Unificato), Gaël è il segretario del sindacato postini del Dipartimento 92 (zona di Nanterre, periferia occidentale di Parigi), appartenente all'importante sindacato generale di base SUD. Licenziato alcuni anni fa per rappresaglia delle importanti e radicali lotta da lui dirette, Gaël ha vinto il ricorso legale contro il licenziamento nei tre livelli di giudizio della magistratura del lavoro. Poiché, però, l'ultima parola su questo terreno spetta, nella antidemocratica e repressiva legislazione francese, al ministro del lavoro, essa, in contrasto con la stessa commissione di inchiesta del proprio ministero, ha confermato il licenziamento. Da quel momento, cioè dal 26 marzo del 2018, i circa 150 postini del settore di Gaël sono entrati in sciopero permanente a tempo indeterminato È quindi più di un anno che questi lavoratori e lavoratrici sono in lotta a costo di grandi sacrifici sostenuti con l'ausilio di una cassa di resistenza, che ha visto svilupparsi il sostegno dell'avanguardia di classe e che ha permesso di garantire un modesto "reddito di sciopero" uguale per tutti.
Oggi, dopo più di un anno di eroica lotta e proprio quando sembravano aprirsi le possibilità che le Poste nazionali e il governo cedessero, la polizia ha proceduto al fermo di Gaël Quirante, non si sa bene in base a quali accuse precise, ma per il suo ruolo nello sciopero e nelle manifestazioni che lo hanno accompagnato.
In Francia la mobilitazione per la liberazione di Gaël è gia iniziata. Teniamoci pronti a dare tutto il nostro possibile sostegno.



In questa pagina è possibile partecipare alla cassa di resistenza

Alleghiamo qui sotto i comunicati del sindacato SUD-PTT e del NPA


Comunicato del NPA

Il nostro compagno Gaël Quirante arrestato questa mattina. Esigiamo la sua liberazione immediata

Oggi, all'alba, il nostro compagno Gaël Quirante, membro del comitato esecutivo dell'NPA, è stato arrestato e posto in stato di fermo. Dalle informazioni che abbiamo, questo arresto sarebbe legato alle «sue attività» di animatore di uno sciopero che dura da più di 14 mesi alle poste del dipartimento di Hauts-de- Seine. Ancora una volta, la polizia per conto delle Poste reprime i lavoratori in sciopero. Ancora una volta, la polizia mostra il suo vero volto: quello di braccio armato al servizio del capitale.

L'NPA esige la liberazione immediata del nostro compagno. Se la direzione delle Poste crede di poter evitare le trattative e di piegare gli scioperanti e i loro sostenitori, ricorrendo alla più brutale repressione, sbaglia completamente.

Un presidio di solidarietà è previsto questa domenica alle 12 davanti alla Sureté territoriale, 3-5 rue Riquet, Paris 19 (metro Riquet).

Montreuil, domenica 16 giugno 2019




Comunicato di SUD-PTT

Abbiamo appena saputo che il nostro compagno Gaël Quirante è in stato di fermo, al commissariato del 19e arrondissement di Parigi. Stando alle informazioni che siamo riusciti a raccogliere, il suo arresto sarebbe legato alle sue "attività". Nel linguaggio della polizia, questo significa che Gaël è stato fermato a causa del suo impegno militante. Questo arresto si verifica in un contesto in cui le Poste si rifiutano di impegnarsi ad evitare procedure disciplinari contro i lavoratori in sciopero del 92esimo dipartimento. Un rifiuto ancora più incomprensibile dato che manca poco per arrivare alla firma di protocollo di conclusione dello stato di agitazione.
La sola soluzione per uscire dal conflitto passa per un cambiamento di atteggiamento da parte della direzione delle Poste, che deve riaprire le trattative.

Noi chiediamo la liberazione immediata di Gaël e la cessazione di tutti i procedimenti giudiziari contro i militanti di Sud Poste 92.

SUD-PTT invita al presidio a partire dalle 12 al 3-5 di rue Riquet (Paris 19e metro Riquet).

Parigi, 16 giugno 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Licenziare i padroni Whirlpool!

Occupare la fabbrica, per la sua nazionalizzazione a garanzia del lavoro - 

Lavoratori, lavoratrici, 

il Partito Comunista dei Lavoratori sostiene apertamente la vostra lotta, e sosterrà tutte le azioni di lotta che vorrete intraprendere contro i padroni della Whirlpool.

La Whirlpool si comporta come centinaia di aziende. Prima intasca 27 milioni di risorse pubbliche, pagate dai lavoratori, poi straccia gli accordi pattuiti e mette sulla strada 400 famiglie. La vendita e riconversione dell'azienda è il massacro dei posti di lavoro. Vogliono rifare l'operazione fatta a Carinaro (Caserta) nel 2015. Prima annunciarono la chiusura per creare il panico, poi negoziarono la “riconversione” dell'azienda in piattaforma logistica. Risultato: da 900 operai a 200, di cui 100 in contratti di solidarietà. Una decimazione.

A Napoli non può e non deve finire così. Il piano del padrone non va “negoziato”, ma respinto. Di Maio è venuto a farsi bello per recuperare voti minacciando di ritirare i fondi concessi all'azienda. Ma Di Maio aveva annunciato che avrebbe impedito le delocalizzazioni. E invece continuano come prima in tutta Italia, gli accordi sindacali vengono stracciati (Ilva, Mercatone Uno, Knorr, Almaviva...), i padroni fanno ciò che vogliono, e il governo regala loro un altro taglio alle tasse sui profitti. Dov'è il “governo del cambiamento”? La stessa minaccia di ritirare i fondi a Whirlpool può rivelarsi un'arma spuntata se l'azienda pensa di guadagnare di più con la chiusura.

Noi pensiamo che la risposta migliore, in ogni caso, sia l'occupazione dell'azienda da parte degli operai, e la richiesta della sua nazionalizzazione senza indennizzo per i grandi azionisti, e sotto il controllo dei lavoratori. Se i padroni vogliono disfarsi degli operai, gli operai possono disfarsi dei loro padroni. Non sta scritto da nessuna parte che è impossibile. Tutto dipende dai rapporti di forza, cioè dalla forza degli operai. Solo la forza degli operai può far paura all'azienda e strappare risultati.

L'unità fa la forza. Invece che inseguire un negoziato a perdere in ordine sparso con governo e padroni, i sindacati dovrebbero unire le centinaia di vertenze a difesa del lavoro che attraversano l'Italia, per trasformarle in un’unica grande vertenza: per ripartire fra tutti il lavoro che c'è attraverso la riduzione generale dell'orario, a parità di paga. Una vertenza sostenuta dall'occupazione di tutte le aziende che licenziano, e dalla rivendicazione del loro esproprio. Solo così si può rovesciare l'arma padronale del ricatto, della divisione e frammentazione degli operai. Solo così si può ricostruire tra gli operai la fiducia nella propria forza.

Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà in ogni caso al vostro fianco, fino in fondo, a sostegno di tutte le forme di lotta che sceglierete.
Il posto di lavoro non si tocca!
Partito Comunista dei Lavoratori

Sconfiggere padronato e governo reazionario è una necessità della classe lavoratrice

14 giugno sciopero dei metalmeccanici Lo sciopero dei metalmeccanici del 14 giugno indetto da FIM, FIOM, e UILM è sicuramente un fatto importante. Lo è nel quadro segnato da un arretramento e frammentazione generale di tutta la classe lavoratrice, che in questi anni non è riuscita a resistere di fronte ad attacchi pesanti da parte di tutti i governi che si sono alternati, compreso l’attuale governo reazionario a trazione Lega-Movimento 5 Stelle, che si è presentato come governo del cambiamento ma ha continuato a fare gli interessi del capitale, riducendo le tasse alle imprese, e a ingannare i lavoratori attraverso la truffa del reddito di cittadinanza e della "quota 100", e da parte di un padronato sempre più agguerrito contro chi lavora. 

Ma l’arretramento e la sconfitta dei lavoratori hanno una responsabilità ben precisa, la responsabilità dei sindacati confederali – in primis della CGIL – di non avere voluto affrontare il toro per le corna, di non avere voluto seriamente organizzare il fronte di chi lavora contro il fronte di chi distrugge il lavoro, i diritti e le conquiste storiche del movimento operaio.

La stessa impostazione di questo sciopero e la piattaforma che lo sostiene sono segnati dalla linea di questi ultimi anni, e ripropongono l’impianto dell’ultimo contratto dei metalmeccanici, il peggiore contratto mai firmato, che ha determinato un forte arretramento nelle rivendicazioni salariali e che lascia per strada conquiste storiche del movimento operaio, per i metalmeccanici e di conseguenza per tutta la classe lavoratrice. Questo è stato il lascito di Landini, che poco prima di abbandonare la FIOM, in virtù della scalata a segretario generale della CGIL, ha concluso la tornata contrattuale in piena unità con FIM e UILM. In continuità, la piattaforma di oggi è centrata su una chiave di convergenza tra gli interessi dei lavoratori e del padronato: aumenti salariali tramite defiscalizzazione (a spese di tutti e non sottraendoli al padronato), difesa dell’occupazione e risposta alla crisi capitalistica attraverso investimenti pubblici (soldi dei lavoratori) e privati, nel quadro di una logica sciagurata di aiuto alle imprese. Tutto questo contro l’autonomia di classe dei lavoratori.

Bisogna ricordare che le sconfitte subite alla FIAT (ora in cassa integrazione) e alla Fincantieri sono causate dal fatto che i lavoratori sono stati lasciati soli, stabilimento per stabilimento, cantiere per cantiere, a subire l’aggressione padronale, a causa della mancata volontà di trasformare queste lotte in lotte di resistenza generale.

Pure l’accordo Ilva, firmato e magnificato da FIOM, FIM, UILM, USB compresa, segna un altro disastro: dopo aver di fatto espulso dalla fabbrica più di tremila lavoratori, dopo aver tagliato i salari anche attraverso la nuova assunzione di tutta la forza lavoro rimasta, dopo aver ottenuto i soliti tempi per adeguamenti ambientali e messa in sicurezza dello stabilimento (che infatti sostanzialmente non è ancora partita), oggi ancora 1.400 lavoratori finiscono in cassa integrazione a zero ore.

Anche la vicenda Whirlpool è una vera tragedia. L’azienda, dopo avere intascato 27 milioni di risorse pubbliche, straccia gli accordi pattuiti e mette sulla strada 400 famiglie. La vendita e riconversione dell'azienda è il massacro dei posti di lavoro, con totale assenza di una strategia efficace di lotta.

Di fronte a questo tragico scenario, il nuovo mantra di Landini è l’unità sindacale. Ma di quale unità hanno bisogno i lavoratori? Noi pensiamo che l’unità delle burocrazie senza la messa in campo di un programma di lotta reale sia una unità a danno della classe lavoratrice.

Contro una lunga crisi che non è ancora finita e di cui non si vedono gli sbocchi, necessita quindi ricostruire una opposizione di massa dal versante dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, con la costruzione di una mobilitazione generale che unifichi tutte le lotte in corso a partire da Ilva, Whirlpool, Mercatone Uno, Unilever, Almaviva, e che porti ad uno sciopero generale a oltranza sostenuto su punti di programma:

– Nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori di tutte le aziende che delocalizzano, licenziano e che violano i diritti dei lavoratori e le norme sulla sicurezza

– Unificazione di tutte le lotte e costituzione di una cassa di resistenza nazionale per sostenerle

– Cancellazione del Jobs act e di tutte le leggi di precarietà, ritorno dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sua estensione a tutti i lavoratori e lavoratrici

– Redistribuzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore per tutti, pagate 40, con l'introduzione di un salario minimo intercategoriale di 1500 euro

– Parità di diritti tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati

– Un vero salario sociale ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, pagato dalla cancellazione dei trasferimenti pubblici alle imprese private

– Abolizione della legge Fornero. In pensione a 60 anni o con 35 anni di lavoro, pagata dalla tassazione progressiva dei grandi patrimoni, profitti, rendite



Su tali parole d'ordine bisogna organizzare il protagonismo dei lavoratori facendo loro comprendere che queste rivendicazioni fondamentali, nel loro complesso, non sono però realizzabili all'interno del quadro del sistema capitalista.

È pertanto necessario battersi per la prospettiva di un altro modello di società, fondato su un'economia pianificata democraticamente dai lavoratori, per la prospettiva di un governo dei lavoratori sul piano nazionale e internazionale, basato sulla forza dei lavoratori e che risponda alle esigenze ed ai bisogni della classe lavoratrice, ossia dell'immensa maggioranza della popolazione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Per un movimento di liberazione LGBTQI+ e di liberazione sessuale

Anticlericale! Anticapitalista! Rivoluzionario! La retata nella notte del 28 giugno 1969 allo Stonewall Inn di New York diede inizio a una lunga lotta per i diritti delle persone LGBTQI+. Contro la repressione poliziesca migliaia di gay scatenarono una battaglia di strada, e sull’onda di quella rivolta le manifestazioni e le associazioni per la difesa dei diritti delle persone con diversi orientamenti sessuali da quelli imposti dall’eterosessualità obbligatoria della morale borghese, videro un salto di qualità e un'internazionalizzazione senza precedenti. 

Il modello capitalista e patriarcale è il principale nemico delle nostre sensibilità, affetti e vite amorose e sessuali. È il sistema economico e sociale diviso in classi e fondato sul profitto che, nella storia, ha imposto un modello di famiglia eterna monogamica eterosessuale e patriarcale. Questo tipo di famiglia e di relazioni derivano da esigenze economiche, dalla necessità di proteggere, accumulare e trasmettere la proprietà privata, per consentire quindi la riproduzione del capitalismo (famiglia come cellula dell'accumulazione capitalista).

Le classi dominanti (capitalisti, banchieri e Chiesa) ed i loro governi difendono questi modelli per difendere i loro interessi, che non sono i nostri! Con la loro ideologia e propaganda, e con le loro leggi, glorificano la famiglia tradizionale, sponsorizzano modelli, valori e relazioni reazionari e degenerati. Nulla a che vedere con esigenze naturali dell'uomo, ma anzi proprio contro la sua natura.

Noi rivendichiamo il superamento della famiglia eterosessuale, della famiglia monogamica e della famiglia patriarcale. Rivendichiamo il superamento dell'attuale morale reazionaria, per una nuova morale basata su valori collettivi e comunitari. Rivendichiamo che il solo legame che consacra l'unione è l'amore, attraverso il libero consenso. Rivendichiamo un “amore multiforme e multicorde”. Rivendichiamo un “eros alato”.
Il movimento LGBTQI+ ha davanti a sé una importante sfida: intrecciare, da un punto di vista di classe, le proprie istanze a quelle dell'antifascismo, del femminismo, del mondo del lavoro, degli studenti e dei migranti, contro un governo reazionario e contro la deriva xenofoba, misogina e omofoba oggi in atto in Italia.

- Piena parità, dignità e libertà, declinate in leggi e diritti come il matrimonio egualitario!

- Per il riconoscimento delle unioni civili e di fatto, nella sua interezza, della genitorialità tanto per i single quanto per le coppie omosessuali!

- Per il riconoscimento delle identità trans, della tutela della salute, e il contrasto alle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere!

- Contro il ruolo reazionario della Chiesa cattolica! Per l'abolizione del Concordato e di tutte le regalie che concediamo al Vaticano, a partire dalla truffa dell'8x1000 e dall'insegnamento religioso nella scuola pubblica!

- Per una prospettiva anticapitalista e socialista, in Italia e su scala mondiale!

Perché solo il socialismo (contro ogni esperienza controrivoluzionaria dello stalinismo passato, anche nel campo della famiglia, della libertà sessuale e di genere) potrà liberare l’umanità intera dal retaggio oscurantista e reazionario.

Unitevi a questa lotta, unitevi al PCL!
Partito Comunista dei Lavoratori

Il sovranismo di Salvini e quello dei capitalisti

Il sovranismo nazionalista è, come noto, un carburante ideologico del salvinismo, unito al richiamo all'ordine e alle tradizioni religiose. Ma il sovranismo di Salvini è solo una maschera della subordinazione al profitto, non meno di quanto lo sia l'europeismo di Zingaretti o Calenda. La prova sta nei fatti.

Caso FCA (Fiat), Renault, Nissan.
Nella lotta furiosa sul mercato mondiale dell'auto, i grandi azionisti FCA puntano al colpo grosso. La fusione con Renault (che di suo detiene il 43% di Nissan, ed è da questi partecipata) offre a FCA il mercato asiatico e apre a Renault il mercato americano. Nascerebbe il terzo costruttore di automobili al mondo. Inoltre la parità di quote al 50% con Renault prevede un nuovo dividendo agli azionisti Fiat di 2,5 miliardi, che si aggiunge agli oltre 5 miliardi di dividendo già distribuiti negli ultimi due mesi. Una cuccagna. Lo spiacevole dettaglio è la minaccia di un taglio ulteriore di posti di lavoro negli stabilimenti italiani –Mirafiori e Pomigliano in primis – per via delle sovrapposizioni con Renault. Cosa dichiara il sovranista nazionalista Salvini? Che la fusione tra FCA e Renault è benedetta, e se richiesta, «una presenza istituzionale italiana sarebbe assolutamente doverosa». Tradotto: se gli azionisti FCA lo chiedono, il governo italiano è disposto a sostenere l'affare coi francesi mettendoci soldi pubblici italiani. Soccorso pubblico al profitto privato pagato dal lavoro. Dove sono finite le battaglie patriottiche contro Parigi nel nome “prima gli italiani”? Nel nulla. Gli italiani che “vengono prima” sono gli azionisti della dinastia Agnelli.

Caso Unicredit/Commerzbank, la possibile fusione di due grandi banche europee.
Nella competizione mondiale continentale, i processi di concentrazione del capitale finanziario sono all'ordine del giorno. Il governo tedesco aveva puntato alla fusione tra Commerzbank e Deutschebank, le due principali banche nazionali, ma i sindacati tedeschi hanno contestato il taglio previsto di 30.000 dipendenti e l'affare è stato bloccato. Ora con Commerzbank ci prova Unicredit, assieme a Banca Intesa la principale banca italiana, grande acquirente di titoli di stato tricolori. L'affare è ghiotto: la fusione con la banca tedesca consentirebbe al nuovo colosso bancario, e dunque ai grandi azionisti Unicredit, di allargare enormemente la propria proiezione nell'Est europeo. Ma c'è un dettaglio: il baricentro della fusione sarebbe tedesco, i posti di lavoro a rischio italiani. Cosa dichiara il sovranista nazionalista Salvini? Che l'operazione è benedetta: “Ben vengano accordi finanziari che fanno bene all'Italia”. Ma l'Italia cui fanno bene è quella dei grandi banchieri. Del resto può la Lega di Salvini e Zaia mettersi di traverso agli interessi del capitale del Nord, così intrecciato col mercato tedesco?

Caso ENI, vicenda Descalzi, partita libica.
L'ENI è la più grande azienda italiana, la prima in assoluto nel continente africano, la più proiettata sul mercato mondiale. Il suo manager Claudio Descalzi è imputato di corruzione internazionale, per essersi procurato a suon di mazzette giacimenti petroliferi in Nigeria e altre utilità. Ed è solo la punta dell'iceberg del lavoro sporco condotto da tutte grandi aziende in terra d'Africa (e non solo), in funzione di quella politica di spoliazione e saccheggio che è tanta parte dei flussi migratori verso l'Europa. Eppure su ENI tutto tace, Descalzi è onorato in ogni salotto, l'intera politica borghese è chinata a suoi piedi. Quella liberal-progressista che tradizionalmente ha rappresentato l'azienda, ma anche quella italico-sovranista, da Salvini a Meloni ai Cinque Stelle. Quella che lucra politicamente sui barconi tace sul saccheggio che li sospinge. Anzi benedice l'azienda ENI come fiore all'occhiello degli interessi tricolori contro la Total e gli interessi francesi. Di più: gli stessi Salvini, Meloni, Di Maio che sbraitano contro l'islam a difesa della cristianità non si fanno scrupolo di sostenere in Libia le forze islamiche schierate con al-Sarraj perché così chiedono gli interessi dell'ENI in Tripolitania. Il profitto non ha credo religioso. Come non l'hanno peraltro in cuor loro i cinici parvenu che governano oggi l'Italia.
Colpisce che la sinistra italiana, ammorbata dall'europeismo borghese o dal sovranismo “di sinistra”, sia del tutto incapace anche solo di denunciare l'ipocrisia del nazionalismo salviniano lasciandogli campo libero tra i lavoratori. Per parte nostra la posizione è chiara: la risposta al sovranismo dei capitalisti è l'unità di lotta dei lavoratori necessaria a cacciarli. In ogni paese, su scala europea, su scala mondiale.
3 giugno 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Crollo del M5S e avanzata leghista

2 giugno 2019 - Analisi del voto - Le elezioni europee del 26 maggio riflettono in forma distorta la dinamica di classe sullo sfondo della grande crisi sociale. L'arretramento profondo del movimento operaio, dei suoi livelli di mobilitazione e di coscienza, e a maggior ragione la mancata risposta anticapitalistica alla crisi, hanno dirottato il malcontento di ampi strati sociali e le loro domande di cambiamento verso sbocchi reazionari o innocue illusioni. Lo scenario europeo e il contesto italiano sono entrambi paradigmatici. 

LA DINAMICA DEL VOTO EUROPEO 

Su scala continentale, con poche eccezioni, prosegue e si acuisce la crisi dei partiti tradizionali del Partito Popolare Europeo (PPE) e del Partito Socialista Europeo (PSE), entrambi gestori della lunga stagione dell'austerità e per questo identificati con l'establishment. Da un lato la crisi della CDU, del PP spagnolo, di Forza Italia; dall'altro il collasso di SPD, della socialdemocrazia francese, dello stesso laburismo inglese. Ma la crisi dei partiti tradizionali non viene capitalizzata a sinistra, ma da forze reazionarie o dai partiti verdi.

Le destre reazionarie e nazionaliste nel loro variegato spettro (conservatori, lepenisti, area Farage) non conoscono uno sviluppo omogeneo, e in alcuni paesi addirittura arretrano (Austria, Spagna); ma complessivamente si consolidano (Francia) e in altri casi sfondano (Gran Bretagna e Italia). Per non parlare dello straordinario successo del partito di Orban in Ungheria, che pur essendo parte ancora del PPE, va considerato a pieno titolo una componente di punta della reazione europea. Al di là delle diverse specificità nazionali, si raccoglie attorno a questi partiti un vasto blocco sociale a egemonia reazionaria che subordina a sé ampi settori della classe lavoratrice e della popolazione povera, urbana e rurale.

I partiti verdi conoscono un'avanzata generale, a scapito sia dei partiti borghesi tradizionali ma soprattutto della socialdemocrazia (SPD) e delle forze collocate alla sua sinistra. Essi capitalizzano in larga misura l'ondata della mobilitazione giovanile sui cambiamenti climatici (fenomeno Greta), che in assenza di un riferimento di classe si è raccolta attorno a un ambientalismo piccolo-borghese più o meno progressista, talvolta scopertamente liberista, in ogni caso estraneo alle preoccupazioni sociali del lavoro. Un voto principalmente cittadino, radicato tra gli studenti e nella classe media acculturata. L'aumento diffuso dell'affluenza al voto su scala continentale (non in Italia) è in parte un risvolto di questo fenomeno: enorme in Germania, rilevante in Francia, diffuso nel Nord Europa.

In questo quadro generale, le formazioni a sinistra della socialdemocrazia (con l'unica eccezione del Bloco de Esquerda portoghese) non solo non capitalizzano neppure in minima parte la crisi di PPE e PSE, ma conoscono un generale arretramento. A volte a vantaggio della socialdemocrazia stessa (Spagna), a volte dei Verdi (Germania), a volte in direzioni diverse e combinate (Francia).
Diversi fattori hanno concorso a questo esito.
In primo luogo la caduta della bandiera di Tsipras, che con la sua capitolazione alla Troika ha privato la sinistra europea di una ragione pubblica riconoscibile, a tutto vantaggio dei nazionalismi reazionari.
In secondo luogo, il fallimento clamoroso di tutte le operazioni populiste di sinistra: il disegno di Mélenchon di capitalizzare elettoralmente il movimento spurio dei gilet gialli sventolando la bandiera tricolore e sposando lo sciovinismo antitedesco si è risolto in un crollo; l'arretramento netto di Podemos in Spagna ha confermato la stessa legge. La narrazione populista concima per sua natura il terreno della destra, non della sinistra. Il sovranismo “di sinistra” è una contraddizione in termini che il voto semplicemente rivela.
Infine, la flessione della sinistra europea è un sottoprodotto del ripiegamento sociale. Syriza e Podemos erano stati in larga misura un sottoprodotto di movimenti sociali. Il tradimento delle loro ragioni (Grecia) e in ogni caso il riflusso sociale hanno prosciugato il bacino di queste formazioni.


IN ITALIA IL VOTO PEGGIORE

Il voto italiano è stato il voto peggiore in Europa.

Tutti gli elementi dello scenario europeo hanno trovato in Italia una espressione concentrata e radicale, a destra. Già le elezioni politiche del 4 marzo 2018 avevano sospinto una soluzione politica d'eccezione: l'Italia è l'unico paese imperialista d'Europa a essere retto da forze populiste reazionarie con base di massa. Ora il voto europeo del 26 maggio fotografa un ulteriore peggioramento del quadro: non solo il governo Conte conserva la propria base complessiva di consenso (oltre il 50% dei votanti), ma al suo interno si sviluppa la componente più reazionaria. Per di più in un quadro in cui l'unico contraltare alla reazione appare il PD liberal-borghese, con la sinistra politica ridotta a una larva.

È l'esito elettorale più a destra del dopoguerra italiano.


LA LEGA, PARTITO DELLA NAZIONE 

L'ascesa della Lega non ha eguali in Europa. Per la sua progressione straordinaria (dal 17% al 34% in un anno di governo, con l'aumento di oltre tre milioni di voti assoluti, a fronte del calo di affluenza di 7 milioni di elettori); per il suo sfondamento su scala nazionale (aumento ulteriore al Nord, allargamento al Centro, quadruplicazione delle percentuali di voto al Sud); per il suo radicamento nell'Italia profonda della provincia, delle cittadine, dei piccoli paesi, delle campagne. La Lega è oggi “il partito della nazione”. Il suo blocco sociale si è esteso: dietro l'egemonia della piccola-media impresa dei distretti, la Lega raccoglie un settore più ampio della classe operaia dell'industria e vaste fasce di popolazione povera del Meridione. È paradossale: nel momento stesso in cui il suo progetto di autonomia differenziata colpisce in primo luogo (ma non solo) la popolazione povera del Sud, significativi settori del popolo del Sud si rivolgono alla Lega, che oggi nel Meridione supera il PD. In parte irretiti dal richiamo razzista (il voto di Riace e Lampedusa è emblematico), in parte richiamati dalle suggestioni regionaliste, in parte delusi dalle speranze riposte nel M5S e dunque alla ricerca di un riferimento nuovo. La possibile ricollocazione al fianco della Lega di potentati locali, clientelari o malavitosi, completa il quadro.
Colpisce su scala nazionale una dinamica di espansione elettorale in tutte le direzioni. La Lega continua a svuotare Forza Italia (in crisi verticale), capitalizza il 14% del voto in uscita dal M5S, soprattutto nei luoghi di lavoro a partire dalle fabbriche, prosciuga persino il bacino elettorale delle formazioni fasciste CasaPound e Forza Nuova. L'unica eccezione è quella di Fratelli d'Italia, non a caso in concorrenza ma anche in convergenza con la Lega, e per questo socio beneficiario della spinta reazionaria.

Il voto alla Lega non è più solo un voto protestatario contro le élite nazionali ed europee. È naturalmente anche questo, ma non solo. È anche e sempre più un voto d'ordine. Contro "l'invasione” e “i delinquenti”, “legge e ordine” e “legittima difesa”: questa è l'insegna. Il ministro degli Interni in divisa di polizia non è solo un'offerta di rappresentanza agli apparati repressivi dello Stato, è anche una promessa di ordine e disciplina nella società italiana, come il ritorno dei grembiulini a scuola. Ordine, disciplina e tradizione. Il bacio al crocifisso, le preghiere alla Madonna, l'esaltazione del presepe, l'idolatria della famiglia tradizionale celebrata a Verona, non sono affatto esagerazioni retoriche, casualmente sfuggite. Sono un messaggio lanciato all'Italia dei piccoli borghi antichi, spaventati dalla modernità, nostalgici della tradizione. Sono ingredienti di un impasto ideologico mirato a celebrare la reazione, nel senso letterale e storico di questo termine, e a raccogliere attorno ad essa il blocco sociale più vasto. Non a caso è lo stesso blocco sociale su cui si reggono il regime di Orban e il regime polacco, due regimi che il progetto di Salvini mira ad emulare. Non certo il fascismo, ma neppure solamente il ritorno a un centrodestra con guida leghista. Bensì un regime reazionario di massa, con tratti bonapartisti (regime neoautoritario centrato attorno al capo).


LE FORTUNE DEL PD 

In alternativa alla Lega è apparso il PD liberale. Un partito borghese, legato a doppio filo alle classi dominanti d'Italia e d'Europa, protagonista delle lunghe politiche di austerità, irriformabile nella sua natura sociale. Ma riverniciato dalla segreteria Zingaretti come “sinistra progressista” in contrapposizione a Salvini. Il voto del 26 maggio ha visto un relativo successo di questa truffa. Dal punto di vista elettorale, il PD non guadagna voti assoluti rispetto a un anno fa, anzi ne perde. Ma a fronte di un calo consistente dell'affluenza al voto – unico caso in Europa – le percentuali del PD aumentano nettamente, dal 18% al 22%. Il PD non conquista nulla sulla sua destra, il travaso dal M5S è minimo, nonostante il tracollo dei pentastellati. Recupera invece settori di elettorato di sinistra che il renzismo aveva respinto e allontanato, che si erano indirizzati verso Liberi e Uguali o si erano rifugiati nell'astensione (il 10% del voto PD proverrebbe secondo l'Istituto Cattaneo dagli astenuti del 2018). L'immagine di un PD derenzizzato e più attrattivo, a sinistra si è unita purtroppo al richiamo del voto utile contro Salvini.

Ma il successo politico di Zingaretti va oltre il dato elettorale: il recupero percentuale del PD depotenzia nell'immediato i disegni scissionisti di Matteo Renzi, che permangono, e soprattutto si combina col netto sorpasso del M5S. Un sorpasso che avviene in discesa, grazie al tracollo del M5S, ma avviene. E questo politicamente conta. Il PD liberale può oggi cercare di presentarsi come il baricentro dell'alternativa a Salvini, attorno a cui raccogliere le sparse membra di un nuovo centrosinistra: i liberali di Bonino, i Verdi, e le sinistre disponibili all'ennesima subordinazione. Ma anche, eventualmente, un domani, un nuovo partito di centro borghese uscito dal laboratorio di Calenda e affini.

Il problema più grosso del PD, e del ricostituendo centrosinistra, è il confine rigido del proprio blocco sociale. Un partito che regge nella maggioranza delle grandi città, grazie al voto di settori impiegatizi, in particolare nella scuola, e di un'opinione pubblica progressista di classe media, ma incapace di proiettarsi oltre le soglie di quel recinto. La leva retorica dell'opposizione a Salvini e la finzione di una “sinistra” ritrovata possono funzionare (purtroppo) in rapporto al popolo di sinistra, ma non smuovono minimamente il blocco sociale reazionario e la sua avanzata. Il voto del 26 maggio fotografa anche questo.


IL CROLLO DEL M5S 

Il M5S è il grande sconfitto del 26 maggio.

La sconfitta ha proporzioni elettorali enormi: in un solo anno, sei milioni di voti in meno, il 43% del proprio elettorato. Un crollo diffuso su scala nazionale, una grande fuga in direzioni diverse: ma soprattutto verso la Lega (il 14% del voto in uscita), e molto di più verso l'astensione (40%). La dinamica del voto del M5S è speculare a quello della Lega. Mentre la Lega si trasforma in partito della nazione, il M5S restringe il proprio baricentro nel sud d'Italia, l'esatto capovolgimento delle origini nordiste del M5S. Ma proprio nel Sud, pur restando il primo partito, conosce uno smottamento profondo. Il reddito di cittadinanza ha fatto solo in parte da paracadute. Un blocco sociale costruito attorno all'egemonia delle libere professioni sulla massa dei disoccupati e della popolazione povera ha subito una frattura del proprio architrave proprio nel Sud, a volte, come in Sardegna, con un travaso diretto verso la Lega, più spesso in direzione del semplice abbandono passivo. La diminuzione dell'affluenza al voto è stata in larga parte l'effetto diretto del crollo Cinque Stelle e si è concentrata soprattutto nel Meridione, mentre nel Nord l'ambizione di Di Maio di combinare voto operaio e voto dell'impresa ha subito un rovescio su entrambi i versanti per mano della Lega. Di certo il grande invaso del M5S è esploso a destra. Il M5S è stato in definitiva, elettoralmente, una stazione di transito verso la Lega. Tutti coloro che a sinistra, e persino nell'estrema sinistra, salutavano il M5S come forza di sinistra, o comunque democratico-progressista, sono di fronte alla disfatta delle proprie tesi.

Peraltro la crisi del M5S è ben lungi dall'essersi conclusa. Il M5S è un partito in cerca d'autore, privo di una ragione pubblica riconoscibile. Partito anti-casta, partito degli onesti, partito sociale, persino partito di sinistra che fa argine alla destra, tutte le maschere sono state indossate con cinica disinvoltura in un turbinio interminabile di pose teatrali in funzione dei sondaggi. Ma larga parte del pubblico ha abbandonato il teatro, e non sarà facile richiamarlo.

Il M5S è un partito privo di sbocchi politici. La continuità di governo lo espone alla dominazione di Salvini e a nuove disfatte. Una rottura col governo rischia di regalare a Salvini un nuovo raccolto. Tutti i nodi si stringono attorno al collo del gruppo dirigente grillino, che per la prima volta vede chiamata in causa la sua stessa costituzione materiale e catena di comando. Di Maio può farsi incoronare dal plebiscito web con il viatico di Grillo e Casaleggio, pur di reggere il confronto nei gruppi parlamentari, ma proprio questo dimostra che il vaso di Pandora si è aperto. Richiuderlo sarà molto difficile, soprattutto senza una prospettiva politica indolore.


LA DISFATTA DELLA SINISTRA 

A sinistra del PD si è consumata l'ennesima disfatta.

Il PCL ha dato indicazione di voto a sinistra del PD contro le destre reazionarie e in alternativa ai liberali, ma senza mai tacere il proprio giudizio critico. A maggior ragione non lo tacitiamo ora.

Le liste de La Sinistra (Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana) hanno riportato 1,7%, in voti assoluti meno della metà di quanto raccolto poco più di un anno fa alle elezioni politiche a sinistra del PD, che già rappresentava il livello minimo raggiunto dalla sinistra italiana nella sua storia politica. Il richiamo del voto utile contro Salvini del PD zingarettiano, la paura di disperdere il voto, persino il richiamo della lista Verde (un 2,5% dal nulla) hanno sicuramente privato La Sinistra di un bacino di consenso. Tanto è vero che nelle elezioni amministrative, dove minore era la paura di dispersione e il confronto era spesso col PD renziano (per esempio in Toscana), lo stesso elettorato schieratosi con Zingaretti alle europee si è ricollocato a sinistra in contrapposizione al PD (Firenze, Livorno).

Ma non è il fattore Zingaretti che spiega da solo il risultato. Altri fattori hanno concorso: l'ennesimo accrocchio di laboratorio attorno all'ennesima sigla, ogni volta diversa, e sconosciuta alla massa; ma anche e soprattutto la rimozione di una linea di demarcazione classista che motivasse la ragione sociale della sinistra politica e potesse far argine al PD liberale (e ai Verdi). La dispersione della centralità del riferimento di classe è stata una costante della cosiddetta sinistra radicale proprio negli anni della grande crisi capitalista. La classe lavoratrice è stata rimpiazzata dalla cittadinanza progressista, con qualche tinta sociale. Tutte le sperimentazioni di laboratorio del decennio (Arcobaleno, Rivoluzione Civile con Ingroia e Di Pietro, L'Altra Europa con Tsipras insieme a Barbara Spinelli...) hanno recitato, in forme diverse, questo spartito. La lista improvvisata de La Sinistra, seppur con un profilo più politico e meno civico, non si è discostata, per impostazione e programmi, da quel solco, né poteva in ogni caso rimuoverne il lascito. Per di più col gravame del riferimento a uno Tsipras ormai compromesso nell'austerità e infatti usato dallo stesso PD e dal PSE (“una maggioranza in Europa da Macron a Tsipras”). Poteva essere Tsipras la linea di demarcazione dal PD? La presa del voto utile per Zingaretti è stata agevolata anche da questo.

Il PC stalinista di Marco Rizzo ha riportato lo 0,88%. Un buon risultato, sia in percentuale che in voti assoluti, con un netto incremento rispetto alle elezioni politiche del 2018.
È la misura della capacità attrattiva del “richiamo comunista” su un settore certo minoritario ma reale dell'elettorato di sinistra. È uno spazio che si sovrappone in larga misura a quello del Partito Comunista dei Lavoratori, e che Rizzo ha potuto occupare anche in ragione della nostra assenza, causata da una legge elettorale reazionaria. La campagna promossa da Rizzo (all'insegna di “è tornato il partito comunista”) ha apertamente investito in questo spazio. Il suo carattere completamente abusivo (da parte di chi sostenne i governi Prodi e D'Alema, e dunque i bombardamenti su Belgrado) non inficia il dato di realtà: un piccolo partito stalinista ha messo piede attorno al trasformismo di un camaleonte.

Resta il fatto che, complessivamente, la sinistra politica ha registrato una débâcle senza precedenti. È una débâcle inseparabile dal quadro generale di deriva reazionaria dello scenario politico, nel corso di una lunga parabola. Una parabola innescata dal sostegno suicida al governo Prodi da parte dei gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale. Un passaggio che ha distrutto Rifondazione Comunista abbattendo ogni argine e spianando la strada a un arretramento verticale del movimento operaio e della sua coscienza. Arriva oggi a valle la valanga formatasi allora, alimentata poi dalla grande crisi sociale e dall'assenza, in essa, di un'opposizione di classe: ciò che ha dirottato a destra larga parte del malcontento operaio e popolare. Renzismo, grillismo, leghismo hanno rappresentato, in rapida successione, il riflesso politico di questa dinamica. La sinistra, nel suo complesso, ne è stata vittima. I suoi gruppi dirigenti, politici e sindacali, pienamente responsabili, senza eccezioni.

Non si può rimontare la china di questa disfatta senza combinare il lavoro di unificazione e rilancio dell'opposizione di classe e di massa con la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio. Solo l'ingresso sulla scena della classe lavoratrice, su base di massa, attorno a una propria piattaforma di mobilitazione, può unificare le lotte di resistenza, scomporre i blocchi sociali reazionari, liberare i lavoratori stessi dal richiamo delle sirene populiste. Ma solo la costruzione di un partito comunista e rivoluzionario, estraneo ai gruppi dirigenti della disfatta, può connettere il rilancio dell'opposizione alla prospettiva del potere dei lavoratori e delle lavoratrici, l'unica vera alternativa alla reazione.
Partito Comunista dei Lavoratori